Dal trionfo elettorale di Trump all’allargamento dei BRICS che, per la prima volta, ha reso un’organizzazione multilaterale che non è emanazione diretta di potenze ex coloniali la più importante del pianeta; dal ritorno nell’Occidente libero e democratico del golpe come strumento per la risoluzione delle tensioni politiche interne al boom di droni e intelligenza artificiale che ha cambiato per sempre il modo di fare la guerra; dal trionfo di Israele contro l’asse della resistenza che ha sdoganato il ricorso al genocidio come strumento di risoluzione delle controversie internazionali al collasso definitivo dell’economia e delle classi dirigenti europee che ha definitivamente reso il vecchio continente un soggetto del tutto marginale della politica internazionale: e meno male che la storia era finita. Il 2024 è stato probabilmente l’anno più ricco di eventi di portata storica dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi; in questo video abbiamo provato a stilare la nostra top10. Il 2024 è stato l’anno dove è diventato chiaro anche ai muri che ormai siamo in guerra; e quindi non potevamo che iniziare da una notizia su come si fa oggi la guerra.
Iniziamo quindi con la nostra decima notizia più importante dell’anno: l’affermazione definitiva dei droni come l’arma per eccellenza nelle guerre del ventunesimo secolo

A partire dallo spettacolare attacco contro Israele dell’aprile scorso durante il quale l’Iran ha impiegato in un colpo solo oltre 300 droni, è diventato chiaro che la capacità di impiegare il più ampio numero possibile di velivoli aerei senza equipaggio a basso costo sarebbe diventata, a stretto giro, la variabile fondamentale per determinare i rapporti di forza in un conflitto: nonostante i limiti del singolo veicolo, infatti, il loro impiego in numero massiccio è comunque in grado di saturare rapidamente sistemi di difesa pensati e sviluppati per altri sistemi d’arma e con costi unitari di diversi ordini di grandezza superiori; inoltre, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale permette da un lato di coordinare sempre di più l’azione congiunta di un numero sempre più ampio di velivoli e, dall’altro, di renderli autonomi nell’individuazione e nel raggiungimento dell’obiettivo, rendendo così sempre meno efficaci strumenti di difesa basati sull’interferenza elettronica. Il centro del conflitto, così, si è spostato dal fronte alle linee di produzione: in tutti i Paesi del globo è iniziata una corsa agli armamenti che farà aumentare il valore complessivo del mercato dei droni di due ordini di grandezza in meno di dieci anni. E’ una corsa del tutto simile a quella che ha investito il mondo della cantieristica navale militare all’inizio del XX secolo o la produzione dei carri armati durante la seconda metà, ma che oggi vede la leadership indiscussa dei cinesi, che oggi controllano da soli l’80% del mercato dei droni commerciali, come anche della capacità produttiva delle batterie agli ioni di litio necessarie per farli volare e di tutte le filiere produttive che stanno a monte, a partire dal sostanziale monopolio su buona parte delle terre rare necessarie. L’avvento dell’era dei droni così non cambia soltanto il modo di fare la guerra, ma anche l’intera geopolitica globale, contribuendo a passare dalla centralità dei Paesi ricchi di fonti fossili a quella dei Paesi ricchi delle materie prime necessarie per la transizione energetica e digitale.
