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Blocchi navali e portaerei artificiali: come la Cina vuole prendersi Taiwan – ft. Davide Montingelli

Analisi militare del fronte principale della terza guerra mondiale a pezzi: il fronte del Pacifico. Questa settimana è andata in scena una vasta esercitazione militare di Pechino che ha simulato un blocco navale e un isolamento dell’isola indipendentista. L’analista militare Davide Montingelli ci ha mostrato con le sue mappe e grafiche quali sono le forze in campo e quali strategie la Cina potrebbe adottare per costringere Taiwan alla resa. Quando scoppierà definitivamente la guerra anche su quel fronte? E fino a che punto gli Stati Uniti sono disposti a spingersi pur di non perdere il punto più avanzato del proprio imperialismo nel Pacifico? 

Trump a un passo dalla vittoria: ha stato Soros (per davvero)

Non mi azzardo a fare previsioni perché l’ultima volta che ho azzeccato un pronostico elettorale probabilmente non era ancora stato introdotto il suffragio universale. Ah, com’è che dici? Negli USA, in realtà, a ben vedere non è mai stato introdotto? Ah, ok: severo, ma giusto; comunque non mi azzardo lo stesso. Mi limito a registrare che, come probabilmente saprete già, ultimamente le quotazioni di Trump sono ritornate a salire; e dopo l’ubriacatura iniziale per la nomination di Kabala Harris, Trump è tornato ad essere il favorito su almeno due delle 4 principali piattaforme di scommesse esistenti. Quello che invece, altrettanto probabilmente, molti di voi non sanno (e faranno un po’ fatica a credere) è chi c’è dietro questo recupero di The Donald perché – udite udite – ha stato Soros. Esatto: proprio lui, l’icona sexy di tutti gli analfoliberali più pervertiti del pianeta, l’eminenza grigia di tutte le cospirazioni possibili immaginabili (sia quelle vere che quelle inventate). O meglio: per essere precisi, ovviamente, non proprio Soros Soros di persona personalmente; semplicemente, quello che è stato a lungo uno dei suoi principali bracci destri, tra i fautori (se non il fautore) del famoso attacco speculativo del Soros Fund Management contro la sterlina nel 1992 e poi (a lungo) chief investment officer di tutta la baracca. “Uno degli uomini più brillanti di Wall Street” come l’ha recentemente descritto lo stesso The Donald: “rispettato da tutti”; “e anche un bel ragazzo” ha aggiunto.

Scott Bessent

Si chiama Scott Bessent ed è talmente fedele e coerente ai suoi principi che l’ultima avventura politica -prima di innamorarsi di The Donald – era stata quella (vissuta ormai oltre 20 anni fa) al fianco di Al Gore. Ed è forse proprio questo passato ad averlo fatto innamorare di Trump: nel 2000, infatti, Al Gore perse le elezioni nonostante avesse ottenuto a livello nazionale 500 mila voti in più rispetto all’avversario, il pluri-criminale volto della sanguinaria guerra al terrore George W. Bush, che però era riuscito a ottenere la meglio (grazie alla conquista della Florida) per una manciata di voti contestati per presunti problemi sulle schede elettorali; di fronte a una cosa così delicata, ovviamente, tutti si sarebbero attesi un riconteggio manuale che invece la Corte Suprema, in una contestatissima decisione presa con appena 5 voti contro 4, negò. Ciononostante, Al Gore accettò l’esito con una certa nonchalance; d’altronde, lo Stato profondo aveva già deciso che per ricattare i paesi emergenti – a partire dalla Cina – c’era bisogno di mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente e rovesciare i regimi ostili a suon di bombe a grappolo sulla testa dei bambini per avere il pieno controllo sull’accesso alle fonti fossili, e quel bamboccione semi-alcolizzato di Bush figlio era il fantoccio giusto al momento giusto. E visto che ci tenevano così tanto da ribaltare l’esito elettorale e causare una delle peggiori crisi di credibilità della Corte Suprema della storia USA, anche Al Gore (che certo non è Mao Tse Tung o Salvador Allende) decise bene di cedere la mano, cosa che però fece incazzare a morte tutti quelli che si erano spesi in suo nome nella speranza di accedere a ruoli di comando che avrebbe garantito qualche bel dividendo corpulento.
Ecco così che quando Bessent ha visto invece che Trump, per garantire a se e ai suoi i dividendi che solo la presidenza del Paese più ricco e corrotto del pianeta può garantire, era pronto a scatenare una specie di guerra civile, ha deciso che era arrivato il momento della sua rivincita: secondo il Wall Street Journal “Bessent ha deciso di puntare il tutto per tutto su Trump quando ha visto che le cause legali che stava affrontando, invece di danneggiarlo, lo stavano favorendo”: “Mi ricorda quei titoli che continuano a salire nonostante le cattive notizie” avrebbe confessato a una fonte anonima interrogata dal Journal, che tra gli investitori è considerato il più solido dei segnali possibili che quel titolo ha davanti a sé un futuro di gloria. Perché l’elefante dentro la stanza (che troppo spesso riescono a nascondere dietro a una montagna di fuffa) sullo scontro tra l’establishment e gli outsider, tra i woke e i difensori dei valori tradizionali, tra gli eco-ansiosi e i negazionisti climatici e compagnia bella, è che la corsa alla presidenza in qualsiasi paese neoliberista (ma, a maggior ragione, proprio negli Stati Uniti) è fondamentalmente un’attività imprenditoriale riservata esclusivamente ai membri delle oligarchie finanziarie – o a qualche fantoccio facilmente manovrabile dalle stesse – che comporta investimenti miliardari e che richiede ritorni economici immediati di ordini di grandezza superiori; è, sostanzialmente, la selezione per chi avrà il privilegio di spartirsi quel pezzo di torta riservato a chi, nelle schifezze dell’imperialismo neoliberista, ci mette la faccia. E solitamente, dopo un po’ di tempo che sta in qualche incarico di governo, viene schifato pure dai parenti più stretti; son sacrifici e vanno retribuiti. Per Bessent (come per tutti i finanziatori e tutti i collaboratori), Al Gore – come Trump – non sono altro che buoni investimenti.
A quanto pare, a convincere Bessent che Trump fosse un ottimo investimento sarebbe stato il suo storico amico John Paulson, uno dei più accaniti sostenitori della primissima ora di Donald Trump, su cui forse vale la pena spendere due parole: John Paulson, al pari proprio di George Soros, è considerato uno dei padri degli Hedge Fund, i fondi ultra-speculativi perlopiù riservati agli investitori più facoltosi; la fama di Paulson, in particolare, è legata allo straordinario successo che ha ottenuto anticipando la crisi dei subprime e speculandoci sopra. Ma non si tratta esclusivamente di intuito: si è trattato proprio di un’azione criminale a tutti gli effetti, anche se per la legge USA, che tutela gli oligarchi più spregiudicati, alla fine considerata del tutto legale. Paulson, infatti, attraverso il suo fondo collaborava con Goldman Sachs nella selezione dei pacchetti di mutui da inserire in quelli che vengono definiti CDO, Collateralized Debt Obligation: in soldoni, strumenti finanziari da rivendere al grande pubblico le cui sorti dipendevano dal fatto che, a monte di tutta la catena, la gente quei mutui continuasse a pagarli; la cosa bella di Paulson è che, da un lato, aiutava la banca a costruire questi prodotti e dall’altro, invece, scommetteva sul fatto che quegli stessi prodotti sarebbero crollati perché i pacchetti di mutui che aveva scientemente selezionato, in realtà, non sarebbero stati pagati. Non so se è chiaro: ti vendo una roba assicurandoti che non fallirà mentre io scommetto che fallirà perché so che fallirà, dal momento che l’ho costruita io; che, sostanzialmente, è il modus operandi che lega Paulson a Bessent. Bessent, infatti, entra nel team del Quantum Fund di Soros nel 1991, appena 29enne, ma con alle spalle già un suo percorso all’interno del mondo della finanza nella banca d’affari Brown Brothers Harriman, famosa per aver intrattenuto numerosi rapporti commerciali con la Germania nazista a guerra già iniziata e, poi, per essere particolarmente propensa a gestire conti offshore di clienti facoltosi in vari paradisi fiscali in giro per il mondo. Nel frattempo però, nonostante si fosse ancora in piena era di dominio repubblicano (tra la fine del reaganismo e la presidenza di Bush padre), Bessent coltivava qualche velleità da giovane progressista e, per un breve periodo, diventava addirittura editore di The New Republic, storica testata del liberal-imperialismo USA dove è entrato in contatto col gotha del suprematismo progressista: da Paul Krugman a Anne Applebaum, da Fareed Zakaria a Steven Pinker, la crème crème dell’intellighenzia liberale che, negli anni successivi, darà copertura ideologica alla globalizzazione neoliberista dell’era Clinton e all’epoca d’oro delle bombe umanitarie, culminata con la prima guerra contro l’integrazione europea e le velleità di indipendenza strategica in Kosovo. Esperienza nella finanza speculativa e piena affinità con lo spirito neo-liberale che si andava affermando fecero immediatamente di Bessent uno dei pupilli di Re Soros e, in pochissimo tempo, ebbe accesso alla stanza dei bottoni dalla quale si stava programmando l’assalto speculativo alla sterlina che portò al mercoledì nero del 16 settembre 1992; come nel caso della speculazione dell’amico Paulson sui mutui subprime, anche in questo caso si tratta della solita profezia che si auto-avvera arricchendo a dismisura lo speculatore di turno sulla pelle di milioni di lavoratori e cittadini comuni.
Il giochino sostanzialmente era questo: all’epoca, esisteva una cosa che si chiamava ERM, Meccanismo di Cambio europeo, che prevedeva che le varie valute europee (sterlina compresa) avessero un tasso di cambio fisso con il marco, con una piccola possibilità di oscillazione; l’economia britannica, però, non stava andando per niente bene e Soros & company, a partire da Bessent, decisero di scommettere sul fatto che la sterlina, più prima che poi, si sarebbe indebolita fino a superare la soglia della fascia di oscillazione permessa, sarebbe stata costretta ad uscire dall’ERM e, a quel punto, si sarebbe deprezzata ancora di più. Ma invece che limitarsi a prevedere tutto questo, si attivarono in massa affinché avvenisse: il team del fondo di Soros di cui faceva parte Bessent, così, cominciò a vendere allo scoperto enormi quantità di sterline, il che – molto banalmente – significa che le prendevano in prestito e le vendevano sul mercato, con la speranza che quando poi le dovevano restituire a chi gliele aveva prestate, avrebbero avuto un valore molto minore rispetto a quando le avevano prese in prestito e, quindi, loro incassavano la differenza tra il valore che avevano le sterline quando le avevano vendute sul mercato e il valore che avevano quando le restituivano; ovviamente, nel fare questo, vendendo grandi quantità di sterline sul mercato contribuivano in prima persona a far deprezzare le sterline che, come qualsiasi altra merce, quando vengono vendute in gran quantità (quindi quando c’è tanta offerta) diminuiscono di valore. Ed è proprio grazie a questo fondamentale contributo che, appunto, nonostante gli sforzi della Banca d’Inghilterra, la profezia di Soros e Bessent si avverò: la sterlina si deprezzò fino al punto di essere cacciata dall’ERM e dopo la cacciata, come prevedibile, crollò ancora fino a quando non portò nelle tasche del compagno Soros un miliardo di dollari di guadagni netti; da allora, l’ascesa di Bessent nel cerchio magico di Soros fu inarrestabile fino a quando, appunto, nel 2011 Soros non lo nominò addirittura chief investment officer e, poco dopo, addirittura direttore generale. Ma non sono mancati nemmeno gli attriti: come nel 2014, quando in seguito all’ennesima operazione terroristica di Israele contro i bambini palestinesi della Striscia di Gaza, la famigerata operazione Protective Edge (Margine di Protezione) che porterà allo sterminio indiscriminato di 2000 civili, alcuni dei funzionari della Fondazione di Soros cercarono di convincere il fondo Quantum a limitare gli investimenti in aziende che operavano nella Palestina occupata; secondo il Wall Street Journal Bessent si infuriò, “andò da Soros, e minacciò di dimettersi”. Insomma: riuscì a superare in suprematismo imperiale il Maestro che, da allora, ha sempre sottolineato di non aver mai discriminato investimenti in Israele solo perché hanno la simpatica abitudine di bruciare vivi i bambini dentro le tendopoli.
Da allora però, comunque, anche in nome del fascio-sionismo l’infatuazione di Bessent per l’establishment liberal venne meno; più avanti si avvicinò ai neo-con, contribuendo alla campagna di McCain e infine, nel 2016, trovò la sua nuova musa ispiratrice: The Donald, che ha subito visto in questo intraprendente falco della finanza, capace di guadagnare milioni su milioni sulla pelle dei poveri disgraziati, una specie di anima gemella, ma più presentabile. Come sottolinea ancora il WSJ, a Bessent Trump deve la formula del 3-3-3: “Tagliare il deficit di bilancio al 3% del prodotto interno lordo entro il 2028, stimolare la crescita del PIL al 3% attraverso la deregolamentazione e produrre altri 3 milioni di barili di petrolio al giorno”. Insomma: più fossile, mano libera al capitale e meno tasse; cosa potrebbe mai chiedere di più un vero paladino dell’anti-establishment? La barzelletta di Trump anti-establishment è una cazzata più grossa addirittura della propaganda analfoliberale di Hollywood e Netflix e ormai, sinceramente, non fa manco più ridere; e chi, anche a questo giro, avesse intenzione di sfrucugliarci le gonadi con commenti da terza media del tipo e allora la Harris? Anche Ottolina è pagata dalle élite globaliste? è gentilmente invitato a guardarsi i 12 mila video che abbiamo dedicato all’altra parte della finta barricata, da rimbambiden a Kabala Harris. Il punto, ovviamente, è che per noi il nemico principale è l’imperialismo USA in se, non il singolo fenomeno da baraccone che sceglie da dare in pasto alle telecamere a seconda di chi è più adatto in quella fase per prenderci tutti allegramente per il culo; la faida tra le due fazioni del capitalismo finanziario USA che si sfideranno alle elezioni è reale (anzi, feroce), ma riguarda solo ed esclusivamente, appunto, la scelta di quale parte del capitalismo si arricchirà di più sulle spalle del resto della popolazione nei prossimi 4 anni. Ma per cominciare a parlare seriamente di come entrambe le fazioni (al di là delle faide per spartirsi le carcasse) portino avanti la stessa identica agenda e cosa dovremmo fare concretamente per cercare di combatterle entrambe, serve come il pane un media indipendente, ma di parte, che dia voce ai bisogni concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è George Soros

