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Israele vuole destabilizzare la Siria per colpire l’Iran – ft. Matteo Capasso

Tornano gli aggiornamenti sulla Palestina di Matteo Capasso per fare il punto su quanto sta accadendo in Medio Oriente. Il nostro Gabriele Germani chiede prima le novità riguardo Gaza, per poi spostarsi a quanto sta accadendo in queste ultime settimane in Cisgiordania e concludere poi con il recente bombardamento sulla Siria.

Mario Draghi percula la propaganda mainstream e ammette che l’Europa è morta a causa degli USA

Carissimi ottoliner, oggi purtroppo siamo in lutto: ieri, infatti, nelle redazioni de Il Foglio, de Linkiesta, del Post e di innumerevoli altre testate analfoliberali s’è registrata una vera e propria epidemia di inspiegabili svenimenti seguiti da stati psicotici e maniaco-depressivi; negli ultimi due anni, infatti, si erano tutti spesi con inenarrabile coraggio per contrastare la vulgata che vedeva l’Europa in uno stato di declino economico e sociale senza precedenti e che ne attribuiva le responsabilità alla concorrenza sleale degli amici statunitensi, divenuta particolarmente eclatante e feroce con l’inizio della guerra per procura in Ucraina. Propaganda putiniana di bassa lega: l’Occidente, cercavano di spiegarci, è più in salute che mai e nell’Occidente siamo tutti amici e ci sosteniamo a vicenda; e voi siete solo dei gufacci che si fanno infinocchiare dalla paccottiglia del Cremlino. Fino a che ieri, dopo un anno di duro lavoro e 3 mesi abbondanti di ritardo, non è apparsa la nuova sacra scrittura dell’analfoliberale che si rispetti: il rapporto sul futuro della competitività europea che SanMarioPio da Goldman Sachs ha scritto sotto diretta dettatura dell’onnipotente dio dell’uomo bianco civilizzato e che li deve aver lasciati un po’ costernati; dall’energia alle nuove tecnologie, dalla space economy all’industria pesante, passando per la farmaceutica, la difesa e la green economy, SanMarioPio sembra aver passato gli ultimi mesi a riguardarsi tutti i video di Ottolina per – infine – dover confessare ai suoi fan più accaniti che purtroppo non c’avevano capito una seganiente. Il quadro che emerge dalle quasi 400 pagine del rapporto è esattamente quello che proviamo a dipingere noi bimbe di Putin e dei regimi totalitari: un vero e proprio terremoto; settore dopo settore, SanMarioPio sciorina una quantità imponente di dati che dimostrano, senza possibilità di smentita, i risultati della guerra economica che gli USA hanno dichiarato al vecchio continente. Ovviamente, poi, sempre SanMarioPio è e quindi le ricette che propone o sono aberranti e inique o del tutto irrealistiche e campate in aria, ma sicuramente c’ha dato una straordinaria opportunità nelle prossime settimane di divertirci come mandrilli nel vedere i salti mortali che la sua fanbase analfoliberale sarà costretta a fare per tenere insieme il culto religioso della sua persona e il fatto che gli ha dato sostanzialmente a tutti dei poveri coglioni. Prima di addentrarci in dettaglio tra le 400 pagine di questo importantissimo documento, però, vi ricordo di mettere un like a questo video per permetterci anche oggi di combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto (e lo so che molti di voi non l’hanno fatto, perché me l’ha detto Google in persona) di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi richiede meno tempo di quanto serva a un giornalista del Foglio per rinnegare tutte le stronzate che ha scritto non appena SanMarioPio si pronuncia, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di far arrivare anche alle persone comuni – che non ambirebbero ad altro che farsi gli stracazzi loro, ma che non sopportano di essere presi così platealmente per il culo – un po’ di informazione che non sia proprio completamente campata in aria e frutto di inquietanti disturbi psichici.

