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Autore: OttolinaTV

La tendenza al fascismo della democrazia liberale e la sinistra imperiale – ft. Giorgio Cremaschi

Più i liberali dicono di voler combattere contro dittatori e autocrati, più ne assumono le sembianze. L’adozione progressiva di misure autoritarie, come il DSA e il decreto 1660, minaccia i principi e le libertà fondative delle democrazie liberali: la libertà di espressione e stampa, il diritto di sciopero e manifestazione e le libertà politiche. Nel cosiddetto mondo libero la censura non è più un tabù e trova delle “santissime” giustificazioni; le manifestazioni non vengono autorizzate se non piacciono al governo. La politica non è più in grado di rappresentare ampi strati di popolazione, mentre emergono sempre più drammaticamente differenze ed ingiustizie sociali. Lavoratori e opposizione vengono criminalizzati, come i portuali che bloccano i carichi di armi dirette a Israele, gli ambientalisti e gli studenti che occupano le università in solidarietà con la Palestina. Questa tendenza all’autoritarismo è aggravata dalla guerra verso cui la NATO ci sta trascinando e dalla militarizzazione della società. Per focalizzare queste dinamiche presentiamo il libro Liberalfascismo di Giorgio Cremaschi, assieme all’autore.

Maratona BRICconcella – Summit Kazan 2024

Da oggi a giovedì, dalle 18 alle 20, Maratona BRICconcella! A reti unificate sui canali di Ottolina Tv, Dazibao, Stefano Orsi, Il Contesto di Giacomo Gabellini e Francesco Maringiò per parlare dell’evento geopolitico dell’anno!

“Il dollaro ha rotto il cazzo”: Putin e i BRICS a Kazan la toccano pianissimo

Trentadue Paesi, mille delegati e ventiquattro capi di Stato: quello che di sicuro va in scena oggi a Kazan, nel silenzio dei nostri media, è il funerale in grande stile del sogno distopico della fine della storia e dell’eterno trionfo dell’unipolarismo neo-liberale guidato da Washington; ma riusciranno anche a celebrare il battesimo di un nuovo ordine più equo, democratico e inclusivo? Come ampiamente previsto e annunciato, il 16esimo summit dei BRICS+ che ha inizio oggi nella splendida capitale multiculturale e multietnica del Tatarstan e che corona l’anno di presidenza russa della più importante istituzione multilaterale del Sud globale, è probabilmente – in assoluto – il più ambizioso e importante dalla sua nascita, nel 2009. La scelta scellerata di Washington di sdoganare definitivamente l’utilizzo del dominio del dollaro e del monopolio che esercita sulle istituzioni finanziarie globali come arma di distruzione di massa contro chiunque osi rifiutarsi di sottomettersi completamente all’agenda dell’impero, potrebbe aver impresso un’accelerazione senza precedenti al piano più ambizioso e complicato delle economie emergenti: creare un’alternativa concreta e tangibile al sistema finanziario e monetario internazionale vigente. Quello su cui i 9 capi di Stato dei Paesi membri (e gli altri 23 Paesi presenti a titolo di osservatori) saranno chiamati a confrontarsi in questi giorni non è banalmente una qualche fumosa dichiarazione di principio, ma una roadmap concreta e dettagliata per costruire, passo dopo passo, le infrastrutture materiali e immateriali necessarie a svuotare dall’interno la rendita di posizione monopolistica della quale hanno goduto fino ad oggi gli Stati Uniti, a vantaggio delle sue oligarchie – e, in posizione subordinata, di tutte le altre oligarchie del pianeta complici della grande rapina – e a scapito degli interessi nazionali di tutti gli altri Paesi del pianeta e della loro sovranità e indipendenza, compresi quelli che degli Stati Uniti si considerano (inspiegabilmente) amici e alleati quando, come hanno reso palese questi ultimi tre anni di guerre economiche e guerre vere per procura, non sono altro che sudditi e vassalli. Questa roadmap è descritta nei suoi lineamenti fondamentali da questo lungo rapporto pubblicato la settimana scorsa e curato dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale della Federazione russa, un documento che mira a “rafforzare il multilateralismo per uno sviluppo globale più equo e per la sicurezza”: una diagnosi lucida e impietosa delle distorsioni che il monopolio del dollaro e di Washington impongono all’intera economia globale, seguito da un elenco dettagliato delle cose che i BRICS si impegnano a fare concretamente per creare delle alternative tangibili sul piano dei pagamenti internazionali, della circolazione dei capitali, del finanziamento allo sviluppo e dei meccanismi che garantiscono la stabilità finanziaria globale; un documento che, insieme al summit, è destinato a rappresentare, negli anni a venire, una pietra miliare di questa turbolenta fase di cambiamenti “mai visti in un secolo”, come sottolinea sempre Xi Jinping.
E’ per questo che a partire da oggi, per i prossimi 3 giorni, noi di Ottolina Tv insieme al Contesto di Giacomo Gabellini, a Dazibao di Davide Martinotti, a Stefano Orsi e a Francesco Maringiò abbiamo deciso di dedicare a questo evento storico due ore di diretta al giorno trasmessa a reti unificate su tutti i nostri canali per provare a dare quella copertura che i media mainstream sono troppo occupati per dare (e – tutto sommato – vedendo il livello di competenza e di onestà intellettuale, forse è anche meglio così). Ma ora, prima di addentrarci nelle 50 pagine del rapporto che descrive il piano dei BRICS per mettere fine alla dittatura del dollaro, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi, che sono talmente al servizio dell’imperialismo finanziario USA che ieri c’hanno pure demonetizzato il video, nonostante – a questo giro – non si citasse mai né il Libano, né Gaza e non ci fosse nessunissima scena di violenza: ormai per poter ambire a trasformare la creazione di contenuti per le piattaforme social in un mestiere retribuito, bisogna obbligatoriamente ridursi a parlare dello stesso niente che trovate sulle pagine dei giornali o nei programmi di Fabio Fazio; per questo, a maggior ragione, se ancora non lo avete fatto, oltre a invitarvi a iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche, vi ricordiamo anche che il modo migliore per sostenerci e garantire la nostra indipendenza e la nostra capacità di sottrarci alla mannaia della censura rimane quello di seguirci direttamente dal nostro sito. A voi costa meno fatica di quanta non ne serva al dipartimento del tesoro USA per emettere un nuovo pacchetto di sanzioni contro un Paese a caso, ma per noi fa davvero la differenza e forse un pochino, nel suo piccolissimissimo, anche al disastrato mondo dell’informazione italiana in generale.