Metamorfosi – Uragano elettorale in arrivo! (puntata 3)

Nella nuova puntata di Metamorfosi, Alberto Fazolo porta in studio quattro voci potenti per un confronto sulle imminenti elezioni USA: da Trump che infiamma le folle a Kamala Harris pronta a tutto per i Democratici. Luca Marfè, Andy De Paoli, Gianluca Ferrara ed Emanuele Rotili si scontrano su cosa ci aspetta dopo questo voto che potrebbe cambiare tutto. E mentre la Florida è sotto l’uragano Milton, qui a Friccicore si scatena la vera tempesta: Trump vs Harris.

Mentre gli USA si spolpano per sostenere lo sterminio dei palestinesi, la Cina si riprende Taiwan

Mentre gli USA si avviano a impantanarsi definitivamente (un’altra volta) in Medio Oriente fornendo a Israele quel poco che gli rimane, in termini di sistemi d’arma, dopo aver preso una quantità di schiaffi inenarrabili per quasi 3 anni dalla Russia sul fronte ucraino, la Cina mostra i muscoli e dimostra in modo plateale che in questo contesto è in grado di vincere la più importante delle battaglie della Guerra del Pacifico quando e come vuole. Mentre Netanyahu incassava l’ennesimo sostegno USA allo sterminio incondizionato dei bambini palestinesi garantendosi la fornitura di uno dei soli 7 esemplari esistenti del prestigioso sistema di difesa antiaerea THAAD (con tanto di 100 militari specializzati USA al seguito), Pechino, infatti, nell’arco di pochissime ore metteva in campo una delle più grandi esercitazioni di sempre e dimostrava come – anche proprio grazie all’impegno dell’alleato padrone di Washington e della sua industria bellica su altri due fronti – è in grado di isolare la provincia di Taiwan dal resto del mondo e costringerla a una rapida resa: “È la prima volta che la Cina lancia un’esercitazione che mira a bloccare i porti e tutte le aree di accesso chiave a Taiwan” ha scritto in un editoriale il giornalista cinese Shichun Wang; “In questo modo possiamo abbordare, ispezionare e sequestrare le navi che inviano armi statunitensi a Taiwan e impedire ad altri Paesi di inviare navi petrolifere e di gas naturale sull’isola”. “Il successo o il fallimento di un blocco cinese” ha continuato “dipende interamente dalla capacità di Washington e dei suoi alleati di intervenire tempestivamente in supporto dell’isola”, ma con questa esercitazione abbiamo dimostrato che “l’iniziativa ora spetta alle nostre forze armate, e che nessun sostegno dall’estero sarà veramente possibile”. Come abbiamo sottolineato innumerevoli volte, gli USA fanno fatica a tenere botta anche solo su un unico fronte; con due fronti aperti la faccenda si complica a dismisura; con tre la debacle, se non si può dire totalmente assicurata, poco ci manca. Il problema è che, ormai, a dettare l’agenda non è più l’Occidente collettivo solo soletto, che deve dosare le energie per capire dove e come attaccare: come sottolinea Wang per il caso di Taiwan “l’iniziativa ora spetta alle nostre forze armate”, così come spetta alle forze armate della federazione russa e, dal 7 ottobre del 2023 (anche se in misura e con modalità diverse) all’asse della resistenza nel Medio Oriente. Senza dimenticare che, nel frattempo, la Corea del Nord ha ulteriormente alzato l’asticella demolendo le vie di comunicazione che ancora la collegavano fisicamente ai cugini del sud; come, d’altronde, in Africa l’asse dei paesi ribelli del Sahel, con il Burkina Faso che ha recentemente annunciato la nazionalizzazione delle miniere d’oro, cosa che -evidentemente – non è piaciuta alla sinistra imperiale.
Per celebrare il 37esimo anniversario della morte del leggendario leader antimperialista Thomas Sankara, Il Manifesto martedì ha pubblicato questo lungo articolo a firma Gaetano Mazzola (che fino a ieri non avevo mai sentito nominare e, sinceramente, avrei preferito continuare così): l’articolo di Mazzola sembra quasi una caricatura dell’astrattismo dirittumanista che rende l’aperisinistra occidentale universalmente odiata in tutto il Sud globale; l’autore non riesca a farsi una ragione del fatto che il leader patriottico Ibrahim Traoré prediliga il rapporto con Vladimir Putin a quello con Elly Schlein e Anna Baerbock. In questa fase di declino imperiale, il suprematismo culturale della sinistra ZTL si rivela (ancora una volta) l’alleato più fedele del neocolonialismo di matrice atlantica; fortunatamente, fuori dalle terrazze dei Parioli non conta una seganiente. Ma prima di addentrarci in questa radiografia aggiornata dell’impasse strategica dell’imperialismo a guida USA, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permettere anche a noi di prendere l’iniziativa sul quarto fronte del conflitto (quello contro la propaganda mainstream e la dittatura degli algoritmi al servizio dell’impero) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghino le invincibili forze armate statunitensi per battere in ritirata da uno degli innumerevoli teatri di guerra che hanno contribuito ad incendiare, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a impedire che i pennivendoli a libro paga delle oligarchie atlantiste facciano passare questa gigantesca debacle come l’ennesimo, inevitabile trionfo della superiorità dell’uomo bianco.

Il sistema d’arma THAAD

Come ampiamente prevedibile, il trito e ritrito teatrino del tira e molla tra lo sbirro cattivo sionista e quello buono democratico si è concluso con un bel bastimento di nuove, avanzatissime armi USA a sostegno dello sterminio indiscriminato di bambini palestinesi; da Gaza, intanto, arrivavano le prime raccapriccianti immagini dell’attacco dei fascio-sionisti alla tendopoli di fortuna allestita all’esterno dell’ospedale dei martiri di Al Aqsa di Deir al-Balah, nel bel mezzo della Striscia, dove da mesi si accalcano centinaia di feriti in condizioni infernali e che, dopo l’attacco, s’è trasformato in un inferno vero e proprio, con un incendio che ha bruciato vive in diretta streaming diverse persone, bambini compresi. Pochi giorni prima Israele, dopo aver minacciato esplicitamente il capo dell’ONU Guterres, aveva aperto il fuoco sulle forze di peacekeeping delle Nazioni Unite di stanza in Libano – concentrandosi, in particolare, su quelli italiani; e cosa fa il Paese leader del mondo libero e democratico per tornare ad imporre il rispetto (almeno di facciata) del diritto internazionale e di quello umanitario? Spedisce a Tel Aviv il più avanzato dei suoi sistemi di difesa antiaerea, il THAAD, con tanto di 100 uomini in divisa necessari per usarlo come si deve: l’obiettivo è permettere a Israele di provare a ristabilire un minimo di deterrenza nei confronti dell’Iran dopo il catastrofico fallimento dell’Iron Dome durante la pioggia di missili che sono arrivati da Teheran il primo ottobre scorso, una reazione che, appunto, è stata al centro dell’ennesimo teatrino. Inizialmente, infatti, il timore sollevato ad arte dalla propaganda sionista e dai media al suo servizio (cioè tutti) era che Israele potesse reagire attaccando le infrastrutture nucleari iraniane; peccato, però, che sia più facile da dire che da fare: le infrastrutture nucleari iraniane infatti, com’è ovvio, sono ben fortificate e, in gran parte, sottoterra, parecchio sotto. Per colpirle servirebbe una potenza di fuoco notevole, vale a dire una quantità consistente di bombe anti-bunker, fondamentalmente lanciate dagli F-35. E non è detto che basti: il problema è che le installazioni nucleari iraniane, altrettanto ovviamente, sono abbastanza lontane dal confine – perché la minaccia israeliana non è che è nata esattamente ieri e gli iraniani, magari, non appartengono esattamente a una civiltà superiore come quella occidentale decantata da Rampini, ma c’è la remota ipotesi che non siano comunque nemmeno completamente rincoglioniti; il problema di raggiungere l’interno del Paese con numerosi F-35, però, consiste nel fatto che (nonostante non abbiano gli USA che glieli forniscono) gli iraniani sono dotati di difese antiaeree piuttosto massicce che anche se non sono prodotto della superiore tecnologia immaginaria occidentale, quando non sono prodotte in casa arrivano dalla Russia – che così, a occhio, negli ultimi tre anni ha dato prova qualche competenza in materia di averla. Insomma: l’ipotesi degli attacchi alle installazioni nucleari era – piuttosto probabilmente – una puttanata da dare in pasto alla propaganda che sostiene il genocidio, per poi far passare il fatto di accontentarsi di obiettivi strategicamente meno significativi come un atto di moderazione e un’apertura al dialogo tale da giustificare l’invio di un premio sotto forma di una nuova ondata di armi USA.
Il THAAD, effettivamente, è una delle cose più preziose che gli USA potessero inviare, anche perché in 20 anni sono stati in grado di produrne appena 7; lo sforzo, quindi, è ammirevole: sarà anche sufficiente a cambiare le carte in tavola? Come tutte le armi che in questi tre anni sono state propagandate come risolutive in un conflitto che, invece, ha continuato ad andare di male in peggio come quello in Ucraina, ovviamente no. Il sistema THAAD dovrebbe servire a intercettare i missili balistici a medio raggio (che l’Iran possiede in discrete quantità) e che il primo ottobre hanno letteralmente umiliato la difesa antiaerea israeliana; ha la fama di essere un sistema sostanzialmente infallibile: secondo i test, infatti, andrebbe a segno il 100% delle volte. Peccato che, più che di test realistici, si tratti di banali operazioni di marketing: le condizioni nelle quali avvengono non hanno assolutamente niente a che vedere con quelle concrete che si riscontrerebbero sul campo; questo a prescindere, diciamo. Nel caso degli iraniani, poi, nel tempo – visto che il THAAD, comunque, ha una ventina d’anni d’età – hanno sviluppato una discreta serie di escamotage: il primo è che alcuni missili balistici sviluppati dall’Iran (come il Shahab-3 o il Khorramshahr) hanno la capacità di trasportare quelle che vengono definite decoy, cioè esche; in sostanza, i missili, durante il loro tragitto, rilasciano alcune testate che funzionano da falsi obiettivi in grado di confondere il THAAD. Questo significa che per intercettare uno di questi missili balistici sarebbe necessario l’impiego di numerosi intercettori. Inoltre il THAAD, fondamentalmente, è progettato per intercettare missili che seguono traiettorie piuttosto prevedibili, ma alcuni missili balistici iraniani (come il Ghadr-110 o l’Emad) hanno capacità di manovra nella fase terminale di volo e quindi, una volta rientrati in atmosfera, sono in grado di variare la traiettoria in modo imprevedibile; inoltre, alcuni missili balistici iraniani (come il Sejjil-2) sono a propellente solido, il che (in soldoni) si traduce nel fatto che hanno tempi di lancio molto più rapidi e riducono così l’efficacia dei sistemi di allerta rapida e rendono il lavoro di sistemi come il THAAD enormemente più complicati, soprattutto qualora si trattasse di un attacco coordinato con più lanci simultanei. Insomma: facendo la tara di tutte le complicazioni concrete, per beccare il missile balistico giusto al momento giusto probabilmente sono da preventivare almeno 3 o 4 intercettori; il problema è che il THAAD ne ha a disposizione solo 48 per volta e, quando hai finito la prima mandata, sei fottuto: nell’arco di quasi 25 anni, infatti, Lockheed Martin è stata in grado di produrre, in tutto, appena 800 intercettori e ora ne produce meno di 40 l’anno. Insomma: ragionando proprio a spanne, se anche tutta la produzione fosse riservata esclusivamente a Israele lo metterebbe in condizione di intercettare 10-15 missili balistici l’anno; peccato che, tra tutte le tipologie, si stima ne abbiano in magazzino tra i 250 e i 500 e che siano in grado di produrne ogni anno tra i 50 e i 100.
Insomma: i conti non tornano e anche quando si cerca maldestramente di farli tornare in qualche modo con un po’ di propaganda su tutti gli altri livelli di contraerea in possesso di Israele, ecco che arriva la ciliegina dei missili ipersonici; l’Iran infatti, com’è noto, si è dotato anche di missili ipersonici come il Fattah, in grado di raggiungere una velocità 15 volte superiore quella del suono, ma che (soprattutto) vola a bassa quota ed è altamente manovrabile. Insomma: è sostanzialmente non intercettabile – o almeno, anche solo per provarci, probabilmente richiederebbe l’impiego di un’intera batteria di intercettori. A onor del vero, comunque, bisogna sottolineare che in realtà non sappiamo quanti di questi missili ipersonici siano stati ad oggi prodotti e, ancor meno, quanti l’Iran sia in grado di produrne con continuità; il punto è che per difendere adeguatamente la minuscola Israele in caso di un’escalation che, secondo molti analisti, appare piuttosto probabile, o anche solo per cercare di ricostruire una qualche deterrenza mentre la Russia continua ad avanzare (lenta, ma inesorabile) nell’Ucraina orientale, gli USA si dovrebbero letteralmente svenare anche perché, rispetto all’Ucraina (nonostante il sostegno degli stati vassalli dell’impero sia ovviamente incondizionato) perlomeno c’è qualche timidezza in più – ammesso e non concesso che si tratti di timidezza e non di totale impotenza: ed ecco, così, che tirando la coperta corta tutta da una parte, un’altra, a 8 mila chilometri di distanza, rimane completamente scoperta.
Per esercitare un minimo di deterrenza nei confronti della Cina continentale, l’altrettanto piccola Taiwan avrebbe bisogno di essere armata fino ai denti; ma prima ancora che il Medio Oriente tornasse sulle pagine della cronaca bellica, la guerra in Ucraina aveva già imposto di rimandare le consegne – a partire dai Patriot, accordati nel lontano 2021, ma dei quali non c’è ancora traccia all’orizzonte: figurarsi adesso quali sono le prospettive con l’escalation in Medio Oriente in pieno corso. E per dare una rappresentazione plastica di come questa totale incapacità di assistere adeguatamente la provincia di Taiwan abbia cambiato la bilancia di potere nell’area, lunedì scorso la Cina ha messo in campo un’esercitazione che così, a occhio, lascia pochi dubbi: nell’arco di poche ore, Taiwan s’è ritrovata circondata da 17 navi da guerra (compresa una portaerei) e altrettante imbarcazioni della guardia costiera – che, detta così, sembra una cosa innocua, ma nel caso cinese non lo è affatto; si tratta, spesso, di imbarcazioni che hanno una stazza superiore alle nostre fregate e dotate di sistemi d’arma consistenti. Ma quello che ha reso questa esercitazione particolarmente significativa è stato l’elevatissimo impiego di forze aeree: oltre 150 tra aerei e droni di ogni genere; a scatenare l’operazione era stato, giusto 4 giorni prima, il primo discorso che il neo presidente Lai Ching-Te ha tenuto in occasione della festa nazionale. Nonostante le oggettive difficoltà di Taiwan derivate dal mancato sostegno concreto del protettore statunitense in altre faccende affaccendato, Lai ci ha tenuto comunque a fare lo sbruffone e a ribadire la sua linea indipendentista. La risposta della Cina indica, come sottolineavamo nell’incipit di questo video, che l’iniziativa ora spetta all’esercito di liberazione popolare, che ha tutti gli strumenti per impedire il soccorso da parte di forze straniere (indispensabile per pensare di poter contrastare la potenza cinese); come avrebbe affermato l’esperto dell’Accademia di scienze militari dell’esercito popolare di liberazione Wang Wenjuan al Global Times, più i separatisti continuano a riempirsi la bocca con l’indipendenza di Taiwan, sempre maggiori saranno le contromisure messe in campo dalla Cina, che è determinata a “dissipare l’illusione tra le forze separatiste che la terraferma si asterrebbe dall’intraprendere azioni militari in caso l’accelerazione verso l’indipendentismo dovesse continuare”.
Insomma: quella che fino a pochissimi anni fa era considerata l’unica e invincibile superpotenza del pianeta, giorno dopo giorno deve fare i conti con le conseguenze materiali irreversibili del suo lento declino, a meno che non si accontenti del fatto che evidentemente – nonostante il sostegno incondizionato al primo genocidio in live streaming della storia dell’umanità – il suo sistema imperiale continua ad esercitare un certo fascino negli scappati di casa della sinistra imperiale delle colonie europee; per diffondere la consapevolezza di questo inesorabile declino e valutare in modo realistico le opportunità che offre a chi quotidianamente si batte per spezzare le catene arrugginite del dominio imperiale, abbiamo bisogno di un media indipendente (ma di parte) e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Gaetano Mazzola