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Nono posto: l’India di Modi si afferma definitivamente come potenza globale di primo piano

Seppur con una maggioranza più risicata rispetto alle aspettative, la vittoria delle elezioni del giugno scorso e l’inizio del terzo mandato del governo Modi hanno permesso all’India di approfittare di questa fase turbolenta di trasformazioni epocali delle relazioni internazionali per affermare definitivamente il suo ruolo di protagonista di primissimo piano del nuovo ordine multipolare; consolidato lo status di nazione in assoluto più popolosa del pianeta raggiunto l’anno scorso, l’India ha superato la gran Bretagna in termini di PIL nominale raggiungendo il quinto posto in classifica nel ranking globale, mentre in termini di PIL calcolato a parità di potere d’acquisto è stabilmente la terza potenza mondiale, dietro solo a Cina e USA. E con una crescita del 6,3% nel 2024, è di gran lunga il Paese che cresce di più tra le grandi economie del pianeta e che ne fa il Paese probabilmente in assoluto più corteggiato del pianeta: l’India di Modi, infatti, sta sfruttando le sue sterminate potenzialità economiche e geopolitiche per ritagliarsi il ruolo di ago della bilancia nel rapporto di forza tra Occidente collettivo e nuove potenze emergenti che contestano il vecchio ordine unipolare a guida USA e si è dimostrata in grado di approfittare delle tensioni globali per portare avanti una sua agenda nazionale, al punto che oggi all’India è permesso intrattenere rapporti commerciali e militari con la Russia sempre più solidi senza che a Washington nessuno abbia il coraggio di aprire bocca; e, addirittura, è anche permesso di portare a termine esecuzioni extra-giudiziarie nel cuore del mondo libero e democratico senza pagare dazio, come è accaduto con l’omicidio dell’attivista indipendentista sikh Hardeep Sing Nijjar in Canada nel giugno 2023 o quello fallito di Gurpatwant Singh Pannun negli USA poche settimane dopo. E l’eccezionalismo indiano si prospetta ancora più inarrestabile nel prossimo futuro grazie all’elezione di Donald Trump negli USA, che (giusto per mandare un segnale inequivocabile) ha proposto per la nomina alla guida della comunità dell’intelligence USA Tulsi Gabbard, fervente induista che deve la sua carriera politica interamente alla diaspora indiana negli USA che oggi rappresenta la quinta colonna di Modi nell’Occidente collettivo e un pilastro fondamentale dell’ideologia nazionalista e identitaria Hindu.
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Ottava posizione: l’escalation bellica nel Pacifico

Le provocazioni USA nei confronti di Pechino nel giardino di casa hanno raggiunto un nuovo apice con il dispiegamento nell’aprile scorso del sistema missilistico Typhon nelle Filippine: il Typhon è un sistema missilistico in grado di lanciare missili come i Tomahawk e gli SM-6 con gittate in grado di raggiungere agevolmente la terraferma cinese e che in passato erano vietati dal trattato INF, il trattato siglato tra USA e l’allora Unione Sovietica nel 1987 che metteva al bando i missili balistici e da crociera con gittata compresa tra i 500 e i 5.500 chilometri. Il dispiegamento del sistema Typhon rappresenta una palese violazione della stessa costituzione delle Filippine che vieterebbe la presenza stabile di forze armate straniere nel Paese. Meno di un mese dopo la circolazione di questa notizia, la Cina ha effettuato la più importante esercitazione di sempre intorno all’isola di Taiwan, dove con l’impiego congiunto di forze relative a tutti gli ambiti – dal mare al cielo, passando per l’utilizzo della possente flotta della guardia costiera – ha dimostrato la capacità di porre sotto assedio l’isola in tempi brevissimi rendendo impossibile l’intervento tempestivo di eventuali forze alleate. Il combinato disposto di questi due elementi non può che riportarci a una dinamica simile a quella già vista in Ucraina, dove USA e alleati, aumentando il livello di deterrenza, rischiano di spingere l’avversario a intervenire prima che sia troppo tardi; dall’altro lato, però, questa deterrenza non è tale da impedire all’avversario di raggiungere i suoi obiettivi militari e, quindi, avvicina l’ipotesi di una lunga guerra di logoramento combattuta fino all’ultimo taiwanese e all’ultimo filippino, come è già stata combattuta fino all’ultimo ucraino.
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Settima posizione: la sconfitta del neocolonialismo europeo in Africa.