SanMarioPio da Goldman Sachs

Il primo, drammatico, campo di battaglia della guerra economica che gli USA hanno dichiarato al vecchio continente è ovviamente quello dell’energia: “Storicamente, i prezzi dell’energia in Europa rispetto agli USA sono stati da due a tre volte maggiori” sottolinea il rapporto sul futuro della competitività dell’Europa curato da SanMarioPio da Goldman Sachs e reso pubblico ieri; “Attualmente lo sono da 3 a 5 volte” e “i prezzi al consumo dell’elettricità, in particolare per l’industria, da essere superiori dell’80% rispetto a quelli USA, ora sono 3 volte”. La bolletta annuale europea per l’importazione di fonti fossili è passata dai 341 miliardi del 2019 ai 416 del 2023, fondi che “sarebbero meglio utilizzati se investiti in infrastrutture, innovazione, educazione”; e invece sono andati nelle tasche degli amici a stelle e strisce e in quelle dei campioni di democrazia norvegesi, che quando vi chiedete a cosa debbano la loro svolta ultra-atlantista… Beh, ma alla buona educazione, ovviamente! Grazie alla guerra per procura scatenata dagli USA in Ucraina, i soldi che i paesi dell’Unione danno ai simpatici amici norvegesi sono triplicati, raggiungendo i 50 miliardi l’anno: tutti soldi che vanno a gonfiare il fondo sovrano norvegese, che li reinveste nei mercati speculativi USA, che – sempre grazie alla guerra per procura e alle sanzioni che si porta dietro – ha garantito rendimenti stratosferici.
Il motivo del nostro suicidio energetico ovviamente è ben noto: fino al 2021 importavamo il 45% del nostro fabbisogno di gas dalla Russia a buon mercato; poi Rimbambiden c’ha detto che eravamo in guerra e così abbiamo deciso di “perdere l’equivalente della crescita del PIL europeo di oltre un anno per destinare massicce risorse fiscale ai sussidi energetici e alla costruzione delle infrastrutture per importare il gas naturale liquefatto”. E che i prezzi siano mediamente triplicati, non è l’unico problema: ad aggravare la situazione c’è il fatto che “La volatilità e l’imprevedibilità dei prezzi in Europa è molto più alta che altrove” e questo ovviamente “crea incertezza, e disincentiva gli investimenti” e questo è dovuto al fatto che, fino al 2022, l’82% del gas che importavamo lo importavamo sulla base di contratti a lungo termine. Oggi quella quota è scesa sotto il 60%; il resto lo compriamo in quello che viene definito lo spot market, dove i prezzi vengono stabiliti più dagli speculatori finanziari che non dalle dinamiche della domanda e dell’offerta in se. Insomma: come ampiamente noto, abbiamo ucciso la nostra economia in ossequio agli interessi geopolitici degli USA, da un lato, e a quelli delle oligarchie che campano di rendita finanziaria dall’altro. Che, denuncia Draghi, nella speculazione energetica hanno raggiunto un livello di concentrazione senza precedenti: “Una manciata di corporation non finanziarie svolgono la maggior parte delle attività commerciali” sottolinea il rapporto; sostanzialmente, appena 5 corporation in tutto, e sono cresciute del 200% in due anni. E – ammette SanMarioPio – purtroppo, nonostante la retorica green, continueremo a dipendere dal gas a lungo. E anche per la quota di energia che riusciamo a generare da altre fonti, il problema rimane: a determinare il prezzo della nostra energia, infatti, “Il 63% delle volte è proprio l’andamento del prezzo del gas, nonostante pesi soltanto per il 20% del mix energetico”; e l’Italia, per inciso, è quella messa di gran lunga peggio, con il gas che pesa per oltre il 40% del mix energetico e che determina il prezzo dell’energia nel 90% dei casi. E la cosa divertente è che a dettare il prezzo dell’energia rimarrà il gas sul mercato spot manipolato da 5 big corporation, anche quando (e se) davvero riusciremo ad aumentare dal 46 al 67% il contributo al mix energetico delle rinnovabili. Magie del mercato (e del colonialismo): grazie al suicidio energetico, ricorda ancora il rapporto, le Energy-intensive industries, cioè le industrie ad alto utilizzo di energia – dall’acciaio alla chimica, passando per la carta – hanno visto la produzione crollare del 15% dal 2021. Ma oltre alle industrie del passato e del presente, a preoccupare sono anche quelle del futuro: il punto è che se oggi i data center sono responsabili per appena il 2,7% del consumo elettrico del continente, le proiezioni al 2030 parlano addirittura del 28%; ergo, la situazione energetica attuale ci taglia completamente fuori dall’economia del futuro e, a dire il vero, non solo la situazione energetica.
L’altro tasto dolente è il petrolio del futuro, le materie prime critiche e, cioè, tutti quei materiali indispensabili non solo sia per la transizione ecologica che per quella digitale, ma anche per la difesa e per le applicazioni spaziali: la dimensione del mercato di questi materiali, solo nell’ambito della green economy, è raddoppiata nell’arco degli ultimi 5 anni raggiungendo i 300 miliardi di valore nel 2022, con alcuni materiali in particolare che sono più che triplicati, come ad esempio il litio; e nei prossimi 5 anni, secondo l’agenzia internazionale per l’energia, assisteremo a un ulteriore aumento tra il 250 e il 300%. E gli investimenti oggi in campo, per quanto cospicui – sottolinea il rapporto – “sono ben lungi dall’assicurare una fornitura adeguata”; ergo, per accaparrarseli, ci sarà da fare a schiaffi e noi rischiamo sempre e solo di prenderli, anche perché sono concentrate nelle mani di pochissimi e nessuno è europeo. Il 47% della produzione di litio è in mano all’Australia, il 49% del nichel all’Indonesia, il 74% del cobalto alla Repubblica Democratica del Congo, oltre il 70% di tutte le terre rare alla Cina; e il quadro per noi è ancora più catastrofico se, invece che dell’estrazione, parliamo della raffinazione, dove a dominare incontrastata – con quote di mercato che raggiungono spesso il 90% e a volte, come nel caso della grafite, lo superano – è sempre la Cina: negli ultimi anni, sottolinea il rapporto, sono stati fatti sforzi enormi per cominciare a diversificare, “ma i progressi sono limitati”. Anzi: “Tra il 2019 e il 2022 la quota dei primi tre produttori è rimasta invariata o è aumentata ulteriormente, soprattutto per nichel e cobalto”. E ancora peggio è se invece che dell’estrazione, parliamo della raffinazione: nel caso i paesi produttori si organizzassero in una specie di OPEC dei materiali critici, sottolinea il rapporto, noi saremmo letteralmente fottuti. Nel frattempo, la retorica del decoupling dei nostri simpaticissimi alleati di Washington, seguita a ruota masochisticamente da Bruxelles, ha già scatenato come reazione una sacrosanta corsa al protezionismo, con “le restrizioni di mercato che sono aumentate di 5 volte a partire dal 2009” e l’Europa, che “detiene una quota di produzione della maggior parte delle materie critiche inferiore al 7%”, è quella destinata a pagare il prezzo più alto e non sembra essere in grado di fare assolutamente niente per invertire la rotta: a differenza della Cina, denuncia SanMarioPio, “l’estrazione e il commercio di materie prime nell’Ue sono in gran parte lasciati agli attori privati e al mercato” e, più in generale, “manca una strategia globale che copra tutte le fasi della catena di fornitura”, col paradosso che ora stiamo investendo per cominciare a produrre batterie “senza essersi assicurati la fornitura che ne dovrà arrivare dall’esterno, e principalmente dalla Cina”. Anzi: su richiesta USA (e contro il parere della nostra stessa industria) mettiamo dazi un po’ a cazzo per provocarli; sveglissimi proprio!
Tanto ci rifacciamo con un po’ di vecchia superiorità tecnologica: come sottolinea il rapporto, la “competitività dell’Europa dipenderà sempre di più dalla digitalizzazione di tutti i settori e dalla costruzione di una sua forza nelle tecnologie avanzate”; purtroppo, però, anche qui, a differenza dei blocchi statunitense e cinese “che hanno spostato il loro modello economico verso la centralità dell’information and communication technology già a partire dalla prima rivoluzione di internet dei primi anni 2000, l’Unione europea in termini di prodotti, servizi, infrastrutture e brevetti relativi al mondo digitale dipende per l’80% da paesi terzi”. Delle 50 principali aziende tecnologiche al mondo, solo 4 sono europee e tutte insieme valgono un quarto della sola Apple; e dal 2013 al 2023 la quota di mercato globale digitale occupata dall’Europa è passata dal 22 al 18%, mentre quella USA cresceva dal 30 al 38. Il mercato del cloud europeo valeva 87 miliardi nel 2022 ed è previsto raggiunga i 200 nel 2028, ma solo il 16% è controllato da operatori europei e il 65% è interamente in mano ad appena 3 colossi USA: Amazon, Microsoft e Google; un ritardo talmente ampio che, suggerisce il rapporto, non vale manco nemmeno più la pena di provare a colmare e che, ovviamente, si ripercuote anche sul nostro ruolo nel mondo dell’intelligenza artificiale, con l’88% dei modelli adottati dalle nostre aziende che vengono da Cina e soprattutto Stati Uniti. “Il rischio” sottolinea il rapporto ricorrendo a un eufemismo “è che l’Europa diventi totalmente dipendente dai modelli di IA progettati e sviluppati all’estero sia per l’IA di carattere generale che, progressivamente, per usi verticali dedicati a settori cruciali, compresi quello automobilistico, bancario, delle telecomunicazioni, della sanità, della mobilità e della vendita al dettaglio”; d’altronde, negli ultimi 20 anni la nostra quota di mercato dei semiconduttori si è più che dimezzata e, al momento, “L’Unione europea non dispone di fonderie che producono microchip al di sotto di 22 nm, e fa affidamento sull’Asia per il 75-90% della capacità di fabbricazione di wafer”: giusto per capirci, la Cina, nonostante le sanzioni, produce chip da 7 nm.
Bilancio impietoso, inevitabilmente, anche per l’automotive, per il quale SanMarioPio ricorda che se da un lato ci siamo posti l’obiettivo ambizioso di eliminare l’endotermico entro il 2035, dall’altro abbiamo fatto di tutto per fare in modo che diventasse sin da subito del tutto irrealistico: “L’Ue non ha dato seguito a queste ambizioni con una spinta sincronizzata per convertire la catena di approvvigionamento. Ad esempio, la Commissione ha lanciato la European Battery Alliance solo nel 2017 per costruire una catena del valore delle batterie in Europa, e nel suo insieme il continente è molto indietro nell’installazione delle infrastrutture di ricarica. La Cina, al contrario, si è concentrata sull’intera catena di fornitura dei veicoli elettrici dal 2012 e, di conseguenza, si è mossa più velocemente e su scala più ampia e ora è una generazione all’avanguardia nella tecnologia dei veicoli elettrici praticamente in tutti i settori, producendo allo stesso tempo a costi inferiori”; nello specifico, la produzione di batterie ha raggiunto i 65 GWh nel 2023 e cioè appena il 6,5% della produzione globale. Gli USA sono poco sopra, a 80 Gwh; la Cina è a 670 Gwh, metà produzione globale da sola. Vabbè, vorrà dire che ci rifaremo con la corsa allo spazio: il rapporto ricorda come l’Europa, negli ultimi decenni, per quanto riguarda il settore aerospaziale “ha sviluppato risorse e capacità strategiche di livello mondiale”: “Nella navigazione satellitare, Galileo fornisce le informazioni di posizionamento e temporizzazione più precise e sicure, anche per applicazioni militari”; “e nell’osservazione della Terra, Copernicus offre i dati più completi a livello mondiale, anche per il monitoraggio dell’ambiente e dei cambiamenti climatici, la gestione delle catastrofi e la sicurezza”. Tuttavia, però – deve ammettere un po’ sconfortato SanMarioPio – anche qui “l’Ue ha perso la sua posizione di leader nel mercato dei lanciatori commerciali e dei satelliti geostazionari. E per lanciare i satelliti del suo programma strategico Galileo ha dovuto fare affidamento temporaneamente sui razzi SpaceX”, ma soprattutto siamo “in ritardo rispetto agli Stati Uniti anche nella propulsione missilistica, nelle mega-costellazioni per le telecomunicazioni e nei ricevitori e applicazioni satellitari, che costituisce un mercato molto più ampio rispetto agli altri segmenti spaziali”; d’altronde, quando smetti di investire, succede: “Negli ultimi quarant’anni” sottolinea infatti il rapporto “gli investimenti hanno oscillato tra il 15% e il 20% dei livelli statunitensi. E nel 2023, la spesa pubblica in Europa per lo spazio è stata pari a 15 miliardi di dollari, rispetto ai 73 miliardi di dollari degli Stati Uniti”.
