Tutti contro Tulsi Gabbard: cosa si nasconde dietro la sua nomina a capo dell’intelligence USA
Analfoliberali e sinistra ZTL sono letteralmente nel panico! Buongiorno ottoliner, ben ritrovati e benvenuti a questo nuovo appuntamento con la cronaca dall’impero in declino. Se nelle ultime settimane vi siete divertiti ad osservare la quantità di schiuma alla bocca che ha generato nei salotti buoni il trionfo di Donald Trump, aspettate di vedere le reazioni di fronte all’ascesa a uno dei luoghi chiave della macchina del potere statunitense del nuovo nemico pubblico numero 1: si chiama Tulsi Gabbard e la settimana scorsa è stata indicata da Trump come la sua scelta per ricoprire nientepopodimeno che il posto di direttrice della National Intelligence; vuol dire che, a meno di rivolte tra le fila repubblicane al Senato (che sarà chiamato a confermare la nomina subito dopo l’insediamento definitivo di The Donald alla Casa Bianca), per almeno i prossimi 4 anni sarà a capo di tutte le 18 agenzie federali che costituiscono la gigantesca e potentissima macchina dell’intelligence USA: dalla CIA all’NSA, passando per l’FBI e la Drug Enforcement Administration, uno degli asset imperiali più importanti in assoluto per continuare a garantire l’egemonia statunitense sul resto del pianeta e che, dal punto di vista dei pennivendoli della propaganda suprematista e dei loro datori di lavoro, non poteva finire in mani peggiori. Nonostante anche per i candidati agli altri posti cruciali della nuova amministrazione Trump (giustamente) non siano mancate le critiche, in tutti gli altri casi, infatti, comunque – stringi stringi – i punti in comune erano parecchi: è vero che Marco Rubio e Mike Waltz – indicati, rispettivamente, per i posti chiave di Segretario di Stato e Consigliere per la Sicurezza Nazionale – per i canoni della propaganda analfoliberale si sono rivelati troppo timidi e titubanti nel sostegno incondizionato alla guerra per procura in Ucraina; però, alla fine, hanno comunque un solido curriculum da neo-conservatori guerrafondai tutti d’un pezzo e si tratta, in soldoni, solo di piccole diatribe temporanee su quale sia la strategia più giusta per garantire il perdurare del dominio USA sul pianeta per il prossimo futuro. Anche nel caso di Elon Musk, indubbiamente già più controverso, c’è comunque la comune condivisione del mito del capitano di ventura che si fa da solo grazie alla sua inventiva e alla sua intraprendenza nella terra delle opportunità. E comunque tutti, sebbene troppo accondiscendenti nei confronti del sanguinario dittatore plurimorto del Cremlino, in passato – dalla Siria al Venezuela – hanno sempre fedelmente supportato ogni tentativo di cambio di regime con ogni mezzo necessario da parte del Paese leader del mondo libero e democratico. E addirittura anche Robert Kennedy che, invece, aveva già mostrato tutta la sua ambiguità proprio criticando la politica USA sia in Siria che Venezuela: bisogna almeno dargli atto che comunque, nel 2016, alle primarie democratiche non fece mancare il suo importante sostegno a Hillary Clinton, che le permise di prevalere contro l’infausta ipotesi di presentarsi alle elezioni con un leader populista come Bernie Sanders.