Anche se i 3 golpe patriottici che hanno stravolto il Sahel in Mali, Burkina Faso e Niger sono precedenti, il 2024 sarà senz’altro ricordato nel futuro anche come l’anno della definitiva decolonizzazione dell’Africa – perlomeno nei confronti del vecchio continente e, in particolare, dalla Francia – perché è l’anno nel quale è diventato chiaro che quei tre eventi storici ormai sono irreversibili e rappresentano un esempio per il resto del continente: il 6 luglio scorso, infatti, i 3 Paesi ribelli hanno annunciato ufficialmente la creazione della Confederazione degli Stati del Sahel; il mese dopo, anche le forze USA completavano il ritiro definitivo dal Niger. Poco dopo, il Fondo Monetario Internazionale confermava le stime sulla crescita del Paese per il 2024: +10,6%, contro una media inferiore al 4 per il resto del continente; è, in assoluto, una delle migliori performance a livello globale, che ha convinto anche altri Paesi di quanto la decolonizzazione sia la strada giusta. Ed ecco, così, che a fine novembre le ultime due roccaforti della proiezione imperiale francese sul continente si decidono a seguire l’esempio: sia il Ciad che il Senegal hanno annunciato ufficialmente la fine degli accordi militari con i francesi e la chiusura di ogni base militare straniera sul loro territorio.
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Sesta posizione: la fine del formalismo liberale nel mondo libero e democratico.

Come ampiamente prevedibile e previsto, il fatto che perseguire gli interessi nazionali sia completamente incompatibile con l’assecondare incondizionatamente l’agenda imperiale di Washington ha fatto crollare il consenso verso le classi dirigenti nei Paesi vassalli che hanno dimostrato di mettere gli interessi degli USA e del Wall Street Consensus davanti a quelli dei rispettivi cittadini. Per evitare che l’opinione dei cittadini decretasse un cambiamento radicale delle rispettive classi dirigenti, allora, il mondo libero e democratico è ricorso in modo sempre più sistematico alla sospensione dei diritti politici e democratici attraverso una lunga serie di colpi di Stato più o meno istituzionali: a fine novembre il presidente coreano, forte di un consenso ormai sceso sotto la soglia del 15%, ha scioccato il pianeta annunciando di punto in bianco l’entrata in vigore della legge marziale; in Romania, una corte costituzionale interamente di nomina politica ha annullato i risultati elettorali perché un candidato estraneo all’establishment stranamente aveva molto seguito su TikTok; in Georgia, la presidenta francese – che ha ottenuto la cittadinanza giusto qualche anno fa – ha dichiarato che a lei il voto non piace e che rimarrà in carica dopo la fine del suo mandato perché a Bruxelles le hanno detto che se stai simpatica alla Von der Leyen lo puoi fare ed è comunque regolare e democratico. E nella stessa Francia, Macron da mesi insiste a nominare primi ministri di forze politiche che hanno perso le elezioni questa estate e che durano come un gatto in tangenziale e, nel frattempo, continua a governare ad interim a suon di decreti presidenziali esautorando totalmente il parlamento per impedirgli di annullare la riforma pensionistica approvata contro la volontà della stragrande maggioranza dei suoi cittadini. Insomma: il formalismo liberale è un lusso che i vassalli degli USA coinvolti in questa guerra totale per procura non si possono più permettere, e il 2024 verrà ricordato come l’anno nel quale la menzogna della democrazia liberale venne definitivamente smascherata.
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Quinta posizione: l’allargamento dei BRICS e lo storico summit di Kazan.