Regno Unito, USA e Israele attaccano ovunque, dall’Oceano Indiano all’Ucraina – Ft. Alberto Fazolo

In questo nuovo video del sabato analizziamo con i nostri Alberto Fazolo e Gabriele Germani come Regno Unito, USA e Israele stiano estendendo la loro influenza militare e politica su diversi fronti globali, dall’Oceano Indiano all’Ucraina. Insieme ad Alberto Fazolo, esploriamo i recenti interventi strategici e le loro implicazioni sulla geopolitica mondiale: quali sono gli obiettivi dietro questi attacchi e quali le conseguenze per i paesi coinvolti? Un’analisi approfondita sugli equilibri di potere globali e sul ruolo crescente di questi attori nello scacchiere internazionale.  

Umiliata in Ucraina e impantanata nel Pacifico, Kabala Harris dichiara guerra all’Iran

Intervistatore: “Quale paese straniero considera sia il nostro principale nemico?”
Kabala Harris: “Credo ovviamente ne venga subito uno in mente, che è l’Iran. l’Iran ha sangue americano sulle sue mani
Ottoliner buondì. Dopo due anni e mezzo vi cominciavate ad annoiare a sentir sempre parlare degli schiaffi che quotidianamente l’Occidente collettivo raccatta nella guerra per procura in Ucraina? Nessun problema: la guerra mondiale dell’imperialismo a guida USA contro il resto del mondo è pronta ad arricchirsi di un nuovo, entusiasmante capitolo! Per mesi, un po’ tutti (e noi per primi) ci siamo fatti mille pippe su come a volere una regionalizzazione dello sterminio di Gaza fosse Israele, mentre gli USA erano titubanti; la motivazione è nota e a chi ci segue ormai gli uscirà dalle orecchie: aprire un altro fronte, oltre a quello caldo in Ucraina e a quello in via di preparazione nel Pacifico, non è alla portata della superpotenza USA e dei suoi alleati. E visto che – da quando hanno raso al suolo l’intero paese per diventare energeticamente indipendenti e da quando la Cina è diventata la leader globale indiscussa delle rinnovabili – il Medio Oriente aveva cominciato a perdere la sua centralità, indebolire la deterrenza su uno dei due fronti principali per rimettere a ferro e fuoco l’Asia occidentale non sembrava avere molto senso, fino a quando qualcosa non è cominciata a cambiare piuttosto rapidamente. Le prime avvisaglie le abbiamo cominciate a registrare a inizio estate quando, mano a mano che Biden rincoglioniva sempre di più, Trump, da underdog ostracizzato dal sistema, cominciava a incassare il sostegno di pezzi sempre più consistenti di Stato profondo (a partire dai peggio sociopatici miliardari della Silicon Valley) e addirittura, cosa più unica che rara, cominciava a surclassare in donazioni la campagna dem. Ad attrarre su The Donald le luci della ribalta del partito unico neo-conservatore, l’idea che potesse riuscire a congelare (almeno temporaneamente) il conflitto in Ucraina scaricando tutta la responsabilità su quei bolliti dei democratici e limitare, così, la gigantesca figura di merda che gli USA stanno raccattando nel primo conflitto con un quasi pari tecnologico da 80 anni a questa parte. Ma non solo; The Donald infatti, col suo impeccabile curriculum da suprematista fascio-sionista senza peli sulla lingua, sembrava essere l’uomo in grado di dare maggiori garanzie per un netto e radicale cambio di strategia: ingaggiare una guerra contro l’Iran e riportare il fronte più caldo della guerra mondiale a pezzi in Medio Oriente.
Ma perché lo Stato profondo avrebbe mai dovuto cambiare così drasticamente i suoi piani e tornare a soffiare sul fuoco di un conflitto regionale in grande stile nell’Asia occidentale? Il punto è che la guerra per procura in Ucraina si è rivelata una disfatta oltre ogni più pessimistica previsione: sul terreno, la Russia ormai sembra non avere rivali; il regime del sanguinario dittatore plurimorto è più solido che mai ed è isolato soltanto nella mente malata di qualche sociopatico NAFO. E invece che ostacolare le alleanze tra i Paesi che si oppongono all’unilateralismo USA, ad oggi la guerra non ha fatto che accelerarle e fortificarle, a partire dalla più importante di tutte: l’asse Cina – Russia, che nessuno ha mai contribuito così tanto a rinsaldare come rimbamBiden e soci. D’altro canto, gli USA possono perlomeno vantare un successo piuttosto eclatante e, cioè, quello di aver imposto (in realtà senza mai riscontrare particolari ostacoli) l’abbandono definitivo da parte dell’Europa del processo di integrazione del super-continente eurasiatico e di aver completamente azzerato ogni velleità europea di autonomia strategica: a partire dalla Germania, unico capitalismo produttivo dell’Occidente collettivo a non essere stato ancora interamente fagocitato dal capitalismo finanziario USA e che ora, finalmente, ha accettato supinamente di diventare una semplice colonia economica, oltre che politica. Nonostante questo importante successo, però, la conversione dell’economia europea (e tedesca in primis) in una vera e propria economia di guerra in grado di fornire la base industriale necessaria per tenere a bada da sola nel medio e lungo periodo il gigante russo, sembra ancora lontana dal concretizzarsi materialmente; l’unica possibilità, quindi, è cercare in qualche modo di congelare – almeno parzialmente – il conflitto per evitare che continui a fagocitare, senza risultati, le poche risorse che il nostro sistema industriale ridotto al lumicino è in grado di offrire e sperare che la nostra conversione verso un’economia di guerra proceda più speditamente di quanto non stia avanzando lo sviluppo industriale di Mosca (e, magari, provare a riparlarne fra un po’).