Non per Tulsi Gabbard: per lei tutte queste attenuanti non valgono. Nonostante abbia prestato servizio direttamente in Iraq, già durante il suo primo mandato al Congresso aveva cominciato a opporsi esplicitamente alle interferenze USA sia in Yemen che in Siria; nel 2016, durante le primarie del partito democratico, fu talmente sconsiderata da abbandonare addirittura la carica di vice-presidente del Comitato Nazionale per appoggiare la candidatura di Sanders. L’anno dopo, addirittura, s’è permessa di mettere in dubbio la validità del rapporto che, sulla base di informazioni fornite in gran parte da gruppi legati a vario titolo alla galassia di Al Qaeda, accusava Assad di aver utilizzato armi chimiche in Siria e poi, addirittura, ha appoggiato il sanguinario regime di Maduro fino a sostenere che il presidente del Venezuela lo dovrebbero scegliere i venezuelani (e non la CIA o l’Unione europea) al punto che, come sottolinea Il Foglio, “i suoi interventi pubblici vengono doppiati in russo e trasmessi dai canali televisivi di Mosca, tanto sono simili alla propaganda putinista e utili alla retorica del Cremlino” e tutto questo – follia delle follie – senza avere chissà che santi in paradiso. Perlomeno, Rubio e Waltz, per quanto oggi tentino di riciclarsi con un po’ di fuffa isolazionista, sono emanazione diretta dell’establishment neo-conservatore: Rubio, nel 2012, era stato addirittura indicato come potenziale vicepresidente dal falco guerrafondaio neo-conservatore Mitt Romney che si opponeva a Obama in quanto troppo docile, pacioccoso e incapace di difendere l’eccezionalismo americano e il diritto divino accordato agli USA di dominare il resto del mondo. Elon Musk gode del sostegno incondizionato degli apparati statali e del gotha della finanza USA, che l’hanno reso l’uomo più ricco del pianeta a suon di appalti pubblici multimiliardari, sussidi e acquisto in massa delle azioni delle sue aziende; la Gabbard, invece, balla sostanzialmente da sola, con l’aggravante che continua a ricevere parole di apprezzamento da altri nemici pubblici come lei: da Scott Ritter a Ray McGovern, passando per il whistleblower che ha dimostrato al mondo il ricorso sistematico alla tortura da parte degli USA John Kiriakou. Eppure, una volta perculata la propaganda analfoliberale, bisogna comunque riconoscere che la nostra Tulsi ha anche dei difetti (e anche parecchio grossini) e dei quali, probabilmente, non la sentirete mai essere accusata dai media mainstream e dai boccaloni liberi e democratici; ma prima di raccontarvi quali, vi invito a mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di portare avanti la nostra piccola guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi al servizio della campagna di diffamazione contro la Gabbard per ogni motivo possibile immaginabile (a parte quelli giusti) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutte i nostri canali su tutte le piattaforme social, compresi quelli di Ottosofia e di Ottolina English, che sono gli altri due canali del nostro network: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un analfoliberale a spacciare come verità rivelata informazioni che arrivano da qualche organizzazione terroristica salafita alleata del mondo libero e democratico, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a provare a fare le pulci anche ai nuovi potenti, ma, invece che dal punto di vista delle oligarchie e dell’establishment, da quello degli interessi concreti del 99%.
Per capire cos’è che fa sbroccare analfoliberali e sinistra ZTL della nomina della Gabbard a direttrice dell’intera, gigantesca comunità dell’intelligence USA, basta prendere i due lunghi articoli pubblicati da due punti di riferimento del disagio cognitivo del progressismo bombarolo e del suprematismo occidentalista: Il Post e Cecilia Sala su Il Foglio. Quella della Gabbard, sottolinea Il Post, “è una scelta controversa perché ha preso posizioni a favore del presidente russo Vladimir Putin e” addirittura “del dittatore siriano Bashar Al Assad”: “In politica estera” continua Il Post, è – pensate un po’ – addirittura “un’isolazionista” e “il giorno dell’invasione russa ha sostenuto che i responsabili di quello che stava accadendo fossero gli Stati Uniti perché non avevano preso in considerazione le legittime preoccupazioni della Russia”. Ma non solo: “Tre giorni dopo l’invasione” – figuratevi un po’ – “con un video sui social chiese al presidente americano Joe Biden, a Putin e a Zelensky di incontrarsi per trovare un accordo”; ma, d’altronde, c’aveva già abituato a ben di peggio. Figuratevi che “Nel gennaio del 2017 incontrò in segreto a Damasco il dittatore siriano Bashar Al Assad” che “torturava e faceva sparire in modo sistematico decine di migliaia di persone che non avevano fatto nulla”, mentre l’eroica resistenza che, in buona parte, era già confluita nell’ISIS cercava di “contestare il potere assoluto di Assad” per imporre quello dello Stato Islamico; e al ritorno negli USA ebbe addirittura il coraggio di affermare che “a decidere sul suo futuro” sarebbe dovuto essere “il popolo siriano” e “non gli Stati Uniti o qualche altro Paese straniero”, quando tutti sanno benissimo che “l’ostacolo maggiore all’autodeterminazione dei siriani è proprio il regime di Assad e il Baath”, mentre l’Al Qaeda siriana e le basi USA che armano e addestrano i terroristi sono avamposti della