Mentre la propaganda suprematista continua a vaneggiare sull’isolamento di Putin e sul fascino irresistibile che (al netto di tutto l’Occidente libero e democratico) continuava ad esercitare su tutti i barbari del pianeta – che quando esprimono qualche critica sui doppi standard dell’ordine fondato sulle regole scritte dall’Occidente a immagine e somiglianza degli interessi delle sue oligarchie non sono altro che tante piccole volpi impotenti che non riescono ad arrivare all’uva – il plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino acchittava uno dei summit internazionali più importanti degli ultimi decenni. Con il fastoso summit di Kazan, che ha visto la partecipazione di 36 Paesi e di ben 20 capi di Stato (preceduta da una serie infinita di incontri preparatori a livello interministeriale e di corpi diplomatici), il Sud globale ha dimostrato in modo plateale all’Occidente collettivo e a Washington che i loro diktat ormai interessano esclusivamente una parte circoscritta e minoritaria di Paesi che hanno accettato di rinunciare all’esercizio di ogni forma di sovranità per far felice l’inquilino di turno della Casa Bianca. Molti osservatori – e noi per primi – hanno sottolineato l’assenza di risultati concreti tangibili di vasta portata del summit e questa è senz’altro una parte della storia; l’altra parte della storia, però, è altrettanto (se non più) importante ed ha portata storica: con il raddoppio dei membri dei BRICS e con l’ufficializzazione di un’altra cinquantina abbondante di candidature, quello che è emerso in modo inequivocabile è una completamente nuova modalità di interpretare le relazioni internazionali. Al contrario degli organismi multilaterali istituiti dall’Occidente collettivo (a partire dal G7), i BRICS rappresentano un tipo di istituzione completamente nuova dove i singoli aderenti non accettano supinamente un ordine gerarchico prestabilito e dove la sovranità nazionale di tutti viene rispettata a prescindere dai rapporti di forza. Non si tratta di imporre una linea unitaria dettata dalle potenze egemoni, ma di collaborare ai dossier che riguardano tutti, a partire dal riconoscimento dei rispettivi interessi nazionali; un cambiamento di paradigma rivoluzionario che caratterizzerà le relazioni internazionali nei prossimi decenni.
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Quarta posizione: il trionfo elettorale di Trump.

Che è un doppio evento epocale: da un lato, ovviamente, per tutte le conseguenze che comporta e, dall’altro, proprio in se, perché Trump non ha semplicemente vinto (come in molti si aspettavano); ha letteralmente trionfato, in una misura che nessuno aveva previsto. Che, a sua volta, da un lato significa che il mondo e gli USA sono già profondamente cambiati: la vecchia egemonia liberale è ormai un ricordo passato e siamo totalmente immersi in un nuovo paradigma dove l’egemonia è interamente appannaggio di una nuova destra reazionaria suprematista che si nutre di meme, bullismo e superomismo e asfalta inesorabilmente, trollata dopo trollata, il vecchio galateo e le sue ipocrisie; dall’altro, che tutto l’establishment (anche quello più insofferente) è costretto a inginocchiarsi di fronte al nuovo principe, come dimostra la lunga serie di celebrities dal passato democratico costrette a recarsi in pellegrinaggio alla corte di Mar-a-Lago per baciare la pantofola di The Donald e Elon Musk il Grande, come viene definito da Trump esplicitamente nei comunicati ufficiali. Dotato di pieni poteri – come probabilmente prima di lui nessun altro presidente dai tempi di Reagan – Trump sta terrorizzando l’intero pianeta con le sue minacce sguaiate sulle misure protezionistiche estreme che adotterà una volta varcata la soglia della Casa Bianca; con ogni probabilità, si tratta di misure in buona parte del tutto irrealistiche, dal momento che gli USA sopravvivono solo grazie alla quantità sterminata di merci e di dollari che arrivano dall’estero e che, però, ha già stravolto irreversibilmente il modo in cui i diversi Paesi si relazionano tra loro: dai rituali codificati del vecchio ordine a una continua ed estenuante partita a poker dove il ricorso sistematico all’arte del bluff rende tutto estremamente volatile e incerto, dai rapporti commerciali alla geopolitica.
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Ed ecco così che finalmente arriviamo in zona podio: al gradino più basso del podio, infatti, in terza posizione troviamo il trionfo della Grande Israele e la disfatta dell’Asse della Resistenza.