Vladimir Putin

BCBPI (Brics Cross-Border Payment Initiative), tradotto: iniziativa per i pagamenti transfrontalieri dei BRICS; è questo l’acronimo che descrive il sistema per le transazioni commerciali internazionali elaborato nell’arco degli ultimi 12 mesi dai Paesi BRICS sotto la presidenza annuale della Federazione russa e che verrà discusso, a partire da oggi, a Kazan nell’ambito del sedicesimo summit annuale della più importante organizzazione multilaterale del Sud globale. L’obiettivo, ovviamente, è quello di emanciparsi dal ricorso (più o meno obbligato) al dollaro come valuta di riferimento per i pagamenti internazionali, obiettivo reso sempre più urgente dal fatto che negli USA approfittare di questo “esorbitante privilegio” monopolistico per danneggiare economicamente qualsiasi avversario è diventato un vero e proprio sport nazionale, con almeno un terzo del pianeta al momento sottoposto a sanzioni unilaterali illegali e illegittime, a partire soprattutto dal 60% dei Paesi a reddito basso e medio-basso. Per emanciparsi da questo opprimente monopolio, uno degli aspetti più urgenti consiste nel costruire un’alternativa concreta allo SWIFT, il sistema di messaggistica che oggi gode di una posizione di monopolio nell’ambito delle transazioni interbancarie internazionali e che, essendo totalmente in mano alla finanza USA, viene utilizzato per minacciare e colpire i Paesi che non si adeguano ai dictat di Washington; ma la parte più complicata poi – ovviamente – è costruire un network di operatori sufficientemente ampio che questo sistema alternativo – e la possibilità di utilizzarlo per fare pagamenti transfrontalieri in diverse valute – lo renda operativo concretamente. Questo, sottolinea il rapporto, può avvenire in molti modi diversi, non necessariamente in contrapposizione tra loro: il primo è appunto, banalmente, creare un network internazionale di banche commerciali che sostengano la possibilità di effettuare i pagamenti transfrontalieri in diverse valute locali; il secondo è mettere in connessione tra loro direttamente le Banche Centrali, che farebbero da terminale a reti domestiche di banche commerciali. Ma l’opzione che viene più a lungo analizzata, in realtà, è un’altra: il ricorso a una piattaforma DLT, che sta per Distributed Ledger Techonology, e che è un modo un po’ più generico e astratto per definire – in soldoni – una blockchain.
Al centro della proposta dei BRICS ci sono le CBDC, le valute digitali che però – al contrario dell’utopia ultra-liberista del mondo delle criptovalute – sono emesse dalle Banche Centrali: quindi non uno strumento per togliere agli Stati nazionali quel poco di sovranità che ancora riescono ad esercitare attraverso le politiche monetarie a favore del capitale privato, ma – al contrario – uno strumento per permettere agli Stati sovrani di esercitarne di più, appunto, creando un’alternativa al monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie del Washington Consensus; una trasformazione decisamente ambiziosa che, per essere realmente implementata, nella migliore delle ipotesi impiegherà svariati anni, ma per la quale – sottolineano i BRICS – non siamo all’anno zero. Da alcuni anni, infatti, procedono le sperimentazioni di un progetto pilota che si chiama mBridge che, oltre alla Banca Centrale cinese, quella tailandese e l’autorità monetaria di Hong Kong, coinvolge anche la Banca Centrale degli Emirati Arabi Uniti che, con Dubai, si sta ritagliando un posto al sole come piazza finanziaria di primissimo ordine per tutto il Sud globale. Durante la sperimentazione (che va avanti ormai da 3 anni) sono state processate in tutto 164 transazioni per un valore complessivo di 22 milioni di dollari e, a fine 2023, il sistema ha raggiunto la fase di Minimum Viable Products, che significa che le funzioni di base sono state ottimizzate e che ora si tratta di allargarne la portata e il numero di soggetti coinvolti. Intanto nel 2023, per la prima volta, la Cina ha visto lo yuan superare il dollaro come valuta utilizzata per i suoi scambi commerciali transfrontalieri; Russia e Cina hanno dichiarato di aver condotto i loro commerci bilaterali utilizzando 90 volte su 100 valute locali, e progetti ufficiali per tentare di ampliare l’utilizzo delle valute locali sono stati avviati in Africa, in America Latina, ma – soprattutto – negli ASEAN, che è una delle aree economicamente più dinamiche del pianeta. E che il monopolio del dollaro come valuta per le transazioni commerciali internazionali non sia più quello di una volta è dimostrato palesemente da come la Federazione russa, dopo 10 anni di sanzioni e 3 di sanzioni on steroids, non sembra esattamente sull’orlo del collasso.
Ma rompere il monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie che regolano le transazioni monetarie internazionali è solo la cima dell’iceberg: la proposta che il ministero delle finanze e della Banca Centrale russa hanno messo sul tavolo, infatti, mira a intervenire anche nel settore degli investimenti che, tradotto, significa nei flussi di capitali che, fino ad oggi, hanno permesso all’imperialismo finanziario USA di sottrarre risorse gigantesche a tutto il resto del pianeta per alimentare la sua bolla speculativa, a discapito dell’economia reale. L’imperialismo finanziario USA si fonda sulle istituzioni del Washington Consensus, che sono state create e delineate nei loro aspetti fondamentali quando ancora gran parte del Sud globale era colonizzato: si tratta quindi, a tutti gli effetti, di istituzioni coloniali il cui obiettivo è, appunto, perpetrare il rapporto di subordinazione tra Nord e Sud globale anche dopo che i Paesi in questione hanno conquistato formalmente l’indipendenza; basti pensare che gli Stati Uniti sono l’unico Paese che ha potere di veto in entrambe le istituzioni principali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) e che, come ricorda Ben Norton, “esiste un accordo tacito per cui ogni presidente della Banca Mondiale è un cittadino statunitense e ogni direttore generale del FMI è europeo. Finora, questo schema è continuato, anche se l’economia globale è cambiata in modo molto significativo”. Stessa questione per le quote che determinano il peso specifico dei singoli Paesi all’interno dell’FMI: a parità di potere d’acquisto, infatti, le economie dei BRICS hanno da tempo superato quelle dei Paesi del G7; ciononostante, nell’ambito dell’FMI i Paesi BRICS hanno appena il 13,5% delle quote con diritto di voto; i G7 il 41,3%, uno squilibrio talmente evidente che anche i Paesi sviluppati hanno fatto finta di essere pronti ad accettare qualche cambiamento. Peccato che, per due volte di fila, si sia risolto in un clamoroso buco nell’acqua: nel 2020, dopo mesi di dibattito, si decise che era meglio rinviare la revisione delle quote; 3 anni dopo, nel 2023, le quote vennero effettivamente riviste, ma solo per essere aumentate in generale, senza toccare minimamente i pesi relativi.
Riformare l’FMI e dare più voce in capitolo ai Paesi emergenti, invece, è una questione vitale e, per capire quanto, bisogna fare un bel passo indietro. 1944, Bretton Woods; come tutti saprete benissimo, sul tavolo c’erano due proposte: da un lato quella che faceva capo al buon vecchio John Maynard Keynes e, cioè – come ricorda lo stesso sito del Fondo Monetario Internazionale – l’istituzione di “una banca globale, denominata International Clearing Union o ICU, che avrebbe emesso la propria valuta, denominata bancor, basata sul valore di 30 materie prime rappresentative, tra cui l’oro, convertibili con valute nazionali a tassi fissi”. L’altra, invece, era di prendere il dollaro, fissare una quantità di oro che ne definisse il valore (che, nello specifico, venne stabilita in 35 dollari per oncia) e nominare ufficialmente il dollaro, invece che una valuta internazionale creata ad hoc, valuta di riserva globale: questo significa che ogni altra valuta viene scambiata a un tasso fisso con il dollaro. La differenza è gigantesca: nel sistema proposto da Keynes, infatti, erano previsti incentivi specifici che spingevano i Paesi che avevano un surplus commerciale – e che, quindi, esportavano più di quanto non importassero – a introdurre correttivi per ri-bilanciare la bilancia dei pagamenti e quindi, gradualmente, diminuire il gap tra Paesi più e meno sviluppati industrialmente. Nell’altro caso, invece, i Paesi economicamente più forti avevano tutto l’interesse ad accumulare quante più riserve in dollari possibili; e quindi l’incentivo era, quello stesso gap, ad aumentarlo sempre di più: per dirla in altri termini, da un lato si introduceva uno strumento di governance globale che mettesse un argine alle distorsioni intrinseche all’accumulazione capitalistica (che spinge a dare sempre di più a chi ha già di più e sempre di meno a chi ha già di meno) mentre, dall’altro, queste stesse distorsioni venivano accelerate e amplificate. Insomma: lo strumento perfetto per perpetuare le gerarchie tra Paesi colonizzatori e Paesi colonizzati anche dopo la fine ufficiale del colonialismo e la prova provata che l’essere umano, stringi stringi, non capisce un cazzo; l’incentivo a fare a chi c’ha il surplus commerciale più grosso, infatti, era stata la causa principale che nei trent’anni precedenti aveva portato non a una guerra mondiale, ma addirittura a due, anche se – tutto sommato – possono essere considerati due capitoli di una sola, separata da un bell’intermezzo che aveva permesso l’affermarsi del nazifascismo come prodotto d’eccellenza dei “veri valori fondamentali dell’Europa e dell’Occidente”. Ciononostante l’ipotesi di Keynes venne scartata con sufficienza e la dittatura del dollaro divenne la colonna portante del sistema finanziario globale.
Eppure, visti con gli occhi di oggi, potremmo senza dubbio ricordare gli anni successivi a Bretton Woods come i bei tempi andati: anche allora, infatti, gli USA si erano dotati di uno strumento di dominio globale che imponeva al resto del mondo di finanziare il deficit statunitense, ma – perlomeno – l’entità di questo debito che si andava accumulando e che gravava sulle spalle dell’intero pianeta era limitata dall’ancoraggio del dollaro all’oro, che limitava la libertà di stampare dollari a piacere; limite che, come chi segue Ottolina sa fin troppo bene, è definitivamente saltato, a partire dal 1971, con la fine della convertibilità del dollaro in oro introdotta dall’amministrazione Nixon, l’atto fondativo del sistema superimperialistico in cui siamo immersi oggi. Da allora, non solo gli USA fanno pagare il loro deficit al resto del mondo, ma questo stesso deficit non ha sostanzialmente limiti e viene finanziato con il rastrellamento di tutti i capitali che servirebbero al resto del mondo per svilupparsi da parte degli USA – che assumono, così, il ruolo di rapinatore a mano armata dell’intera economia globale. Ora, se le potenze emergenti volessero ricalcare le orme della superpotenza USA, ovviamente dovrebbero aspirare a imporre le loro valute come nuove valute di riserva globale corrispondenti ai nuovi rapporti di forza economici e produttivi che si sono andati delineando; in particolare la Cina, ovviamente, che si è affermata come la vera unica superpotenza manifatturiera globale (esattamente come gli Stati Uniti alla vigilia di Bretton Woods), che è quello che sembrano auspicare anche tanti appartenenti all’area cosiddetta del dissenso: la sostituzione del dollaro con lo yuan. Fortunatamente, però, la Cina e gli altri Paesi BRICS sembrano essere molto più ispirati dalle intuizioni del buon vecchio Keynes che non dalla volontà di potenza fine a se stessa dell’impero USA; ed ecco, così, che invece di scatenare una guerra per chi sarà la prossima potenza egemone che, come gli USA negli ultimi 80 anni, riuscirà a far pagare le sue bollette al resto del pianeta, si sono messi in testa proprio di riformare dalle fondamenta l’architettura finanziaria globale proprio per permettere una nuova governance globale, in grado di mitigare le distorsioni intrinseche dell’accumulazione capitalistica e garantire un futuro (più o meno) pacifico e di sviluppo per tutti. E, con una bella dose di realismo politico, propongono di farlo a partire da quello che già c’è.
Di fronte alle palesi distorsioni di un sistema fondato sull’unipolarismo valutario del dollaro, infatti, lo stesso Fondo Monetario Internazionale, nonostante sia diretta emanazione dell’imperialismo USA, ha provato a introdurre dei correttivi che vanno proprio nella direzione auspicata dal buon vecchio Keynes: si chiamano diritti speciali di prelievo e sono, appunto, un tipo di valuta di riserva internazionale creata e gestita proprio dall’FMI; il valore dei diritti speciali di prelievo si fonda su un paniere di valute che, al momento, include il dollaro, l’euro, la sterlina, lo yen giapponese e, dal 2016, anche lo yuan cinese. A emetterla è, appunto, l’FMI stesso che poi l’assegna ai vari Paesi membri a seconda della quota di partecipazione al fondo stesso; i singoli Paesi, così, hanno una valuta universalmente riconosciuta e stabile diversa dal dollaro per rimpinguare le proprie riserve. C’è solo un piccolissimissimo problema: rappresentando i diritti speciali di prelievo – in qualche misura – quello che gli USA avevano già scongiurato con ogni mezzo necessario a Bretton Woods, e comandando gli USA a bacchetta nell’FMI, sono stati introdotti scientemente tutti i paletti necessari per impedire che diventasse qualcosa di veramente significativo. Primo punto: quattro delle cinque valute del paniere sono valute di ex potenze coloniali, con gli USA che sono gli unici veramente sovrani e gli altri che fanno da vassalli e adottano politiche monetarie sempre in linea con la FED e gli interessi USA, come – ad esempio – è avvenuto a partire dal 2022, quando all’unisono hanno scelto tutti di aumentare rapidamente i tassi di interesse con la scusa di combattere l’inflazione, anche se il grosso dell’inflazione (come abbiamo dimostrato n-mila volte) era dovuta a fattori che con le politiche monetarie non c’incastravano niente; a partire dalla greedflation e, cioè, l’inflazione imposta dalle aziende che hanno posizioni di mercato oligopolistiche (se non addirittura proprio monopolistiche), il che significa che il prezzo lo fissano loro e non c’è concorrenza in grado di fargli cambiare idea. Se le Banche Centrali che emettono i quattro quinti delle valute del paniere decidono all’unisono di aumentare i tassi di interesse, questo significa che le valute di tutti gli altri Paesi si indeboliscono e, quindi, rimborsare un eventuale debito denominato in diritti speciali di prelievo diventa più costoso, Ovviamente, siccome siamo in un mondo libero e democratico, ogni Paese, in realtà, ha sempre la possibilità di scegliere – e, in questo caso, può scegliere molto liberamente di aumentare anche lui i tassi di interesse per contrastare l’indebolimento della sua valuta; peccato che questo comporti causare una recessione o, comunque, una botta decisiva alla crescita economica, ovviamente imposta da altri. E questo è solo il primo dei problemi. Il secondo è che i diritti speciali di prelievo non vengono utilizzati nell’economia reale: non ci puoi comprare il petrolio o le banane o i microchip; per comprarci qualcosa, li devi convertire in una valuta. Ma nessuno obbliga nessuno ad accettare diritti speciali di prelievo in cambio della sua valuta: si può fare soltanto a seguito di accordi bilaterali consensuali, i famosi VTA (Voluntary Trading Arrangements); ergo, rischi di avere, tra le tue riserve, valuta che poi non puoi usare per fare quello che ti serve quando ti serve.