lotta di liberazione popolare. La passione per i regimi sanguinari della Gabbard è tale che, addirittura, “Quando il regime di Assad usò le armi chimiche contro i siriani, si disse scettica sulla reale responsabilità del dittatore siriano”; come sottolinea anche Cecilia Sala sul Foglio, infatti, “Nel 2012, quando è iniziata la guerra in Siria, il presidente degli Stati Uniti era Barack Obama e aveva fissato una linea rossa: non permetteremo ad Assad di usare le armi chimiche contro il suo popolo. Poi Assad aveva usato le armi chimiche contro il suo popolo e non gli era successo niente”, che è un esempio da manuale di come funziona la propaganda analfoliberale rivolta ai semi-colti delle ZTL alla disperata ricerca di fake news che confermino la loro superiorità morale nei confronti dei barbari che li assediano ai confini del mondo libero e democratico. L’affermazione secondo la quale sarebbe da considerarsi una verità provata (senza bisogno di altre considerazioni) l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad si basa infatti, come molti di voi sicuramente sanno già benissimo, sui rapporti dell’OPCW, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche: peccato, però, che dopo la pubblicazione, alcuni ispettori dell’organizzazione – che, al contrario dei giornalisti del Post o del Foglio, hanno deciso di mettere a rischio la propria carriera e anche la propria incolumità – dichiararono pubblicamente che le indagini erano state fatte a cazzo di cane; come poi confermarono numerosi cablo di Wikileaks e importanti inchieste giornalistiche indipendenti, soprattutto da parte della prestigiosa testata USA Greyzone, l’organizzazione aveva basato il grosso delle sue osservazioni non da informazioni dirette, ma – banalmente – da quello che gli era stato riportato da gruppi dell’opposizione siriana legati alle cancellerie occidentali e anche al variegato mondo del terrorismo salafita. Insomma: come spesso accade, quello che nella propaganda guerrafondaia e suprematista magicamente è diventato un fatto appurato e inequivocabile – al punto che chiunque sostenga il contrario è amico dei criminali di guerra e a libro paga della propaganda del Cremlino – è leggermente più controverso, se non addirittura una gigantesca puttanata tout court.
Nel mondo alla rovescia dei pennivendoli del Post e del Foglio, però, il problema è che la nomina della Gabbard “è un segnale da parte di Trump e del suo staff che non potevano non sapere che ci sarebbero state polemiche. Il segnale” continua il Post “è che all’amministrazione Trump non importa nulla di queste contestazioni. Simpatizzare con Putin e Assad non è più un problema per un funzionario di alto livello del governo degli Stati Uniti, anche se supervisiona il lavoro di tutte le agenzie di intelligence”; d’altronde, conclude con un vero tocco di classe questo vero e proprio esempio da manuale della peggior propaganda neo-liberale, “Lo stesso Trump è accusato di essere controllato da Putin fin dalla prima campagna elettorale nel 2016”: la cosa divertente è che la prima a utilizzare il rapporto per giustificare l’intervento militare USA in Siria è stata, ovviamente, l’amministrazione Trump, col sostegno incondizionato di tutta la propaganda analfoliberale. Anzi: vista la facilità con la quale l’imperialismo USA era riuscito a farsi dare dall’OPCW esattamente le risposte che voleva per giustificare i suoi piani imperiali (in barba a ogni standard di accuratezza e indipendenza), l’amministrazione Trump avviò una lunga battaglia politica per fare in modo che venisse riconosciuto all’organizzazione il potere non solo di confermare l’eventuale uso di armi chimiche, ma anche proprio di identificare gli autori. La Gabbard, allora, conduceva la sua battaglia in totale isolamento, col solo sostegno di altre due schegge impazzite del Congresso: il repubblicano libertario del Kentucky Thomas Messie e il rappresentante dell’ala più progressista dei democratici Ilhan Omar. E non è stata certo l’unica volta dove la Gabbard s’è scagliata contro la politica estera della prima amministrazione Trump: la Gabbard ha criticato aspramente il ritiro dal trattato nucleare con l’Iran e l’assassinio del generale Qasem Soleimani, si è opposta con forza al sostegno degli Stati Uniti alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita nella guerra in Yemen e, in generale, alla passione di Trump per casa Saud – che la Gabbard ha definito esplicitamente lo Stato terrorista numero uno al mondo – che, tutto sommato, seppur con accenti diversi, erano anche le posizioni più o meno ufficiali del partito democratico (dove allora militava). Senonché quando, nel 2021, Biden è salito alla Casa Bianca, le posizioni piano piano – te guarda a volte il caso – sono cambiate radicalmente; ed ecco così che nel 2022 la Gabbard decide di lasciare definitivamente quella che per oltre 20 anni era stata la sua casa: il partito democratico. “Non posso più rimanere in un Partito Democratico che ormai è sotto il controllo completo di una cabala elitaria di guerrafondai guidati da un’astuzia codarda, lavorando attivamente per minare le nostre libertà donate da Dio e garantite dalla Costituzione” comunicò sul suo profilo Twitter allora. Due anni dopo, ecco che il suo vecchio nemico Trump la sceglie per uno degli incarichi più prestigiosi e delicati possibili immaginabili: com’è possibile?