Fortunatamente, però, ci sono anche settori dove teniamo botta: la farmaceutica, ad esempio, dove l’Ue “è leader a livello mondiale nel commercio in termini di valore”, ma anche qui (duole dirlo), inspiegabilmente il vecchio continente “resta comunque indietro nei segmenti di mercato più dinamici: dei dieci farmaci biologici più venduti in Europa nel 2022, solo due sono stati commercializzati da aziende dell’Ue mentre sei sono stati commercializzati da aziende con sede negli Stati Uniti” e indovinate perché? “La spesa pubblica per la ricerca e l’innovazione in campo farmaceutico della Ue è la metà di quella degli Stati Uniti, mentre quella privata raggiunge gli 1,5 miliardi: un quarto delle dimensioni degli USA”. Figuriamoci allora come stiamo messi con l’industria bellica: qui un po’ di soldini in più, ultimamente, abbiamo cominciato a metterceli, che ce lo chiedeva Washington; peccato, però, che “il 78% sono andati a fornitori non europei, a partire dal 63% che è andato negli Stati Uniti”; sarebbe bello, allora, continuare a coltivare almeno il vecchio pregiudizio suprematista che vede nell’uomo bianco europeo il top dello sviluppo intellettuale umano. Purtroppo, però, anche qui i dati dicono una cosa diversa: “Il livello di istruzione nell’Ue – così come misurato dall’OCSE – è in caduta libera. Le posizioni di punta nei recenti rapporti PISA sono dominate dai paesi asiatici, mentre L’Europa ha vissuto un declino senza precedenti. Questa tendenza al ribasso riguarda sia i valori di rendimento medi che quelli massimi: nel 2022, solo l’8% degli studenti dell’Ue ha raggiunto un livello elevato di competenza in matematica e il 7% in letteratura e scienze”. E quelli che ancora, nonostante tutto, riusciamo a formare adeguatamente, appena possibile fuggono: “Il bacino di talenti dell’Ue” ricorda infatti il rapporto “è impoverito a causa della fuga di cervelli all’estero grazie a maggiori e migliori opportunità di lavoro altrove”.
Insomma: fino a qui il buon SanMarioPio sembra averci voluto contraccambiare tutto il profondo affetto che gli abbiamo dimostrato in questi anni, ricostruendo pezzetto per pezzetto i vari aspetti della guerra economica che gli USA hanno dichiarato all’Europa e che hanno ridotto il continente sul lastrico: chissà come la prenderanno gli amici del Foglio, che lo venerano come una divinità, ma che da due anni non fanno altro che scrivere un giorno sì e l’altro pure che chi mette in fila quei numeri è un gufaccio a libro paga di Putin e di Xi Jinping; diciamo che, rispetto alla propaganda di decerebrati che lo circonda, SanMarioPio ha almeno il merito di non inventarsi completamente i numeri o di nasconderli e quindi, di conseguenza, anche il merito di lanciare un allarme agli analfoliberali e a chi, a suon di scrivere minchiate, magari ha finito per crederci. La situazione è drammatica e le classi dirigente europee si devono dare una svegliata, pena la loro stessa estinzione; ma quando da questo campanello d’allarme si passa alle ricette, ecco che questa salutare parentesi di lucidità immediatamente scompare: SanMarioPio indica chiaramente come, per cominciare a ridurre questi gap che si sono andati approfondendo negli ultimi 20 anni, servirebbero come minimo circa 800 miliardi di investimenti l’anno, corrispondenti a circa il 4,5% abbondante del PIL dell’Ue nel 2023. “Per fare un confronto” sottolinea “gli investimenti nell’ambito del Piano Marshall tra il 1948 e il 1951 erano equivalenti all’1 – 2% del PIL dell’Ue. Realizzare questo aumento richiederebbe che la quota di investimenti dell’Ue passi dall’attuale 22% circa del PIL a circa il 27%, invertendo un declino pluridecennale nella maggior parte delle grandi economie dell’Ue. Tuttavia”, continua, “gli investimenti produttivi nell’Ue non sono all’altezza di questa sfida. A partire dalla grande crisi finanziaria, si è aperto un divario considerevole e persistente tra gli investimenti produttivi privati nell’Ue e negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, il divario degli investimenti privati nelle due economie non è stato compensato da maggiori investimenti pubblici, anch’essi diminuiti dopo la crisi finanziaria globale e persistentemente inferiori nell’Ue rispetto agli Stati Uniti in termini di percentuale del PIL”. A parte che fa ridere perché sembra che lui, nel frattempo, non sia stato uno degli uomini politici più influenti del continente, ma c’avesse judo; il punto ora è: dove li troviamo? Perché grosse battaglie da parte di SanMarioPio e della Ursulona, che questo rapporto l’ha commissionato, contro la reintroduzione del Patto di stabilità io non ne ho viste, ma magari ero distratto.
E, infatti, il nodo sta tutto qui: mica vorrai questi soldi farli tirare fuori dalle casse e reinserire così dalla finestra quelle politiche keynesiane che in passato avevano spostato i rapporti di forza tra le classi a favore del mondo del lavoro, altrimenti che uomo di Goldman Sachs sarebbe? Mario Draghi è fedele ai suoi datori di lavoro e, quindi, ogni cosa che dice e che ha sempre fatto è esclusivamente in funzione di salvaguardare le oligarchie, contro gli interessi delle classi popolari. Il meccanismo individuato, allora, è esattamente quello che ha insegnato negli USA: mobilitare il risparmio privato, metterlo a disposizione delle grandi concentrazioni monopolistiche finanziarie e lasciare che a guidare la rinascita europea siano loro, con il pubblico che non deve fare altro che usare il monopolio della forza per rendergli il lavoro un po’ più facile, eliminare i rischi e garantire la rendita finanziaria. Ad esempio, eliminando quei pochi residui di democrazia che sono rimasti in Europa – che, ovviamente, sono al livello dei singoli paesi – mentre le istituzioni europee, che ha contribuito a disegnare, negano ogni forma di democrazia alla radice e, per questo, vanno rafforzate: “Come dimostrato in questo rapporto, oggi le politiche industriali di successo richiedono strategie che abbracciano investimenti, tassazione, istruzione, accesso ai finanziamenti, regolamentazione, commercio e politica estera, uniti dietro un obiettivo strategico concordato. I principali concorrenti dell’Europa, come singoli Paesi, possono applicare queste strategie. Le decisione dell’Ue invece si basano sul raggiungimento del consenso tra i singoli Stati, che è una logica valida, ma che risulta lenta e macchinosa rispetto agli sviluppi che avvengono all’esterno”. Insomma: c’è troppa democrazia e la democrazia è un lusso che, se vogliamo cominciare a invertire la tendenza, non ci possiamo più permettere; una volta che gli ostacoli democratici saranno rimossi – ad esempio ampliando a dismisura il voto a maggioranza semplice per sempre più decisioni – allora potremmo puntare a utilizzare il risparmio privato, a partire dalla principale forma di salario differito e, cioè, le pensioni: oggi, ricorda il rapporto, i soldi delle nostre pensioni che finiscono in fondi che vengono utilizzati nel mercato dei capitali in Europa ammontano ad appena il 32% del PIL; nel Regno Unito al 100%, negli USA al 142%.
Come abbiamo raccontato in questo video c’è chi, nel frattempo, si è portato avanti, come gli amici finto-sovranisti della Lega che hanno da poco presentato una legge che permetterebbe allo Stato di rubarci il 25% delle nostre pensioni e obbligarci a metterlo in dei fondi: è la stessa logica che caratterizzava il Piano Letta sul mercato unico dei capitali del giugno scorso che, però, almeno era un po’ più sovranista; perlomeno, infatti, denunciava che di quello che già dei nostri soldi va nei fondi pensioni, il grosso va in mano ai gestori di patrimoni a stelle e strisce e in Europa rimane pochino, e invitava a invertire la tendenza. Nel rapporto di Draghi, che è un vero e proprio agente coloniale, manco quello: per quello anche i passaggi che, tutto sommato, mi trovano d’accordo mi sembrano un po’ parole al vento, ad esempio quando Draghi dice che l’Unione europea dovrebbe sviluppare una genuina “politica economica straniera” per affrontare in modo olistico il problema dell’accesso alle materie prime critiche necessarie per la transizione ecologica e digitale. Partendo dal Critical Raw Materials Act – e, cioè, il regolamento che stabilisce la cornice per garantire all’Europa una catena di approvvigionamento sicura – Draghi rilancia l’idea di una piattaforma comune che “faccia leva sul potere di mercato dell’Europa aggregando la domanda per l’acquisto congiunto di materiali critici e coordinando la negoziazione degli acquisti congiunti con i paesi produttori” che, in soldoni, vuol dire andare in Africa e America Latina e proporre condizioni migliori di quelle proposte dagli USA per garantirsi le materie prime; un po’ come faceva Mattei per il petrolio, diciamo. Sono tanto malfidato se dico che Draghi – come un qualsiasi leader politico europeo – a entrare in conflitto con gli USA in giro per il mondo proprio non ce li vedo? Insomma: come anticipato, la ricetta di Draghi è per metà inquietante, che ricalca la finanziarizzazione USA sostenuta con la forza da un governo federale antidemocratico, e un po’ è fuffa che richiederebbe un sussulto di dignità (che mi pare del tutto irrealistico); quello che però è importante è che mette a tacere la parte più fantasiosa della propaganda analfoliberale e certifica che la situazione oggettivamente è grave, e che la guerra economica degli USA contro l’Europa non è un’invenzione dei complottisti a libro paga di Putin, ma una cosa plateale che solo l’ignoranza o la malafede più spregiudicata può negare, al punto che per uscirne servirebbe una cosa che è 3 volte più grande del piano che venne adottato per superare le conseguenze della seconda guerra mondiale.
Ecco: se a questo giro non possiamo mandare a casa Draghi (perché tanto sta lì come abusivo e nessun organo democratico ce l’ha invitato), perlomeno dovremmo mandare a casa la propaganda analfoliberale che, a questo giro, è stata asfaltata addirittura dal suo banchiere di riferimento: per farlo, ci serve un vero e proprio media che combatta quotidianamente la loro spazzatura e dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal

E chi non aderisce è Claudio Cerasa

Il piano segreto degli USA per dominare l’America Latina – ft. Alessandra Ciattini

Torna Alessandra Ciattini per il consueto appuntamento con Antrop8lina; oggi, insieme al nostro Gabriele Germani, si riprende il lungo filo della storia latinoamericana. Dopo le guerre di indipendenza, gli Stati del Sud America si ritrovarono in una condizione di indebitamento e forte dipendenza economica con i paesi del Nord globale, in particolare Regno Unito e USA. Il discorso arriva fino ai decenni della Guerra Fredda, notando gli studi e gli investimenti che la CIA fece in Sud America per favorire la penetrazione culturale delle chiese evangeliche in contrapposizione al cattolicesimo.

¡Desaparecinema! ep. 13 – Hal 9000, Mater, Alpha60 nella valle dell’inquietudine

Per la prima volta nella storia, qualche settimana fa è stata approvata con 499 voti a favore la legislazione europea sull’IA, l’AI ACT, che entrerà in vigore tra due anni. Il regolamento “è volto a promuovere lo sviluppo e l’adozione di sistemi di IA sicuri e affidabili nel mercato unico dell’Ue da parte di soggetti pubblici e privati, garantendo, al contempo, il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini. Il regolamento sull’IA si applica unicamente ai settori che rientrano nel diritto dell’UE e prevede esenzioni, ad esempio per i sistemi utilizzati esclusivamente per scopi militari e di difesa , nonché a fini di ricerca”. Secondo Amnesty International, la legge – come c’era da aspettarsi – dà quindi priorità all’interesse dell’industria e delle forze dell’ordine rispetto alla protezione delle persone e dei loro diritti umani”.
Bene. Adesso sedetevi comodi con una birra in mano, o una lattina di olio macchina se siete androidi, perché anche questa volta andiamo un po’ lunghi, vista l’importanza epocale dell’argomento. Uncanny Valley (“zona perturbante”, o “la valle dell’inquietudine”) è un termine coniato nel 1970 da uno studioso giapponese di robotica, Masahiro Mori: maggiore è la verosimiglianza di un’Intelligenza Artificiale all’aspetto umano e maggiore è la sensazione di positiva familiarità provata; ma quando il realismo del robot si fa estremo, ciò desta repulsione e inquietudine. Ciò vale, per esempio, anche per i clown . Esiste anche un film, dal titolo Uncanny, del 2015, che parla di un robot umanoide, Adam, un po’ troppo simile a un essere umano per prenderci un caffè senza che ci tremi la tazzina. Sempre nel 2015 esce Humandroid in cui, forse in modo un po’ sconclusionato, col pretesto dell’IA si tenta di parlare… di tutto: dalla famiglia a Dio, dal governo alla morte. Sullo stesso tema è uscito, sempre negli stessi mesi del 2015, Ex Machina, di Alex Garland, il regista di Civil War: Nathan è il CEO di un’azienda di motori di ricerca; ingaggia Caleb perché giudichi se un robot umanoide di nome Ava dotato di intelligenza artificiale che ha costruito sia veramente capace di pensare e di essere cosciente. Ma Ava ha un progetto tutto suo per la propria vita: infatti un commentatore dell’intelligenza artificiale, Azeem, ha osservato che “si tratta di una storia pessimistica su quanto sarà difficile controllare con successo un’intelligenza artificiale”, che poi è esattamente ciò che accade nel primo film della storia del cinema su un’Intelligenza Artificiale, Der Golem, del 1920. Nella tradizione ebraica, per risvegliare il Golem bisognava sussurrargli la parola “verità”, per fermarlo “morto” (tipo quando oggi diciamo “Alexa” o “Ehi Google”); a un certo punto, però, il Golem non risponde più agli ordini, ma – come vedremo – non è questo il vero pericolo di un’IA. Semmai è il contrario: che risponda esattamente agli ordini; dipende di chi.

Trump, Le Pen, AFD: abbiamo finalmente un’alternativa?