Il messaggio dei BRICS, allora, è molto chiaro: se volete che la nostra ascesa economica avvenga comunque all’interno di queste istituzioni, dovete darci il potere di voto che ci spetta e la possibilità di utilizzare il potere di voto che ci spetta per risolvere tutti i problemi che oggi affliggono i diritti speciali di prelievo per trasformali, finalmente, in una valuta di riserva internazionale realmente utile; altrimenti, vorrà dire che ce ne facciamo un’altra da noi. L’eventuale “mancato riequilibrio delle azioni con diritto di voto causerebbe un danno significativo e irreparabile alla credibilità del FMI come istituzione” si legge nel rapporto, e costringerebbe i Paesi emergenti a “sviluppare una struttura alternativa la cui funzionalità le consentirebbe di svolgere il compito originariamente previsto dal FMI” a partire, appunto, dai diritti speciali di prelievo per i quali “bisogna aumentare la convertibilità nelle diverse valute, andando oltre il meccanismo dei Voluntary Trading Arrangements”, promuoverne “l’utilizzo nel commercio internazionale, per fissare il prezzo delle commodities, e come unità di conto” ed “emettere più asset finanziari denominati in diritti speciali di prelievo come veicoli per gli investimenti”. Intanto si sono portati avanti aumentando a dismisura le riserve direttamente in oro che, così, è passato da poco più di 1.600 dollari l’oncia di inizio 2022 agli oltre 2.700 dollari l’oncia attuali, cosa che farà sicuramente molto felici – ad esempio – gli amici del Burkina Faso che, recentemente, hanno annunciato l’intenzione di nazionalizzare le loro miniere d’oro. Ma non solo: i due principali Paesi produttori di oro al mondo, infatti, sono – pensate un po’ – Cina e Russia, entrambi con una produzione all’incirca doppia rispetto a quella degli Stati Uniti e 60 volte superiore a quella della Svezia, che il principale produttore europeo di oro. Aumentare le riserve in oro, quindi, per i BRICS è un ottima opportunità e un ottimo affare, ma è un pannicello caldo: l’oro infatti, per fare un esempio, rappresenta appena il 4 – 5% al massimo delle riserve estere cinesi; il 65 – 70% è composto da valuta estera e il 20 – 25% da titoli di Stato esteri – e tra questi, ovviamente, a fare (di gran lunga) la parte del leone sono i dollari e i titoli del tesoro USA. L’obiettivo, quindi, è aumentare la quota di valuta estera e di titoli del tesoro in valuta locale emessi da Paesi emergenti; peccato sia più semplice da dire che da fare: nonostante la crescente solidità economica dei Paesi emergenti, infatti, il mercato internazionale dei titoli di Stato emessi in valute locali è ancora sostanzialmente inesistente anche per un colosso come la Cina, nonostante garantisca rendimenti reali tre volte superiori a quelli garantiti dai titoli del tesoro USA.
Il problema è che stabilità e livello di internazionalizzazione di una valuta e capacità di allocare sul mercato titoli di Stato emessi nella propria valuta locale sono, ovviamente, due aspetti intimamente legati tra loro: un’ampia diffusione di titoli di Stato emessi in valuta locale è un elemento essenziale per rendere stabile la propria valuta, e avere una valuta stabile è essenziale per riuscire a vendere titoli di Stato in quella valuta senza pagare una cifra spropositata di interessi; la sfida dei BRICS consiste – appunto – nell’unire le forze per riuscire a spezzare questa spirale perversa. Ad oggi infatti – sottolinea il rapporto – i Paesi emergenti, nonostante abbiano triplicato lo scambio commerciale tra loro, quando si tratta di investire continuano a portare il grosso dei loro capitali verso le economie più sviluppate e in particolare, ovviamente, verso i mercati finanziari USA e verso i titoli di Stato USA (nonostante abbiano spesso un rendimento inferiore all’inflazione): questo, da un lato, nell’immediato impedisce a quegli stessi capitali di cogliere le opportunità migliori che ci sono nel mercato (magari proprio dietro casa loro) e, dall’altro, impedisce appunto di cominciare a mettere le basi affinché gradualmente, in prospettiva, questo vero e proprio furto di risorse da parte delle economie più sviluppate a danno dei Paesi emergenti un bel giorno termini o, almeno, si affievolisca. Gli elementi che ostacolano l’emancipazione da questa spirale perversa sono numerosi e i BRICS si propongono di affrontarli tutti: uno, molto banale (ma decisamente importante), è che ad oggi anche quando un Paese emergente vuole investire in un altro Paese emergente, in realtà passa sempre da uno dei principali hub finanziari globali – e cioè, fondamentalmente, da Londra o da New York. Raggiungere un altro Paese emergente quindi, sottolinea il rapporto, è un lungo viaggio in due tappe, spesso costose, al quale naturalmente si preferisce ancora troppo spesso il semplice viaggio diretto: una volta che sono arrivato a Londra e New York, chi me lo fa fare di partire per un altro viaggio? La compravendita di titoli finanziari di ogni genere, infatti, avviene in quelli che vengono definiti Central Securities Depositories, come sono i nostri Euroclear e Clearstream, rispettivamente in Belgio e Lussemburgo; la proposta è quello di crearne uno ad hoc dei BRICS, denominato BRICS Clear System. Ovviamente, strappare quote di mercato a istituzioni più consolidate non è una passeggiata, ma c’è un incentivo che potrebbe accelerare il processo: a differenza dei Clear System che oggi dominano la compravendita dei titoli finanziari su scala globale e che, sempre più spesso, abbiamo visto essere utilizzati dagli USA e dai loro vassalli per congelare arbitrariamente i fondi dei Paesi che si azzardano a non obbedire ai loro dictat, il BRICS Clear System opererebbe sulla base di un regolamento condiviso che potrebbe essere cambiato esclusivamente con un voto di tutti all’unanimità; quello che è potenzialmente ancora più importante è che questo BRICS Clear System non si dovrebbe limitare a funzionare da piazza alternativa per lo scambio di prodotti già esistenti, ma dovrebbe promuoverne altri, a partire da hub finanziari su tutti e 3 i continenti coperti da membri dei BRICS che siano in grado di raccogliere capitali da altri Paesi BRICS – e, più in generale, da Paesi emergenti – per impiegarli nello sviluppo di infrastrutture strategiche e per finanziare i campioni nazionali che oggi, come abbiamo spiegato qualche tempo fa, sono costretti a pagare interessi più alti rispetto ai competitor occidentali, anche se sono aziende enormemente più efficienti, solide e produttive.
Un altro aspetto che influisce è il monopolio delle agenzie di rating statunitensi, ma “Un’approfondita ricerca in questo campo” sottolinea il rapporto “mostra che esiste una costante distorsione del rating che favorisce i Paesi sviluppati e sfavorisce i mercati emergenti, a partire dalla valutazione proprio dei titoli di stato sovrani”; questo bias neocoloniale contro i Paesi emergenti nel loro complesso, a cascata poi influenza anche le singole aziende di quei Paesi perché, appunto, anche in caso di aziende con “fondamentali finanziari solidi”, “i rating sovrani del Paese dove operano influenzano anche il loro rating come aziende”, al punto che “un abbassamento del rating del credito delle obbligazioni sovrane” comporta automaticamente “un declassamento di tutti gli altri strumenti del debito di quel Paese” e comporta, quindi, un costo del denaro per le aziende che ne compromette la competitività – cosa che, ad esempio, noi italiani conosciamo benissimo rispetto alla Germania, che ha utilizzato pro domo sua questo stesso identico principio per farci concorrenza sleale e cannibalizzare il nostro sistema produttivo per 30 anni. La proposta dei BRICS, quindi, è rafforzare il coordinamento tra le agenzie di rating già presenti nei Paesi aderenti – dalla cinese Dagong alla russa ACRA, passando per l’indiana Care Ratings – standardizzando i parametri e adeguandoli alle specificità delle economie emergenti più deboli finanziariamente, ma decisamente più promettenti per quanto riguarda la capacità di creare ricchezza attraverso l’economia reale. Creare enti di valutazione del credito alternativi a quelli del Nord globale è essenziale, in particolare, per favorire la crescita di investimenti tra Paesi BRICS in un settore in particolare, che nell’area del dissenso sta creando un po’ di confusione: la transizione ecologica, che i BRICS definiscono – udite udite – addirittura esistenziale: “Il tema del cambiamento climatico” sottolinea il rapporto “ha assunto il posto che spetta di diritto in cima all’agenda internazionale”; e il problema non è tanto che non esiste nessun cambiamento climatico di radice antropica, quanto – appunto, ad esempio – che “le esigenze dei Paesi in via di sviluppo saranno tra le 10 e le 20 volte superiori ai flussi finanziari disponibili” e che questo è, in buona parte, da attribuire alle “carenze causate dall’attuale stato del sistema monetario e finanziario mondiale”. Insomma: incredibile ma vero, anche per la Federazione russa e gli altri BRICS il problema non sono gli ecologisti e i gretini, ma la grande finanza internazionale a guida USA, compresa quella legata al business delle fonti fossili che, da decenni, foraggia a suon di centinaia e centinaia di milioni la peggior propaganda antiscientifica e negazionista.
Per favorire l’arrivo di capitali in grado di accelerare la transizione nei Paesi in via di sviluppo, i BRICS si pongono, prima di tutto, l’obiettivo di rompere il sostanziale monopolio che una singola società di rating s’è conquistata nel mercato della valutazione dell’impatto ambientale, sociale e di governance degli investimenti e, quindi, dirottare un po’ dove gli pare la gigantesca mole di capitali che oggi cercano di darsi una piccola spruzzatina di verde: si chiama MSCI e, da sola, copre il 60% del mercato. E, ovviamente, ha come principali azionisti BlackRock, Vanguard e State Street; ne avevamo parlato, in passato, in questo video qua, dove ricordavamo alcuni degli esempi più eclatanti di valutazioni di sostenibilità dati alla cazzo di cane: da JP Morgan, che è la più grande banca privata e la più grande finanziatrice del fossile al mondo, ad addirittura Mc Donald’s. Insomma: l’unico criterio che MSCI sembra adottare davvero è quello che siano grandi gruppi fortemente partecipati dai suoi azionisti di riferimento; attraverso la creazione di agenzie di valutazione indipendenti dell’impatto ambientale, sociale e di governance dei singoli strumenti finanziari, i BRICS si propongono di creare uno strumento più trasparente, basato su una definizione condivisa dei parametri e degli obiettivi e che sia utile per combattere il greenwashing e far arrivare i capitali laddove servono sul serio, tenendo conto anche delle specificità dei percorsi di ogni singolo Paese e, quindi, restituendo un’idea realistica e pragmatica degli obiettivi di sostenibilità che i singoli Paesi possono davvero perseguire senza cadere in rovina per fare contenti gli elettori di Annalena Baerbock e dei suoi amici eco-imperialisti.
Vista la portata della sfida della transizione ecologica, però, avere enti di valutazione indipendenti più trasparenti e razionali di sicuro non basta; serve anche mobilitare investimenti pubblici in grado, poi, di sfruttare la finanza privata come moltiplicatore: ed ecco qui che entra in gioco un altro tassello fondamentale della proposta dei BRICS, la New Development Bank, la banca di sviluppo multilaterale dei BRICS. La proposta sul tavolo è prima di tutto, banalmente, di aumentare considerevolmente la sua dotazione finanziaria e, per aumentarla, la proposta è quella di dotarla di quello che viene definito DIA, il BRICS Digital Investment Asset, cioè un asset digitale supportato, a sua volta, da asset fisici messi a disposizione dai singoli Paesi BRICS. Insomma: riassumendo il tutto, emanciparsi da un’architettura finanziaria costruita e consolidata nell’arco di decenni è un’operazione titanica; e chi fa annunci roboanti è un ciarlatano alla ricerca di seguaci in modalità setta e di like. Ciononostante, la parte economicamente più dinamica del pianeta – nonostante le millemila diversità – sembra essersi definitivamente coalizzata perlomeno su un aspetto, che è centrale: l’unipolarismo USA e la dittatura del dollaro non sono solo sistemi di dominio iniqui e ingiusti, ma sono anche – molto banalmente – arretrati e disfunzionali, storicamente inadeguati rispetto a un mondo che è già enormemente cambiato. E quando a chiedere il conto non è l’opinione di qualche avanguardia più o meno illuminata, ma la storia, te ti puoi inventare tutti i voli pindarici e i castelli in aria che ti pare, ma alla fine soccombi, che è il motivo per il quale, ormai, la propaganda suprematista – sia quella analfoliberale che quella analfosovranista – se vista con un po’ di distacco, non fa manco più incazzare: fa semplicemente ridere. Per orientarci nel nuovo mondo che cambia abbiamo bisogno di un media indipendente, ma di parte, che dia voce al 99%, compreso quello che vive nel Sud globale. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Cementificazione e neoliberismo affondano l’Emilia Romagna

