Non è un tg, non è un rotocalco, non è il fantastico regno degli unicorni con la faccia di Marrucci (ma ci piacerebbe): è piuttosto il sogno erotico di ogni vero ottoliner che si rispetti; una sequela di notizie da tutto il globo terracqueo per raccontare il crollo finale (e stavolta per davvero) dell’Impero USA! Giuliano Marrucci e la sua crew esordiscono oggi con il (non) TG di Ottolina Tv, il TG del 99% (unicorni maoisti inclusi).
Sinistra ZTL non è un’offesa, ma una vera e propria categoria sociologica che indica una mutazione storica fondamentale nella politica della sinistra occidentale; tutte le rilevazioni post elettorali, sia in Italia che in Europa, ci indicano infatti che, nella stragrande maggioranza dei casi, i partiti di sinistra e centrosinistra sono votati da elettori con alti redditi. Una situazione di completo ribaltamento rispetto a quanto era accaduto nel‘900, rispetto cioè a quando i partiti e gli intellettuali socialisti si erano posti il compito di rappresentare gli interessi degli ultimi e portarli al governo e, per questo, avevano radicato il proprio consenso tra le classi popolari. Ma che cosa è accaduto dopo? E quale è, invece, il compito politico e la visione del mondo della nuova sinistra 2.0 completamente inglobata nelle logiche oligarchiche e imperialiste del capitalismo neoliberista? Lo vedremo tra poco con questa ripubblicazione di un pippone di Alessandro dedicato ad approfondire le espressioni politiche più ipocrite e snob della classe dominante.
La settimana scorsa a Sochi si è celebrato il ventunesimo vertice del Valdai Discussion Club, il prestigioso forum di discussione internazionale fondato in Russia nell’ormai lontano 2004 e che, da allora, promuove il dialogo tra intellettuali e studiosi di tutto il pianeta sulle principali questioni globali; e a chiusura del vertice, è intervenuto direttamente Vladimir Putin e non solo per tenere il suo ormai rituale discorso, che quest’anno è stato particolarmente lungo e approfondito, ma anche per rispondere per 4 ore consecutive alle varie domande poste dagli innumerevoli gruppi di lavoro del Valdai Club: dal clima, alla finanza, dai rapporti con l’Europa al Medio Oriente, dalle politiche energetiche al dialogo interculturale. Difficile trovare un leader di una grande potenza che si misuri in modo così ampio e olistico con una quantità così smisurata di argomenti dal vivo davanti a una platea di questo livello; non esattamente coerente con l’immagine dell’autocrate isolato, paranoico e autoreferenziale che viene promossa dalla propaganda occidentale. Nell’arco di queste 4 ore, inevitabilmente, abbiamo sentito anche molte cose che non ci sono piaciute, ma c’è un aspetto che, in ogni ambito, ha prevalso su tutto il resto: la necessità di porre fine a una lunga stagione della storia dell’umanità dove da un lato c’era una minuscola minoranza portatrice di una verità universale e, dall’altra, una massa informe di popoli barbarici che dovevano soltanto essere educati e civilizzati. “Il mondo nuovo”, ha sottolineato Putin più volte – prima nel discorso e, poi, nel dibattito – “aborre la superbia”. L’era dell’imposizione con la forza dell’egemonia da parte di un’unica potenza al resto del pianeta è finita e i tentativi maldestri delle ex potenze coloniali di prendere atto di questo fatto concreto e incontrovertibile sono quello che oggi mette a rischio l’umanità e ne impedisce uno sviluppo comune e pacifico, seppur inevitabilmente complesso e ricco di contraddizioni. Insomma,: oggi, al posto mio, abbiamo pensato avesse senso che a farvi un bel pippone fosse direttamente Putin.
