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La guerra civile tra oligarchie USA fa crollare le borse. E a pagare il conto è l’Europa

La finanza dei fondi speculativi si coalizza attorno alla candidatura di Trump e dichiara guerra alle Grandi Sorelle del risparmio gestito che sostengono i democratici. Risultato: mercoledì scorso il NASDAQ, l’indice dei titoli tecnologici USA, ha subito il più brusco arretramento degli ultimi 2 anni. Purtroppo, però, non si tratta della tanto attesa esplosione della bolla: la gigantesca liquidità che c’è in giro e, in particolare, nelle casseforti di BlackRock e soci, ha tutta la potenza di fuoco necessaria per continuare a pompare la bolla finanziaria; ma mentre negli USA si scatena la guerra civile tra gruppi finanziari, quelli che pagano davvero il prezzo siamo noi. La pubblicazione degli indici PMI di Standard&Poor è una sentenza impietosa; il manifatturiero europeo è alla canna del gas, dalla Germania alla Francia passando per l’Italia, ma non temete: come annunciava entusiasta Affari & Finanza di Repubblica lunedì scorso, invece che costruire auto, sarà sufficiente sfornare piatti gourmet per i turisti americani, che sono arrivati in Europa con numeri record. Se stiamo buoni, ci tirano pure le noccioline. Ne abbiamo parlato, come sempre, con Alessandro Volpi. Buona visione!

Economia di guerra e crisi del liberismo – con Vadim Bottoni e Alessandro Volpi

Oggi presentiamo il panel Economia di guerra e crisi del liberismo con relatori Alessandro Volpi e Vadim Bottoni e moderato dal nostro Gabriele Germani. Nel panel si è parlato di finanziarizzazione, del potere dei fondi e di cosa si intende per economia di guerra. L’Unione europea con le sue attuali regole ha realmente la possibilità di perseguire un’economia di guerra? Cosa è necessario cambiare? E perché politicamente è mancata e manca la volontà di farlo? L’euro è un ostacolo o un’opportunità? Buona visione!

#EconomiaDiGuerra #euro #fondi #finanza #economia #finanziarizzazione

Orban salverà l’Europa dal suicidio? ft. Gianandrea Gaiani

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani hanno intervistato Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, sulle questioni più dirimenti dell’attualità politica e militare: la guerra in Ucraina va verso una soluzione? Perché l’Europa si tira indietro dal percorso di pace intrapreso da Trump e Orban? Cosa determinerà il ritorno degli Euromissili in Europa? Buona visione!

#USA #Ucraina #Orban #Russia #Cina #Trump #Harris #NATO

Gli USA spaccati: Kamala vuole la guerra – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Giuliano e Gabriele hanno intervistato il sempre preparato Giacomo Gabellini attorno alle strategie messe in campo dai due diversi candidati alle presidenziali USA di novembre. Mentre sembra ormai solo questione di formalità la conferma della candidatura di Kamala Harris, Trump solleva problemi di legittimità attorno la sua figura. Mentre i Democratici puntano allo scontro attorno al mondo, i Repubblicani sembrano prediligere una strategia pragmatica che, nell’immediato, scaricherebbe i costi della difesa sui singoli scenari ai partner europei e asiatici. Buona visione.

#USA #impero #imperialismo #Biden #Trump #Kamala #Harris #Donald #Taiwan #finanza #USA24

Andrea Lombardi – Censura 2.0 e svolta autoritaria: dove ci sta portando la guerra?

Dialogo a tutto tondo con Andrea Lombardi sulla propaganda filo NATO, la guerra in Ucraina e le elezioni americane. Il suo canale è stato più volte vittima (come il nostro) del DSA, il Digital Service act con il quale l’Unione europea ha introdotto strumenti di controllo e di censura sull’informazione che poco hanno a che vedere con delle democrazie liberali. L’Occidente ha di fatto dichiarato guerra alla Russia: ci dobbiamo aspettare una nuova svolta autoritaria?

Processo politico agli attivisti ProPal anti-censura – ft. Giuliano Granato

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani hanno intervistato Giuliano Granato riguardo le misure cautelari nei confronti di 4 attivisti che avevano partecipato alla manifestazione contro la censura davanti alla sede RAI di Napoli il 13 febbraio 2024, contro il silenzio mediatico sul genocidio a Gaza dopo l’intervento dell’artista Ghali a Sanremo.