Sicuramente sarà solo un caso (non lo metto in dubbio); fatto sta che a partire dall’estate avevamo cominciato a fantasticare sul fatto che Donald the underdog Trump, probabilmente, a quel punto stava diventando l’unica opzione sensata per l’imperialismo USA. Il tycoon dal ciuffo arancione, infatti, era l’unica possibilità che gli USA avevano di tirarsi fuori dalla disfatta ucraina senza dichiarare ufficialmente la fine dello status di superpotenza invincibile: sarebbe bastato scaricare tutta la responsabilità sulle spalle di quegli incapaci, smidollati, satanisti rettiliani dei democratici. Ma riuscire a imporre una narrazione in grado di attutire la debacle ucraina, sottolineavamo già allora, non può bastare: c’è bisogno di portare a casa una vittoria sostanziosa su un altro fronte, sia per impedire che la vittoria russa nell’Europa dell’est si traduca in un trionfo totale a 360 gradi, sia per ribadire l’idea che, al netto delle defaillances temporanee dovute all’inadeguatezza di qualche smidollato, il braccio armato del vecchio zio Sam ha ancora parecchi assi nella manica da giocare; e quel fronte, necessariamente, non poteva che essere il Medio Oriente. Poi Trump ha fatto il pieno di voti ed ecco che, come per magia, nell’arco di meno di un mese l’asse della resistenza – che, fino ad oggi, aveva sostenuto la lotta di liberazione del popolo palestinese – frana come un castello di carte: prima in Libano, ma soprattutto poi, nell’arco di pochi giorni, addirittura in quella Siria che fino ad allora, grazie al sostegno di Russia ed Iran, aveva resistito all’aggressione imperialista addirittura per ben 13 lunghissimi anni. Un evento di portata epocale in grado di modificare in profondità gli equilibri – o, meglio, gli squilibri – geopolitici dell’intera regione: negli ultimi 13 anni, infatti, in Siria si è consumata una sorta di vera e propria guerra mondiale per procura dove, per la prima volta, l’Occidente collettivo sembrava essere uscito clamorosamente sconfitto; come rivelò candidamente (già nel lontano 2007) l’ex generale USA Wesley Clark, infatti, la strategia di medio termine del partito unico neocon statunitense inaugurata dall’amministrazione Bush Junior ai tempi della War on Terror consisteva nell’imporre un cambio di regime favorevole a Washington in 8 Paesi dell’area – Afghanistan, Iraq, Libia, Libano, Somalia, Sudan, Siria ed Iran. Qualcuno potrebbe sottolineare che in nessuno di questi Paesi il mondo libero e democratico guidato dalle bombe statunitensi è riuscito a imporre un nuovo regime veramente allineato all’Occidente collettivo e che, quindi, il piano neocon è completamente fallito; in realtà, però, in gran parte di questi casi l’obiettivo principale è stato comunque raggiunto: i regimi ostili dell’area sono stati rovesciati e i rispettivi Paesi sono stati ridotti a una condizione di instabilità e ingovernabilità tale da impedire la costruzione di una nuova architettura di sicurezza regionale in grado di mettere fine al divide et impera neo-coloniale e di rendere insostenibile a lungo termine il progetto coloniale sionista come avamposto dell’imperialismo USA nell’area. A parte l’Iran e (appunto) la Siria dove, anzi, la tenuta di Assad era talmente solida e indiscutibile che anche i nemici storici – dalle petromonarchie ai Paesi che, a vario titolo, gravitano attorno alla galassia della fratellanza musulmana – avevano dovuto fare i conti con la realtà e riammetterla tra i ranghi della Lega Araba dopo ben 12 anni di sospensione. Evidentemente, avevamo completamente sbagliato i calcoli: 13 anni di guerra mondiale per procura, in realtà, avevano evidentemente ridotto anche la Siria di Assad nell’ennesimo Stato fallito dell’area tenuto insieme solo grazie al sostegno di forze straniere fino a che, evidentemente, i rapporti di forza tra potenze straniere nell’area non è stato stravolto dalla vittoria sul campo dell’entità sionista contro l’asse della resistenza; e il tutto è franato alla velocità della luce, rappresentando – al netto di tutte le incognite – una sconfitta strategica per la Russia di dimensioni colossali. Un vero peccato: il ricorso indiscriminato allo sterminio di massa da parte del colonialismo sionista, infatti, negli ultimi mesi – tra corte di giustizia e corte penale internazionale – sembrava aver fatto crollare il muro dell’impunità mascherato da lotta all’antisemitismo che ha sempre protetto lo stato terrorista di Tel Aviv; i rapporti di forza militari sul campo, a quanto pare, hanno reso del tutto vana questa speranza e purtroppo non è il solo successo che l’imperialismo a guida USA (dato forse troppo ottimisticamente per moribondo) è riuscito a perseguire durante questo anno.