Joe Biden

Ma la disfatta ucraina non è l’unico ostacolo che ha costretto l’imperialismo USA a stravolgere totalmente i suoi piani perché anche sul fronte per eccellenza – quello del Pacifico, dove si tratta di fronteggiare l’unico vero competitor sistemico degli USA, la Cina – i preparativi vanno a rilento; il problema, ovviamente, è che se la grande macchina bellica dell’Occidente collettivo ha visto la sua base industriale bellica surclassata da una potenza produttiva media come quella della federazione russa, figurarsi cosa potrebbe succedere se si mettessero in testa di fare a gara con l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta. La necessità di passare dal fioretto della guerra economica e commerciale ai missili, alle portaerei e ai sottomarini a propulsione nucleare è resa sempre più esplicita e urgente dal totale fallimento delle sanzioni e della strategia del decoupling. Ma alla necessità, per ora, non sembra corrispondere la possibilità: ognuno dei 13 principali cantieri navali cinesi è in grado di produrre più di tutti i cantieri navali USA messi assieme, e la scorciatoia che dovrebbe portare ad appaltare la produzione delle navi da guerra agli alleati giapponesi e sudcoreani (che invece una base industriale ce l’hanno ancora, eccome) si sta rivelando più lunga e tortuosa del previsto. Insomma: il mondo libero e democratico, prima di affrontare sul serio i pezzi grossi dopo essersi privato di una base industriale consistente per arricchire a dismisura le tasche delle sue oligarchie senza trovarsi in mezzo ai piedi quella gran rottura di coglioni della classe operaia, ha bisogno ancora di tempo. Ma durante questo tempo non può rimanere a guardare perché la storia, inesorabilmente, va esattamente nella direzione che devono in ogni modo scongiurare: il declino dell’impero, l’ascesa delle potenze emergenti e l’affermazione di un nuovo ordine multipolare; è fondamentale, quindi, imbarcarsi in una nuova guerra abbastanza grossa e complessa da creare una destabilizzazione globale che impedisca il naturale incedere verso un nuovo ordine multipolare, ma abbastanza piccola da essere alla portata dell’Occidente collettivo che ancora non ha trovato il modo di convertirsi all’economia di guerra. E il Medio Oriente, da questo punto di vista, rappresenta senz’altro un’ottima opportunità; e lasciate perdere che, probabilmente, anche quella contro l’Iran e l’asse della resistenza tutto sommato è un’altra guerra che (a meno di un olocausto nucleare) comunque gli USA e Israele, in quanto manifestazioni del colonialismo in putrefazione, alla lunga non possono vincere. Alla lunga, si vedrà. Intanto si può dare una dimostrazione al mondo che l’Occidente collettivo è ancora in grado di vincere una guerra convenzionale e, soprattutto, che chiunque si azzardi a seguire Russia e Cina in modo chiaro ed esplicito pagherà conseguenze gravissime. Ma prima di addentrarci nei dettagli di come e perché i preparativi alla grande guerra del Pacifico vanno a rilento, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi (che è l’unica guerra che, a quanto pare, gli USA sono davvero attrezzati per vincere) e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi la Casa Bianca ad abbandonare un fronte al collasso per riaprirne un altro nuovo di pacca, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a capire e raccontare la terza guerra mondiale per quello che è davvero (e non per la caricatura che ne fanno gli amici NAFO afflitti da gravi deficit cognitivi).
Per dichiarare la guerra nel Pacifico alla Cina e avere almeno qualche remota chance di non capitolare a stretto giro servono parecchie cose, ma sopra ogni altra cosa serve che gli alleati/vassalli regionali facciano tutto quello che è in loro potere per cercare di colmare l’abisso che, al momento, li separa dalla superpotenza manifatturiera cinese e dalla gigantesca base industriale che sarebbe in grado di mettere a disposizione dello sforzo bellico. Insomma: oltre ad assicurarsi la definitiva trasformazione delle Filippine nella principale portaerei USA nel cuore del Mar Cinese Meridionale, deve riuscire ad assicurarsi il coinvolgimento totale di Giappone e Corea del Sud e la trasformazione delle loro economie in economie di guerra. Sulle Filippine diciamo che siamo un pezzo avanti: il presidente Marcos junior è un vero e proprio fantoccio USA, totalmente ricattabile; il padre, feroce dittatore, con l’assistenza di Washington negli anni ha nascosto un tesoretto gigantesco (nell’ordine di oltre 10 miliardi di dollari) in giro per il mondo, che ora Washington può usare per ricattare il figlio. E i risultati si vedono: la legge filippina impedirebbe ai Paesi stranieri di insediare basi stabili in territorio filippino e, invece, gli USA fanno cosa cazzo gli pare e ci fanno le basi; e ci mettono pure dentro in pianta stabile potenti sistemi missilistici come il Typhon, che avevano portato dicendo che servivano giusto per una breve esercitazione e poi – ça va sans dire – è rimasto lì (nelle colonie non si usa chiedere il permesso). Avere una gigantesca portaerei nel cortile di casa del tuo avversario, ovviamente, facilita molto il lavoro, però le armi e tutto il resto – a meno che non lo produci lì – ce lo devi portare e, per portarcelo, devi avere il controllo delle rotte marine, che quando entri in guerra con una potenza che produce un’enormità di navi in più di te, alla lunga potrebbe risultare piuttosto complicato.
Ed è qui che entrano in ballo i due pesi massimi regionali: la Corea del Sud e il Giappone. Corea del Sud e Giappone, infatti, sono gli unici due paesi dell’Occidente collettivo che hanno una cantieristica di tutto rispetto: messi insieme, producono un po’ meno della Cina, ma manco tanto. Per gli USA una vera manna, ma (purtroppo per Washington) non senza ostacoli: il punto è che il grosso delle navi che vengono prodotte, fortunatamente, servono a spostare merci o persone – e non a ucciderle. La Cina, allora, s’è inventata una cosa piuttosto caruccia: produzione civile e militare sono quasi indistinguibili; stessi cantieri, stesse aziende, stesso personale. Significa che, di volta in volta, può decidere quanto produrre di uno o dell’altro con pochissimo preavviso; insomma: convertirsi, all’esigenza, a un’economia di guerra è un attimo, anche perché sono parecchio allenati. Corea del Sud e Giappone insieme, negli ultimi dieci anni, hanno prodotto sì e no 50 navi militari; la Cina da sola, negli ultimi 5, 150. E convertire la cantieristica civile giapponese e sudcoreana alla costruzione di navi da guerra potrebbe non essere così semplice: al contrario dei cinesi che, infatti, utilizzano infrastrutture e tecnologie comuni per settore civile e militare, in Corea del Sud e in Giappone le due parti sono nettamente separate; per imitare la Cina servirebbero investimenti enormi che, essendo Corea del Sud e Giappone Stati dove ha stravinto la controrivoluzione neoliberista, possono arrivare soltanto a fronte di commesse enormi e stabili nel tempo, altrimenti i privati – da Hyundai a Mitsubishi, da Daewoo a Kawasaki – non ti cacano. Queste commesse dovrebbero arrivare in gran parte dalla marina militare USA, che è l’unica che ha una capacità di spesa di dimensioni tali da indurre a una rivoluzione totale del settore, ma le leggi USA, al momento, sostanzialmente impediscono di appaltare la costruzione di navi a Paesi terzi ed è piuttosto improbabile che queste leggi siano stravolte a breve. La scelta strategica di riportare un po’ di cara, vecchia industria sul suolo americano dopo decenni di ubriacatura da finanziarizzazione sta consegnando (fortunatamente) un potere contrattuale enorme in mano agli operai americani, che non hanno intenzione di lasciare che quel che rimane della loro industria venga delocalizzato altrove senza dare battaglia. E se decidono di dare battaglia, sono guai: giusto la settimana scorsa, 25 mila portuali distribuiti in quattordici grandi porti statunitensi – da New York a Miami, passando per Boston – hanno inscenato uno sciopero collettivo che, dopo appena tre giorni, è stato sospeso perché era stato raggiunto un accordo; e l’accordo prevedeva un aumento del salario medio – udite udite – di oltre il 60% nei prossimi 6 anni; ora, provate un po’ a dirgli che i soldi delle loro tasse vanno a pagare il lavoro di qualcun altro…
Ma gli enormi ostacoli concreti che rendono difficile immaginare di riuscire a colmare il gap con la Cina, in termini di produzione navale militare, sono solo uno dei tanti problemi che gli USA si trovano ad affrontare prima di riuscire a coronare il loro sogno di una specie di grande NATO del Pacifico in grado di affrontare, come un sol uomo, la minaccia cinese. In Giappone i problemi, fondamentalmente, sono due: il primo è che l’industria bellica giapponese è piuttosto limitata; a limitare il suo sviluppo, 80 anni di Costituzione smaccatamente pacifista imposta proprio dagli USA per evitare di replicare le spiacevoli sorprese del passato. Negli ultimi anni qualcosa è cambiato, ma l’export del settore militare giapponese, ad oggi, vale appena qualche milione di euro. Il secondo è che le principali corporation giapponesi devono una fetta enorme del loro fatturato al mercato cinese e hanno investimenti diretti in Cina per oltre 150 miliardi di dollari; qui, però, gli USA hanno pensato bene di allungare la loro longa manus, che è quella del loro braccio finanziario: BlackRock e Vanguard che, negli ultimi 15 anni, sono diventati gli azionisti di maggioranza di tutte le principali corporation giapponesi che campano di affari con la Cina (da Toyota a Sony, da Hitachi a Panasonic). Riusciranno a convincerle ad allinearsi agli interessi strategici del centro imperiale a costo di rimetterci una marea di quattrini? Di sicuro sono in una buona posizione per farlo, e si vede: in Giappone, infatti, sostanzialmente non esiste nessuna opposizione; le scaramucce sono tutte interne allo stesso partito. E non nel senso figurato – che sottolineiamo sempre – del partito unico della guerra e degli affari; proprio nello stesso partito, letteralmente, che governa ininterrottamente dal 1955, a parte alcune brevissime parentesi che non arrivano a 5 anni in tutto. Quindi il governo è sempre e solo espressione dello stesso gruppo di interessi e, in cima alla gerarchia di quel gruppo di interessi, da 15 anni a questa parte ci sono sempre e solo i monopoli finanziari a stelle e strisce. Si chiamano, addirittura, quasi in modo identico: l’ultimo avvicendamento, infatti, ha visto uscire di scena Kishida ed entrare in gioco Ishiba; pare che prendano addirittura per il culo…
Discorso completamente diverso, invece, per la Corea del Sud; ed è un vero peccato perché, invece, la Corea del Sud un’industria militare ce l’ha (eccome) ed è tra i principali esportatori di armi al mondo, che fornisce allegramente a tutti i Paesi che contribuiscono allo sforzo bellico USA contro l’ascesa del nuovo mondo multipolare, dalla Polonia alle Filippine. Ma, ciononostante, sulla sua volontà di assecondare del tutto i piani bellici che gli USA hanno in serbo per il Pacifico ci sono parecchie perplessità: come il Giappone (più del Giappone) la Corea del Sud, infatti, campa di relazioni commerciali con la Cina, ma – a differenza del Giappone – la catena di comando è saldamente in mano alle principali famiglie della grande borghesia sudcoreana e ai loro chaebol, i mega-agglomerati tipici, appunto, della Corea del Sud che fanno capo a singole famiglie; ovviamente, BlackRock e Vanguard hanno iniziato la loro scalata anche a queste peculiari forme di strutture capitalistiche, ma (per ora) ancora con ruolo marginale. Risultato: in Corea del Sud una voce critica alla totale subordinazione ai disegni imperiali statunitensi esiste eccome e potrebbe rappresentare un ostacolo di non poco conto; questa voce critica non ha solo parecchi dubbi sul disaccoppiamento dalla Cina, ma anche sui rapporti col Giappone. Anche le famiglie più ricche, infatti, si ricordano del feroce regime coloniale imposto sulla penisola dal fascismo nipponico e non è un bel ricordo; le stesse famiglie, inoltre, non hanno mai visto particolarmente di buon occhio la provincia ribelle taiwanese che vedono, più che altro, come un competitor, a partire dal settore dei chip dove Taiwan, col sostegno dei capitali finanziari USA, s’è mangiata una fetta enorme del mercato che prima era in mano a colossi nazionali come Samsung. Queste famiglie, inoltre, fanno parte di un blocco sociale molto più ampio e composito che, al contrario che in Giappone, una loro rappresentanza politica ce l’hanno (eccome) ed è tutt’altro che minoritaria, anzi: a rappresentarli è il Partito Democratico, che esprimeva la presidenza fino a due anni fa; poi, nel 2022, le elezioni hanno coronato l’ultraconservatore Yoon Suk-yeol che ha inaugurato una stagione di riavvicinamento al Giappone e di totale asservimento agli interessi USA, manco fosse una Meloni qualsiasi. Risultato: oggi Yoon Suk-yeol nel Paese ha un sostegno che supera di poco il 20%, la metà degli avversari all’opposizione, che hanno priorità piuttosto diverse da quelle che vorrebbero imporre gli USA e i suoi vassalli politici locali; il Partito Democratico, infatti, non ha nessuna intenzione di sfidare gli interessi strategici cinesi relativi alla provincia di Taiwan. Anzi: piuttosto scettico sul reale contributo che gli USA possono dare alla sua sicurezza nazionale, vede nella Cina un interlocutore fondamentale, in particolare per riaprire i negoziati con i cugini del Nord, avviare un processo di denuclearizzazione della penisola e porre le basi per un futuro processo di riunificazione; secondo il Partito Democratico (e l’ampio e potente blocco sociale che lo sostiene), una guerra nel Pacifico contro la Cina sarebbe da scongiurare in ogni modo. Il punto è che a proteggere la Corea del Sud dalla minaccia nucleare dei cugini del Nord ci pensa l’ombrello garantito dai 28 mila soldati statunitensi di stanza nel Paese e il loro potente arsenale, fatto di B-52 e sottomarini a propulsione nucleare: un impegno di queste forze in un conflitto diretto contro il gigante cinese nel Mar Cinese Meridionale li lascerebbe in balia dell’arsenale nucleare dei cugini del Nord che, fino ad oggi, sono stati in buona parte tenuti a bada proprio dalla Cina che però, in caso di conflitto, avrebbe tutto l’interesse a lasciargli mano libera proprio per impedire – sia alle forze sudcoreane che a quelle statunitensi di stanza nella Penisola – di partecipare all’offensiva bellica nei suoi confronti. Insomma: il sostegno incondizionato della Corea del Sud, che agli USA serve come il pane per pensare di poter vincere la grande guerra del Pacifico, sembra piuttosto complicato da ottenere; come in Ucraina, non rimane che prendere tempo e sperare che, mettendo in campo tutti gli strumenti che rimangono in mano agli USA per convincere gli alleati a sacrificare definitivamente i loro interessi per assecondare le strategie dell’impero, piano piano si riescano a cambiare i rapporti di forza e, nel frattempo, fornire sostegno incondizionato all’avamposto imperiale sionista nella speranza che, attraverso lo sterminio indiscriminato di bambini, si riesca in qualche modo a rallentare la creazione di un nuovo ordine multipolare.
Disperazione e genocidio: gli ultimi sussulti dell’impero in putrefazione non sarebbero potuti essere più degradanti e anti-umani e, molto probabilmente, anche del tutto inefficaci; gli unici beoti che sembrano non accorgersene sono i nostri pennivendoli e la nostra classe politica, dagli analfoliberali agli analfosovranisti, che sacrificano l’interesse nazionale inviando la Cavour nel Pacifico col solo fine di dimostrare al padrone a Washington di essere sempre pronti all’obbedienza. Come sottolinea lo stesso JAPCC, il think tank della NATO dedicato alle forze aeree e spaziali, infatti, il fatto che la Cavour abbia una stazza che è un terzo della cinese Shandong e sia in grado di ospitare al massimo meno di un quarto dei suoi caccia, la rende un semplice gregario al seguito dei capofila statunitensi, dai quali dipenderebbe del tutto e per tutto. L’unico ruolo che vecchi e nuovi fascistelli da strapazzo hanno sempre ritagliato per l’Italia: un umile gregario della potenza imperialista più feroce, sempre e comunque dal lato sbagliato della storia. Sarebbe arrivata l’ora di mandarli tutti a casina a zappare l’orticello; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Ignazio La Russa