Coltivare la via del dialogo e della mediazione anche quando si parte da posizioni e interessi molto diversi e realizzare che la diversità non è solo ineliminabile, ma alla fine potrebbe essere anche una ricchezza – se non, addirittura, la vera ricchezza della società umana su questo pianeta: sembra una formula retorica (e in parte, ovviamente, lo è), ma anche le formule retoriche, spesso, racchiudono qualcosa di più concreto e tangibile; il punto è che, dalla sua nascita, l’affermarsi su scala globale delle esigenze intrinseche dell’accumulazione capitalistica è diventato il principio ordinatore dell’intero sistema mondo. Questo significa che, con ogni mezzo necessario, si dovevano appunto asfaltare tutte le differenze e trasformare ogni angolo del pianeta, le sue risorse e i popoli che lo abitano, in semplici elementi funzionali all’interno di un’unica logica totalitaria che veniva presentata come impersonale, oggettiva e universale; d’altronde, la potenza modernizzatrice di questo rivoluzionario modo di produzione sociale è decisamente innegabile e racchiude potenzialità di emancipazione enormi nei confronti di tutti i meccanismi di dominio che si consolidano e stratificano in ogni cultura tradizionale. Abbagliati dalle promesse della grande rivoluzione capitalista globale, però, abbiamo spesso omesso di sottolineare abbastanza (e, forse, anche di comprendere) che a muoverla non era il desiderio di liberazione dei popoli e dei subalterni, ma la volontà di potenza di una ristrettissima classe sociale: le oligarchie europee prima, e dell’Occidente collettivo poi, un abbaglio che ultimamente è tornato a farsi sentire con forza nelle parole sconcertanti dell’ex Segretario di Stato per gli Affari Esteri del Regno Unito James Cleverly. “L’eredità britannica” ha affermato “ha contribuito a costruire infrastrutture, istituzioni democratiche e sistemi legali in molte delle nostre ex colonie, facilitando il loro sviluppo economico e sociale”; tornare a riconoscere le differenze e le specificità delle varie civiltà è sostanzialmente un portato della grande lotta anticoloniale che in mezzo a mille contraddizioni ci costringerà a confrontarci con un pianeta reale dove a dettare legge non potrà più essere un manipolo di oligarchi occidentali. Per fare la nostra parte abbiamo bisogno di un vero e proprio media che smonti alla radice la propaganda falsamente universalista di quel che rimane del suprematismo occidentale; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Ottolina Uncensored: tutti i crimini dell’imperialismo come non ve li hanno mai raccontati i media di massa. Cosa accade realmente in Medio Oriente? Come il capitalismo fomenta odio, divisioni e razzismo? Quale violenza brutale si nasconde dietro i meccanismi neocoloniali? Lo scopriamo in questo appuntamento settimanale fuori da YouTube con Clara Statello e Gabriele Germani su Telegram, X, Rumble e chiaramente sul nostro sito. Vi aspettiamo!
Nella scorsa settimana ci sono stati due eventi che vanno nella stessa direzione, cioè ci raccontano il tramonto della strategia dell’amministrazione Biden di isolare la Cina sul piano del commercio internazionale, il cosiddetto decoupling e de-risking. il primo segnale arriva dalla Lituania, il secondo dall’Italia, con la visita di Sergio Mattarella a Pechino. Ne parliamo in questo video!
Lo scettico barone Frederick von Frankenstin, nipote di Victor von Frankenstein, eredita la tenuta di famiglia in Transilvania e si reca in Europa per ispezionare la proprietà. Ma le cose non vanno esattamente come aveva immaginato: questa è la premessa narrativa di Frankenstein Junior. Voi pensate di aver riso le vostre migliori risate con questo film, ma in realtà chi si è divertita di più è stata la troupe: per esempio, durante la scena in cui il cieco (interpretato da Gene Hackman) accoglie Frankenstein senza rendersi conto di chi è, la battuta “Stavo per fare un espresso” non era prevista dal copione, ma è stata improvvisata da Gene Hackman durante le riprese. Per questo la scena si chiude con una dissolvenza a nero immediata: perché la troupe è subito scoppiata in una risata. Brooks e il cast si divertirono tanto a girare il film che furono sconvolti quando le riprese principali erano quasi terminate e furono scritte scene aggiuntive per continuarle. L’ultimo giorno di set, infatti, Gene Wilder disse a Mel Brooks: “Ho altre idee per altre scene del film”; e Brooks: “Gene, è finita. L’abbiamo girato. Ha un inizio, una parte centrale e una fine. Perfetto!” Gene si seppellì il viso tra le mani e disse: “Mel, non voglio andare a casa. Voglio restare qui. Questo è il momento più felice della mia vita”.