I più ottimisti la vedono come una prova che, a questo giro, “Trump” come scrive John Kiriakou “sembra essere serio nel suo desiderio di cambiare la politica estera e di intelligence del Paese”; Scott Ritter addirittura sostiene che “La decisiva vittoria elettorale di Trump gli ha dato il mandato di attuare cambiamenti rivoluzionari nel modo in cui l’America è governata e interagisce con il mondo. Per avere successo in questa rivoluzione” continua Ritter “Trump ha bisogno di altri rivoluzionari. E Tulsi Gabbard è una di queste rivoluzionarie. E la sua scelta di essere la portavoce di Trump, vista da questa prospettiva, è stata un colpo di genio”: Ritter sottolinea come Trump stesso, nella sua intervista pre-elettorale con Joe Rogan, abbia ammesso che quando vinse nel 2016 non era pronto per governare e “dipendeva dal sostegno di persone la cui lealtà era rivolta all’establishment, non al presidente”, in particolare proprio nel complicato mondo dell’intelligence, che è quello che dovrebbe dare al presidente le informazioni e le analisi giuste sulla base delle quali prendere le decisioni e invece, in soldoni – sostiene Ritter – gli dicevano una marea di cazzate per obbligarlo a perseguire una linea politica già decisa altrove. La scelta della Gabbard sarebbe quindi la scelta di una persona che ha dimostrato la sua indipendenza e la volontà di prendere decisioni pragmatiche sulla base di valutazioni realistiche di cosa succede; un aspetto piuttosto centrale: come sottolinea Ritter stesso, infatti, al centro della dottrina di politica estera di Trump c’è l’idea della “pace attraverso la forza” “che”, ammette Ritter, “implica una certa aggressività riguardo alla postura globale dell’America”. Ma il mondo reale che si trova ad affrontare questa nuova amministrazione Trump è un mondo che, negli ultimi anni è profondamente cambiato e dove i rapporti di forza si sono drasticamente spostati in favore di una fine delle ambizioni egemoniche USA e verso un nuovo ordine multipolare; e quindi un mondo dove “Anche se Trump volesse portare il suo Paese in guerra, l’esercito molto probabilmente non sarebbe all’altezza del compito”. In soldoni, se non c’è nessun motivo di credere che Trump sia più pacifico e meno aggressivo di altri presidenti, anzi, la speranza consiste nella possibilità che almeno sia più realistico e prenda le sue decisioni sulla base di un’analisi realistica dei reali rapporti di forza, senza avventurismi dettati dal fervore ideologico o dall’interesse di una ristrettissima oligarchia che riesce a imporsi attraverso i mille rivoli della complessa macchina amministrativa USA; e, da questo punto di vista, avere a capo di tutta la comunità dell’intelligence una persona che spesso ha avuto posizioni anche molto diverse, ma che ha dimostrato coraggio, indipendenza e la volontà di affrontare le questioni in modo pragmatico, potrebbe rivelarsi vitale. Sia Ritter, che Kiriakou, che McGovern – che, ricordiamo, ha lavorato come analista della CIA per 27 anni ed è stato il responsabile dei briefing mattutini durante tutta l’amministrazione Reagan – temperano un po’ il loro entusiasmo per questa scelta proprio col fatto che l’idea di rivoluzionare una struttura così mastodontica e in balia di interessi consolidati potentissimi potrebbe rivelarsi una chimera; io, però, nel mio piccolissimissimo, sottolineerei anche un’altra chiave di lettura.