Per un think tank di vera opposizione – La battaglia delle idee

Oggi presentiamo il panel Servirebbe un think tank moderato dal nostro Gabriele Germani e con ospiti Francesco Sylos Labini e Gianmaria Nerli. Cosa è un think tank? Come funziona? Abbiamo altri esempi in Italia di organizzazioni simili? Da dove partire? Dove andare? E in che modo un simile apparato può essere utile nel creare quella rete di rapporti decisiva alla costruzione di una sana alternativa in Italia e in Europa? Il think tank è il luogo ideale per creare una contro-narrativa, una contro-visione dei fatti e delle cose in grado di raggiungere un pubblico più vasto, ma al contempo di creare quella contro-egemonia che già Gramsci delineò molto bene. Momenti di confronto tra un contesto più informale – come quello di Ottolina Tv sul piano dei media – e un think tank potrebbe essere decisivo per arrivare a un pubblico ancora più largo senza abbassare la qualità dei contenuti. Buona visione.

#ThinkTank #egemonia #Gramsci #CGIL

Kabala Harris: se la propaganda liberale spaccia una sicaria del capitale per un’icona progressista

Tutti pazzi per Harris (Repubblica); Kamala sprint (La Stampa); Una candidata per ridare energia (Il Manifesto); “Quella ragazzaccia indipendente che punta su donne e minoranze” (La Stampa) e che ora “può vincere”. Oooh! Finalmente agli analfoliberali è tornata un po’ di verve, quel tipico sorriso ebete stampato sul volto di chi campa di wishful thinking e di aperitivi accompagnati da stuzzichini esotici sulle terrazze parioline della grande bellezza. Ci mancava, perché ultimamente li vedevo un po’ depressini, così depressi da bersi addirittura “la storia di Biden rimbambito” che, come sottolineava ancora una decina di giorni fa un sempre più profetico Jacopo Iacoboni, non è altro che “propaganda russa assecondata stolidamente in Occidente” e cominciare addirittura a pensare che dopo che era fallito una specie di semigolpe giudiziario e, addirittura, un vero e proprio attentato, per Sleepy Joe forse le chance cominciavano a diventare scarsine ed era arrivata l’ora di dedicarsi ad attività più consone; voi ci ridete, ma mica è un dramma da poco: il loro pimpantissimo leader maximo aveva annunciato con enfasi l’uscita di scena prima di Assad e poi – addirittura – di Putin e ora invece, mentre Assad e Putin sembrano più in forma che mai, toccava ingoiare l’idea che ad uscire di scena fosse proprio lui. Destino ingrato…