Bentornati per la prima puntata de La Bolla della Nuova Era Trump. Il ritorno alla Casa Bianca dell’amico di Putin spaventa Kiev che adesso teme di perdere il suo principale sponsor. Donald Trump ha più volte promesso una soluzione per il cessate il fuoco in 24 ore e si è circondato di personalità come Vance e Elon Musk che mettono in discussione l’assistenza militare e finanziaria dell’America fino a discreditare pubblicamente sui social Zelensky. Tuttavia, le pubblicazioni sul Wall Street Journal e The Telegraph ridimensionano speranze di pace e pensiero magico di tanti: più che finire la guerra, l’America si sfila dalla guerra lasciando all’Europa la patata bollente, come volevasi dimostrare. Nel piano si ipotizza di congelare la guerra e inviare i soldati europei lungo 800 miglia della zona “demilitarizzata” del fronte. Non è riuscito Macron a portare i nostri militari in Ucraina; ci riuscirà Trump? Ne parliamo con Francesco Dall’Aglio e Stefano Orsi.
Trump non ha fatto in tempo ad essere eletto che ha già deciso un cambio di personale nei vertici dell’amministrazione delle colonie europee: il governo Scholz è caduto. Battute a parte, dopo anni di lenta agonia politica e spaventosa crisi economica, la Germania, la grande sconfitta del conflitto russo-ucraino, andrà alle elezioni anticipate entro pochi mesi. Il 6 novembre Scholz ha infatti licenziato il ministro delle finanze Chistian Lindner, leader di uno dei 3 partiti della coalizione di governo, per questioni “fiscali”: Lindner si è infatti opposto all’intenzione del cancelliere di fare nuovo debito per finanziare le nuove riforme. Friedrich Merz, leader della CDU e uomo fidato di BlackRock, si appresta così – con ogni probabilità – a diventare il nuovo cancelliere tedesco dopo le elezioni, anche se c’è da capire con quale coalizione a supportarlo. Ne abbiamo parlato con Gabriele Guzzi e Giacomo Mariotto.
Il consueto appuntamento del sabato questa settimana inizia con una breve intro di Fabio Marcelli (CRED) per parlare dei rapporti tra Cina e Stati Uniti nella nuova presidenza Trump. Segue poi una discussione attorno alla nuova strategia russa e alla possibile caduta di Kurakhovo in Ucraina. Abbiamo poi parlato di Palestina, Corea del Nord, Moldavia e Georgia nel consueto giro attorno al mondo.
Lucertolone è tornato, v’era mancato? Nelle ultime settimane si è discusso molto del cosiddetto Rapporto Draghi, una relazione sul “futuro della competitività europea”, preparata su incarico della Commissione guidata da Ursula von der Leyen e già elevata dai media italiani allo status di sacra scrittura. Un manifesto ideologico, ma sicuramente impietoso rispetto allo stato dell’economia continentale e che ha l’innegabile merito di condurre un’analisi critica di tutto ciò che non ha funzionato fino ad oggi. OttolinaTV lo ha già sviscerato in lungo e largo: qui, qui, qui e pure qui, mentre in questa puntata ci soffermeremo sul capitolo 8, specificatamente dedicato allo Spazio e che in estrema sintesi, potrebbe essere riassunto così: San Mario Pio da Goldman Sachs vuole regalare l’economia spaziale europea alle oligarchie e trasformarla in uno strumento della Grande Guerra degli USA contro il resto del mondo. Lo Spazio, scrive enfaticamente San Mario Pio nel suo rapporto, è un settore chiave per “l’innovazione tecnologica, la resilienza e la sicurezza della società moderna”. Le tecnologie spaziali sono infatti innumerevoli, così come lo sono i loro campi di applicazione. In tale ambito, il Vecchio Continente ha raggiunto numerosi primati, frutto una lunga e consolidata tradizione, che nel corso dei decenni ha prodotto asset strategici e competenze tecniche di prim’ordine, oltre che una moltitudine di posti di lavoro altamente qualificati, che hanno portato i Paesi europei a diventare dei veri e propri leader nella costruzione di satelliti. Tra gli esempi, troviamo il sistema di posizionamento globale “Galileo”, più preciso del GPS e per questo fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e il programma “Copernicus”, per la raccolta dati nell’osservazione terrestre, come servizio di monitoraggio climatico e ambientale. Il rapporto Draghi evidenzia poi le importanti ricadute economiche di tecnologie ed applicazioni spaziali. Nel 2023 la Space Economy rappresentava una fetta di mercato con un valore complessivo di 630 miliardi di dollari, con una crescita media annua del 9%, che secondo le stime la porterà ad un giro d’affari di 1800 miliardi entro il 2035. L’intero settore negli ultimi anni sta andando incontro a dei cambiamenti strutturali, in un dinamismo spesso riassunto nel termine “New Space”, proprio per indicare l’emergere dell’industria spaziale privata, che si sta rapidamente affiancando ai classici protagonisti dei grandi progetti spaziali, i governi nazionali e le partnership internazionali, talvolta anche sostituendoli. Di fronte ad uno scenario in così rapido mutamento tuttavia l’Unione Europea, le cui attività economiche e industriali nel settore spaziale coincidono sempre, per il Rapporto Draghi, – chissà perché – con quelle ben maggiori dell’intera Europa, ha perso notevolmente terreno nelle attività spaziali, e corre il rischio di subire una forte dipendenza strategica verso altri attori internazionali, primi fra tutti gli Stati Uniti. Lo squilibrio tra Europa e USA viene da lontano. Negli ultimi quarant’anni, fa notare Draghi, gli investimenti europei erano pari mediamente a circa il 15-20% di quelli americani e al giorno d’oggi, la situazione è ben lontana dal migliorare. Nel 2023 infatti, la spesa pubblica americana per il settore spaziale ammontava a 73 miliardi di dollari, contro i soli 13 miliardi dei Paesi europei. Più di cinque volte tanto. Certo, c’è da dire che tale cifra è costituita in buona parte dal budget previsto per la difesa, cioè circa il 60% del totale. A tal proposito, alcuni osservatori hanno inquadrato il fenomeno in una sorta di keynesismo militare, foriero di grandi benefici per la base industriale americana, che può sempre contare su un’elevata domanda, assicurata proprio dalle commesse federali, le quali consentono da un lato un forte sviluppo tecnologico delle imprese e dall’altro il raggiungimento della giusta economia di scala necessaria a sostenerle.
Eppure, a dirla tutta, il divario tra Europa e Stati Uniti riguarda anche gli investimenti pubblici nel settore della Ricerca e Sviluppo. Un riflesso delle politiche di austerità tradizionalmente adottate dalla classe dirigente dell’Unione Europea, di cui Mario Draghi è sempre stato un organico esecutore. Insomma, siamo alle comiche. Lucertolone scopre che l’industria europea è devastata dall’austerità e se ne lamenta. Meglio tardi che mai, ci verrebbe da dire. Ma a questo punto, meglio infierire. Il report non prende minimamente in considerazione le differenze sistemiche tra le politiche spaziali europee e quelle dei principali competitor come USA, Russia, India e Cina, limitandosi ad una mera comparazione quantitativa, da cui però traspare un dato importante. Leggiamo infatti che sempre nell’anno 2023, la Repubblica Popolare Cinese ha dedicato al comparto spaziale circa 14 miliardi di dollari, già più di noi, con un tonnellaggio messo in orbita per conto di programmi spaziali istituzionali già superiore a USA e Europa messi insieme e si prevede, analizzando le tendenze attuali, che il divario con il Vecchio Continente continui ad aumentare nel prossimo futuro. Ad aggravare il tutto l’UE sembra incapace di attrarre investimenti in un settore come lo spazio, ad “alta tecnologia e ad alta intensità di capitale, con cicli di investimento lunghi e, quindi, ad alto rischio”. L’insufficiente spesa pubblica non è pertanto compensata dai capitali privati i quali, date le condizioni, preferiscono riversarsi sul mercato statunitense, ben più remunerativo. Nel 2023, a fronte di 4 miliardi investiti negli USA, solo 1 miliardo è finito in Europa. Il divario di