Partiamo da un dato: come sottolinea il South China Morning Post – che, bene ricordarlo, nonostante sia il principale giornale di Hong Kong è molto critico con Pechino e molto vicino all’establishment liberale occidentale – “Pochi giorni dopo che la vittoria elettorale di Donald Trump aveva scatenato ondate di preoccupazione in Europa e Asia, il principale diplomatico indiano sembrava deridere la risposta, esprimendo fiducia nella sua capacità di gestire l’approccio del presidente eletto degli Stati Uniti alle relazioni estere”; “Il ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar” continua l’articolo “ha affermato che molti Paesi potrebbero essere nervosi, ma che l’India non è tra questi”. Ora, una cosa importante da sapere della biografia della Gabbard è che è un’induista praticante, la prima della storia USA a essere stata eletta al congresso nel 2012 e che ha coltivato rapporti di primissimo livello sia con la diaspora indiana che con New Delhi, a partire proprio da Modi in persona: quando nel 2014 Modi visitò Washington, i due ebbero il loro primo colloquio, a conclusione del quale la Gabbard gli regalò la sua copia personale del Bhagavad Gita; l’anno dopo, ricorda sempre il South China Morning Post, “un funzionario di alto rango del Bharatiya Janata Party, il partito nazionalista indù del presidente, partecipò al suo matrimonio e portò un messaggio e un regalo da parte di Modi. Anche l’allora ambasciatore indiano, Tanranjit Sandhu, partecipò al matrimonio”. Fede hindu, Bagavad Gita e Bharatiya Janata Party riconducono tutti a una galassia precisa, per quanto ampia e variegata e, cioè, quella dell’Hindutva, l’ideologia che enfatizza l’identità culturale e religiosa indù e che costituisce il nucleo ideologico del sistema di potere di Modi, contrapposto al secolarismo del Partito del Congresso legato alle figure di Nehru e alla dinastia Gandhi; un riferimento che è diventato sempre più egemone anche nella gigantesca e sempre più influente diaspora indiana, che è uno degli asset politici che più ha segnato l’ascesa della Gabbard: nel 2019 la testata indipendente USA The Intercept pubblicava una lunga inchiesta sugli oltre 100 donatori della campagna della Gabbard collegati alla variegata galassia del nazionalismo induista (del quale il Bharatiya Janata Party di Modi è il principale braccio politico) e la sua nomina, la scorsa settimana, in India è stata salutata come l’inizio di una nuova luna di miele tra Washington e Delhi. In questo lungo servizio dell’importante testata indiana India Today, si ricorda – con tanto di sottofondo epico – quando la Gabbard, nel 2016, si oppose alla vendita di otto F-16 al Pakistan o quando, nel 2021, presentò una risoluzione al Congresso per sollecitare la protezione della minoranza hindu del Bangladesh in seguito, in particolare, agli attacchi contro templi, case e persone che ebbe luogo quell’anno durante il festival di Durga puja. Un po’ meno attenta, invece, quando si tratta di condannare i numerosi atti di violenza nei confronti della minoranza musulmana in India, nonostante – a differenza del Bangladesh – l’India sia stata dichiarata ufficialmente alla commissione statunitense sulla libertà religiosa internazionale “Paese di particolare preoccupazione” e nonostante in India la discriminazione sia formalmente legge da quando, nel dicembre 2019, è stato approvato il Citizenship Amendment Act che (come un Israele qualunque) offre diritti di cittadinanza diversi in base al credo religioso: tutte cose che in questi anni di amministrazione Biden hanno rappresentato un ostacolo nella creazione di un clima di piena fiducia tra i due Paesi, anche se gli USA erano alla disperata ricerca di un’alternativa asiatica alla fabbrica del mondo cinese.