Sleepy Joe durante un’attività consona

Fortunatamente, però, si è trattato di uno psicodramma passeggero; fatto fuori un Papa del culto analfoliberale, se ne fa un altro: ed ecco così che è bastato passare il testimone alla vice che ecco che torna tutta la carica di entusiasmo ingiustificato dei tempi migliori, di quando si sognava Trump in galera, la Siria in mano alle fazioni democratiche e progressiste dell’ISIS e il battaglione Azov al Cremlino. E poco importa che la Harris, da procuratore generale della California, infangava le indagini contro i poliziotti razzisti che facevano il tiro al piccione contro le minoranze etniche o che dava una mano all’ex segretario al tesoro dell’amministrazione Trump Steven Mnuchin (che contraccambiava finanziando la sua campagna): erano gli anni della grande crisi immobiliare e, con l’aiuto del governo federale, il braccio destro di quello che poi diventerà il presidente del popolo, Donald fofata Trump, si era comprato OneWest, una piccola banca regionale che aveva in pancia una montagna di mutui elargiti alla membro di volatile a persone che non avevano i requisiti per riuscire a ripagarli. La Federal Deposit Insurance Corporation, allora, garantiva a queste banche lauti risarcimenti per le loro perdite, ma solo a condizione che seguissero determinate procedure di pignoramento; la OneWest invece, a quanto pare, usava metodi più vicini ad Al Capone che a una banca ricompensata con soldi pubblici. Gli assistenti della Harris le hanno più volte sottoposto il caso invitandola ad aprire un’indagine, ma la Harris se n’è felicemente sbattuta i coglioni e poi ha fatto di tutto per infangare la faccenda: aveva altro a cui pensare – o meglio, a cui fare in modo di non pensare, che era ancora più difficile.
La Harris, infatti, è stata prima procuratore distrettuale a San Francisco e poi procuratore generale della California esattamente negli anni d’oro della costruzione dei grandi monopoli tecnologici. Era appena passata la grande crisi finanziaria del 2008, BlackRock e Vanguard si dovevano ancora affermare e il cuore pulsante del capitalismo oligarchico made in USA si era trasferito baracca e burattini nella Silicon Valley, dove stava trasformando un nuovo immenso mercato in un nuovo sistema feudale: il tecnofeudalesimo di cui parla anche Varoufakis; e la Harris era lì, ad assistere impassibile, anche quando Facebook si comprava prima Instagram e poi Whatsapp, senza che le venisse mai in mente di usare il suo potere per ostacolare la creazione di uno degli oligopoli più distopici dell’intera storia del capitalismo. Anzi, “Siamo una famiglia” affermava nel 2013 rivolta ai massimi manager di Google; e la famiglia si vede nel momento del bisogno: da allora i principali oligarchi della Silicon Valley sono sempre stati tra i massimi sponsor dell’ascesa politica della Harris e – anche a questo giro – non hanno fatto mancare il loro sostegno. Nell’arco di poche ore dall’annuncio della mancata ricandidatura di Biden, i comitati elettorali della Harris si erano già visti recapitare milioni su milioni di dollari da personaggi come Reid Hoffman, tra i fondatori di Paypal, di Linkedin e anche di OpenAI, tutte operazioni che ha condotto fianco a fianco del suo socio e fraterno amico Peter Thiel, l’ideologo multimiliardario dell’anarco-capitalismo che ha ispirato e allevato il vice di Trump JD Vance. Riusciranno – anche a questo giro – i nostri enfant prodige della propaganda analfoliberale a spacciare per progressista e alternativa al trumpismo un personaggio come la Harris, che del trumpismo condivide il 99,9% delle cose che contano davvero e si distingue soltanto per la posizione su alcune armi di distrazione di massa e per i gruppi di interesse ai quali deve rendere immediatamente conto? Prima di inoltrarci oltre nella storia oscura del nuovo angelo salvatore dell’analfoliberismo globale, vi ricordo però di mettere un like a questo video per permetterci, anche oggi, di combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi e (se ancora non lo avete fatto) anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche: a voi costa soltanto pochi secondi del vostro tempo, ma per noi che non abbiamo né Peter Thiel né Reid Hoffman in paradiso, fa davvero la differenza.