“Spezzeremo le reni alla Russia” – Perché l’iper-imperialismo ha scelto la guerra mondiale – ft. Vijay Prashad

Ecco a voi, finalmente, l’estratto della nostra importantissima intervista a uno dei più importanti pensatori antimperialisti contemporanei: Vijay Prashad. Il sogno statunitense – ci ha detto Vijay – sarebbe di fare di Putin quello che fecero con Saddam Hussein: ridurre poi la Russia a stato colonizzato come hanno fatto con l’Europa occidentale e appropriarsi delle loro immense risorse energetiche come durante gli anni di Eltsin. Anche la Cina, agli occhi dell’iper-imperialismo dovrebbe tornare quella degli anni ’90: una grande fabbrica a basso costo per l’economia americana, sottosviluppata tecnologicamente e innocua dal punto di vista politico. Nel frattempo, gli stati vassalli, come quelli europei o il Giappone, sono sempre più vassalli, con sempre meno rapporti commerciali e politici con le superpotenze nemiche e privati anche di quel poco di autonomia economica che gli rimane. Ora, se per quanto riguarda gli stati vassalli il piano sembra funzionare alla perfezione in quanto, in questi anni, hanno creato classi dirigenti perfettamente conniventi, per quanto potrebbe risultare sorprendente per i Cerasa e i Rampini di tutto il mondo, rispetto a questo piano le classi dirigenti russa e cinese potrebbero avere qualcosa da ridire.

Guerra nucleare con gli USA in quattro giorni: le procedure delle forze strategiche russe – ft. David Colantoni

Sul magazine russo Affari Militari è uscito oggi un articolo di approfondimento sul tempo di transizione da una fase di percepita minaccia esistenziale dello Stato a quello dell’uso finale delle armi atomiche in una guerra termonucleare tra la Russia e gli USA . L’articolo, a firma Pavel Shishkin, riporta le dichiarazioni di Konstantin Sivkov, dottore in scienze militari di Mosca. Sivkov ha descritto i cambiamenti nella dottrina nucleare della Russia decretati da Putin alcuni giorni fa come risposta alla spirale di escalation che viene lanciata dall’Occidente. E ha descritto nel dettaglio tutte le fasi che precedono l’utilizzo delle armi nucleari su larga scala. Ne abbiamo parlato con David Colantoni.

10, 100, 1000 Sri Lanka – La lunga marcia verso il potere del JVP – ft. Sudath Adikari

C’era una volta il razzismo anti-cinese, diffuso sin da inizio Novecento tra Stati Uniti e impero del Regno Unito. Questa xenofobia anti-asiatica aveva il duplice scopo di introdurre e sfruttare lavoratori asiatici in Australia e California per farli lavorare in semi-schiavitù nelle miniere d’oro, quanto di giustificare lo stato di semi-occupazione in cui verteva quel che restava del Celeste Impero. Oggi che la Cina è tornata finalmente grande protagonista dei fatti del mondo, quel vecchio razzismo mai sopito diventa utile arma di distrazione di massa. Fu così per il porto di Hambantota, nel Sud dello Sri Lanka: è stato indicato più volte dagli occidentali come trappola del debito, salvo poi scoprire che i primi a progettarlo furono Regno Unito e Canada e che i principali creditori dello Stato erano investitori non istituzionali occidentali. Per capire le condizioni che il nuovo Sri Lanka con la vittoria elettorale socialista sta preparando, segui il servizio con intervista che il nostro Gabriele Germani ha preparato al riguardo.

Le armi USA sono piene di componenti cinesi, più di quelle russe

video a cura di Davide Martinotti

Come sappiamo, gli Stati Uniti accusano la Cina di sostenere la Russia nel conflitto con l’Ucraina fornendo componenti dual use (cioè – principalmente – componenti di microelettronica vendute per uso civile, ma che possono essere utilizzate anche dall’industria bellica) e l’accusa è stata formalizzata nel documento finale dell’ultimo vertice NATO. La cosa interessante in tutto questo è che, se secondo la NATO ci sono componenti di microelettronica cinesi nelle armi russe, secondo osservatori statunitensi specializzati invece sono le armi statunitensi ad essere piene di componenti di microelettronica cinesi. A dircelo è GOVINI, il centro analisi per la difesa e la sicurezza che nel 2019 ha ricevuto dal Pentagono un contratto quinquennale da 400 milioni di dollari proprio per monitorare la presenza di componenti cinesi nei sistemi di arma statunitensi. Ne parliamo in questo video!

Ucraina, Libano, Cina: l’incredibile fenomeno editoriale che racconta la sconfitta dell’Occidente

“Perché l’Occidente non accetta la propria sconfitta?”; eh, già: perché? A porsi la domanda nella prefazione della sua ultima fatica, La sconfitta dell’Occidente, è Emmanuel Todd, uno degli intellettuali francesi più originali e controversi degli ultimi decenni; celebre per aver previsto l’implosione dell’universo sovietico nel suo Il crollo finale del 1976 – come, d’altronde, di essersi completamente illuso sul crollo dell’impero USA e la rinascita europea nel suo Dopo l’Impero del 2003 – Todd ha l’innegabile pregio di porsi le domande fondamentali e di avere il coraggio di proporre delle risposte che, anche quando non sono del tutto condivisibili, danno un contributo fondamentale al dibattito. E lo fa da vero ottoliner: “La pace alle condizioni imposte dai russi” scrive infatti Todd “significherebbe una caduta di prestigio per gli Stati Uniti, il che significherebbe la fine dell’era americana nel mondo, il declino del dollaro, e quindi della capacità statunitense di vivere del lavoro complessivo del pianeta”, un lusso che gli USA, oggettivamente, non si possono concedere; secondo Todd, infatti, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008 “Gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo” e da allora “l’obiettivo principale è stato quello di rafforzare il controllo sugli alleati: dall’Europa occidentale al Giappone, passando per la Corea del Sud e Taiwan”. Dopo anni di tentato disaccoppiamento dall’economia cinese, infatti, gli USA importano ormai più dagli alleati vassalli che non dalla Cina e, ancor più che per i beni materiali, per i capitali che sostengono la finanza USA via paradisi fiscali, tutti rigorosamente sotto giurisdizione statunitense o, al limite, britannica. Ecco, così, che “La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende dal controllo dei propri vassalli”: “dal punto di vista statunitense quindi, la guerra deve continuare non per salvare la democrazia ucraina, ma per mantenere il controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente”. Ma prima di addentrarci nei meandri di quest’opera, vi ricordo di mettere un like a questo video e aiutarci, così, a combattere (anche oggi) la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi, che sono un altro degli strumenti che l’imperialismo statunitense usa per controllare i propri vassalli e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali, su tutte le piattaforme o, ancora meglio, di prendere la buona abitudine di seguire il nostro sito, unica àncora di salvataggio mano a mano che le piattaforme ci oscurano (o, ancora più subdolamente, ci demonetizzano la qualsiasi): a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un qualsiasi governo europeo a sacrificare la sua economia per fare contenta Washington, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di far conoscere a sempre più persone i veri motivi per i quali le élite europee hanno deciso di suicidarsi e che non sentirete mai citare nei media mainstream.