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– Biden dimissionario fa esplodere Siria e Ucraina – ft. Samir Al Qaryouti
– Ucraina e Siria: gli USA vogliono l’apocalisse? ft. Giorgio Bianchi
E così veniamo al secondo gradino del podio: il collasso definitivo dell’asse franco-tedesco e di ogni velleità di autonomia strategica per l’Europa.

Come ci capita spesso di ribadire, nei confronti del progetto europeo avevamo basse aspettative, ma diocane… Come abbiamo già accennato, la geniale idea delle nostre classi dirigenti di assecondare incondizionatamente i diktat di Washington – fino, addirittura, ad assistere passivi a veri e propri attentati terroristici sul proprio territorio senza battere ciglio (come nel caso dei Nord Stream) – ha costituito un atto talmente plateale di svendita degli interessi nazionali più basilari che oggi, per mantenere il potere, sono spesso costretti addirittura a ricorrere alla sospensione anche dei diritti politici più fondamentali; anche qui, il trionfo elettorale di Trump non ha fatto altro che scoperchiare definitivamente un vaso di Pandora in ebollizione ormai da tempo e far precipitare tutto. Ancora prima che venisse terminato il conteggio, proprio qui su Ottolina avevamo previsto che nel giro di pochissimi giorni si sarebbe aperta una crisi di governo in Germania; eravamo stati ottimisti: la crisi di governo, infatti, in realtà è arrivata una manciata di minuti dopo. Siamo diventati Nostradamus? Il punto è che nonostante il lodevole sforzo della propaganda suprematista di minimizzare l’impatto che la guerra contro la Russia voluta da Washington ha avuto sull’economia europea, quest’anno ha dimostrato chiaramente che, in realtà, anche le più catastrofistiche delle previsioni erano probabilmente edulcorate; ovviamente non si tratta di un crollo come quelli che ogni tanto travolgono i mercati finanziari dove, nell’arco di pochi giorni, vengono bruciati migliaia di miliardi e hai la prova provata che era tutto un castello di carte. In Europa, di bolle da far scoppiare sostanzialmente ne sono rimaste poche (sono tutte oltreoceano): l’economia europea è fatta, in buona parte, di gente che va a lavorare sul serio per salari miserrimi e che, alla fine, qualcosa produce, tant’è che abbiamo una bilancia commerciale in attivo di quasi 200 miliardi nei confronti di Washington nonostante, a suon di sanzioni illegali e attentati terroristici alle infrastrutture, ci abbiano imposto con la forza di buttare via 100 miliardi per comprarci il loro costosissimo e zozzissimo gas e petrolio. No: la distruzione dell’economia europea avviene necessariamente abbastanza gradualmente e in modo meno spettacolare di quanto, nell’era dell’informazione a misura di reels e TikTok, è necessario per attirare l’attenzione. Ciononostante, il 2024 è stato l’anno della verità oltre le più pessime aspettative e, ovviamente, l’epicentro non poteva che essere la Germania – e, cioè, il Paese che ha ridisegnato l’intera architettura del tessuto produttivo europeo a immagine e somiglianza degli interessi dei suoi grandi gruppi industriali: come ormai hanno imparato anche i muri, la Germania è il Paese che più di ogni altro ha legato la sua crescita economica a un rapporto organico sia con la Russia che con la Cina, al quale ha dovuto rinunciare in ossequio alle mire egemoniche di Washington; in questo contesto, l’unica valvola di sfogo che rimane