Kabala Harris

“Da bambina, non ho mai venduto biscotti degli Scout. Piuttosto, andavo in giro con una scatola del Fondo Nazionale Ebraico, per piantare alberi in Israele” (Kamala Harris, 2017, conferenza politica dell’AIPAC); prima di giocare allo sbirro buono in occasione dello sterminio dei bambini palestinesi a Gaza, per cercare di ingraziarsi il sostegno delle minoranze indignate di fronte alla complicità USA nei confronti del primo genocidio in diretta streaming, Kabala Harris non si era mai sottratta dall’ostentare tutto il suo sostegno incondizionato al regime di apartheid israeliano: “La prima risoluzione che ho co-sponsorizzato come senatore degli Stati Uniti” sottolineava enfaticamente nel 2017 davanti ai membri della potente lobby sionista dell’AIPAC “è stata quella di combattere i pregiudizi anti-israeliani alle Nazioni Unite e riaffermare che gli Stati Uniti cercano una pace giusta, sicura e sostenibile”. Nel 2016, infatti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva adottato una risoluzione storica che (finalmente) ammetteva che gli insediamenti israeliani sono una violazione del diritto internazionale; l’anno dopo, la compagna Harris – appunto – sostenne una risoluzione proposta dall’ultra-reazionario Marco Rubio che mirava a rimettere in discussione quella scelta. Marjorie Cohn è l’ex presidente del National Lawyers Guild, la storica associazione di avvocati, studenti di giurisprudenza e assistenti legali progressisti statunitensi e, dalle pagine di Consortium News, non le manda a dire: “La Harris” scrive “descrive se stessa come un procuratore progressista. Ma il suo curriculum dice tutt’altro.”; la Cohn ricorda “il rifiuto della Harris di consentire il test del DNA per un condannato a morte probabilmente innocente e la sua ferrea opposizione alla legislazione che avrebbe imposto al procuratore generale di indagare in modo indipendente sulle sparatorie della polizia”. Ma è solo la punta dell’iceberg: Branki Marcetic su Jacobin USA ricorda infatti come la Harris abbia incentrato la sua campagna per l’elezione al posto di procuratore sull’opposizione alla risoluzione che avrebbe messo fine alla cosiddetta legge dei tre colpi, una specialità tutta della progressista California dove, unico Stato nel paese, al terzo reato di default ti becchi l’ergastolo anche se si tratta di un reato da niente, una legge talmente oscena che, in quell’occasione, a scavalcare la Harris da sinistra fu addirittura il suo contendente repubblicano, che ne proponeva una riforma radicale. Marcetic ricorda anche come – prima di diventare, inspiegabilmente, paladina dei diritti delle donne – sempre da procuratore, aveva sostenuto con successo una legge federale che prevedeva un anno di carcere per i genitori dei ragazzini che marinavano frequentemente la scuola; e come esempio dei successi di questa legge, in una conferenza pubblica raccontò soddisfatta di come avevano messo in carcere una madre single e senzatetto che si destreggiava tra due lavori diversi. In un altro articolo, sempre su Jacobin, di nuovo Marcetic ricorda anche “come la Harris abbia rischiato di essere condannata per oltraggio alla corte per aver resistito a un ordine del tribunale di rilasciare prigionieri non violenti, che un professore di diritto ha paragonato alla resistenza del Sud agli ordini di de-segregazione degli anni ’50”, ma “L’insensibilità di Harris verso i poveri e gli impotenti” continua Marcetic “è stata pari solo alla sua simpatia per i ricchi e i potenti”: “Nonostante lo status della California come epicentro delle truffe di pignoramento” ricorda infatti Marcetic “la Mortgage Fraud Strike Force di Harris ha perseguito meno casi di frode nei confronti dei consulenti per le pratiche di pignoramento rispetto a molti procuratori distrettuali di contea”; “Mettendo da parte le differenze superficiali” conclude Marcetic “Biden e Harris sono essenzialmente lo stesso politico. Entrambi sono stati cronicamente dalla parte sbagliata della storia; entrambi hanno perseguito obiettivi crudeli e reazionari per gran parte della loro carriera al fine di portare avanti le proprie ambizioni personali; ed entrambi hanno l’abitudine di travisare le proprie convinzioni e i propri precedenti”.