Emmanuel Todd

“Per molti anni la Russia ci ha avvisati che non avrebbe tollerato l’ingresso dell’Ucraina nella NATO” scrive Todd, parafrasando il pensiero di Mearsheimer; “L’Ucraina però, il cui esercito era stato preso in carico dai consiglieri militari dell’Alleanza, stava per diventare un membro de facto. Perciò i russi hanno agito coerentemente a quanto annunciato: sono entrati in guerra. L’unica cosa che dovrebbe sorprenderci, sinceramente, è la nostra sorpresa”. Nei confronti di Mearsheimer e, più in generale, dei realisti, Todd avanza però una critica che sottoscriviamo in pieno: “Al pari dei nostri esegeti televisivi, che nell’atteggiamento di Putin non hanno saputo cogliere null’altro che una follia omicida” commenta infatti Todd, “nelle azioni della NATO Mearsheimer rileva solamente irrazionalità e irresponsabilità”; Mearsheimer, insiste Todd, “tratta i neoconservatori, che sono arrivati ad assumere il controllo dell’establishment geopolitico americano, come noi trattiamo Putin: li psichiatrizza”. Quello che a Todd non convince, in particolare, è che Mearsheimer si immagina “un mondo fatto di Stati-nazione” sovrani, dove con sovranità si intende “la capacità dello Stato di definire le proprie politiche interne ed estere in maniera indipendente, senza alcuna ingerenza o influenza esterna”, ma Todd sottolinea come questa sovranità sia in realtà “un bene raro a disposizione solamente di pochi Stati, primi tra tutti gli Stati Uniti, la Cina e la stessa Russia. D’altra parte, gli scritti e i discorsi più ufficiali menzionano con toni sprezzanti il vassallaggio dei paesi dell’Unione europea nei confronti di Washington o descrivono l’Ucraina come un protettorato americano”. Todd, anzi, fa anche un passo ulteriore che, anche se non ci sentiamo di sottoscrivere del tutto, apre una riflessione importante: “La verità è semplice” sostiene: “in Occidente lo Stato-nazione ha cessato di esistere”; secondo Todd, infatti, “Il concetto di Stato-nazione presuppone che il territorio in questione goda di un minimo di autonomia economica. Tale autonomia non esclude, ovviamente, gli scambi commerciali, tuttavia questi dovrebbero essere, perlomeno nel medio o nel lungo termine, più o meno equilibrati. Un deficit sistematico rende obsoleta la nozione di Stato-nazione, giacché l’entità territoriale in questione è in grado di sopravvivere solamente attraverso la riscossione di un tributo o di una prebenda proveniente dall’estero, senza alcuna contropartita. E quindi, da questo punto di vista, Paesi come la Francia, il Regno Unito e gli stessi Stati Uniti, i cui commerci esteri non sono mai in equilibrio ma sempre in deficit, non sono più del tutto Stati-nazione”. “Il tenore di vita degli statunitensi” ad esempio, insiste Todd, “dipende da un numero di importazioni che le esportazioni non riescono più a coprire” e, aggiungiamo noi, il tenore di vita degli statunitensi non è manco il problema principale: ancora più importante è la concentrazione di capitale nelle mani delle sue oligarchie, che non ha precedenti nella storia umana e che dipende integralmente dal dominio imperiale degli USA e del dollaro; e, proprio per questo, il semplice ripiegamento che sarebbe non solo auspicabile, ma anche possibile nel caso fossimo di fronte a un normale Stato-nazionale (come d’altronde già avvenuto non solo in Vietnam, ma anche in Iraq e in Afghanistan), sarebbe oggi, nel contesto della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, piuttosto inverosimile.
E’ alla luce di questo che, invece del “realismo strategico degli Stati-nazione”, per capire gli sviluppi futuri dobbiamo fare nostra piuttosto “la mentalità post-imperiale, emanazione di un impero in disfacimento”: una delle caratteristiche fondamentali di questo Stato post-imperiale, sottolinea Todd, è che “rende ormai impossibile continuare a utilizzare il termine democrazia”; è invece ancora del tutto legittimo continuare a utilizzare il termine liberale, “giacché nell’Ovest la protezione delle minoranze è divenuta un’ossessione”. Ma se, solitamente, con minoranze ci riferiamo a “coloro che sono oppressi, dai neri agli omosessuali”, “la minoranza meglio protetta nel mondo occidentale è senza dubbio quella dei ricchi, a prescindere che essi rappresentino l’1% della popolazione, lo 0,1, o lo 0,01”, motivo per cui lo Stato post-imperiale, suggerisce Todd, andrebbe definito oligarchia liberale: “Le leggi però non sono mutate. Formalmente sono ancora democrazie liberali, con tanto di suffragio universale, di parlamenti e talvolta presidenti eletti, nonché di una stampa libera. A sparire piuttosto sono stati quelli che potremmo definire i costumi democratici. Le classi più istruite si ritengono intrinsecamente superiori e le élite si rifiutano di rappresentare il popolo, le cui rivendicazioni vengono bollate come populismo”. Rimanendo l’istituto delle libere elezioni ancora in vigore, ma dovendo categoricamente tenere il popolo “fuori dalla gestione economica e dalla distribuzione della ricchezza”, il popolo quindi, molto banalmente, “deve essere ingannato”. Sistematicamente. Anzi, sottolinea Todd: ingannare il popolo è “diventato il lavoro a cui le élite riservano l’assoluta priorità”. Dall’altra parte della barricata, invece, si trovano paesi – come la Russia – che non sono liberali e non proteggono nessuna minoranza, “né gli omosessuali, né gli oligarchi”, però sono maggiormente rappresentativi della maggioranza e quindi, da un certo punto di vista, sono paradossalmente più democratici e, per questo, possono essere definite democrazie autoritarie. Lo scontro tra modelli contrapposti quindi, secondo Todd, effettivamente c’è, ma non c’entra niente lo scontro tra democrazie e regimi autoritari: è, appunto, uno scontro tra oligarchie liberali e democrazie autoritarie.
Ma se sono chiari (e perfettamente razionali) i motivi che hanno spinto lo Stato post-imperiale a ingaggiare una guerra totale tra oligarchie liberali e democrazie autoritarie, quello che rimane da capire è come abbiano fatto a convincere anche noi: “L’Europa” infatti, sottolinea Todd, “si trova impegnata in una guerra profondamente contraria ai suoi interessi e autodistruttiva, e questo nonostante i suo promotori ci abbiano venduto per almeno 30 anni l’idea di un’unione sempre più profonda che, grazie all’euro, sarebbe diventata una potenza autonoma, nonché un contrappeso ai giganti rappresentati da Cina e Stati Uniti”; e, invece, “l’Unione europea è scomparsa appresso alla NATO, oggi più che mai asservita agli Stati Uniti”. Il punto è che “L’Europa, contemporaneamente oligarchica e anomica, è stata raggiunta e invasa dai meccanismi sotterranei della globalizzazione finanziaria, la quale non è una forza cieca e impersonale, ma un fenomeno diretto e controllato dagli Stati Uniti”: in un sistema oligarchico, spiega Todd, la ricchezza si accumula ai vertici della struttura sociale e questo patrimonio deve andare da qualche parte. Fino a qualche anno fa, fondamentalmente, andava nel paradiso fiscale e bancario per eccellenza delle élite europee: la Svizzera, prima nelle valute nazionali e poi, quando è arrivato l’euro, in euro; “Certo” sottolinea Todd: “quando la Svizzera era un paradiso fiscale per i ricchi europei rappresentava un problema di non poco conto per i governi di sinistra di tutta Europa. Tuttavia” paradossalmente “la confederazione elvetica allo stesso tempo assicurava l’indipendenza delle nostre oligarchie dagli Stati Uniti”. Dopodiché gli USA hanno convinto la Svizzera a rivedere il segreto bancario che, a prima vista, sembrava una cosa più che buona se non fosse che i capitali, invece che tornare in superficie e andare a contribuire allo sviluppo economico dei Paesi di provenienza, hanno preso la via di altri paradisi fiscali ancora più opachi e irraggiungibili e tutti controllati, direttamente o indirettamente, dagli USA o dalla Gran Bretagna: dalle Isole Vergini alle isole Marshall, passando per le Bahamas e Panama; e prima di prendere la strada di questi lidi esotici, sono stati tutti trasformati in dollari. Questo processo di trasferimento – più o meno forzato – dei fondi neri delle oligarchie europee dal paradiso svizzero a quelli esotici sotto controllo angloamericano, in particolare, ha subito un’accelerazione spaventosa a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, causata dagli USA e pagata dai cittadini europei; risultato: il dollaro s’è rivalutato sull’euro del 25%. Ma, soprattutto, “Se, come suggeriscono alcuni studi, il 60% del denaro dei ricchi europei dà i suoi frutti sotto l’occhio benevolo di autorità superiori situate negli Stati Uniti, si può ritenere che le classi elevate europee abbiano perduto la propria autonomia mentale e strategica”. Ma non solo: se fino a quando stavano nei conti cifrati in svizzera, infatti, questi patrimoni se ne stavano buoni buoni col solo scopo di sfuggire alla tassazione, da quando si sono trasferiti nei paradisi fiscali governati dagli USA sono stati rimessi in circolazione e sono andati a gonfiare ulteriormente la bolla speculativa; quindi non solo hanno rafforzato il dollaro, ma hanno rafforzato in maniera esorbitante il prezzo delle azioni e dei prodotti finanziari scambiati sui mercati finanziari USA. Insomma: hanno contribuito, in maniera fondamentale, a far crescere il gigantesco schema Ponzi che sta alla base dello strapotere finanziario globale degli USA.
E, forse, anche ben oltre le intenzioni iniziali delle oligarchie europee; se infatti, inizialmente, sono state attratte dalla possibilità di mettere a frutto i loro capitali, c’è un prezzo da pagare che forse non avevano tenuto in dovuta considerazione: tutti questi passaggi di capitali infatti, sottolinea Todd, avvengono attraverso mezzi telematici e tutti gli spostamenti telematici sono monitorati dalla National Security Agency. “Quando si pensa al potere di controllo statunitense” scrive Todd “la prima cosa che viene in mente è quella di un gendarme del mondo, che interviene in piccoli paesi quali l’Iraq, o gli Stati dell’America Centrale. Non si considera invece l’elemento forse più importante: la sorveglianza compiuta dall’NSA sulle oligarchie dei paesi alleati/vassalli”: come Epstein organizzava baccanali illegali per i VIP in combutta con i servizi per poi ricattarli, sostanzialmente lo stesso avrebbe fatto l’NSA con i trasferimenti di capitali illegali dei nostri ultra-ricchi e “gli obiettivi prioritari della NSA” sottolinea Todd “non sono i nemici degli Stati Uniti, ma i loro alleati: europei, giapponesi, coreani e latinoamericani”. Insomma: sostituendo i paradisi fiscali sotto giurisdizione angloamericana alla Svizzera, gli USA non hanno solo alimentato a dismisura la dittatura del dollaro e il predominio di Wall Street, ma hanno anche teso una trappola agli amici più stretti trasformandoli tutti in dei piccoli Marcos junior, il presidente delle Filippine che gli USA tengono per le palle attraverso il controllo dell’accesso ai fondi neri accumulati dal padre dittatore e nascosti nei paradisi fiscali. Per fare questo lavoro strategicamente fondamentale, ricorda Todd, l’NSA impiega 30 mila tecnici direttamente e altri 60 mila attraverso gli appaltatori privati: “Se i cittadini europei possono ignorare dove si trovino i soldi dei propri leader” commenta sarcastico Todd, “l’NSA lo sa, e quei dirigenti sanno che lei lo sa”; “Vladimir Putin quindi” continua Todd “può ben ironizzare quando suggerisce che se gli Stati Uniti chiedessero ai leader europei di impiccarsi, questi lo farebbero, ma con la preghiera di poter utilizzare delle corde prodotte da loro. Richiesta che poi tra l’altro verrebbe anche respinta, ovviamente per proteggere gli interessi dell’industria tessile americana”. Sotto ricatto, le nostre oligarchie quindi, quando gli USA hanno architettato la guerra per procura in Ucraina, non hanno avuto il coraggio di obiettare, magari anche perché – completamente dedite al parassitismo più decadente e completamente scollegate dalla realtà come sono – manco avevano gli strumenti per capire in cosa si stavano imbarcando: “Una delle grandi sorprese della guerra” sottolinea Todd “è stata la solidità della Russia” nonostante fosse “facile da prevedere”; “Perché mai” si chiede Todd “gli occidentali hanno sottovalutato a tal punto il proprio avversario, dal momento che non c’era nulla di segreto riguardo alle sue risorse?”. Nonostante un esercito di oltre 100 mila persone coinvolte nella “intelligence community occidentale, come si è potuto credere che l’esclusione dal sistema SWIFT e l’imposizione di sanzioni avrebbero ridotto in miseria un Paese di 17 milioni di chilometri quadrati, che possiede tutte le risorse naturali possibili e che dal 2014 si è preparato certosinamente ad affrontare simili misure ritorsive?”.
La Russia che si è trovata ad affrontare la guerra per procura a partire dal 2022, infatti, rispetto alla famosa pompa di benzina con la bomba atomica del post Eltsin, a ben vedere qualche piccolo progresso l’aveva fatto: per fare degli esempi terra terra, “Tra il 2000 e il 2017, ovvero, nella fase centrale della stabilizzazione intrapresa da Putin” ricorda Todd, “il tasso di decessi legati all’alcol è passato dal 25,6 all’8,4%, quello di suicidi dal 39,1 al 13,8, e quello di omicidi dal 28,2 al 6,2 %, per poi ridursi ancora al 4,7 l’anno successivo”; la mortalità infantile, nel frattempo, invece è passata dai 19 casi ogni 1000 bambini entro i primi 5 anni di vita del 2000, ai 4,8 casi del 2023, contro i 6,3 degli Stati Uniti. Nel frattempo, la Federazione Russa non solo raggiungeva l’autosufficienza alimentare, ma si affermava come uno dei maggiori esportatori di prodotti agricoli al mondo, con un giro d’affari superiore ai 30 miliardi di dollari, “una cifra superiore alle entrate derivanti dalle esportazioni di gas naturale, che hanno raggiunto quota 26 miliardi”: se nel 2012 la produzione di grano ammontava a 37 milioni di tonnellate, nel 2022 aveva raggiunto quota 80 milioni; per fare un confronto, “Nel 1980, quando Reagan salì al potere, la produzione statunitense di grano era pari a 65 milioni di tonnellate. Nel 2022, era scesa a 47”. La Russia si è affermata anche come il “primo esportatore mondiale di centrali nucleari, superando la Francia”, per non parlare del fatto che la Russia era l’unica potenza al mondo che, per quanto riguarda internet, “pur essendo rimasta largamente aperta alle soluzioni occidentali” aveva “equivalenti locali che facevano la concorrenza al monopolio delle GAFAM” e, cioè, Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Paradossalmente, a dare un’accelerata erano state proprio le sanzioni introdotte a partire dell’annessione della Crimea nel 2014 che, come ormai accade sempre più spesso, “l’hanno costretta a trovare dei sostituti per le sue importazioni e a riorganizzarsi internamente”; e idem con quelle on steroids introdotte nel 2022 che, come scriveva l’economista James Galbraith, si sono “rivelate manifestamente un dono”: “Senza le sanzioni” spiegava in un articolo dell’aprile 2023 “è difficile immaginare come si sarebbero potute presentare le opportunità oggi a disposizione delle aziende e degli imprenditori russi. Da un punto di vista politico, amministrativo, legale e anche ideologico, se si considera la profonda presa che l’idea di economia di mercato aveva sui decisori politici, l’influenza degli oligarchi e la natura tutto sommato limitata dell’operazione militare speciale, ancora all’inizio del 2022 il governo russo avrebbe avuto la massima difficoltà a introdurre misure paragonabili, quali dazi doganali, quote ed espulsioni di imprese”.
Insomma: come abbiamo sottolineato mille volte in passato, le sanzioni hanno permesso a Putin di accelerare quel processo di concentrazione e di ammodernamento dell’apparato produttivo che, fino ad allora, era stato ostacolato dalle oligarchie e dalle élite politiche cresciute a pane e liberalismo; il punto, sottolinea Todd, è che Russia e Bielorussia assieme rappresentano appena il 3,3 per cento del PIL nominale globale e, quindi, in molti si sono illusi che si trattasse di nani economici. In realtà però, al contrario di tanti concorrenti occidentali ultra-finanziarizzati (a partire dagli USA), “Il PIL della Russia rappresenta la produzione di beni tangibili piuttosto che di attività non meglio precisate”. Il PIL USA invece, sostiene Todd, è una mezza truffa: nel 2022 ammontava a circa 76 mila dollari pro capite; “Il 20%, poco più di 15 mila dollari” calcola Todd “corrisponde a settori dell’economia che definirei fisici: industria, edilizia, trasporti, miniere, agricoltura”, ma i restanti 60 e passa mila, continua Todd, sono tutti servizi e, secondo alcune stime, sarebbero realmente produttivi per non oltre il 40%. Il resto, appunto, sarebbe fuffa: come spiega sempre Michael Hudson, vanno a contribuire al PIL, per fare un esempio, anche i debiti che contrai per studiare, ma il valore d’uso della tua laurea è lo stesso di uno studente italiano che magari, in tutto, invece che 3-400 mila dollari ne ha spesi 10 mila scarsi; nominalmente, il tuo PIL è 390 mila dollari più alto del mio, ma quando poi c’è da curare un appendicite o da costruire un trattore o da combattere in una trincea, quei 390 mila dollari di PIL in più, tutto sommato, te li metti abbastanza al culo. Una misura un po’ più tangibile e meno astratta della capacità di produrre ricchezza materiale concreta, spiega Todd, può essere la stima di quanti ingegneri l’intero sistema è in grado di sfornare l’anno: nel 2020, ricorda Todd, il 23,4% degli studenti che raggiungevano un’istruzione superiore in Russia erano ingegneri; negli USA il 7,2 che, tradotto, significa 1,35 milioni di ingegneri negli USA contro oltre 2 milioni in Russia, nonostante abbia meno della metà della popolazione. I lavoratori specializzati gli USA li importano direttamente, così che i costi per la loro formazione sono a carico di altri Stati; il 30% dei fisici sono stranieri, come addirittura il 39% dei programmatori software e, in larghissima maggioranza, asiatici: saranno tutti disposti a contribuire allo sforzo bellico contro i loro Paesi di origine? E saranno in grado gli USA, invece, di impedire che magari tornino a casa con qualche informazione sensibile? I nativi, invece, si dedicano fondamentalmente al diritto e alla finanza; insomma: invece che per contribuire alla creazione di ricchezza, studiano per acquisire “una superiore capacità di predazione della ricchezza prodotta dal sistema”. Tutte le statistiche indicano che le persone più istruite hanno redditi maggiori, ma “I redditi più alti delle persone con un livello di istruzione maggiore, in realtà, riflettono più che altro il fatto che gli avvocati, i banchieri e molte altre figure che trovano posto nel terziario sono, se in branco, eccellenti predatori. E’ l’ultima perversione dello stato post-imperiale: la moltiplicazione dei laureati crea una moltitudine di parassiti”.
Una vasta manodopera ultra-qualificata, insieme a una base industriale sicuramente non all’ultimissima moda, ma (con qualche ritocchino qua e là) ancora ampiamente efficiente e produttiva, è una delle eredità che Russia e Bielorussia si sono ritrovate del mondo sovietico che, dopo decenni di propaganda, siamo abituati a considerare una roba da età della pietra, ma che, in realtà, prima dell’invasione coloniale e della guerra civile sotterranea imposta dall’invasore USA subito dopo il crollo, aveva ottenuto anche risultati di tutto rispetto: ad esempio superare la quota fatidica di un quarto della popolazione complessiva che riceve, appunto, un’istruzione superiore; se da un lato, quindi, era piuttosto facile prevedere la capacità di tenuta dell’economia russa di fronte alle sanzioni occidentali, dall’altro, allo stesso tempo, la minaccia rappresentata dalla Russia in termini di sicurezza è stata decisamente esagerata, a prescindere dall’idea che uno si sia fatto sulle sue reali intenzioni. Il punto, sostiene Todd, è proprio strutturale: come ripete in ogni occasione lo stesso Putin, la Russia ha un enorme problema demografico. Sono pochini e in calo e “Con una popolazione in calo e una superficie di 17 milioni di chilometri quadrati, più che ambire a conquistare nuovi territori, in realtà, si domanda come potrà continuare a occupare quelli che già possiede”. Il problema demografico, poi, ha influenzato alla radice anche la dottrina militare che in Russia, appunto, “si fonda sulla constatazione che gli uomini a disposizione sono diventati rari”; ed è proprio per questo motivo, sostiene Todd, che “la Russia è entrata in Ucraina con appena 120 mila soldati”: altro che blitzkrieg fallito fantasticato dai NAFO alla ricerca di una sconfitta immaginaria di Putin nel regno della loro fantasia suprematista! E ancora oggi, continua Todd, “La priorità dei russi non è quella di conquistare il maggior numero possibile di territori, ma di perdere il minor numero possibile di soldati”, come hanno ampiamente dimostrato durante la controffensiva Ucraina dell’autunno 2022 quando “hanno preferito abbandonare a est la parte dell’oblast di Charkiv sotto il loro controllo, e a sud ritirarsi senza combattere sulla riva sinistra del Dnepr”. “Proviamo a sottrarci per un attimo all’emozione che, giustamente” continua Todd “ci suscita la violenza della guerra. Il problema non è la Russia: è un paese troppo vasto per una popolazione in calo, e non sarebbe mai in grado di assumere il controllo del pianeta né tantomeno ambisce a farlo. E’ una potenza del tutto normale, la cui evoluzione non ha assolutamente niente di misterioso. Non è in atto alcuna crisi russa che sta destabilizzando l’equilibrio globale. A mettere a rischio l’equilibrio del pianeta è invece una crisi tutta occidentale” conclude Todd: “la crisi terminale degli Stati Uniti”.
Purtroppo, quei pezzi di élite che sono sotto ricatto USA perché c’hanno i fondi neri nei paradisi fiscali (con magari tutti i movimenti belli tracciati nelle mani dell’NSA che può far saltare qualsiasi testa voglia quando vuole), sono anche gli editori dei giornali e delle Tv di merda che siete costretti a guardare normalmente: non saranno loro a darci gli strumenti per capirci qualcosa e, magari, anche per reagire; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte. Quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Aldo Cazzullo