investimenti produce danni tangibili. Possiamo riscontrare un chiaro esempio del declino europeo analizzando l’industria dei lanciatori. Con la fine delle operazioni di Ariane 5 e il ritardo nello sviluppo di Ariane 6 e Vega-C, il continente europeo ha perso la sua posizione di leader nel mercato dei lanciatori commerciali ed è diventato fortemente dipendente dall’estero. L’Agenzia Spaziale Europea ha ampiamente utilizzato razzi russi come i Sojuz e i Rokot per le sue missioni scientifiche e per programmi strategici come il già menzionato Copernicus. Poi è arrivata la guerra in Ucraina, abbiamo aderito alla politica delle sanzioni, e l’ESA ha dovuto fare affidamento su SpaceX di Elon Musk per il lancio dei satelliti, inclusi quelli del sistema Galileo. E ad oggi, nonostante il successo del volo inaugurale di Ariane 6, si rischia una vera e propria catastrofe nel settore. In Europa infatti la domanda istituzionale di sistemi di lancio è estremamente limitata e rappresenta solo l’1% del mercato globale, mentre i mercati cinese e americano sono sì enormi, ma anche difficilmente praticabili. Cina e Stati Uniti infatti adottano criteri di preferenza nazionale nell’approvvigionamento e nell’acquisto di servizi e soluzioni spaziali. Gli Stati Uniti, in particolare, applicano sistematicamente la logica del “Buy American”, imponendo restrizioni in accesso e misure di controllo delle importazioni che proteggono le aziende statunitensi, permettendo loro un sostanziale via libera in un mercato sterminato, in cui raggiungere facilmente l’economia di scala necessaria per affermarsi a livello globale. Un approccio antitetico rispetto alla miopia mercatista dell’UE, dove la selezione delle tecnologie da utilizzare è essenzialmente guidata dalle loro prestazioni, dai costi e dai tempi di realizzazione, fatto che ha portato, come si legge nel report, “all’erosione delle catene di approvvigionamento […] per le soluzioni inizialmente sviluppate grazie agli investimenti […] dell’UE, a causa dei volumi e della domanda insufficienti”. La situazione non migliora nel mercato commerciale. Qui l’industria europea è penalizzata dall’assenza sia di microlanciatori, che di lanciatori super pesanti, e non dispone inoltre di razzi riutilizzabili, che hanno portato ad una vera e propria rivoluzione nella space economy, determinando una diminuzione dei costi e una crescente domanda commerciale. Grazie ad essi infatti, SpaceX è da tempo in grado di offrire prezzi di lancio decisamente attrattivi e di programmare i suoi lanci satellitari con un’elevata frequenza, requisiti fondamentali per il nascente business delle costellazioni satellitari. Anche su questo punto Mario Draghi lancia l’allarme: “L’UE è in ritardo rispetto agli USA per quanto riguarda la propulsione dei razzi, le mega-costellazioni per le telecomunicazioni, i ricevitori e le applicazioni satellitari (un mercato molto più grande degli altri segmenti spaziali).” Come abbiamo avuto modo di sottolineare in altre occasioni, il mercato delle costellazioni satellitari in orbita terrestre bassa è estremamente importante, sia per i sistemi a guida autonoma, sia per le connessioni e le comunicazioni a banda larga in ogni punto del globo. Ed infatti, si legge puntualmente nel report Draghi, “il successo di Starlink sta sconvolgendo gli operatori e i produttori di telecomunicazioni europei”. La forte dipendenza da fornitori e tecnologie esterni all’UE introduce inoltre un elemento di vulnerabilità geopolitica e rischia di compromettere la tempestività e la continuità del programma spaziale europeo. Una situazione che, secondo San Mario Pio da Goldman Sachs, “è aggravata dall’imposizione di severe normative statunitensi in materia di esportazioni. Questi quadri normativi, concepiti per salvaguardare gli interessi degli Stati Uniti, limitano INAVVERTITAMENTE l’accesso dell’UE alla tecnologia”. Inavvertitamente sì, lo ha detto davvero. Ma non finisce qui, perché al contrario degli