Oh! Finalmente quando ci saranno Trump, Le Pen e Alternative fur Deutschland, quegli ipocriti dei progressisti globalisti la finiranno di fare guerre e di seminare il terrore in giro per il mondo; l’imperialismo dei finti buonisti è finalmente sconfitto e il popolo e la democrazia stanno per trionfare! Ce l’avrete sicuramente anche voi quell’amico un po’ speciale che, da una parte, si dichiara anti-sistema e dice di essere per la democrazia e gli interessi classi popolari e, dall’altra, esulta per tutte le vittorie elettorali della peggiore destra identitaria solo perché almeno non hanno vinto i Biden, i Macron o gli Scholz di turno (che culo!) o che, addirittura, vagheggia di improbabili alleanze tra le destre suprematiste del pianeta e le forze socialiste in nome della comune lotta al capitalismo e alla globalizzazione. Ora, se fino a qualche anno fa allucinazioni di questo tipo erano quantomeno scusabili – data l’assoluta egemonia culturale del progressismo liberale che poteva davvero far pensare ad un nemico comune – oggi invece potrebbero dimostrarsi dei deliri estremamente pericolosi perché, come si sottolinea anche in un recentissimo studio dell’istituto di scienze sociali tedesco Tricontinental, una nuova forma di destra sembra prendere sempre più piede nella politica occidentale; una destra tanto diversa dalla destra liberale e finto conservatrice a cui ci eravamo abituati negli ultimi decenni, quanto dalla destra fascista del ‘900, con la quale pure sembrare mostrare qualche inquietante analogia. Una destra, insomma, in gran parte inedita, ben rappresentata da Trump e dai suoi imitatori europei che oggi fanno il pieno alle urne e che, contrariamente al wishful thinking di qualche compagno sui generis, non sembra avere nessuna intenzione di mettere in discussione i rapporti di forza oligarchici nelle nostre società, né di porre fine alla volontà di dominio dell’Occidente sul resto del mondo. Insomma: proprio nulla di anti-sistema; una destra, anzi, che agli occhi delle tanto detestate élite transnazionali potrebbe rivelarsi particolarmente funzionale alla nuova fase storica che stiamo vivendo, tanto che potrebbe essere capace di imporre, nei prossimi anni, una vera e propria nuova egemonia culturale. Perché, per chi non se ne fosse accorto, da qualche anno siamo entranti in una nuova fase della storia mondiale: quella fase in cui a causa della straordinaria crescita della Cina, della ritrovata potenza russa e dall’organizzazione del Sud globale in un blocco sempre più coeso, l’Occidente americano si è visto costretto a dichiarare guerra al resto del mondo per conservare la propria egemonia; una guerra destinata a durare a lungo, già caldissima sul piano economico e probabilmente sempre più calda sul piano militare, senza possibilità di prevedere fino dove arriverà l’escalation.