Il fatto è che se passi 30 anni a giustificare ogni sorta di guerra di aggressione e di tentativo di regime change con la retorica dei diritti umani, poi va a finire che anche tra i tuoi qualcuno cognitivamente un po’ più fragile finisce col crederci davvero; e così ti ritrovi pezzi di macchina statale che vanno per conto loro col pilota automatico contro i tuoi stessi obiettivi strategici, com’è stata l’intricata vicenda del celebre leader separatista sikh indo-americano Gurpatwant Singh Pannun. Prima, nel settembre scorso, aveva presentato una causa civile presso un tribunale di New York accusando nientepopodimeno che l’ultra-influente Consigliere per la Sicurezza Nazionale indiano Ajit Doval (di persona personalmente), insieme ad altri funzionari indiani, di aver addirittura orchestrato un complotto per assassinarl; il tribunale, allora, ha emesso una citazione che invocava la presenza di Doval per rispondere alle accuse. La settimana dopo, Modi era atteso a New York per l’assemblea generale delle Nazioni Unite e, prima di andare a New York, era stato invitato a partecipare a un incontro del QUAD, il forum quadrilaterale sulla sicurezza che vede, oltre a USA e India, la partecipazione di Australia e Giappone: ad accompagnarlo, ovviamente, ci sarebbe dovuto essere proprio Doval, che nel ricavare uno spazio per l’India all’interno di questi rapporti multilaterali ha giocato da sempre un ruolo di primissimo piano e che, però, è stato costretto a rinunciare; poi, il mese scorso, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha desecretato un atto d’accusa contro un misterioso ex ufficiale dei servizi indiani di nome Vikash Yadav, che veniva accusato di aver ordito un intricato complotto per assassinare Pannum sul suolo americano. Yadav è stato ufficialmente accusato di cospirazione per omicidio su commissione, è stato emesso un mandato di arresto e, al momento, risulta latitante; Yadav avrebbe assoldato un certo Nikhil Gupta che, a sua volta, era incaricato di trovare qualcuno che potesse portare a termine materialmente l’operazione: peccato che l’uomo che aveva individuato per compiere l’assassinio, in realtà fosse un agente sotto copertura della US Drug Enforcement Administration. Nikhil Gupta è stato arrestato in Repubblica Ceca e poi estradato negli USA, dove è in attesa di giudizio. Proprio mentre i servizi indiani architettavano questo omicidio extragiudiziale sul territorio statunitense, in Canada veniva assassinato un altro leader separatista sikh: è l’ormai celebre caso di Hardeep Singh Nijjar; Delhi, da anni, cercava di convincere il Canada che si trattasse della vera mente dietro il KFT, il Khalistan Tiger Force, un’organizzazione militante nazionalista sikh tollerata in Occidente, ma considerata terroristica da Delhi. Era ricercato ai sensi dell’India’s Terrorist Act per diversi casi, tra cui un attentato nel 2007 in un cinema del Punjab (dove sono rimaste uccise sei persone e ferite altre 40) e l’assassinio, nel 2009, del politico indiano sikh Rulda Singh; per il governo di Ottawa, invece, si trattava semplicemente di un punto di riferimento della comunità e di un militante politico che non era mai stato coinvolto direttamente in atti di violenza, fino a quando è stato trucidato da numerosi colpi di arma da fuoco mentre era in macchina nei paraggi di un tempio sikh nei sobborghi di Vancouver da due sicari incappucciati: nonostante le indagini siano ancora in corso, il premier Trudeau ha sin da subito parlato di accuse credibili relative al coinvolgimento diretto del governo indiano. Delhi invece continua a definire queste accuse assurde e prive di fondamento al punto che, in ottobre, il governo di Ottawa ha espulso sei diplomatici indiani accusandoli di interferenze nelle indagini, e l’India ha immediatamente risposto facendo altrettanto; nel frattempo, la tensione all’interno della diaspora indiana – che è, in assoluto, la più importante ed influente del Paese – tra induisti e sikh ha raggiunto livelli di guardia. Già nel 2023 si sono verificati numerosi attacchi a templi induisti: il 3 novembre scorso, alcuni funzionari consolari indiani in visita al tempio hindu Sabha Mandir di Brampton, nell’Ontario, sono stati accolti da una manifestazione del gruppo Sikhs for Justice, quello di Nijjar e Pannun, in prima fila nell’organizzazione del referendum per chiedere l’indipendenza del Khalistan; la manifestazione è degenerata in una mega-rissa che si è protratta nei giorni successivi e si è estesa ad altri 4 luoghi in giro per il Paese, con tanto di sacerdote hindu (ripreso dalle telecamere) che fomenta la folla al grido di uccidiamoli tutti, un altro attivista induista che invoca al megafono l’intervento delle forze armate indiane per radere al suolo i luoghi di culto sikh e un assembramento disperso dopo che sono stati avvistati manifestanti hindu con armi da fuoco.