USA, “il mercato dell’UE rimane aperto alle aziende straniere, sia in termini di accesso al mercato che di acquisizioni”. Con la possibilità che le aziende europee bisognose di finanziamenti vengano “acquistate da grandi aziende extra-UE, che acquisiscono tecnologie e know-how inizialmente sviluppati” qui in loco. Insomma, anche Lucertolone si è accorto che rischiamo “la progressiva erosione della base industriale spaziale” e di diventare ancora “più dipendenti da attori stranieri (principalmente gli Stati Uniti) in tutti i settori legati all’economia spaziale”. Una volpe, il nostro Mario. Diciamo che dopo due anni di speculazione finanziaria sul prezzo delle materie prime e di decoupling energetico dalla Federazione Russa artificialmente indotto dalla NATO mediante una guerra per procura sul continente europeo, a noi il sospetto che gli USA volessero mettere fuori mercato l’industria europea per accaparrarsi i suoi pezzi migliori e renderci ancor più dipendenti da loro ci era leggermente venuto. Ma se fin qui la diagnosi è stata tutto sommato condivisibile, seppur con picchi di disarmante ingenuità e di umorismo involontario, sono proprio le soluzioni che ci lasciano sconcertati. Mario Draghi infatti non trova di meglio da fare che lanciare reiterati attacchi contro l’Agenzia Spaziale Europea che, lo ricordiamo, è un’organizzazione intergovernativa e non comunitaria, pertanto estranea alle istituzioni dell’UE. Significa che le decisioni vengono prese attraverso la negoziazione tra i governi dei diversi Stati, che hanno così l’opportunità di esercitare quel briciolino di sovranità che gli rimane. Ed è proprio per questo che a San Mario Pio da Goldman Sachs, ovviamente, non può piacere. Draghi si guarda bene dall’indicare i numerosi, fondamentali, traguardi scientifici da essa raggiunti. Dal sorvolo della cometa Churyumov-Gerasimenko con la missione Rosetta, ai risultati cosmologici ottenuti grazie al satellite Planck, passando per lo studio dell’Universo a raggi X reso possibile dal telescopio XMM-Newton e alla misure astrometriche di elevatissima precisione effettuate da Gaia, giusto per trarre qualche esempio da un elenco lungo, ed in continuo aggiornamento. L’ESA è composta da 22 membri, incluse Norvegia, Svizzera e Regno Unito, accomunati dalla convergenza pacifica di diversi interessi nazionali nel settore spaziale, ed opera prevalentemente seguendo il principio del ritorno geografico. Un principio semplice, quanto sacrosanto, che impegna l’agenzia ad investire nelle economie nazionali con un budget pari all’ammontare del denaro stanziato da ciascun Paese membro. In altre parole, se uno stato si impegna a sovvenzionare l’ESA con un miliardo di euro, l’Agenzia ricambierà con un importo grosso modo simile, attraverso contratti industriali per programmi spaziali. Ciò ha fortemente incentivato gli investimenti da parte degli stati membri, che potevano così beneficiare delle competenze condivise per ottenere una rapida industrializzazione ed un importante ritorno economico in un settore altrimenti molto difficile. Ovviamente fumo negli occhi per San Mario Pio. È un principio economicamente inefficiente e da superare nel breve periodo, tuona Draghi, poiché non rispetta “criteri di competizione e di mercato”, “duplica le capacità industriali”, “frammenta le catene di approvvigionamento” e ci “vincola a fornitori inefficienti” (da leggere con enfasi). Una posizione, quella di Draghi, a ben vedere poco fondata, vista la rilevanza strategica dell’industria spaziale. Infatti, come ampiamente dimostrato negli ultimi anni, nel continente europeo non c’è convergenza di vedute in fatto di politica estera e gli interessi in ballo sono spesso decisamente divergenti. Per fare un esempio, è del tutto naturale che una potenza nucleare come la Francia decida di mantenere e finanziare una propria industria nazionale di lanciatori indipendentemente da criteri di competitività e dalla “innovazione distruttiva” del