Ecco: in questo clima di guerra, come sottolinea giustamente anche il Tricontinental, la cara vecchia egemonia culturale liberale dominante in Occidente negli ultimi 40 anni, fondata in gran parte su valori universalistici e umanitari, sull’individualismo consumistico e sul rifiuto delle identità tradizionali, sembra destinata a lasciare il passo a ben altre culture e valori – molto più adatti al nuovo clima di ostilità e conflitto – e alle nuova esigenza fondamentale delle oligarchie dell’impero, ossia quella di ritrasformare le nostre società in società di guerra, società, cioè, nelle quali saranno richiesti sempre maggiori sacrifici individuali in nome della difesa comune dell’Occidente e in cui i diritti sociali e civili saranno sempre più spesso negati in nome dell’interesse collettivo. E ancora, società nelle quali per mantenere il consenso tra la popolazione, nonostante tutte queste nuove privazioni, l’Occidente dovrà rispolverare valori comunitaristi, identitari e, soprattutto, fortemente bellicisti e suprematisti. La propaganda infatti – e questo è forse il punto fondamentale per capire la nuova egemonia culturale di destra che si sta affacciando all’orizzonte – tenterà di venderci la guerra che gli Stati Uniti hanno deciso di dichiarare al resto del mondo per mantenere la propria egemonia ed impedire la nascita di un nuovo ordine multipolare, come il solito scontro di civiltà: la guerra che la civiltà occidentale è già – suo malgrado – costretta a combattere per difendersi da sanguinari dittatori e fondamentalisti religiosi senza scrupoli (Palestina docet): ed ecco quindi perché la cultura politica della destra identitaria e xenofoba – una volta abbandonata ogni pericolosa retorica sovranista e nazionalista ed abbracciata in pieno quella del puro suprematismo occidentale identificandosi pienamente con i confini dell’Impero degli Usa – sembra essere particolarmente funzionale a questo scopo.
Nei prossimi anni insomma, se (come prevede il Tricontinental) questa nuova destra prenderà il potere, non dovremo più aspettarci la cara vecchia retorica a cui ci avevano abituato in questi anni sull’umanitarismo, la globalizzazione e la necessità di superare muri e confini, ma pura propaganda di guerra, incentrata sulla superiorità della civiltà occidentale e sulla necessità di difenderla a tutti i costi, anche costo di vedere i salari diminuire, a costo di limitare qualche “eccesso democratico” e a costo di chiudere qualche canale di informazione indipendente che puzza un po’ troppo di propaganda anti – occidentale. Per farvi un’idea di quello che ci aspetta e di come veda il mondo questa gente poco rassicurante (che però gliela farà vedere una volta per tutte a quei guerrafondai dei progressisti), basta tenere a mente le parole usate da Trump, Le Pen o anche dei nostri giornali di destra per commentare lo sterminio di massa in corso a Gaza: non ipocrisia e doppio standard, come tra i tanto odiati sinistroidi, ma proprio soddisfazione e malcelata esaltazione per le bombe democratiche israeliane sulle famiglie palestinesi. Ecco: e voi pensate che questa gente avrà un atteggiamento differente quando, invece che le donne e bambini di Gaza, sotto le bombe occidentali ci saranno le famiglie iraniane,venezuelane o cinesi? In questo video ipotizzeremo alcune caratteristiche fondamentali della nuova destra del prossimo decennio, del perché non sembra avere assolutamente nulla di anti – sistema e del perché, anzi, la sua cultura politica identitaria e suprematista sembra essere particolarmente funzionale alle oligarchie in questa nuova fase di guerra dell’Occidente americano contro il resto del mondo. E infine, come sottolinea la ricerca del Tricontinental, vedremo come tutto questo non sia in fondo che il naturale e fisiologico sbocco delle politiche e della cultura neoliberista degli ultimi decenni.
Fino ad oggi, i partiti di centro – destra potevano essere considerati come la semplice variante finto – sovranista e finto – conservatrice del partito unico neoliberista, sostanzialmente intercambiabili con la sinistra ZTL e utili a portare alle urne le fasce più anziane della popolazione e i più sospettosi nei confronti di nuove mode e costumi. Ma in questa nuova fase di conflitto tra l’Occidente americano e popoli sovrani del Sud globale, in tutto l’Occidente le destre identitarie e xenofobe sembrano pian piano prendere il posto del vecchio centro – destra liberale e potrebbero assumere un ruolo molto più importante e decisivo: le élite economiche occidentali infatti, avendo la necessità si trasformare nuovamente le nostre società in società di guerra, potrebbero aver trovato nell’estrema destra, come già successo in passato, loro nuova espressione politica e culturale di riferimento; come si sottolinea nella ricerca del Tricontinental infatti, già negli anni 20 e 30 del ‘900 la destra autoritaria, che prese il nome di fascismo, nacque dalle contraddizioni – o, se vogliamo, dalle stesse premesse – delle società liberali a capitalismo avanzato. Come vi ricorderete, terrorizzate dalla minaccia socialista, in quell’occasione le oligarchie economiche europee appoggiarono entusiaste fascismi di ogni genere e tipo per proteggere i propri interessi dalle rivendicazioni dei lavoratori e mantenere così saldi i propri privilegi. Oggi la situazione sembrerebbe essere simile, ma anche molto diversa: la minaccia per le élite occidentali non viene più dall’interno, dato che 40 anni di rincoglionimento di massa neoliberista hanno tagliato alla radice anche solo la possibilità che nasca una qualche forza rivoluzionaria, ma dall’esterno; da paesi che (al contrario dei governi europei) tengono alla loro libertà e sovranità, che rappresentano ormai quasi l’80 per cento della popolazione mondiale e che oggi sono abbastanza organizzati da non accettare più le imposizioni di Washington. Per questo, scrivono gli autori della ricerca, differentemente dagli anni 20 e 30 del novecento, le oligarchie oggi non hanno bisogno di smantellare la Costituzione, di dichiarare fuori legge partiti scomodi e mandare in galera gli oppositori politici – e, insomma, di cambiare l’assetto giuridico politico fondamentale delle democrazie liberali in un assetto strettamente dittatoriale e autoritario per reprimere con la forza il dissenso. Anzi! Questo assetto – ormai svuotato di qualsiasi valore sostanziale a causa della concentrazione capitalistica di ricchezza e potere – nonostante forse qualche necessario aggiustamento, può ancora essere in gran parte garantito, con il vantaggio di meglio nascondere le strutture economico – finanziarie che contano proprio dietro le procedure ormai puramente estetico – rituali della democrazia, nonché come ottime armi di propaganda interna per convincerci della nostra superiorità morale sul resto del mondo.
“Per prima cosa” si legge nello studio “bisogna prendere atto che in quei paesi con Costituzioni che pure danno rilievo alle elezioni multipartitiche, si è assistito sempre più alla graduale instaurazione di quello che è effettivamente un regime monopartitico. Questa regola del partito unico può talvolta essere mascherata dall’esistenza di due o anche tre partiti, celando la realtà che la differenza tra questi partiti è diventata sempre più trascurabile.”; “In questo contesto” continua “si sta verificando uno slittamento verso destra. Di un nuovo tipo di destra che è emerso non solo attraverso le elezioni, ma anche esercitando il dominio nelle arene della cultura, della società, dell’ideologia e dell’economia. Questo nuovo tipo di destra non è necessariamente interessato a rovesciare le norme della democrazia liberale, e ha permesso per questo un suo intimo abbraccio con le forze liberali.” Svuotamento sostanziale della democrazia, concentrazione oligarchica del potere e della ricchezza e sfruttamento del lavoro sono, in fondo, il terreno comune sui cui liberalismo e estrema destra si sono da sempre trovati d’accordo e il motivo per il quale, in passato, le società capitaliste sono facilmente passate da un assetto politico più liberale ad un più sfacciatamente autoritario, cambiando la nomenclatura del potere economico e adattandosi al meglio alle esigenze storiche del momento; nelle società neoliberiste occidentali degli ultimi 40 anni, poi, questo terreno comune è diventato estremamente evidente e rischia di diventarlo ancora di più: “Per prima cosa, le forze politiche liberali e l’estrema destra” scrivono gli autori della ricerca “sono entrambe state impegnate su tutta la linea per diminuire la presa della sinistra sulle istituzioni”. “E senza un serio impegno nei confronti del benessere sociale e dei programmi ridistributivi, il liberalismo ha deragliato nel mondo delle politiche di estrema destra, finendo tra le altre cose per aumentare le spese per l’apparato repressivo interno che sorveglia i quartieri operai e le frontiere internazionali”; “Anche in politica estera,” continua il report “nei paesi imperialisti c’è stata e c’è una confluenza molto alta tra liberali ed estrema destra sul mantenimento dell’egemonia americana, l’ostilità e il disprezzo per il Sud globale e un aumento dello sciovinismo, come si vede dal sostegno militare totale al genocidio che Israele sta conducendo contro i palestinesi”. Insomma: quello che ci dice il Tricontinental è che, per quanto ci faccia male dircelo, le nostre amate ex democrazie (presto ex liberali) sono in verità già da molto tempo – nella struttura oligarchica, predatoria e imperialista del potere economico politico – di estrema destra.
La novità, però, è che con la fine della pace e l’entrata in questa nuova fase storica di conflitto tra potenze, la narrazione politica e culturale liberale progressista (dietro alle quale, fino a poco tempo fa, venivano mascherati tutti questi processi di smantellamento sostanziale della democrazia e libertà sociali) potrebbe essere diventata di intralcio e potrebbe lasciare il posto ad un’egemonia culturale e politica sfacciatamente identitaria, xenofoba e suprematista, maggiormente capace di legittimare nella popolazione la postura di guerra dell’Occidente contro il resto del mondo e far meglio digerire tutti i sacrifici che verranno richiesti in nome della presunta difesa collettiva. Come scrive anche Mimmo Porcaro in un suo interessantissimo articolo dedicato a Costanzo Preve “Da tutto questo consegue che sul piano culturale e filosofico il nemico principale non è più semplicemente (se mai lo è stato) l’individualismo progressista” – come molti ancora continuano a pensare esultando per la vittoria di Trump, gli scarsi risultati di Macron e sognando improbabili alleanze tra forze identitarie e neosocialiste – “ma” continua Porcaro “la complementarietà tra il progressismo liberale e il comunitarismo di destra”, una complementarietà che perdura in questa fase di transizione di sostanziale conflitto militare a bassa intensità tra grandi potenze e che potrebbe, però, presto lasciare spazio ad un monologo della destra identitaria qualora gli animi si scaldassero, la guerra aumentasse di intensità e i sacrifici richiesti ai lavoratori occidentali aumentassero. Quello che dobbiamo tenere a mente è, però, che il nuovo tipo di destra che si appresterebbe quindi a diventare il nuovo referente politico e culturale privilegiato dalle élite occidentali si presenta alla storia con alcune caratteristiche politiche inedite, come inedito, del resto, è il contesto geopolitico che stiamo vivendo; sbagliato, pertanto, sarebbe applicare automaticamente le stesse categorie politiche utilizzate per comprendere le destre e i fascismi novecenteschi. Ad esempio, l’identità e comunità di riferimento non può più evidentemente essere quella nazionale; da sempre, infatti, negli imperi le retoriche nazionaliste vengono demonizzate e combattute in quanto mettono inevitabilmente in discussione l’autorità del potere del centro dell’impero; e quindi, nel nostro caso, non più nazionalismo, ma occidentalismo e – come abbiamo visto nel caso dell’Ucraina e come vediamo adesso con Israele – un’imposta identificazione culturale e politica con tutti i paesi considerati alleati di Washington. Per la propaganda, la nostra nuova nazione sono i confini dell’Occidente – e i confini dell’Occidente con i paesi satelliti degli Usa, compresi quelli nel Medio Oriente e nel Pacifico.
Un’altra caratteristica di questa nuova destra che possiamo tentare di ipotizzare è che che non verranno messe in discussione, soprattutto sul piano ideologico, le procedure ritualistiche democratiche, né l’assetto liberaloide dello Stato, che tanto già consentono – con le loro maglie larghe – massima concentrazione del potere e massima censura e repressione in caso di necessità; sul piano dei diritti, è verosimile che non verranno toccati i diritti civili delle minoranze oggi più protette – come i diritti delle donne e le minoranze di genere – e, al tempo stesso, implementate misure sempre più stringenti di controllo e censura, ad esempio nei media e nell’informazione (che ci faranno sembrare il buon vecchio soft power un dolce ricordo). Sul piano dei diritti sociali (come sottolineavamo in precedenza), data la condizione emergenziale data dallo stato di guerra, possiamo prevedere nuovi tagli al welfare e ai salari venduti come patriottici sacrifici per la difesa collettiva. Infine i caratteri conservatori – identitari della nuova destra potrebbero non essere diretti tanto in chiave xenofoba nei confronti delle minoranze interne che vivono in Occidente (la cui forza lavoro e integrazione nella società di guerra, con processi di sempre maggiore assimilazione, sarà comunque necessaria), ma contro tutti i popoli sovrani non allineati che l’Occidente dovrà cercare di schiacciare e con un’inevitabile crescente razzismo nei confronti del regime cinese e del suo popolo. Insomma: ci sarà da divertirsi.
Queste sono solo alcune ipotesi; nei prossimi mesi torneremo ancora ed ancora su questo argomento, con video e interviste che meglio ci permetteranno di analizzare il fenomeno di questa nuova destra e di aggiornare le nostre categorie politiche alla luce degli straordinari cambiamenti geopolitici in atto. Chi rimane indietro, infatti, non solo è perduto, ma rischia di combattere un mondo che non esiste più e, a causa della disperazione per l’oggettiva mancanza di una reale alternativa politica che rappresenti gli interessi italiani, europei e del 99%, di scambiare i nemici con gli amici. E se anche tu vuoi aiutarci a costruire un media che porti avanti questa elaborazione intellettuale e politica e che ti racconti il mondo dagli occhi degli interessi del 99%, allora aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donald Trump

LA BOLLA – Effetti collaterali di Kursk: Mosca alza il livello di scontro

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani parleranno delle ultime evoluzioni sul fronte ucraino con Francesco Dall’Aglio e Stefano Orsi per l’immancabile Bolla settimanale della domenica sera di Ottolina Tv. Dopo i fatti di Kursk, la Russia sembra più motivata a procedere con fermezza su territorio ucraino.
L’Occidente ancora una volta sembra preda della sua stessa paura.