Spinta dall’onda del Black Lives Matter infatti, la Harris, a un certo punto, ha fatto di tutto per provare a ripulire il suo curriculum e ergersi paladina della lotta contro il razzismo che infesta le forze di polizia, ma è un po’ come quando il losco palazzinaro miliardario Donald fofata Trump prova a ergersi a paladino dei working poors: lo dimostra, ad esempio, una brillante inchiesta giornalistica del Daily Poster, che ha scoperto che quando la Harris era procuratore generale della California, ha evitato scientificamente di intestarsi l’indagine sull’assassinio di due uomini disarmati, nell’arco di pochissimo tempo, da parte dello stesso identico agente di polizia; ha preferito lasciare l’incarico al procuratore distrettuale di Orange County. Peccato che, come ricorda Walker Bragman sempre su Jacobin USA, fosse già stato “coinvolto in uno scandalo di cattiva condotta e fosse noto per aver sempre tenuto con ogni mezzo necessario gli agenti fuori dai guai”: “All’epoca” ricorda Bragman “la Harris dichiarò che il suo ufficio avrebbe esaminato i risultati dell’ufficio del procuratore distrettuale, ma il Daily Poster non trovò prove che una seria revisione del rapporto del procuratore distrettuale avesse mai avuto luogo. L’ufficiale di polizia di Anaheim, Nick Bennallack, rimase in servizio per anni e continuò a uccidere”. D’altronde non è un curriculum che è in grado di impensierire i grandi donatori, che sono abituati a digerire ben altri rospi, soprattutto dal momento che negli ultimi mesi la Harris, per garantire che la narrazione vagamente socialdemocratica adottata da Biden ultimamente era solo una mossa propagandistica e che loro rimangono al totale servizio delle oligarchie finanziarie USA, non ha lesinato gli sforzi; l’offensiva di fascino l’hanno ribattezzata gli addetti ai lavori di Wall Street e vale a dire la fittissima agenda di incontri testa a testa col gotha del capitalismo USA che ha impegnato la Harris giorno e notte da almeno un anno a questa parte, durante il quale non s’è fatta sfuggire niente, dal CEO di JP Morgan Jamie Dimon, che in passato aveva elogiato le politiche di Trump, agli amministratori delegati di Visa e American Express, dai boss di Big Pharma ai tycoon dei media.
A provare ad intercettare un po’ di sostegno popolare, invece, ci pensa la retorica analfoliberale che, come sempre accade sotto elezioni, riesce a rimettere insieme sotto l’insegna del pericolo democratico (rappresentato dalla destra) le fazioni più disparate, dal Foglio al Manifesto, che ieri ha dato il meglio di sé: “Poco più di 100 giorni e Kamala Devi Harris sarà la 47esima presidente degli Stati Uniti” annuncia euforico Guido Moltedo nell’editoriale in prima pagina; “Non solo una bella speranza” sottolinea, ma ormai “uno scenario più che possibile”. Ed è solo l’antipasto: all’interno del giornale, Giovanna Branca confeziona un’intervista alla direttrice editoriale “della storica testata della sinistra americana Mother Jones” che sembra, in tutto e per tutto, una caricatura del pensiero woke prodotta da qualche comico dell’alt right di terz’ordine; facendo tabula rasa del pessimo curriculum da procuratore della Harris, la Branca ricorda con entusiasmo come “nel suo articolo la Harris mette l’accento su quando da procuratrice distrettuale di San Francisco rifiutò di chiedere la pena di morte per l’assassinio di un poliziotto”. “Credo che questo indichi un filo rosso nella sua carriera” risponde l’intervistata “in cui si incontrano i suoi doveri nel law enforcement e il movimento per un giusto sistema penale”: gli analfoliberali son fatti così, si accontentano di poco e quando non c’è nemmeno quel poco, se lo inventano; e – così – danno il loro contributo quotidiano per tenere in piedi questo baraccone che ci presenta come alternativi tra loro un palazzinaro megalomane e uno sceriffo a libro paga dei tecno-feudatari.
L’unica cosa certa è che anche tutti questi colpi di scena, alla fine, hanno avuto un unico risultato: il baricentro politico del centro imperiale continua a spostarsi inesorabilmente, guardacaso, verso destra; invece che fare il tifo sulla base delle minchiate, sarebbe il caso di concentrarsi su cosa dobbiamo fare per non farci trascinare con loro nel baratro. Per farlo, prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media che invece che rincorrere le loro narrazioni da film di Hollywood strampalato, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fabio Gramellini