“Il motivo per cui la pioggia sta avendo conseguenze dannose e a volte letali è presto detto: cade su un suolo asfaltato, cementificato, impermeabilizzato, che non può assorbirne una sola goccia, dunque quest’acqua non solo non rigenera la vita, non solo non ricarica le falde, ma si accumula in superficie e corre via, a grande velocità, travolgendo quel che trova” (Wu Ming). Ancora una volta l’Emilia Rossa si ritrova travolta dall’ennesimo “evento climatico catastrofico”, ma la vera catastrofe è la gestione del territorio dei faccendieri a libro paga della speculazione e della cementificazione, con l’immancabile supporto di Bruxelles. Ne parliamo alle 18.30 con una bella schiera di ospiti: Gabriele Bollini, docente di pianificazione sostenibile a Modena, tra gli autori di una proposta di legge di iniziativa popolare su consumo di suolo e alluvioni; Riccardo Gandini, candidato al consiglio regionale con la lista Emilia Romagna per la Pace, l’Ambiente e il Lavoro e funzionario pubblico; Leonardo Noschese, ingegnere nell’ambito dell’energia e delle interazioni ambientali; Cristina Quintavalla, docente di storia e filosofia e autrice per La Fionda; Giacomo Zattini, attivista Friday for Future.

Summit BRICS: la Russia pubblica la ricetta per la dedollarizzazione

video a cura di Davide Martinotti

In vista del summit dei BRICS di questa settimana sono stati resi pubblici i piani del multilaterale per trasformare il sistema monetario e finanziario internazionale. Il documento, titolato – per l’appunto –Miglioramento del sistema monetario e finanziario internazionale, è stato pubblicato dal ministero delle finanze della federazione russa. Nel documento viene presentata la BRICS Cross-Border Payment Initiative (BCBPI), un’iniziativa per la promozione dell’uso delle valute locali al posto del dollaro.

Link al documento BRICS: https://yakovpartners.ru/upload/ibloc…

Perché il vertice BRICS di Kazan è l’ultima speranza che abbiamo per evitare la terza guerra mondiale