mercato. Critiche, quelle di Mario Draghi, a nostro avviso infide e velleitarie, che riflettono più che altro la volontà accentratrice della Commissione UE, che scopri scopri, Lucertolone vorrebbe nel Consiglio di Governo dell’ESA. Ad aggravare il tutto, un suggerimento fatto passare in sordina: “Promuovere ulteriormente all’interno dell’ESA un più profondo allineamento dei quadri di governance dell’ESA con le norme dell’UE in materia di appalti, finanza e sicurezza”, sfruttando le “sinergie tra le politiche industriali dello spazio e della difesa”. Dato che per statuto l’ESA promuove l’utilizzo dello spazio e delle tecnologie spaziali a scopi esclusivamente pacifici, allinearsi alle norme di sicurezza UE in uno scenario di “guerra mondiale a pezzi”, suona quantomeno sinistro, a maggior ragione nel momento in cui i grandi player europei, primi fra tutti i francesi, si lamentano proprio della carenza di commesse governative, ovvero legate tout-court alla difesa. Tradotto: lo spazio serve a fare la guerra. Dopo aver svuotato le prerogative degli Stati Nazionali e dell’ESA, per “ridurre la frammentazione […] e i rischi di “rinazionalizzazione” della politica spaziale”, non resta che applicare il solito mantra. Più mercato, più mercato e ancora più mercato, al fine di “accelerare l’innovazione, la diversificazione e l’attrattiva dell’industria spaziale europea”. E metterle a disposizione della guerra USA contro il resto del mondo. Per farlo, Draghi suggerisce di creare, per il periodo 2024-2026, un pool di cinque fornitori di servizi di lancio, tra cui quattro nuovi operatori commerciali. Inoltre, più generalmente parlando, invita ad agire subito per facilitare la nascita di un mercato europeo unificato in cui, solo nel lungo periodo, definire priorità strategiche comuni per la ricerca e l’innovazione. In altre parole, si vuole lasciare prima il campo libero ai privati e solo in un secondo momento imprimere una direzione politica al programma spaziale europeo. Per concludere, in questa nuova corsa per lo spazio, possiamo anche essere d’accordo con il fatto che l’industria spaziale europea sia malata e abbia bisogno di un generale ripensamento di strategia, ma la cura individuata da Draghi rischia ancor di più di stroncarla, riducendo l’ESA ad una consorteria di interessi privati sovranazionali. Per evitare che questa triste deriva continui a essere mascherata dai bagliori scintillanti di un fantomatico progresso fatto di armamenti spaziali e grand hotel per miliardari in orbita intorno alla Luna, serve innanzitutto un media indipendente (ma di parte) che dia voce al 99%, anche quando si tratta di satelliti, navi spaziali e mondi apparentemente molto lontani. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
La fine della contesa elettorale negli USA (e il trionfo di Trump) fanno esplodere il tappo delle contraddizioni che stavano covando da mesi e che venivano tenute buone per non infastidire il precario inquilino della Casa Bianca. Nel giro di poche ore, Mattarella a Pechino si ritrova a fare il mea culpa sulla scelta scellerata di abbandonare la via della seta per soddisfare i deliri egemonici di Washington e Musk dichiara apertamente che è arrivata l’ora di abbandonare Taiwan, i suoi chip e le provocazioni anticinesi a suon di retorica indipendentista. Ne abbiano parlato con Davide Martinotti e Francesco Maringiò in questa imperdibile puntata di Mondocina.
Putin sceglie il 7 novembre, l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 guidata dai bolscevichi e Vladimir Lenin, per ribadire con un intervento fiume dal palco del 21esimo incontro annuale del Valdai Discussion Club a Sochi che, allora come ora, la Russia si pone alla testa di un grande processo di decolonizzazione che deve mettere fine all’imperialismo a guida USA per salvare l’umanità nel suo complesso e metterla nelle condizioni di affrontare in modo pacifico le enormi sfide che ha di fronte. Ne parliamo in diretta con Mark Bernardini.