Cosm8lina – ep. 1- Quando l’imperialismo diventa spaziale

La nuova corsa allo spazio made in USA è plasmata da due elementi fondamentali: da un lato aziende private che non sono mai state così lontane dall’essere un “affare privato”, dall’altro la rinnovata esigenza di difendere con la forza il dominio imperiale anche oltre i confini della Terra. Al capo opposto della storia, Russia e Cina sembrano avere una visione diversa, che punta a coinvolgere i Paesi emergenti nella prossima corsa alla Luna, ma che nella più classica delle proiezioni viene definita come una corsa contro il tempo per accaparrarsi tutte le risorse lunari e costruire un monopolio extratmosferico. Cosm8lina nasce per cercare di fare un po’ di chiarezza su questi temi: non è raro imbattersi in grandi titoli che beatificano la space economy, le costellazioni satellitari e le prossime missioni sulla Luna, ma come da tradizione ci si guarda bene dal porsi delle domande. Quali sono le reali ambizioni dei capitalisti stellari? Quali sono i programmi di colonizzazione della Luna da parte delle superpotenze della Terra? Dobbiamo davvero preoccuparci di Elon Musk? L’Italia e l’Europa in generale avranno un ruolo in tutto questo? In questo ciclo di puntate, cercheremo di rispondere a queste ed altre domande.

Lo scorso 22 febbraio, il lander Odysseus ha toccato il suolo lunare ed ha incominciato a trasmettere dati e immagini verso la Terra; è un evento epocale non soltanto perché Odysseus è il primo oggetto made in USA a tornare sulla Luna dai tempi delle missioni Apollo, ma anche perché è il primo veicolo interamente finanziato, progettato e costruito da un gruppo privato ad arrivare con successo sul nostro satellite. È stato costruito dall’azienda texana Intuitive Machines nell’ambito del programma Nova-C, sviluppato su mandato della NASA; la missione di Odysseus, in particolare, si chiama IM-1 e rientra nel Commercial Lunar Payload Services (CLPS), un complesso programma di appalti tramite il quale la NASA prevede di affidare ai privati, da qui al 2028, le operazioni di trasporto di merci e la costruzione dei mezzi che opereranno sulla Luna. L’allunaggio di Odysseus è un evento storico, che apre una pagina nuova e apparentemente ricca di opportunità, ma potenzialmente molto problematica: quello a cui abbiamo assistito a febbraio è stato il primo passo dell’industria privata verso una possibile colonizzazione del dominio lunare e, cioè, un evento destinato a cambiare per sempre il rapporto millenario che lega tutti gli esseri umani alla Luna. Ora, il ruolo dell’industria aerospaziale privata non è una grande novità, anzi: storicamente, aziende come Northrop Grumman, Lockheed Martin e Boeing hanno goduto di numerose commesse ed appalti governativi e hanno in qualche modo fatto la storia della NASA, incluse le missioni Apollo; a partire dal XXI secolo, però, con la cancellazione del programma Constellation, che avrebbe riportato gli astronauti sulla Luna entro il 2020 e, soprattutto, con la fondazione di SpaceX, il protagonismo del settore privato ha preso decisamente un altro passo. In meno di vent’anni l’azienda di Elon Musk è riuscita infatti a progettare e costruire in casa dei lanciatori riutilizzabili, in grado di abbattere i costi ed effettuare in autonomia le operazioni di lancio, ma oltre la retorica che vede Musk impegnato nel rendere l’umanità una specie interplanetaria nel futuro immaginato da ogni boomer col cybertruck, c’è un dettaglio che non dovrebbe sfuggirci: la vendita sul mercato di servizi di trasporto orbitale non è l’obiettivo finale del modello di business ideato da Musk; grazie ai servizi logistici di SpaceX e al numero record di satelliti della costellazione Starlink, infatti, Musk oggi può offrire servizi di internet satellitare, comunicazione e, in prospettiva, raccolta e storage di dati che i suoi concorrenti a malapena possono permettersi di progettare. E non ci sono soltanto i programmi di Elon Musk: l’azienda Blue Origin di Jeff Bezos, per esempio, sta pianificando di allocare enormi data center nelle orbite prossime alla Terra e di fornire servizi di cloud computing spaziale, con i server che potranno assorbire direttamente dal Sole l’enorme quantità di energia necessaria al loro funzionamento e dissipare nel vuoto degli spazi cosmici il calore prodotto.
La colonizzazione senza limiti delle orbite basse e della superficie lunare da parte di grandi corporation private apre diversi scenari inquietanti e ci espone al rischio concreto che si vengano a creare dei monopoli industriali potenzialmente inattaccabili. La nuova corsa allo spazio poi, almeno per come è intesa dai suoi attori principali, ha anche un impatto ambientale devastante: l’appropriazione non regolamentata di risorse spaziali, infatti, può compromettere l’equilibrio ambientale della Luna e degli altri corpi celesti; e c’è anche la possibilità di deturpare irreversibilmente l’aspetto del nostro satellite. Tornando sul nostro pianeta invece, l’elevato numero di lanci, in assenza di una legislazione appropriata, determina la contaminazione degli strati più alti dell’atmosfera terrestre con una nuova ed ulteriore alterazione dello strato protettivo di ozono, un fenomeno che probabilmente è già in atto in questo preciso momento. E ci sono anche altri problemi: la presenza di un gran numero di satelliti in orbita, per esempio, fa aumentare enormemente la presenza di luci indesiderate nel cielo e ciò costituisce un serio limite per le osservazioni astronomiche; questo enorme affollamento delle orbite, insieme all’alta densità dei detriti che sfrecciano sulle nostre teste, può inoltre provocare collisioni ed incidenti, con gravi rischi per i satelliti e le persone in orbita, ma anche per quelle che stanno quaggiù sulla Terra: proprio lo scorso 8 marzo, un oggetto cilindrico ha perforato il tetto e attraversato due piani di un’abitazione a Naples, in Florida. Poco dopo, la NASA ha confermato che si trattava di una parte di un carico di batterie esauste che era stato rilasciato dalla Stazione Spaziale Internazionale nel 2021. Circa un mese più tardi, nella provincia di Saskatchewan, in Canada, la famiglia Sawchuk ha trovato nel suo campo dei frammenti di fibra di carbonio e alluminio, bruciati in più parti, provenienti dalla capsula Crew Dragon di SpaceX; il frammento più grande pesava poco più di 45 kg: “Speriamo che non accada di nuovo e che nessuno si faccia male”, ha dichiarato Barry Sawchuk, il proprietario del terreno.
Negli ultimi anni, il comparto produttivo e finanziario della space economy ha raggiunto e superato i 400 miliardi di dollari ed è in forte crescita, anche perché l’occupazione delle orbite basse e l’eventuale sfruttamento delle risorse lunari non sono al momento soggette a nessun tipo di controllo; siamo quindi all’alba di una vera e propria corsa all’oro in cui i paesi più attrezzati – gli Stati Uniti fra tutti, forti della loro posizione dominante – resistono ad ogni proposta di regolamentazione; e, ciononostante, l’unico trattato in vigore, l’Outer Space Treaty risalente al 1967, prevede che l’esplorazione e l’uso dello spazio extratmosferico debbano essere condotti “a beneficio e nell’interesse dell’intera umanità”. L’interpretazione prevalente dell’Outer Space Treaty, riaffermata, estesa e maggiormente esplicitata nel successivo Moon Treaty del 1979, include lo spazio esterno e, di conseguenza, anche la Luna, in una categoria già individuata dai giuristi romani: quella dei res communes omnium, cioè quei beni naturali non escludibili e non soggetti alla proprietà di Stati o individui, poiché condivisi da tutti o dalla maggior parte dei membri di una determinata comunità. Questa interpretazione è stata fortemente contestata dall’amministrazione Trump, che il 6 aprile 2020 ha emanato un ordine esecutivo che ha del clamoroso: “Le esplorazioni di successo a lungo termine e le scoperte scientifiche della Luna, di Marte e di altri corpi celesti richiederanno la collaborazione con entità commerciali per recuperare e utilizzare risorse” si legge nel documento; però, prosegue l’ordine di Trump, “la mancanza di certezze riguardo ai diritti di sfruttamento delle risorse spaziali da parte di soggetti privati […] ha scoraggiato alcune imprese a partecipare al programma spaziale”. Perciò si ribadisce il diritto americano all’utilizzo delle risorse spaziali e lunari anche al di fuori dell’interpretazione di altri Stati o della comunità internazionale: come si legge nel documento, infatti, “Lo spazio esterno è un dominio legalmente e fisicamente unico dell’attività umana e gli Stati Uniti non lo considerano un bene comune”. E non è tutto: storicamente, infatti, la nascita e l’imposizione di nuovi mercati vanno di pari passo con l’instaurazione della forza militare necessaria a difenderli; le funzionalità di comunicazione e posizionamento, rese possibili dalla tecnologia satellitare, sono ormai talmente integrate nelle attività economiche e commerciali terrestri e in quelle strategiche e militari che i nostri affari terreni ne sono ormai completamente dipendenti. Da qui l’esigenza di controllare e difendere le vecchie e nuove infrastrutture spaziali: per esempio, nel 2019 la NATO ha dichiarato lo Spazio un “dominio operativo” e, sempre nel 2019, è ufficialmente nata la US Space Force, il ramo delle forze armate statunitensi dedicato all’astronautica militare. Tradotto: nello spazio si può fare la guerra. Il conflitto russo – ucraino ha poi introdotto un altro elemento di novità assoluta: l’esercito ucraino ha infatti ampiamente utilizzato i servizi di Starlink per coordinare le proprie azioni militari; da qui in avanti, quindi, le attività commerciali di aziende private come Starlink possono acquistare una valenza militare e geopolitica, col rischio che sarà sempre più difficile riuscire a distinguere in maniera netta questi due domini. Le implicazioni di tutto questo sono spaventose, perciò non possiamo sottovalutare quello che succede oltre l’atmosfera.
Durante Fest8lina abbiamo dedicato uno dei nostri panel al tema delle “Guerre Spaziali” e, visto l’interesse del pubblico presente, abbiamo deciso di dare vita a Cosm8lina, un ciclo di interviste, approfondimenti e altre interazioni con il pubblico in cui tratteremo i temi della space economy, della militarizzazione dello spazio extratmosferico e, in generale, delle aspirazioni del nascente capitalismo stellare. In un primo appuntamento ne discuteremo con l’Ing. Marcello Spagnulo, consigliere scientifico di Limes ed esperto al tavolo tecnico del Comitato Interministeriale per le politiche spaziali e aerospaziali: parleremo degli sviluppi più recenti – come il volo inaugurale del lanciatore europeo Ariane 6, che ricalca a perfezione la condizione di estrema debolezza strategica e l’impasse geopolitica dell’Europa di oggi -, ma parleremo anche del DDL Spazio, un pacchetto di provvedimenti recentemente approvato dal governo italiano che traccia una direzione di marcia pericolosamente atlantista e quindi, secondo noi, decisamente discutibile. Se poi avete delle domande o se ci sono dei temi che vi interessano particolarmente, scrivetecelo nei commenti e vedremo di fare il possibile. Lo spazio è fatto per sembrarci distante, ma è meno lontano di quanto possiamo immaginare: era così venticinque anni fa, quando il modulo russo Zarja e il modulo Unity della NASA s’incontrarono in orbita per dare vita a un grande laboratorio scientifico simbolo di pace, e lo è a maggior ragione oggi, perché le decisioni che i nostri governi prenderanno nei prossimi anni in materia di spazio avranno un impatto diretto sulla vita di ognuno di noi. E c’è un altro problema, ovviamente: la nascita dell’Imperialismo Spaziale è accompagnata da un’informazione quasi sempre fatta di fanboy e accaniti sostenitori di un progresso, che sembra ambire ad essere spettacolare e salvifico, ma che raramente si fa carico di indagare le motivazioni reali e sulle conseguenze del suo sviluppo.
Quello che inizia qualche centinaio di chilometri sopra le nostre teste non è più il regno silenzioso della notte stellata: secondo qualcuno (…) lo spazio è l’ultima frontiera della controrivoluzione neoliberale. Insomma: c’è già chi pregusta l’ennesima gigantesca rapina ai danni dell’umanità e nessuno sembra farci caso; anche per questo serve un media indipendente che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Elon Musk.