Ottoliner buongiorno e benvenuti a questo nuovo appuntamento delle cronache di fine impero; come molti di voi sapranno, nonostante il silenzio assordante del circo mediatico domani a Kazan avrà inizio quello che, con ogni probabilità, è l’evento di politica internazionale più importante dell’anno: il sedicesimo summit annuale dei BRICS (ormai ufficialmente BRICS+), probabilmente il più importante dalla loro fondazione nel 2009, subito dopo lo scoppio della grande crisi finanziaria causata dagli USA e pagata da tutto il resto del mondo. L’Occidente collettivo, infatti, che è ostaggio di una ristrettissima oligarchia finanziaria che deve il suo dominio all’imperialismo finanziario USA e alla dittatura globale del dollaro, ha già dichiarato la guerra totale al resto del mondo per ostacolare l’ineluttabile transizione a un nuovo ordine multipolare; e, dopo aver subito una clamorosa sconfitta nella prima battaglia sul fronte ucraino, è impegnato a sostenere la deflagrazione definitiva di un secondo fronte in Medio Oriente per salvare la faccia, destabilizzare il pianeta e ostacolare così, appunto, la crescita economia e industriale dei presunti avversari. Di fronte alle evidenti difficoltà del blocco occidentale, in molti (ovviamente intendo tra gli antimperialisti che, comunque, alle nostre latitudini sono una piccola minoranza, per quanto sempre più consistente), presi dall’entusiasmo, tifano per una resa dei conti definitiva che metta fine per sempre all’imperialismo a guida USA attraverso le armi e – sempre presi dall’entusiasmo – sono spinti a farsi un’immagine dei BRICS+ come di un blocco di Paesi coeso, pronto a guidare questa distruzione – via missili ipersonici – del Grande Satana. Purtroppo (o per fortuna) rischiano di rimanere delusi: ammesso e non concesso che alcuni dei BRICS+ auspichino davvero la resa dei conti definitiva via armi contro il dominio dell’Occidente collettivo, quello che possiamo dire con un discreto margine di certezza è che, di sicuro, non è una posizione condivisa e nemmeno maggioritaria; al contrario delle facilonerie massimaliste o delle puttanate sugli opposti imperialismi, le classi dirigenti dei Paesi BRICS+ non hanno niente a che vedere coi deliri fascistoidi sulla guerra sola igiene del mondo di marinettiana memoria, che è invece un patrimonio culturale che appartiene interamente ai battaglioni Azov e ai coloni israeliani. I Paesi BRICS+ vogliono la pace e la stabilità per continuare a intraprendere i loro rispettivi percorsi di crescita e riscatto nazionale: alcuni con un occhio di riguardo, in particolare, verso le loro classi popolari come la Cina, guidata dal più grande e organizzato partito comunista della storia; altri con un occhio di riguardo, in particolare, per le loro élite economiche e politiche come l’India e gli Emirati Arabi Uniti. Il punto è che, al contrario dei piddini e delle fazioni più radicali della sinistra ZTL, sanno benissimo (perché lo sperimentano sulla propria pelle in modo plateale da decenni) che l’architettura finanziaria internazionale esistente è stata costruita in modo dettagliato e certosino proprio per ostacolarne la crescita e per permettere a tutto l’Occidente – e, in particolare, agli USA e alle sue oligarchie – di appropriarsi del grosso della ricchezza del pianeta anche a costo di ostacolarne la crescita complessiva. L’obiettivo dei BRICS+, quindi, è quello di mettere insieme tutti i Paesi che – proprio a causa dell’architettura finanziaria globale attuale – vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza e delle loro prospettive di crescita, nel tentativo di costruire in modo collaborativo nuove istituzioni che permettano di emanciparsi dall’unipolarismo USA e dalla dittatura del dollaro.
E non è ancora finita, perché – ovviamente – questo processo, per l’imperialismo USA e per le sue oligarchie, rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale al pari dei missili a medio raggio con testate atomiche in Ucraina per la Russia; e contro le minacce esistenziali, le grandi potenze – piaccia o non piaccia – reagiscono con ogni mezzo necessario, compreso il ricorso all’atomica, che è proprio quello che i BRICS+ vorrebbero in ogni modo evitare. Inoltre, sebbene il sistema finanziario attuale impedisca il pieno sviluppo delle economie nazionali, cionondimeno ha garantito ad alcune fazioni delle élite del Sud globale di partecipare, col ruolo di gregari, alla grande rapina globale impedendogli – sì – l’accesso alla stanza dei bottoni (che è prerogativa esclusiva delle oligarchie diretta emanazione di Washington e di Wall Street), ma comunque assicurandogli guadagni imponenti; il risultato che segue al combinato disposto di questi due elementi rischia (un’altra volta) di deludere così non solo chi spera che i BRICS+ dichiarino la guerra guerreggiata all’imperialismo USA, ma anche quelli che sperano che almeno gli dichiarino una vera e propria guerra economica. Fortunatamente, però, noi – che siamo moderati e pacifisti – ci accontentiamo di molto meno, e chi s’accontenta gode; e io, personalmente, nel leggere il documento ufficiale del ministero delle finanze e della Banca Centrale della Federazione russa, che mette nero su bianco la proposta concreta di riforma del sistema finanziario globale che sarà discussa durante il summit, ho goduto come un riccio. Il documento, infatti, è una prova da manuale di realismo politico e di concretezza: invece di porsi obiettivi roboanti spendibili in conferenza stampa (ma, sostanzialmente, velleitari), si pone obiettivi realistici in grado di trovare un ampio consenso non solo all’interno delle élite più filo-occidentali degli stessi BRICS+, ma – addirittura – in una parte consistente di élite occidentali vere e proprie, ma che, ciononostante, gradualmente, ma inesorabilmente, svuotano dall’interno l’imperialismo finanziario USA e la dittatura del dollaro. Ovviamente, come tutti i piani frutto della realpolitik, il punto starà nel valutare concretamente, passo dopo passo, come questo piano procede in mezzo alla complicata dialettica che metterà in moto; per questo, noi di Ottolina Tv insieme agli amici Giacomo Gabellini col suo canale Il Contesto, Davide Martinotti col suo canale Dazibao e Stefano Orsi con il suo canale personale, abbiamo deciso di unire le forze e, nei prossimi giorni – da martedì a giovedì, dalle 18 alle 20 -, trasmettere in contemporanea a reti unificate su tutti e tre i nostri canali due ore di approfondimento su quello che emergerà dal summit, nel tentativo di uscire dalle rappresentazioni macchiettistiche e propagandistiche tanto dell’informazione mainstream quanto della cosiddetta controinformazione che vive più di slogan e wishful thinking che di analisi rigorose.
Prima di addentrarci in questa tre giorni, però, come Ottolina Tv, insieme a Gabriele Germani e ad Alessandro Bartoloni Saint Omer, abbiamo voluto fare una piccola introduzione for dummies che dia gli strumenti di base per poter giudicare in modo indipendente, ma informato, quello che avverrà nei prossimi giorni. E’ con estremo piacere, quindi, che vi presento questa piccola introduzione in 3 capitoli ai BRICS+ e allo storico summit di Kazan 2024.

Gabriele
Buongiorno a tutti, Ottoliner: oggi, con l’avvicinarsi dell’evento dell’anno – il vertice dei BRICS a Kazan – vi presentiamo un pippone speciale; corale, direi. I BRICS nascono nel giugno del 2009 come un gruppo informale di area economica e politica tra quattro paesi: Brasile, Russia, India e Cina; a questi, dal 14 aprile del 2011, si è aggiunto il Sudafrica, passando da BRIC a BRICS, dove la esse è la lettera iniziale del paese africano; questi rappresentano oggi oltre il 40% della popolazione mondiale e il 25% del PIL globale. Il loro obiettivo principale? Creare un’alternativa concreta al sistema dominato dagli Stati Uniti d’America e dalle potenze occidentali, spesso visto come ingiusto e dannoso per molte nazioni in via di sviluppo. A differenza delle vecchie istituzioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, che hanno spesso imposto condizioni gravose ai paesi più poveri, i BRICS promuovono una cooperazione basata sul rispetto reciproco: hanno creato nel 2014 una propria banca, la New Development Bank, che finanzia progetti di sviluppo nei paesi emergenti senza le tipiche ingerenze politiche. Non parliamo solo di economia: i BRICS vogliono costruire un sistema internazionale più giusto. L’aspetto più affascinante dei BRICS è la loro visione di un mondo multipolare: in passato, gli Stati Uniti si sono spesso comportati come poliziotti del mondo intervenendo in ogni angolo del pianeta per difendere i propri interessi; ma i BRICS puntano a un ordine mondiale dove non esiste una sola superpotenza, ma tante nazioni che collaborano, ognuna con la propria voce e priorità.
Nel corso degli anni, sempre più Stati hanno cominciato a guardare ai BRICS con rinnovato interesse; ad esempio, il primo gennaio del 2024 hanno aderito altri cinque paesi: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Arabia Saudita e Iran. Altri hanno presentato domanda di adesione negli ultimi mesi: questa estate hanno provveduto l’Azerbaigian (un fedele alleato occidentale), la Turchia, secondo esercito della NATO, ma anche Cuba, il Venezuela, il Nicaragua e la Palestina (con le dovute complicanze dovute alla guerra e all’occupazione israeliana). Da segnalare, al primo gennaio 2024, anche la non adesione al blocco dell’Argentina, dove il presidente Milei ha annullato l’ingresso del Paese al gruppo in poche settimane: ricordiamo che questa scelta arriva dopo alcune dichiarazioni (tanto roboanti quanto impossibili) in campagna elettorale sul “non commerciare con paesi comunisti” in cui includeva Cina e Brasile, membri BRICS e maggiori partner commerciali di Buenos Aires. Anche altri Stati si stanno avvicinando ai BRICS formalizzando richiesta di adesione o dando segnali di interessamento attraverso la partecipazione dei propri ministri degli esteri agli incontri del gruppo; tra gli altri Kazakistan, Venezuela, Nigeria, Indonesia, Thailandia e persino il vicino di casa per eccellenza di sua maestà la Casa Bianca: il Messico. Anche il Bangladesh, in passato, ha mostrato interesse per il gruppo, aderendo alla Nuova Banca di Sviluppo assieme all’Uruguay.
Vediamo quindi sul mappamondo una mappa fatta di tanti Paesi coinvolti, a vario titolo e grado di interesse, nel progetto e persino una serie di dinamiche interne a questo blocco: mentre la Cina, la Russia e l’Iran sembrano costruire un blocco più contrapposto all’Occidente, dal carattere euro-asiatico e con un maggior ruolo politico del pubblico, la parte IBSA del gruppo (India, Brasile e Sud Africa) sembra più collegata al circuito finanziario e commerciale occidentale. I BRICS si delineano come i giganti della nuova era, l’era multipolare fatta di tanti vettori multifattoriali; i giganti della nuova era multipolare dove le alleanze, le convergenze e gli attriti si fanno e si disfano con estrema rapidità e sono determinati da una serie infinita di fattori.

Giuliano
Così il nostro Gabriele riassume l’essenza degli Stati nazionali che si sono coalizzati nei BRICS+; ma perché mai questa cosa dovrebbe accendere l’entusiasmo nel cuore ferito di un sincero democratico e di chi sta dalla parte dei diritti violati degli oppressi? Molti di questi Paesi non sono – essi stessi – caratterizzati da logiche di sopraffazione, di sfruttamento e di mancanza di democrazia? Spesso addirittura più violente di quelle alle quali assistiamo nei Paesi del mondo occidentale che tanto disprezzate? Sono questi, legittimamente, i dubbi più frequenti tra chi – venendo da una tradizione più o meno progressista, democratica (se non addirittura socialista e comunista) – si confronta con le nostre analisi e i nostri contenuti; ma rischiano di essere dubbi un po’ del cazzo: il punto è che il trionfo dell’ideologia (se non addirittura dell’antropologia) neo-liberale ha svuotato queste grandi famiglie politiche dell’Occidente sviluppato di ogni capacità di analisi strutturale della realtà lasciando spazio al gossip, alle narrazioni e al moralismo. La realtà, quindi, non è più una complicata sequenza di cause ed effetti con delle gerarchie (più o meno) precise, ma un insieme indistinto di fatti scollegati tra loro ai quali applicare il proprio giudizio morale che, ovviamente, come tutto il resto, non è frutto di storia e rapporti materiali, ma astratto e atemporale. Assoluto. Dopo 75 anni di apartheid la resistenza palestinese opta per un’operazione eclatante di ferocia inaudita? Eh, ma non si fa! Dopo 20 anni di offensiva espansionista della NATO la Federazione russa reagisce con una drammatica operazione militare? Oh mio dio, contessa! Sono avvivati i bavbavi! Dopo aver constatato il fallimento del panarabismo laico e socialista, il movimento anti-coloniale dell’Asia occidentale ripiega sull’Islam come mezzo per far risorgere la lotta di liberazione? Oh my god! Questa non è davvero la nostra resistenza! Movimenti popolari del Sud globale, nati con le migliori intenzioni, invece si trasformano, per impotenza, in ancelle dell’imperialismo a guida USA? Eh, ma son ragazzi. Vanno capiti. Loro sì che rispettano i diritti delle donne (o, almeno, di quelle che non muoiono sotto le bombe degli alleati).
Il punto è che il mondo è fatto, anche se non esclusivamente, di rapporti materiali e oggi il rapporto materiale al quale tutti gli altri sono subordinati si chiama – o, almeno, così è come lo definiamo noi – superimperialismo e, cioè, la fase matura dell’imperialismo finanziario incentrato su Washington e su Wall Street che impone vincoli, limiti e ostacoli a tutto il resto del pianeta; e l’aspetto fondamentale di questo sistema è l’unipolarismo USA e, cioè, la capacità degli USA di imporre (grazie alle istituzioni finanziarie globali e al dominio militare) gli interessi delle sue oligarchie al di sopra di tutto. Ma nonostante questo sistema abbia imposto negli ultimi 50 anni un prezzo insostenibile sul 99% dell’umanità, la capacità di opporvisi – in particolare da parte delle masse popolari dell’Occidente collettivo – è stata sostanzialmente pari a zero; anche nei rari momenti di reale mobilitazione di massa come, ad esempio, durante l’entusiasmante parentesi del movimento dei movimenti o, ancora, con l’opposizione globale all’invasione criminale dell’Iraq e, di nuovo, con il possente movimento nato in seguito alla grande crisi finanziaria del 2008, le oligarchie statunitensi non solo hanno continuato a fare beatamente cosa stracazzo gli pareva, ma – anzi – hanno colto l’occasione per accelerare il passo della loro colossale rapina. E i Paesi del Sud del mondo che hanno tentato di ribellarsi – dal Venezuela all’Iran – hanno costretto le loro popolazioni a subire conseguenze disastrose; il motivo è molto semplice: non esisteva un’alternativa. Il superimperialismo aveva prosciugato alla fonte il fiume carsico che alimentava i conflitti e li nutriva al punto da poter ambire a cambiare concretamente i rapporti di forza materiali; l’affermazione di un organismo multilaterale dei Paesi del Sud globale costretti a pagare il conto degli USA, come quello dei BRICS+, rappresenta oggettivamente un potenziale gigantesco fattore di progresso principalmente per questo motivo: mette fine alla lunga era del There is no alternative, come ci racconta il nostro buon Alessandro.