E le tensioni non riguardano soltanto il Canada: nel marzo 2023, diversi attacchi contro templi induisti da parte di manifestanti sikh si sono registrati in diverse città statunitensi, da Chicago a San Francisco, fino a New York; e anche in Australia, altro Paese dell’anglosfera con una diaspora indiana decisamente consistente e influente, si sono verificati numerosi atti di vandalismo contro templi hindu e diversi incidenti che hanno causato numerosi feriti; in molti casi si trattava di reazioni a notizie relative al sostegno che il governo indiano darebbe ai leader induisti locali per individuare e perseguitare membri della comunità sikh in prima linea nella causa indipendentista, un sostegno che il vice ministro degli esteri canadese David Morrison ha attribuito, in una dichiarazione esplosiva al Washington Post, direttamente al potentissimo ministro degli interni indiano Amit Shah, considerato l’uomo più potente della politica indiana, secondo soltanto a Modi. Secondo le dichiarazioni della Royal Canadian Mounted Police, Shah e il governo indiano si sarebbero avvalsi della collaborazione con la rete criminale internazionale che fa capo a Lawrence Bishnoi, il leggendario gangster originario del Punjab a capo di un vero e proprio impero che continua a gestire dal carcere Bharatpur e che, oltre al traffico di droga e all’estorsione, sarebbe specializzato in omicidi su commissione grazie a una rete globale di oltre 700 sicari sparsi tra India, Nord America e Medio Oriente. Pochi giorni dopo, la diatriba è sbarcata anche in Australia dove il ministro degli esteri australiano Penny Wong ha approfittato della visita a Canberra del potente ministro degli esteri indiano Jaishankar per rilanciare le accuse; Canada e Australia fanno entrambi parte dei Five Eyes, l’alleanza delle intelligence che coinvolge i 5 più stretti alleati anglofoni degli USA e che, secondo il Washington Post, avrebbero prodotto rapporti che definiscono “l’India come un Paese che interferisce attivamente nella politica straniera, cercando di influenzare le elezioni e lavorando attraverso i funzionari indiani in Canada per fare leva sulla grande comunità della diaspora per modellare i risultati politici a suo favore”: ricorda molto da vicino l’escalation di accuse e tensioni che hanno minato i rapporti tra il blocco guidato dagli USA e l’Arabia Saudita attorno alla vicenda dell’omicidio del dissidente saudita (nonché collaboratore proprio del Washington Post) Jamal Kashoggi, strangolato e poi fatto a pezzi con una sega chirurgica all’interno del consolato di Riyadh a Istanbul. In entrambi i casi, l’importanza strategica dei rapporti con i Paesi va ovviamente ben oltre questi episodi, ma la necessità da parte dell’amministrazione Biden di rispondere in qualche modo alle accuse mosse dai sostenitori dei diritti umani e dello stato di diritto che si annidano tra le fila dell’internazionale liberale, hanno minato la fiducia degli interlocutori nella capacità di Washington di difendere interessi che ritengono vitali, una fiducia che è venuta meno proprio nel momento in cui sarebbe servita di più: l’India come l’Arabia Saudita, infatti – com’è noto – di seguire Washington nella guerra totale per logorare la Federazione Russa proprio non ne vogliono sapere e, anzi, per Mosca hanno rappresentato (insieme alla Cina) la principale via di fuga dalle conseguenze delle sanzioni dell’Occidente collettivo. La vittoria di Trump e, nel caso dell’India, la nomina di Tulsi Gabbard sembrano due elementi in grado di rilanciare le relazioni in grande stile: la famosa “pace attraverso la forza” che ispira tutta la politica estera di Trump significherà, molto probabilmente, anche un ritorno alla cara, vecchia realpolitik kissingeriana con la messa al bando definitiva della retorica universalista liberale, che potrebbe restituire agli alleati la fiducia su una Washington di nuovo pronta a ingoiare ogni razza di rospo senza tentennamenti pur di garantire gli interessi strategici degli alleati; il tutto dentro una nuova cornice dove si torna a concentrarsi sulle relazioni bilaterali e l’adesione alla guerra delle sanzioni contro la Russia non viene più considerata una discriminante. E in questo nuovo modello di relazioni internazionali, mettere a capo dell’intera intelligence una praticante induista potrebbe rappresentare la ciliegina sulla torta.