Marcello Spagnulo. Geopolitica dell’Esplorazione Spaziale (Rubettino, 2019)
Marcello Spagnulo. Capitalismo Stellare (Rubettino, 2023)
Patrizia Caraveo, Clelia Iacomino. Europe in the global Space Economy (Springer, 2023)
Potential Ozone Depletion From Satellite Demise During Atmospheric Reentry in the Era of Mega- Constellations. Geophysical Research Letters. 11 June 2024

Turchia e Azerbaigian contro il colonialismo francese – ft. Giacomo Gabellini

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani intervistano per il consueto appuntamento del sabato Giacomo Gabellini. Turchia e Azerbaigian si allineano per contrastare l’influenza storica e attuale della Francia nella loro regione e nelle ex e attuali colonie, ponendosi come punto di riferimento per i movimenti di indipendenza e anti-colonialisti di de-francesizzazione. Esploreremo le dinamiche di potere che stanno emergendo nel Caucaso, nel Mediterraneo orientale e in Sahel e come questi nazioni si rapportino a NATO e BRICS.

Contro fascisti e sinistroidi: Nietzsche e la conquista di una nuova umanità – ft. Alessio Mannino

Nietzsche è uno dei filosofi, se non il filosofo più famoso dell’epoca contemporanea, colui che ha influenzato come pochi altri la cultura del secolo scorso, nonché la presente. Letto e re-interpretato in svariati modi – da filosofo del nazismo a intellettuale di sinistra – Nietzsche rimane uno “spirito libero”, capace di sviluppare nei suoi testi un pensiero originale, tanto criticabile e problematico in alcuni punti, quanto valido e portatore di una volontà di lotta a un presente appiattito sul produrre e consumare per la volontà di un padrone. Ne parliamo con Alessio Mannino, giornalista freelance e traduttore di una nuova edizione di La Gaia Scienza, opera centrale di Nietzsche nota per il famoso aforisma sulla morte di Dio.

L’intera Africa è in Cina: cosa sta succedendo a Pechino?

video a cura di Davide Martinotti

Questa settimana l’intero continente africano è in Cina, dove i delegati e i presidenti di oltre 50 paesi africani si sono dati appuntamento, a Pechino, in occasione del Forum per la Cooperazione Cina – Africa. È il più grande appuntamento diplomatico che la Cina ospiterà quest’anno, considerando che a partecipare c’è, oltre che l’intera Africa, anche il segretario generale delle Nazioni Unite e il presidente della Commissione dell’Unione africana. Di tutto questo non troverete traccia sui nostri giornali, evidentemente ancora convinti che la Cina sia isolata. Ma cosa sta accadendo a Pechino? Ne parliamo in questo video!