Alessandro
There is alternative! In tanti, in questi anni, si erano disperati, sicuri che per tutta la loro vita non avrebbero mai sentito queste parole, sicuri che la globalizzazione finanziaria americana sarebbe stato il destino inemendabile del pianeta e che il capitalismo oligarchico su base mondiale, dopo la sconfitta del comunismo storico, era rimasto senza alternative credibili. E invece no: There is alternative; è questa la buona novella che Ottolina Tv è venuta a portare a intere generazioni di socialisti e anti-capitalisti cresciuti a pane, rassegnazione e Mark Fisher (il quale, detto tra parentesi, oggi scriverebbe tutto un altro libro). Il lavoro da fare è ancora lungo: a causa di decenni (per non dire millenni) di suprematismo culturale che ha riguardato più o meno tutte le culture politiche e che non riusciamo a scrollarci di dosso, facciamo molta fatica ad accettare che gli attuali processi rivoluzionari e di emancipazione non nascano all’interno della cultura occidentale, ma da paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America. Ma come!? Il fronte più avanzato della lotta al capitalismo predatorio e all’imperialismo armato americano è guidato da Xi Jinping? Ma non dovevano guidarlo Carola Rackete e Nicola Fratoianni? Ma dopo aver subito passivi 40 anni di neoliberismo, invece che stare con il ditino alzato a rimproverare quello e quell’altro movimento di resistenza nazionale di non essere abbastanza raffinato e illuminato, dovremmo osservare, rispettare e, soprattutto, imparare non solo come oggi, nel 2024, si fa resistenza alla finanziarizzazione e all’imperialismo, ma soprattutto come si vince. Sì, perché è questa la seconda buona novella che abbiamo il dovere di diffondere nelle disilluse, depresse e sempre più povere popolazioni europee e, cioè, che l’alternativa non solo esiste e lotta insieme a noi, ma sta anche vincendo. E nello sconcerto dei Rampini e dei Vittorio Emanuele Parsi di tutto il mondo, il gruppo di Paesi che si ritroverà a Kazan questa settimana non lo farà per scambiarsi nuove ricette sul come cucinare bambini, ma per continuare a forgiare il mondo nuovo: è questo il punto di partenza fondamentale per capire tutto quello che sta avvenendo oggi nel mondo, dalla nostra crisi economica – a partire dai 3 fronti principali della guerra.
E allora veniamo a noi, a noi abitanti – un tempo sazi e opulenti – delle provincie occidentali dell’Impero; inutile dire che una classe dirigente capace (o anche solo veramente intenzionata) di fare gli interessi delle nazioni europee e della loro alleanza, in questi ultimi 30 anni si sarebbe comportata in maniera diametralmente opposta a come ha fatto: avrebbe preso atto dell’emergere di nuove potenze mondiali che avrebbe spostato l’asse economico e politico del mondo e avrebbe fatto leva su queste potenze per emanciparsi gradualmente dall’occupante americano, riconquistando – passo dopo passo – la sovranità perduta ormai 80 anni fa. In fondo, è nel naturale interesse del nostro Paese e del nostro continente avere ottimi rapporti politici e commerciali con tutte le grandi potenze – dalla Russia alla Cina, dall’India agli Stati Uniti -, nonché condizione indispensabile per essere, a nostra volta, un polo politico che conta e non le colonie di qualcun altro, sacrificabili all’occorrenza. In verità, ancora oggi (esercitandoci ancora in un po’ di dolce wishful thinking) un Paese come l’Italia avrebbe tutte le caratteristiche e le carte in regola per cominciare questo processo e per farsi promotrice degli interessi europei nel mondo, sviluppando progetti di cooperazione economica, finanziaria e culturale win-win con il Sud globale; e già da domani potrebbe decidere di rientrare nelle Vie della Seta, entrare nel capitale azionario e attingere nuovi fondi di investimento nella banca principale dei BRICS (la celebre New Development Bank, che sarà protagonista del percorso di dedollarizzazione), aumentare l’export della manifattura italiana nel Sud globale, farsi promotrice degli interessi italiani ed europei nell’area del Sahel (dove non siamo mal visti come i francesi), porsi come Paese mediatore in Medio Oriente e in Ucraina etc etc etc. Insomma: le cose che qualunque italiano medio troverebbe assolutamente naturali e razionali e che (proprio per questo) non vengono fatte, avendo una classe dirigente collaborazionista molto più determinata ad eseguire gli ordini di Washington che non a pensare all’interesse nazionale e continentale. Ma tant’è; illuderci che la riscossa possa arrivare dall’alto sarebbe un peccato mortale. Solo il 99%, in solidarietà con le lotte per la sovranità nazionale dei Paesi del mondo e con il loro tentativo di sbarazzarsi delle loro oligarchie predatorie, potrà riprendere in mano il proprio destino e dimostrare che il famoso tramonto dell’Europa, di cui tanti pseudo intellettuali si riempiono la bocca, è pura letteratura fantasy. Per rendere tutto questo possibile e per tornare anche noi a vincere, abbiamo però bisogno di un media non controllato dalle oligarchie politiche collaborazioniste e dalle loro aziende; un media che racconti il mondo per come è e non per come gli analfoliberali vorrebbero che fosse; un media schierato dalla parte dell’Italia, dell’Europa, dei BRICS e del 99%, contro ogni imperialismo e predazione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal (e chi non aderisce è Paolo Flores d’Arcais).

Giuliano
“Illuderci che la riscossa possa arrivare dall’alto” sottolinea Alessandro “sarebbe un peccato mortale”: è quello che intendiamo quando parliamo di riscossa multipopolare e, cioè, un mix tra multipolare e popolare; la transizione verso un nuovo ordine multipolare è la dinamica principale della fase storica che stiamo attraversando e rappresenta una gigantesca opportunità che, per essere colta, deve essere riempita di contenuti dal ritorno del protagonismo delle masse popolari, sia nel Sud che nel Nord del pianeta. In cosa consista la proposta concreta che, dopo 16 lunghi anni di vita, i BRICS+ metteranno sul tavolo – a partire da domani – proprio per dare una base materiale tangibile a questa transizione a un nuovo ordine multipolare (soprattutto dal punto di vista finanziario) lo approfondiremo meglio in un altro pippone ad hoc domani; oggi qui, per chiudere questo lungo video, ci limitiamo ad elencare gli aspetti fondamentali che il rapporto preparato dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale russa ha elencato come principali distorsioni del sistema unipolare fondato sulla dittatura del dollaro, in cui siamo ancora immersi, e a fare un paio di valutazioni sul significato politico generale di questo tipo di lettura. Il primo aspetto da sottolineare è che l’intero rapporto, ancor prima degli aspetti di iniquità dell’architettura finanziaria globale attuale, punta in realtà a sottolineare le sue disfunzionalità e la sua sostanziale insostenibilità dal punto di vista proprio dell’accumulazione capitalistica: il rapporto, infatti, sottolinea come la quota degli scambi commerciali tra economie emergenti rispetto al totale globale è passata dal 10% di 30 anni fa al 26% attuale, ed è previsto che raggiunga il 32% entro il 2032