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Come BlackRock ha convinto la Meloni e i finto-sovranisti di tutta Europa a regalargli i nostri soldi

E meno male che in Europa si aggirava lo spettro del sovranismo… In Germania si prepara la grande svolta dopo la lunga dittatura moderata della Merkel e il fallimento dell’altrettanto moderato Scholz: si chiama Friedrich Merz, è un fiero reazionario ed è il candidato cancelliere della CDU; peccato, però, che fino a ieri di mestiere facesse il presidente del consiglio di sorveglianza di BlackRock in Germania. Anche in Europa, nonostante la riconferma della Von Der Leyen, spira un vento nuovo; invece dei soliti finto-progressisti che impestavano la vecchia commissione, a gestire il delicato dossier della costruzione del mercato unico dei capitali, che è il primo pilastro del tanto osannato piano Draghi, è stata chiamata un’altra vera reazionaria tutta d’un pezzo: Maria Luis austerity Albuquerque, già nota per le politiche lacrime e sangue imposte al Portogallo durante la crisi dei debiti sovrani. Peccato, però, che anche lei, fino a ieri, per campare fosse a libro paga della grande finanza USA: era nel board nientepopodimeno che di Morgan Stanley, una delle più antiche e importanti banche d’affari USA. Ma la vera nuova reginetta dell’imperialismo finanziario USA è lei: Giorgia la madrecristiana, protettrice dei finto-sovranisti e paladina degli svendipatria; se prima di assumere l’incarico di governo aveva mandato i suoi emissari in ginocchio a Washington per garantire che Salvini, con le sue cazzate filo-putiniane, faceva un po’ di cabaret e l’ultra-atlantismo della seconda repubblica italiana fondata sulla distruzione della Carta Costituzionale non era in questione, prima di imprimere la grande svolta della politica economica interamente al servizio dei monopoli finanziari USA, aveva trasformato il G7 di quest’estate in Puglia in una sorta di investitura imperiale per il numero uno di BlackRock Larry Fink. Da allora, l’amministrazione coloniale italiana non ha mosso foglia che non fosse nel totale e incondizionato interesse della più grande concentrazione capitalistica della storia dell’umanità: c’è un problema col sistema pensionistico? E che problema c’è? Diamo i soldi a BlackRock e ci penseranno loro! C’è un problema col sistema sanitario? Assicurazioncina privata gestita da BlackRock e torni sano come un pesce! C’è un problema con le catastrofi ambientali? Altra assciurazioncina BlackRock e quando ti ritroverai allagato sarà un festa! C’è bisogno di nuovi capitali per gonfiare un po’ la micro-bolla speculativa della borsa italiana? Ci pensa BlackRock! Ci sono da privatizzare le Poste, i porti, le ferrovie? E che ce vo’: ci pensa BlackRock! A partire dalla guerra per procura contro la Russia in Ucraina, la trasformazione del capitalismo del vecchio continente, in corso da oltre 15 anni, ha subito un’accelerazione senza precedenti che ha finito di escludere alla radice ogni possibilità di una qualsivoglia forma di indipendenza strategica; e la destra finto-sovranista e svendipatria si è dimostrata al totale servizio di questa nuova ondata di politica neocoloniale, paradossalmente ancora più di quanto auspicato dalle vecchie classi dirigenti finto-progressiste. Ma prima di ricostruire nel dettaglio questo gigantesco processo, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci (anche oggi) a combattere la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi al servizio della propaganda dei monopoli d’oltreoceano e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme (visto che, di tanto in tanto, ce ne chiudono uno o ce ne demonetizzano un altro) e anche di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un post-fascista a trovare un altro invasore da servire come quando c’era lui, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di far conoscere a sempre più persone la gigantesca rapina che stiamo subendo e che i media mainstream fanno di tutto per nascondere.
La storia non si ripete: con queste parole mercoledì scorso Angela Merkel ha salutato la nomination del candidato della CDU alle elezioni che si terranno il prossimo anno: Il candidato Cancelliere che vuole seppellire l’eredità della Merkel, come titolava Bloomberg venerdì scorso. E meno male, direte: che inguaribili ottimisti! In questa Europa che ha deciso di affrontare la lunga fase del declino occidentale immolandosi sull’altare degli interessi di Washington, se la storia non si ripete è solo perché non fa che peggiorare; ed ecco così che se, giustamente, avete imparato ad odiare il mercantilismo tedesco che per 30 anni ha letteralmente saccheggiato la periferia del continente e ha anche impedito di costruire un vero mercato unico equilibrato, prospero e in grado di affrontare le sfide del futuro, potete giurare che sarete messi nelle condizioni di rimpiangerlo. Un po’ come quando, guardando la classe politica italiana della seconda repubblica, siamo portati a rimpiangere il peggio del peggio della prima, Andreotti incluso. Il mercantilismo tedesco degli ultimi 30 anni, infatti, e la gigantesca vaccata dell’austerità espansiva hanno fatto sicuramente più danni della grandine, ma – per quanto possa sembrare paradossale – hanno anche avuto alcuni pregi: il primo tra tutti è che la Germania si è affermata sempre più come l’unica vera potenza industriale dell’Occidente collettivo e che, unica in tutto il mondo cosiddetto libero e democratico, ha tenuto almeno in parte il suo capitalismo al riparo dall’invasione dei monopoli finanziari statunitensi, a partire, in particolare, da BlackRock.