L’Europa è morta di troppa austerità!

Dall’ultimo meeting tenuto dal gruppo nel 2012 a Rimini, la MMT torna in Italia in grande stile e con una nuova credibilità; se nel 2012, i suoi sostenitori erano associati a fantasiose teorie complottiste o populismi, oggi le ricette espansive ed eterodosse sembrano le uniche possibili per salvare l’Occidente dalla de-industrializzazione e dalla sicura sconfitta nel conflitto multipolare. Lo Stato deve tornare a svolgere un ruolo attivo nella vita economica del paese e per farlo deve ricorrere a tutti gli strumenti nel cassetto degli attrezzi, tra cui la politica monetaria. La presenza di Warren Mosler è quindi un momento cruciale di riconoscimento della caparbietà e coerenza alla fine premiata; così, a distanza di oltre un decennio, Draghi, Monti e rettiliani vari sono costretti a fare autocritica, mentre il gruppo del MMT continua a predicare la lieta novella inascoltato. Le istituzione europee svoltano a destra e diventano monopolio del dogmatismo del PPE, ma negli USA è ormai chiarissimo chi avesse ragione quindici anni fa. L’Unione europea si sta suicidando di austerità assistita.  Buona visione!

#MMT #crisi #UE #USA #economia #politicaespansiva #politicamonetaria #finanza

La battaglia controegemonica sui social

La battaglia per un’informazione libera è una battaglia cruciale. Il vecchio soft power attraverso cui gli americani, a suon di film e serie Tv, hanno addomesticato e colonizzato le menti delle classi popolari europee, non sembra più bastare e stiamo tornando alla censura vecchio stile e, in generale, ad un controllo senza precedenti sul web e social media. Cosa possiamo fare per contrastare questa deriva? E quali mezzi alternativi abbiamo per cadere trappola della svolta neo-autoritaria? Con Lorna Toon, Alessandro Monchietto (Idee Sottosopra) e Francesco Mizzau (Poets & Sailors).

Da Trump a Le Pen: la rivincita del capitalismo straccione e le lacrime di coccodrillo degli analfoliberali

Tra analfoliberali sull’orlo di una crisi di nervi e miliardari fintosovranisti travestiti da working class heroes, andrà a finire che moriremo tutti, ma – di sicuro – non di noia: dopo 50 anni di pilota automatico, le diverse fazioni del grande capitale dell’Occidente imperialista, impanicate dal loro progressivo e inevitabile declino, sono tornate a farsi la guerra; e gli ultimi giorni, tra attentati falliti e la prima volta in assoluto dal 1968 che un commander in chief decide di rinunciare spontaneamente alla corsa per il secondo mandato, sono stati in assoluto i più movimentati del teatrino politico USA degli ultimi decenni. Ma al di là della rappresentazione teatrale, in cosa consistono davvero queste fazioni del capitale sull’orlo della guerra civile? Che interessi materiali rappresentano? Ha davvero senso tifare per una piuttosto che per l’altra? E sono davvero così alternative tra loro? Dalla Francia della Le Pen agli USA di The Donald, in questo video proveremo a dare alcune informazioni che speriamo ci permettano di navigare in queste acque turbolente senza essere totalmente in balia della propaganda e dei mezzi di produzione del consenso delle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari; prima di farlo, però, vi ricordo di mettere un like a questo video (proprio per permetterci di portare avanti la nostra guerra quotidiana contro il pensiero unico imposto dagli algoritmi) e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare le notifiche: a voi costa solo pochi secondi, ma a noi permette di dare ogni giorno un po’ più di voce al 99% e a chi dalle faide tra pezzi diversi di oligarchia, alla fine, ha sempre e solo da rimetterci.