e, cioè, appena 5 punti in meno rispetto allo scambio commerciale tra economie sviluppate; ciononostante, si continua in tutti i modi a cercare di tenere in vita il ricorso al dollaro come valuta standard per il commercio internazionale e questo ostacola in modo spropositato gli investimenti transfrontalieri tra i Paesi in via di sviluppo. Nonostante il ruolo di primissimo piano raggiunto nel commercio globale, infatti, solo l’11% degli investimenti globali sono investimenti che le economie emergenti fanno in altre economie emergenti; il grosso, invece, continua ad essere drenato dalle economie più sviluppate e ovviamente, in particolare, verso i mercati finanziari USA che, invece che contribuire alla crescita della produzione di ricchezza globale, la affossano: questo, però, il rapporto (volutamente) non lo dice. L’obiettivo non è fare la morale alle élite economiche del Sud globale che impoveriscono i loro Paesi per fare fortuna a Wall Street, ma sottolineare come – nonostante, così, facciano un sacco di soldi – alla fine questo meccanismo non è sostenibile; e ci sono, invece, altre possibilità molto più sostenibili di fare altrettanti soldi senza continuare a impoverire il Sud del mondo a vantaggio del Nord.
Quello che infatti, invece, il rapporto sottolinea in modo molto accurato è che molti dei loro soldi che abbandonano il Sud globale per cercare remunerazioni migliori, in realtà, alla fine sono costretti ad accontentarsi dei titoli del tesoro statunitense che negli ultimi 10 anni – in media – hanno avuto remunerazioni più basse addirittura dell’inflazione; e quindi, invece che arricchirli, li hanno impoveriti, mentre a casa c’erano migliaia e migliaia di opportunità di fare soldi attraverso l’economia reale che, però, non venivano sfruttate perché mancavano capitali adeguati. La distorsione attuale, ovviamente – sottolinea il rapporto – è dovuta al monopolio del dollaro e degli USA sulle istituzioni finanziarie globali, che a lungo è stato accettato supinamente perché si pensava che il mercato globale, per funzionare, avesse necessariamente bisogno di una valuta di riserva globale e che questa (ovviamente) non potesse che essere quella della potenza egemone; ma secondo il rapporto questa necessità oggi non esiste più: “La ricerca universale di una valuta mondiale è stata una conseguenza dell’asimmetria informativa globale, che era uno stato naturale per gli operatori commerciali che non avevano mezzi efficaci per comunicare tra loro su scala mondiale in tempo reale. Pertanto, fare affidamento su un unico mezzo di scambio accettato universalmente era il modo più sicuro e prevedibile di condurre affari”. Ora però, continua il rapporto, “l’asimmetria informativa è quasi scomparsa: i partecipanti sono in grado di elaborare in modo efficace i prezzi di ogni merce in ogni valuta in tempo reale” e quindi “la necessità di una moneta mondiale sta scomparendo”. Come si articola la proposta concreta per sostituire un sistema incentrato su un’unica valuta – universalmente riconosciuta come la valuta di riserva globale – con un nuovo sistema multipolare anche dal punto di vista valutario, lo approfondiremo domani; quello che qui volevo sottolineare, prima di salutarci, è come il rapporto, mentre sottolinea come gli squilibri attuali sono destinati a mettere definitivamente a repentaglio la stabilità finanziaria globale, dall’altra fa di tutto per rassicurare le oligarchie globali che con la transizione a un ordine multipolare, anche dal punto di vista valutario le occasioni per arricchirsi non solo non diminuirebbero, ma (paradossalmente) potrebbero anche aumentare: secondo il rapporto, infatti, alcuni Paesi (e, ovviamente, il riferimento qui, in particolare, è alla Cina) oggi pongono degli ostacoli alla libera circolazione dei capitali – e quindi alle opportunità di valorizzazione del capitale – proprio perché oggi aprirsi alla libera circolazione dei capitali significa assecondare questa gigantesco drenaggio di risorse da parte di una parte del mondo contro un’altra. Se, invece, si creasse un’architettura finanziaria che non si va a sostituire a quella attuale, ma ad aggiungere, rompendo questa condizione di monopolio, i Paesi come la Cina sarebbero incentivati a liberalizzare di più il loro mercato dei capitali perché non sarebbe di per se un suicidio, o un regalo; ma non solo: a questo punto, liberalizzare i mercati per i Paesi più restii diventerebbe una necessità, perché se vogliono che le loro valute diventino valute utilizzate negli scambi internazionali, hanno bisogno di garantirne la stabilità e la stabilità la si garantisce, appunto, liberalizzando, che sostanzialmente significa dare garanzie che il governo non può manipolare l’andamento della valuta a suo piacere, a seconda dei suoi obiettivi di politica economica.
La liberalizzazione del mercato dei capitali delle grandi economie emergenti – e, in particolare, della Cina – è da sempre il sogno del grande capitale internazionale: quando leggete tutte quelle puttanate su Xi Jinping autocrate che ha impresso un’ulteriore svolta totalitaria al Paese alla quale abboccano, immancabilmente, anche le fazioni più sinistrate dell’analfoliberalismo, in realtà è la finanza occidentale che si lamenta perché Xi, invece di aprirsi all’assalto dei capitali stranieri, ha aumentato il livello di controllo sovrano sui flussi finanziari; e la promessa di una maggiore liberalizzazione dei flussi di capitali non è l’unico ramoscello d’ulivo che la feroce federazione russa porge alle oligarchie occidentali. Buona parte del rapporto, infatti, è dedicata a promuovere le gigantesche opportunità di guadagno che si aprirebbero per i capitali di tutto il mondo in termini di partnership pubblico-privato grazie a un sistema finanziario più democratico: è esattamente il meccanismo del derisking finanziario che abbiamo denunciato milioni di volte, lo Stato sovrano che si mette a disposizione dell’accumulazione capitalistica garantendo, grazie all’utilizzo spregiudicato del monopolio della forza entro i suoi confini nazionali, una remunerazione adeguata dei capitali, in particolare – udite udite – per quanto riguarda proprio gli enormi investimenti necessari per portare avanti la transizione ecologica, che i funzionari di Putin definiscono – senza se e senza ma – esistenziale. Insomma: per rimanere al linguaggio forbito che gli amici dell’alt right hanno contribuito a far diventare senso comune nel mondo del dissenso de noantri, Putin è diventato gretino e servo di Karl Schwab e di Larry Fink (e, giudizio personale, ha fatto anche parecchio, ma parecchio bene). Frequentare zio Xi, evidentemente, gli ha fatto bene: la Cina, infatti, da Paese del terzo mondo, nell’arco di 40 anni è diventata l’unica vera superpotenza manifatturiera del globo esattamente facendo fare un sacco di soldi ai più spregiudicati tra gli ultra-ricchi statunitensi. E non solo: ha fatto leva sul fatto che il capitale (come insegnava quel barbuto di Treviri) non è particolarmente lungimirante; è guidato dall’ingordigia e dalla voracità, e quando si tratta di pianificare è abbastanza scarsino. La Cina, così, l’ha attirato come il miele garantendogli la possibilità di fare una quantità di quattrini spropositata, solo che, mentre li faceva arricchire, invece che diventare sempre più simile e dipendente dall’Occidente (come avevano previsto le oligarchie occidentali), sfruttava quei capitali per seguire una sua via sovrana allo sviluppo e diventare sempre più indipendente. Insomma: una volta tanto, a usare la cara vecchia strategia del divide et impera non era il centro imperiale, ma una ex colonia che lottava per portare a termine la sua guerra di liberazione nazionale.
Ecco: l’impressione chiara che si ha leggendo il lungo rapporto del ministero delle finanze e della Banca Centrale della Federazione russa è che abbiano imparato la lezione; ora – sia chiaro – tra il dire e il fare c’è di mezzo e il e questa partita non è complessa: di più. Ma se siamo i primi a sottolineare sempre che la terza guerra mondiale è già scoppiata e che le guerre mondiali finiscono solo quando qualcuno perde, bene: se c’è ancora una remota ipotesi che ci si possa fermare prima che sia troppo tardi forse sta proprio qui; o meglio qui, in questo documento, insieme ai Kinzhal in Ucraina, alla supremazia navale cinese a Taiwan e ai missili balistici iraniani. Il segnale che le potenze emergenti del Sud globale hanno inviato manu militari dai tre fronti, infatti, è che la guerra convenzionale l’imperialismo a guida USA non la può vincere; ciononostante, anche se non la puoi vincere, quando la guerra rimane l’unica possibilità che hai per non soccombere, quella rimane la via. A meno che, appunto, alle tue oligarchie non venga offerto un ramoscello d’ulivo così consistente da convincerle che tutto sommato, nel medio termine, anche durante questa fantomatica transizione a un nuovo ordine multipolare occasioni per continuare a fare una quantità spropositata di quattrini non mancano, anzi! Poi domani si vedrà, tanto le oligarchie – nonostante i tappeti rossi che gli stende la propaganda – qualche limite cognitivo ce l’hanno eccome, proprio come classe sociale; e a pensare a domani fanno abbastanza fatica, come insegna il caso cinese. Ad aiutarle a non capire una seganiente delle conseguenze delle loro azioni – va ammesso – dà un bel contributo anche l’informazione mainstream, ormai interamente trasformata in propaganda autoreferenziale, come sempre accade quando gli imperi volgono verso il declino; un lusso che, però, noi non ci possiamo permettere perché questa gigantesca trasformazione rappresenta senz’altro un’occasione. Ma le occasioni vanno anche sapute sfruttare e, per sfruttarle, abbiamo bisogno di organizzarci; e, per organizzarci, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che guardi il mondo dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Furto di leaks top secret del Pentagono: svelato piano di Israele per attaccare l’Iran

Mentre aumentano le tensioni tra Israele e Teheran, un canale Telegram pubblica un documento che fa saltare in aria il Pentagono e l’intelligence di tutta l’anglosfera; si tratta di due leaks della Difesa americana sui preparativi di un attacco israeliano contro l’Iran condotto su larga scala. Le informazioni, consegnate a Middle East Spectator da un anonimo presunto whistleblower del DoD, confermano tra le altre cose che Israele possiede testate nucleari e che non ha intenzione di usarle. Questa sera, in diretta per il consueto appuntamento domenicale de La Bolla, ospiteremo Francesco Dall’ Aglio e Demostenes Floros per fare il punto sulla guerra nel vicino Oriente e cosa dicono i mercati energetici delle prossime mosse dei due principali attori regionali.