Friedrich Merz

Ecco: il nuovo candidato della CDU punta proprio a buttare nel cesso questa eredità. Il candidato in questione, infatti, si chiama Friedrich Merz: “Membro della vecchia élite della Germania Occidentale” scrive Bloomberg, Merz “ha stretti legami col settore finanziario, appartiene all’ala della CDU più conservatrice e orientata agli affari, e rappresenta una rottura definitiva con l’era della Merkel” ; d’altronde, era stata proprio la Merkel a farlo fuori dal gotha del partito, nel 2009, anche se Merz – a dire il vero – a un certo punto se n’era fatto anche una ragione e, gira che ti rigira, indovinate per chi era finito a lavorare? Esatto, pare una barzelletta: BlackRock, di persona personalmente; addirittura presidente del consiglio di sorveglianza di BlackRock Asset Management Deutschland. E il suo programma sembra scritto direttamente a Washington; primo punto: rilancio in grande stile del nucleare, che le vaccate spacciate a piene mani da propagandisti fai da te del suprematismo occidentale sono riusciti a fare passare come la cosa più neutra e naturale del mondo. Peccato abbia grosse implicazioni non solo tecniche e ambientali, ma anche geopolitiche: tornare a investire massicciamente nel nucleare, infatti, è la precondizione per garantire che a nessuno venga mai più in mente, nel prossimo futuro, di tornare a dialogare con la Russia per comprargli il gas; certo, essersi fatti esplodere sotto gli occhi il Nord Stream aiuta, ma tutto sommato il Nord Stream si potrebbe sempre riparare o, al limite, tornare a usare almeno la parte che non è stata completamente distrutta. Secondo punto, poi, un bell’aumento della spesa militare da 52 a 80 miliardi l’anno; ma attenzione però, perché, ovviamente, “non ha detto da dove verrebbe il denaro, poiché ha escluso l’aumento delle tasse e prevede di attenersi al rigido limite del debito del paese”. La soluzione? La sapete già: privatizzare sanità e pensioni in modo che la gente sia costretta a mettere i soldi in un fondo gestito da BlackRock e soci che, con quei soldi, ci finanziano l’industria militare; facile, no? Non fa una piega! Peccato, allora, che “Nonostante il vantaggio di 16 punti della CDU/CSU nei sondaggi, la vittoria di Merz sia tutt’altro che garantita”; come si fa a vincere? Semplice: basta mena’ i migranti più forte dell’AfD, tanto per la nuova Germania economicamente devastata, dove rimane sostanzialmente solo l’industria bellica (anche se notevolmente potenziata), i migranti non servono. Non sono abbastanza qualificati; per una vera economia di guerra, un po’ più di omogeneità etnica fa sempre comodo: hai visto mai st’immigrati mussulmani, invece di dirti grazie, si mettono a manifestare pure contro il tuo sostegno allo sterminio dei bambini palestinesi e, piano piano, anche arabi in generale, st’irriconoscenti…
Che mentre la propaganda analfoliberale ci sfrucugliava le gonadi con le vaccate sull’ascesa della minaccia sovranista e populista, in realtà, in Europa si stesse facendo largo una classe dirigente per quanto possibile ancora più azzerbinata a Washington era diventato chiaro già la settimana prima, quando la Von Der Laiden aveva annunciato la composizione della nuova commissione: come ricordano Valeria Fappani e Blanca Marabini San Martin su The Diplomat, ad esempio, la nuova vicepresidente nonché rappresentante per la politica estera e la sicurezza, l’ex primo ministro Kaja Kallas, nel 2020 era arrivata addirittura a sostenere che quello che sta avvenendo in Xinjian è comparabile a una sorta di “olocausto” ; non quello che sta succedendo a Gaza, con i coloni che fanno le gite in barca per gustarsi gli attacchi aerei delle forze armate israeliane contro i bambini palestinesi e discutere amabilmente su quale pezzo di costa sarebbe più adatto per costruire qualche nuova villetta, ma quello che accade in Xinjiang dove – come riportava un celebre articolo di Repubblica di un paio di anni fa – anche l’ultimo cinese è stato “costretto a uscire dalla povertà”. La Kallas, comunque, non è l’unica virtuosa del doppio standard anticinese sullo Xinjiang: anche la bimba di Macron Stéphane Sèjourné, che per la commissione si occuperà di “prosperità e strategia industriale” (cioè di due cose che non esistono), condivide la stessa passione che, nel 2021, l’ha portata a contrastare l’accordo globale Ue-Cina (allora in discussione) proprio a causa della terribile situazione della minoranza musulmana in Xinjiang; che per inciso, lo ricordiamo, viene regolarmente denunciata solo ed esclusivamente da paesi non musulmani dell’Occidente collettivo e, in particolare, da quelli – come la Francia – che negli ultimi 30 anni hanno partecipato sostanzialmente a tutti gli stermini di civili arabi architettati dagli USA, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia alla Siria.
Ma quel pizzico di suprematismo ultra-atlantista e anti-cinese (che non manca mai) non è certo l’unico segno di sudditanza della nuova commissione; il caso più eclatante (e inquietante), infatti, è quello della nuova commissaria alle finanze, la portoghese Maria Luis Albuquerque che, come ricorda il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi “E’ stata artefice della ristrutturazione del bilancio portoghese durante il periodo del controllo esercitato dalla troika sui conti di quel Paese” che, ovviamente, “si tradusse in un profondo taglio alla spesa pubblica e nella definizione di un modello molto simile ad un paradiso fiscale”, ma, soprattutto, che “dopo quella esperienza” si è buttata (come un Friedrich Merz qualsiasi) anima e corpo nel mondo della finanza speculativa, prima facendosi le ossa nel board del tutto sommato piccolo, ma influente fondo britannico Arrow Global e poi, a partire dal 2022, passando definitivamente in premier league con un bel posto nel board di nientepopodimeno che Morgan Stanley. Un conflitto di interessi e una familiarità con la peggior logica delle porte girevoli che ha triggerato anche una colonna portante della propaganda turbo-liberista e turbo-imperialista come Politico: “La poltrona dei servizi finanziari finisce alla Albuquerque” denunciano, “ma lei si porta dietro un bagaglio ingombrante”. Il compito della Albuquerque è tra i più delicati in assoluto: supervisionerà i lavori per la creazione del mercato unico degli investimenti dell’Ue. Insomma: il primo passo del famigerato rapporto Draghi e, in assoluto, il tavolo fondamentale dove si giocherà la partita che determinerà l’indipendenza o la sudditanza dal capitalismo finanziario USA. Non so se è chiaro: l’arbitro della partita, che determinerà se riusciremo finalmente a creare un polo finanziario autonomo o se non faremo altro che sottometterci definitivamente all’imperialismo finanziario USA, è una talebana dell’austerity che lavora per una delle principali banche d’investimento USA; cosa mai potrebbe andare storto?
Per capirlo, basta dare un’occhiata a cosa è successo in Italia negli ultimi tempi: nel giro di pochissimo tempo, infatti, BlackRock, come ricorda ancora il nostro Volpi “si è imposta come il principale investitore estero delle imprese italiane quotate a Milano, per un totale di 17 miliardi di euro tra Intesa San Paolo, Unicredit, Bpm, Mediobanca, Stellantis, Ferrari e Prysmian a cui vanno aggiunte le partecipazioni in Eni, Enel e nelle multiutility”. Ecco perché Larry Fink, l’amministratore di BlackRock, è stato accolto al G7 che s’è tenuto in Puglia nell’estate come un vero imperatore: perché lo è il padrone dell’ex economia nazionale; ma rispetto alle ambizioni di BlackRock, 17 miliardi sono bruscolini. Meloni e l’ennesimo governo degli svendipatria, allora, hanno cominciato a lavorare giorno e notte a un piano diabolico in 3 punti: il primo punto è usare il monopolio della forza dello Stato per far arrivare nelle casseforti di BlackRock e soci una quota sempre maggiore di risparmi degli italiani; il secondo è spalancare ancora di più a BlackRock le porte d’accesso alle quote di controllo delle principali corporation italiane, a partire da quelle dove c’è ancora un parziale controllo pubblico; il terzo è fare dell’Italia la rampa di lancio per l’attacco finale del capitalismo finanziario USA all’unico capitalismo nazionale di tutto l’Occidente collettivo che ad oggi ancora ha tenuto botta, che è, appunto, quel che rimane della Germania della Merkel. Che si ritrova, così, sotto attacco da tre fronti: uno interno, rappresentato dal nuovo candidato cancelliere della CDU, uno rappresentato dall’Italia della Meloni e, infine, un terzo rappresentato dalle istituzioni dell’Unione europea nel suo insieme. Di questo ultimo punto abbiamo parlato in modo approfondito in questo video della settimana scorsa: l’episodio più eclatante è la scalata di UniCredit a Commerzbank che in realtà, appunto, è una scalata del capitalismo finanziario USA al capitalismo industriale tedesco e che ha raccolto l’entusiasmo di tutte le istituzioni europee al soldo del progetto egemonico statunitense; UniCredit, infatti, ha proprio BlackRock come principale azionista, mentre Commerzbank è stata salvata dal fallimento con soldi pubblici proprio in funzione del suo ruolo di fondamentale finanziatore del sistema produttivo della Germania. Con la scalata, si spalancano le porte del controllo della finanza USA su una parte sempre più importante di economia produttiva tedesca; chissà: magari, appunto – come suggerivamo nel video -, per trasformarla sempre più nella base industriale militare della grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo.
Anche del secondo punto abbiamo parlato già in numerosi video: dal via libera a BlackRock a superare il 3% delle quote di Leonardo alle varie acquisizioni che hanno visto come protagonista il fondo KKR (a sua volta controllato da BlackRock, Vanguard e Capital Research) e che, oltre alla rete delle telecomunicazioni di TIM, nel tempo s’è comprata anche Magneti Marelli, l’azienda umbra di macchinari per l’automazione Cmc, Inwit, che è il principale operatore italiano di torri per le telecomunicazioni, e la ex controllata di ENI per il settore dei biocarburanti Enilive. E ora sul tavolo ci sono le Poste, MPS e anche i porti e le Ferrovie. Ma il punto più inquietante di tutti è il primo: il governo Meloni, infatti, ha deciso di diventare una sorta di esattore erariale al servizio di BlackRock. Il primo passo è la proposta di legge che costringerebbe gli italiani a dirottare almeno il 25% del loro TFR verso il risparmio gestito dei megafondi; il secondo, invece, è già legge ed entrerà in vigore dal prossimo 1 gennaio: anche qui, a essere messo direttamente a disposizione della dittatura della finanza USA è il monopolio della forza dello Stato italiano, un’amministrazione coloniale a tutti gli effetti. E’ l’obbligo da parte delle imprese di stipulare assicurazioni contro le catastrofi climatiche per “terreni, fabbricati, impianti, macchinari e attrezzature industriali e commerciali”, ovviamente private; un gigantesco trasferimento di risorse in mano ai colossi della finanza privata che però, per certo ambientalismo progressista, è ancora troppo poco.
A chiedere che la rapina non si limiti alle sole attività produttive ci pensa Erasmo D’Angelis, volto storico di Legambiente ed ex firma del Manifesto che, in un lungo articolo su GreenReport, si chiede indignato: “E le case? Non si toccano. Storia del tabù dell’allergia all’assicurazione, il paradosso italiano”. Per D’Angelis, compito dello Stato non è assumersi in prima persona il compito di avere una politica equa per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico causato dal turbo-capitalismo, ma imporre ai singoli cittadini impoveriti una nuova gabella che vada a consolidare la concentrazione dei capitali in mano ai monopoli finanziari a stelle e strisce; e se poi la gente s’incazza e vota l’estrema destra, accusarli di essere dei poveri coglioni dalle colonne dei media mainstream: la propaganda antiscientifica climatoscettica e negazionista finanziata dalle lobby petrolifere non potrebbe avere alleati migliori dei D’Angelis di tutto il pianeta. Almeno su questo versante, comunque, fortunatamente la Meloni – che sullo scetticismo antiscientifico sulla crisi climatica fonda una fetta importante del suo consenso – probabilmente non cederà; d’altronde, ha già in mano un perfetto piano B: l’evasione fiscale. “Sembra impossibile” spiegava l’altro giorno ancora il nostro sempre attentissimo Alessandro Volpi: “Nel decreto omnibus tre parlamentari di maggioranza hanno inserito un emendamento che abbina al concordato preventivo un vero e proprio condono tombale”; “Per fare un esempio” continua “ chi dichiara di aver evaso 20 mila euro, pagherebbe in tutto meno di 900 euro”.
Per i registi della finanziarizzazione questa non è una buona notizia; sono due: la prima, infatti, è che gli autonomi appassionati di evasione e di elusione avranno un bel patrimonietto da dargli da gestire per comprarcisi le Poste, MPS, i porti, le Ferrovie e tutto il sistema industriale tedesco. La seconda è che il crollo delle entrate fiscali che queste politiche sono destinate a determinare, costringerà i governi futuri a tagliare ancora più drasticamente la spesa sociale, a partire da sanità e pensioni: risultato? La gente comune non potrà più fare a meno di farsi un’assicurazione sanitaria e un fondo pensionistico integrativo privati e a gestire i loro quattrini, appunto, saranno BlackRock e soci; un meccanismo veramente perfetto perché, a differenza delle rapine condotte dalla fazione finto-progressista della servitù atlantista che scatena innumerevoli malumori e contestazioni infinite tra le masse popolari, la rapina condotta dai finto-sovranisti, invece, riesce comunque a consolidare un blocco sociale piuttosto esteso che è entusiasta di poter partecipare indirettamente alla distruzione sistematica del sistema produttivo italiano ed europeo e a ogni velleità di indipendenza strategica pur di intascarsi due soldini e comprarcisi il SUV nuovo (ovviamente col motore a scoppio, perché quello elettrico è una truffa dei poteri forti, soprattutto se è cinese). Ovviamente, anche il modello di rapina escogitato dalla Meloni e dall’internazionale finto-sovranista ha i suoi punti deboli; e quando le sue conseguenze si concretizzano e chiudono gli ospedali o ti ritrovi con una pensione al di sotto della soglia della povertà, la gente s’incazza. A differenza del blocco sociale messo insieme dalla Meloni, però, chi s’incazza per questi motivi un referente politico non ce l’ha: l’opposizione alla Meloni è monopolizzata dai vari D’Angelis che non solo ti rapinano, ma che se t’incazzi perché t’hanno rapinato ti burionizzano; antropologicamente, il blocco sociale che potrebbe rappresentare l’alternativa ai governi degli svendipatria gli fa proprio schifo. Ecco perché, se vogliamo difenderci dalla grande rapina escogitata dalla Meloni, ci dobbiamo svegliare e ci dobbiamo organizzare per conto nostro e, per farlo, abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio media che, invece che alle due fazione dei rapinatori per conto della finanza USA, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Roberto Burioni