The Donald con Volodymyr Zelenski

Come mi capita spesso, non c’avevo capito una seganiente: unico tra tutti gli Ottoliner, ho continuato per mesi a dire che, a mio avviso, la vittoria di Trump nelle prossime presidenziali di novembre non era scontata per niente; nonostante i sondaggi, il senso comune, la continua debacle in Ucraina e il disastro in Medio Oriente, per mesi – infatti – i democratici hanno continuato a registrare un sostegno record da parte delle oligarchie che continuavano a riversare montagne di quattrini nelle casseforti dei comitati elettorali pro Biden, mentre il piatto di Trump (a parte l’attivismo del MAGA, i movimentisti del Make America Great Again) continuava a piangere. Sarò superficialmente economicista, ma a queste condizioni tutta ‘sta cavalcata trionfale verso la presidenza, tutto sommato, mi sembrava un po’ difficile, fino a che il vento non ha cominciato a cambiare decisamente direzione; sarà stata la fine dell’incognita giudiziaria, sarà stata l’efficacia retorica di Trump, saranno state le millemila gaffe di Biden, fatto sta che, a un certo punto, i flussi di quattrini hanno cominciato palesemente a cambiare segno: nel giro di poche settimane, Trump ha cominciato a registrare il sostegno di alcuni pezzi da 90 del grande capitale a stelle e strisce. Prima è stato il turno di Arthur Schwarzmann, eminenza grigia dell’alta finanza USA e fondatore di Blackstone, il fondo che (più di ogni altro al mondo) sta lavorando per una totale finanziarizzazione del mercato immobiliare residenziale; poi è arrivato il sostegno dal gotha dell’anarco-capitalismo distopico made in Silicon Valley – da Elon Musk a Peter Thiel, che si è guadagnato un posto al sole nella prossima amministrazione Trump grazie alla nomina a vicepresidente in pectore del suo protegé JD Vance – fino ad arrivare addirittura all’ipotesi di un posto da sottosegretario al tesoro per Jamie Dimon, il CEO di JP Morgan, di gran lunga la più grande banca privata del pianeta e la grande vincitrice della crisi finanziaria che l’anno scorso ha comportato, in pochi giorni, 3 dei 5 più grandi fallimenti bancari della storia statunitense, spacciati dalla grande macchina propagandistica al soldo delle oligarchie finanziarie come cosucce da niente. E meno male che Trump era il paladino dei working poors della Rust Belt. Cosa diavolo stava succedendo?
Negli ultimi anni, in particolare insieme ad Alessandro Volpi, abbiamo provato a descrivere l’affermazione di una nuova forma di capitalismo che altri, più quotati di noi, definiscono da tempo Asset Manager Capitalism; in questa forma di capitalismo, i principali centri di potere sono i grandi monopoli finanziari globali del risparmio gestito, a partire dai Big Three: BlackRock, Vanguard e State Street. Totalmente organici ai finto-progressisti democratici – in particolare a partire dal 2008 – questi fondi sono stati messi nella condizione di concentrare nelle loro mani una quantità di liquidità spropositata che hanno utilizzato per acquisire quote di controllo nella stragrande maggioranza delle grandi aziende statunitensi quotate allo Standard&Poor 500, ma soprattutto per gonfiare a dismisura una bolla finanziaria di dimensioni mai viste pompando il valore delle azioni oltre ogni limite possibile immaginabile; questo meccanismo si è rafforzato a tal punto da diventare il vero e proprio cuore pulsante dell’accumulazione capitalistica dell’Occidente collettivo, dove il grosso dei patrimoni delle oligarchie consiste, appunto, in montagne di azioni che hanno valori completamente scollegati dai reali valori economici delle aziende che le emettono e che riescono a mantenere solo grazie alla continua iniezione di liquidità gestita da questi mastodontici fondi. Questa nuova configurazione dell’accumulazione capitalistica però, inevitabilmente, ha consegnato a questi fondi un potere senza precedenti che ha cominciato a suscitare qualche mal di pancia anche tra una fetta di coloro che, a livello di ricchezza personale, da questo meccanismo – fino ad allora – in realtà ci avevano guadagnato eccome, com’è il caso proprio degli stessi Elon Musk e Peter Thiel; ma quello che spesso sfugge agli analfoliberali è che il fine ultimo del vero capitalista non è la ricchezza, ma il potere. Le cose non sono facili da distinguere, perché nel capitalismo il potere corrisponde sostanzialmente alla quantità di ricchezza accumulata, ma il fine vero, appunto, è il potere e quando, per qualche ragione, alla quantità di ricchezza accumulata non corrisponde direttamente una quota più o meno simile di potere, qualcosa si comincia a incrinare, che è esattamente quello che è cominciato ad avvenire: i grandi fondi garantivano di accumulare ricchezza gonfiando la bolla finanziaria, ma a quella ricchezza non corrispondeva un pari potere, perché a detenere il potere erano sostanzialmente i fondi stessi, che erano arrivati a piegare ai loro voleri tutto il partito democratico, le amministrazioni che esprimevano e la stragrande maggioranza dei governi degli alleati vassalli degli USA – come è stato plasticamente dimostrato durante l’ultimo G7 dove il CEO di BlackRock, Larry Fink, si è preso il palcoscenico e si rivolgeva ai vari capi di Stato come a un branco di bimbi scemi dicendogli esattamente cosa dovevano concedergli per non saltare tutti per aria e cioè, per inciso, tutti i servizi pubblici essenziali e tutte le principali infrastrutture, a partire da tutto quello che è necessario per effettuare la transizione ecologica.