Cosm8lina ep. 4 – Geopolitica dello Spazio. Intervista a Marcello Spagnulo (parte 2)

Oggi abbiamo il piacere di proporvi la seconda parte dell’intervista all’ingegner Marcello Spagnulo, esperto al tavolo tecnico del Comitato Interministeriale per le Politiche Spaziali e Aerospaziali e consigliere scientifico della rivista Limes. Parleremo della progressiva militarizzazione dello spazio extratmosferico e dell’utilizzo delle costellazioni satellitari nel conflitto russo-ucraino. Commenteremo inoltre eventi di stringente attualità, come il volo inaugurale di Ariane 6 e il DDL Spazio.

¡Desaparecinema! ep. 18 – DeMentis Torrent, la scatola magica e il cinema

Oggi ci divertiamo un po’ perché vi voglio parlare di un film assurdo che conoscono in pochissimi, nonostante su Youtube abbia 150.000 visualizzazioni. Perciò scardinerò ogni regola, come fa questo film del 2017 diretto da Massimiliano Melis con Antonio Landi, Jack Gallo e Giorgio Trestini; quest’ultimo è l’attore di decine di film di genere italiani degli anni ’70 e ’80, tra cui pellicole di Lucio Fulci (I quattro dell’apocalisse), Fernando Di Leo (Milano Calibro 9), Sergio Martino (Ricchi, ricchissimi, praticamente in mutande) e Bruno Corbucci (Delitto sull’autostrada). Un utente Youtube, qualche settimana fa, lasciò un commento sotto un mio video in cui parlavo della politica nei film e dei film politici e mi chiedevo se – per paradosso – esistesse un film non politico visto, per esempio, quanto dice Wim Wenders a questo proposito: “Ogni film è politico. I più politici di tutti sono quelli che fanno finta di non esserlo: i film di intrattenimento. Sono i film più politici che ci siano perché rifiutano la possibilità di cambiare. In ogni fotogramma ti dicono che tutto va bene così com’è. Sono una continua pubblicità delle cose così come sono”. L’utente Youtube mi ha scritto che secondo lui esiste un film completamente non politico: DeMentis Torrent e la scatola magica. Non ne avevo mai sentito parlare e, ovviamente, mi è subito salita la scimmia della curiosità. Prima di cercarlo su Youtube, ho fatto un esperimento e ho chiesto informazioni a Chat GPT con questo prompt: “Vorrei una recensione approfondita del film indipendente DeMentis Torrent e la scatola magica”. ChatGPT ha risposto: “Al momento non esistono informazioni riguardanti un film chiamato DeMentis Torrent e la scatola magica. Potrebbe trattarsi di un’opera indipendente poco conosciuta o di un titolo recente non ancora ampiamente recensito”. La scimmia è diventata un orango e intanto mi chiedevo che tipo di film sarà? Una roba tipo la serie Tv di Lori Del Santo The Lady? Oppure come il film turco su Superman, un’operazione volutamente trash? Oppure come il film, sempre turco, su Rambo? Stavolta un’operazione serissima. Oppure, pensavo, sarà mica una roba tipo Alex l’ariete con Alberto Tomba? Però questi film, in effetti, sono molto famosi proprio per la loro bruttezza, mentre DeMentis è sconosciuto. E comunque di film brutti parleremo presto, anche grazie alle vostre segnalazioni che sono arrivate a decine (e se volete continuare a segnalarne altri fatelo pure qui sotto): tra queste segnalazioni ci sono Ennio Doris, tutti i film di Veltroni, il film appena uscito in America su Ronald Reagan, Tre piani di Nanni Moretti, o il prossimo film di Elly Schlein, visto quanto ha dichiarato il 10 ottobre scorso… Poi ho capito: ma certo! L’utente Youtube starà parlando di una roba tipo C’è ancora domani! Ma no, ho pensato subito dopo: il film della Cortellesi purtroppo è ultra-politico (nel senso che segna la morte della politica, dell’autoironia e della complessità). Niente di tutto questo, fratelli. Così ho cercato di capire a cosa si potesse riferire la scatola magica e ho trovato un cortometraggio del 1996, La scatola magica appunto, con Leo Gullotta, la cui trama recita: “Un critico cinematografico tutti i giorni deve visionare e giudicare film realizzati da giovani autori. A fine giornata trova una scatola di pellicola e se la porta a casa. Durante la notte la pellicola magica vendica gli autori respinti” e mi sono detto che forse era il giusto riferimento: magari DeMentis Torrent è un film-vendetta di qualcuno che è stato respinto da un produttore o recensito male da un critico e ha deciso di prendere per il culo il Cinema nella sua totalità. Ma no, mi son detto poi: troppo banale. Poi ho trovato un romanzo di Terry Brooks, La scatola magica di Landover; Brooks è un prolifico autore di romanzi fantasy. E io odio il fantasy; cioè, prima mi piaceva, poi quando avevo tre anni ha iniziato a stancarmi. Ancora: ho scoperto dell’esistenza di un film dal titolo L’uomo della scatola magica, un film del 2017 (dello stesso anno di DeMentis Torrent) diretto da Bodo Kox; una storia di fantascienza polacca su un futuro distopico, ambientato nel 2030 sotto un regime autoritario e opprimente. Chissà, magari il film vuole ermeticamente denunciare la stessa cosa. Ma no, alla fine neppure questo mi ha convinto perché, approfondendo la trama, la scatola magica del titolo è una radio degli anni Cinquanta che trasmette vecchie canzoni in una realtà dove la musica è drasticamente vietata dalle autorità. E se la scatola magica fosse, ironicamente, la Tv? Che ha distrutto il cinema? Oppure magari la scatola magica è il cinema stesso, quello delle origini? La lanterna magica, simile a una scatola, era un primo tipo di proiettore di immagini che utilizzava dipinti, stampe o fotografie; fu sviluppata nel XVII secolo e utilizzata comunemente per scopi di intrattenimento. Nel corso del XIX secolo è stata sempre più utilizzata a scopo didattico. La lanterna magica non solo era un antenato diretto del proiettore cinematografico come mezzo per la narrazione visiva, ma poteva essere usata essa stessa per proiettare immagini in movimento. Oppure un’altra scatola, alle origini del cinema: il Kinetoscopio di Edison? Praticamente una grande scatola sulla quale lo spettatore si chinava per osservare le immagini attraverso un visore; trent’anni prima della nascita del cinema sonoro, alla fine degli anni ‘30, il Kinetoscopio permetteva di riprodurre suoni e musica sincronizzati con le immagini, ma non era possibile amplificarli. Per questo, nonostante il Kinetoscopio fosse tecnicamente più avanzato del cinematografo dei fratelli Lumière, fu quest’ultimo a prevalere perché proiettava le immagini in movimento, seppur mute, su un schermo permettendo una visione collettiva. Insomma: mentre il Kinetoscopio era pensato come uno strumento da fiera – tipo un biliardino in una sala giochi – il Cinematografo si proponeva come diretto erede del teatro (anche se col tempo, con la nascita del cinema narrativo grazie a David Wark Griffith negli anni ‘10, è divenuto – secondo me – l’erede della letteratura).
Sconfortato, ho fatto un’altra domanda a Chat GPT, ma ha continuato a non sapermi dire nulla; però stavolta ha aggiunto: “Tuttavia, se desideri una recensione o un’analisi approfondita, potresti fornire più dettagli sul film, come la trama, i temi, i personaggi o le caratteristiche stilistiche. Con queste informazioni potrei costruire una recensione critica basata sui suoi contenuti e sulle particolarità narrative e visive del film”. Allora ho fatto una terza domanda, stavolta inserendo come prompt il testo di descrizione che accompagna il film su Youtube (non ve lo leggo perché, come me, non ci capireste nulla, che è esattamente il punto della questione) e, finalmente, Chat GPT si è illuminato e ha scritto una approfondita recensione di DeMentis Torrent e la scatola magica.

Sardegna: transizione energetica o speculazione?

La Sardegna è al centro di un dibattito acceso sulla transizione energetica, ovvero il passaggio dalle fonti fossili alle rinnovabili. Da un lato, i governi Draghi e Meloni hanno introdotto facilitazioni per le aziende che vogliono investire nelle rinnovabili, attratte anche dai contributi pubblici. Dall’altro, una vasta rete di comitati locali si oppone, denunciando che dietro questa transizione si nasconda una speculazione economica e ambientale. Questi comitati hanno raccolto 210 mila firme per una legge che, sfruttando lo Statuto Speciale della Sardegna, punti sull’autoconsumo energetico. La puntata approfondirà le diverse posizioni: chi vede in questa transizione una forma di colonialismo moderno e chi, nonostante le criticità, la considera un’opportunità positiva per l’isola. Ospiti saranno il giornalista d’inchiesta Piero Loi, autore di Barones de s’energia, Luigi Pisci della Rete Pratobello24, Mauro Romanelli, presidente di Ecolobby e Fabio Roggiolani, presidente di Ecofuturo.

Disintegrazioni e differenziazioni europee

L’austerità europea impedisce gli investimenti e favorisce l’abbandono del Mezzogiorno? L’accelerazione del processo di Autonomia differenziata è conseguente all’imperialismo finanziario statunitense, alla crisi dell’industria tedesca e all’attuale livello dei tassi BCE? La lotta per l’Autonomia differenziata è il terreno di scontro su cui le due destre si contendono la gestione del processo di sottosviluppo indotto tanto nel Sud quanto nel Nord? A domande come queste Andrea Del Monaco risponde e ci avverte: dietro la secessione dei ricchi si nasconde un nuovo genere di colonialismo interno, senza più alcuna foglia di fico, il colonialismo costituzionale italiano!

Come ricostruire un grande movimento per la pace – ft. Martina Leonardi e Leonardo Cribio

Oggi il nostro Gabriele Germani ha intervistato Martina Leonardi (candidata alle regionali umbre del Partito Comunista e di Potere al Popolo) e Leonardo Cribio del Coordinamento per la Pace di Milano. Il confronto è partito da un articolo scritto da Martina in cui si parla anche della questione palestinese e di come opporsi al genocidio. Abbiamo anche presentato la manifestazione del 26 ottobre a Milano presso la Stazione Centrale che si terrà per la pace. Tanti temi che si uniscono: educazione alla pace, disarmo, rispetto dell’ambiente, ripensare l’economia e le relazioni internazionali.