Per Make America Great Again il rapporto con l’India è forse, in assoluto, uno dei pilastri più importanti; la politica dei dazi annunciata da Trump, infatti, promette di scatenare una nuova spirale inflattiva negli USA: gli USA, infatti, sarebbero costretti a sostituire gradualmente merci a basso costo importate con altre ad alto costo prodotte negli USA. Questa inflazione, inoltre, giustificherebbe da parte della Banca Centrale la continuazione di una politica degli alti tassi che, da un lato, rafforzerebbe ulteriormente il dollaro rendendo i prodotti made in USA non competitivi sui mercati internazionali (e, quindi, penalizzando l’export) e, dall’altro, renderebbe più costosi gli investimenti produttivi a lungo termine necessari – appunto – per riportare parte della produzione industriale (soprattutto quella a maggior contenuto tecnologico) negli Stati Uniti; questa contraddizione, checché ne dica la retorica trumpiana, in larga parte non è risolvibile, ma sicuramente trovare un alleato fedele che almeno si possa sostituire agli attuali principali partner commerciali che Trump vuole punire – a partire dalla Cina – perlomeno per tutti i prodotti di largo consumo a basso valore aggiunto, sarebbe già un passo avanti e l’India, da questo punto di vista, rappresenta sicuramente il più promettente dei partner possibili. Da tanti punti di vista ricorda da vicino la Cina dei primi anni ‘80: con la più ampia popolazione del pianeta (e in continua crescita), la manodopera è garantita (e anche un lungo periodo di salari bassi); nonostante sia un Paese enormemente più stratificato e complesso della Cina post-maoista, con innumerevoli centri di potere in lotta tra loro, Modi e la sua agenda – che sembra un po’ quella di un novello Pinochet asiatico – sembrano non temere rivali e l’ideologia dell’Hindutva, il nazionalismo induista fortemente ancorato a una religiosità che in India permea tutte le cose, sembra un collante piuttosto solido e potente. A questo giro, inoltre, grazie all’esperienza passata ci sarebbero gli strumenti per evitare gran parte degli errori commessi con la Cina nell’era della globalizzazione neoliberista: invece che permettere un massiccio trasferimento di competenze, gli USA potrebbero accordare investimenti produttivi in India solo a condizione che il know how e lo sviluppo tecnologico rimangano saldamente su suolo americano; inoltre, a questo giro, potrebbero evitare di accumulare un gigantesco deficit commerciale importando beni a basso valore aggiunto dall’India, ma puntando a bilanciarli con l’esportazione di beni ad alto tasso tecnologico, a partire, in particolare, da tutto quello che è collegato ai dati e all’intelligenza artificiale; d’altronde, nonostante per ora abbia dovuto un po’ cedere perché non c’è alternativa concreta all’importazione di macchinari, componenti e conoscenza dalla Cina, l’India vede nel dragone il principale avversario strategico e, in presenza di alternative realistiche, sarebbe ben contenta di procedere a un disaccoppiamento sempre più profondo delle due economie. L’India, ovviamente, si potrebbe sempre rivolgere ad altri paesi tecnologicamente avanzati – dal Giappone alla Germania -, ma grazie ai grandi fondi finanziari USA, in realtà, a differenza di 40 anni fa anche le grandi corporation di questi Paesi sono ormai completamente sotto il controllo del capitale statunitense.
Insomma: facendo tesoro dell’esperienza, gli USA potrebbero tentare di fare quello che non sono riusciti a fare con la Cina e, cioè, esternalizzare una parte consistente della produzione, ma mantenendo una rigida gerarchia di carattere neo-coloniale; si tratta di un piano di dimensioni colossali e ricco di incognite e di ostacoli, ma è probabilmente l’unico che, potenzialmente, possa rappresentare una via d’uscita dall’impasse in cui si sono ficcati. La nomina di Tulsi Gabbard in una posizione così centrale, che ha destato sorpresa un po’ ovunque, potrebbe testimoniare il fatto che a Washington ne sono pienamente consapevoli. Quello che sappiamo è che, esattamente come è successo negli ultimi 40 anni, per provare a orientarsi all’interno di questi cambiamenti epocali, la propaganda gossippara dei media mainstream non è di nessun aiuto: se vogliamo provare a capirci qualcosa ci serve un vero e proprio media tutto nostro – indipendente, ma di parte – e che provi a guardare il mondo dal punto di vista degli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Justin Trudeau
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