è l’export verso gli USA, che già con la Bidenomics cominciava ad accusare qualche colpo e che ora, con le minacce protezionistiche di Trump, tutti temono venga definitivamente meno. La Francia inizialmente è rimasta a guardare; anzi: sembrava quasi felice di vedere l’ingombrante vicino teutonico crollare sotto le contraddizioni del suo spietato mercantilismo e, da vera potenza chauvinista, sembrava addirittura coltivare l’illusione che una Germania indebolita potesse riconsegnarle una qualche forma di primato europeo. Insomma: la Francia sembrava quasi vedere in questo declino indotto dall’esterno l’occasione giusta per ridisegnare un’Europa che tornasse a perseguire l’obiettivo di raggiungere una sua autonomia strategica, ma, invece che all’insegna del dominio industriale tedesco, all’insegna del dominio finanziario e della proiezione internazionale francese. Lo so: sembra una barzelletta; e invece è il sogno che pezzi di classe dirigente decotta e completamente scollegata dalla realtà sembrano aver coltivato sul serio. Ovviamente, l’unica, remota possibilità che l’Unione europea ha mai avuto di ritagliarsi concretamente uno spazio di autonomia strategica consiste in un rafforzamento dell’asse franco-tedesco, che dovrebbe guidare un’autentica integrazione del mercato europeo che è concretamente possibile soltanto se, attraverso politiche economiche espansive, si porta anche la periferia d’Europa a livelli salariali e di capacità di consumo del centro; la strada percorsa è stata invece diametralmente opposta: una corsa spericolata verso l’austerity più feroce che ha frammentato il mercato unico (invece di rafforzarlo) e ha reso l’Europa totalmente dipendente da una globalizzazione neoliberista – che, però, veniva governata e gestita da altri che, appena gli è tornato comodo, hanno rotto il giocattolo. Che la ricetta sia stata completamente sbagliata è diventato così evidente che (con 20 e passa anni di ritardo) sono stati costretti a cominciare ad ammetterlo anche alcuni dei suoi più fieri sostenitori, a partire dal nostro immancabile San MarioPio da Goldman Sachs che, dopo aver governato per quasi 10 anni il gigantesco processo di rapina del capitalismo finanziario USA a danno dell’Europa, da qualche tempo s’è convertito (a parole) a paladino del rilancio dell’industria del vecchio continente; purtroppo, incredibilmente, nonostante l’aura di infallibilità che inspiegabilmente lo circonda, arriva dopo che i buoi, più che essere scappati dalla stalla, sono già stati accoppati, macellati, trangugiati e pure ri-cacati, rigorosamente sulle nostre teste, e lo fa nel rispetto rigoroso degli interessi delle oligarchie, puntando ad affidare il riscatto europeo a quelle stesse identiche fantomatiche forze di mercato che negli ultimi 30 anni lo hanno sistematicamente impedito. Perché l’Europa possa riportare indietro le lancette della storia e recuperare il declino che quest’anno si è definitivamente trasformato nella disfatta, servirebbero un paio di decenni politiche monetarie ed economiche espansive che creino le risorse necessarie e di una bella overdose di dirigismo statale che le indirizzi dove serve secondo una pianificazione rigorosa, passando come un caterpillar sopra gli interessi egoistici delle nostre borghesie parassitarie; insomma: fare in grande quello che – nel suo piccolo – ha provato a cominciare a fare a casa sua Vladimir Putin.
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Ed ecco così che (finalmente) siamo al gradino più alto del nostro podio, perché anche per il 2024 l’evento che più di ogni altro è destinato a cambiare i destini del pianeta per i prossimi decenni è ovviamente l’andamento della guerra in Ucraina, la prima grande guerra convenzionale tra quasi pari tecnologici combattuta dall’imperialismo a guida USA dalla fine della seconda guerra mondiale (anche se per procura) e che – ed è questa, in assoluto, la notizia più importante del 2024 – l’imperialismo a guida USA ha sostanzialmente perso, al punto che negli ultimi mesi ha cominciato ad ammetterlo apertamente anche la gigantesca fabbrica di fake news della propaganda occidentale, che è dovuta ricorrere a nuovi stratagemmi narrativi: l’anno scorso, di questi tempi, imporre una sconfitta sul Cremlino, infatti, significava ancora riprendersi tutti i territori liberati (o occupati, che dir si voglia) dalla Russia a partire dal febbraio 2022 e pure la Crimea – e, già che c’eravamo, pure un bel cambio di regime al Cremlino con Putin sostituito da qualche rappresentante di + Europa. A un anno di distanza, i risultati da ottenere per poter cantare vittoria si sono decisamente ridimensionati: basterebbe che Mosca si accontentasse di rimanere sulla riva orientale del Dnepr o, almeno, che non arrivi fino ad Odessa; e se poi arriverà pure ad Odessa, ci accontenteremo puntando tutto sulla storia che Putin, alla fine, ha già perso quando non è riuscito a prendere Kiev in 3 giorni con 150 mila uomini e continuando a moltiplicare per 10 le vittime russe. Per elencare le principali conseguenze di questo evento straordinario servirebbe un altro pippone intero che giunti a questo punto, però, vi risparmio; quello che invece non vi risparmio è la morale della favola, perché quello che emerge da questo nostro elenco dei principali eventi che hanno fatto del 2024 un anno cruciale è che ancora una volta, con sempre maggiore chiarezza, si conferma il fatto che dopo decenni di There is No Alternative la Storia si è rimessa tumultuosamente in moto. L’esito delle trasformazioni epocali alle quali stiamo assistendo è incerto e imprevedibile e come sempre, quando in ballo ci sono grandi trasformazioni dall’esito imprevedibile, ogni singola variabile conta e può cambiare concretamente il corso della storia: questo significa che anche i subalterni, dopo decenni di frustrazione e di impotenza, possono tornare a dire la loro e a far pesare la loro voce. Per farlo, però, devono tornare ad organizzarsi e l’organizzazione deve fondarsi su un’analisi quanto più possibile scientificamente precisa e dettagliata della realtà. In questo lungo e faticosissimo anno di lavoro, noi di Ottolina, nel nostro piccolissimo, abbiamo dimostrato che attraverso uno studio quotidiano di quello che ogni giorno succede sotto i nostri occhi quanto più possibile approfondito e libero da dogmi ereditati acriticamente dal passato, è possibile orientarsi in mezzo a millemila eventi che si succedono in modo apparentemente caotico e trovare il bandolo della matassa, arrivando spesso anche ad anticipare e prevedere gli sviluppi futuri; allo stesso tempo, grazie a una lunga serie di cantonate, abbiamo anche imparato a nostre spese quanto siamo ancora inadeguati e di quanto lavoro e di quanta organizzazione avremmo ancora bisogno per tenerci alla larga da tutti i trabocchetti e per evitare di confondere i nostri desiderata con la realtà. La morale della favola, quindi, è che oggi come non mai sentiamo l’urgenza di rinnovare il nostro appello a costruire tutti insiemi un vero e proprio media per il 99% in grado di orientarci tra i meandri di questa fase di trasformazioni turbolente per procedere uniti verso la Riscossa Multipopolare: per farlo, parafrasando Gramsci, avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza, di tutto il vostro entusiasmo e di tutta la vostra forza. Per Natale, allora, fatevi e fate un bel regalo: compratevi e regalate i nostri libri, contattateci per entrare a far parte della nostra famiglia allargata e iscrivetevi e fate iscrivere a Multipopolare e, se vi avanza qualche eurino, aderite alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Torsola Borderline