Comunque, quello che è avvenuto è che pezzi sempre più consistenti di élite economica e di oligarchie USA hanno visto in Donald Trump, che da questi fondi è sempre stato avversato, l’opportunità per riequilibrare a loro vantaggio i rapporti di forza all’interno del grande capitale statunitense e da lì la partita, effettivamente, si è fatta piuttosto interessante: attorno all’idea di riequilibrare i rapporti di forza con i giganti della gestione dei risparmi si è formato un blocco sociale trasversale ampio, variegato ed estremamente influente e che, soprattutto, poteva contare su un referente politico che aveva il vento in poppa; ed ecco allora che tra le fila dei democratici qualcuno ha cominciato a suggerire che, per questo livello di scontro, la vecchia anatra zoppa di Rimbambiden non era più all’altezza. Poi è arrivato l’attentato fallito di Butler, che ha accelerato a dismisura questa dinamica già in corso da tempo e ha costretto a passare dalle parole ai fatti: la storica rinuncia alla corsa per il secondo mandato di Rimbambiden va inserita in questo tipo di dinamica e di conflitto; ora il rischio, però, è che alla narrazione bollita degli analfoliberali ne segua una ancora più bollita di matrice analfosovranista. I capitani di ventura che si sono coalizzati attorno a Trump, infatti – dai petrolieri ai guru delle criptovalute, dai padroni della gestione dei dati (come Thiel) a quelli che hanno fatto i miliardi grazie agli schemi piramidali più spregiudicati – continuano comunque a dipendere dalla bolla speculativa tenuta in piedi dalla liquidità dei grandi fondi. Non darei quindi troppo peso alle boutade di JD Vance su un potenziale ridimensionamento del ruolo del dollaro, magari illudendosi che questo preluda a un fantomatico neo-isolazionismo statunitense che rinvia l’escalation bellica: questa, a mio avviso, è tutta fuffa propagandistica priva di basi materiali concrete; semplicemente, si tratta di una riconfigurazione dei rapporti di forza tra le diverse fazioni del grande capitale nell’ambito della quale la volontà del centro imperiale di saccheggiare tutti gli alleati vassalli rischia anzi, inevitabilmente, di farsi ancora più feroce e plateale. D’altronde l’élite trumpiana è sostanzialmente l’erede diretta della classe dirigente che ha circondato Reagan e Paul Volcker, il famigerato ex presidente della FED che – con una politica dei tassi di una violenza senza precedenti – ha proprio avviato una fase di rientro dei capitali a Wall Street che ha seminato il panico in tutto il resto del mondo. Il processo da tenere sott’occhio mi pare evidente sia questo, mentre tutte i conflitti tra chi spinge per il fossile e chi per le rinnovabili, tra chi vorrebbe proibire l’aborto e chi invece sogna un eterno lungo pride, tra chi vorrebbe abbattere ogni confine e chi invece vorrebbe costruirci muri alti 12 metri, mi pare appartengano più alla sfera della rappresentazione teatrale della politica, dove si fa a gara a chi la spara più grossa, ma poi, sostanzialmente, dietro agli slogan di concreto si fa poco o niente, da una parte e dall’altra; e questo processo che, ovviamente, assume dimensioni epocali nel centro imperiale, mi sembra evidente che riguardi, in scala ridotta, anche le periferie.
Il quotidiano francese L’Humanité, due giorni fa, è entrata in possesso di un documento riservato che descrive nel dettaglio un piano “per installare al potere in Francia un’alleanza tra estrema destra e destra conservatrice”; “Un progetto politico” commenta L’Humanité “redatto come un business plan di una start-up, che dettaglia un piano organico e sistematico in una serie di tappe coordinate sapientemente, con tanto di target da avvicinare, talenti da reclutare” e via dicendo. Il nome in codice del piano è Pericle che oltre a rifarsi al grande leader populista ateniese, in francese sarebbe anche un acronimo per “patrioti radicati resistenti identitari cristiani liberali europei sovranisti”. Il piano prevede un contributo finanziario a fondo perduto di ben 150 milioni da investire nell’arco di una decina di anni; e a tirare fuori la grana sarebbe lui: Pierre Edouard Sterin che, quando lavoravo a Report, ho avuto l’occasione di conoscere personalmente. Pierre Edouard Sterin, infatti, deve la sua fortuna a questa robetta qua:

si chiamano SmartBox e sono gli ormai famigerati cofanetti che regaliamo quando vogliamo fare uno spregio a qualcuno e che contengono buoni per piccoli pacchetti turistici che quando uno li consuma non vede l’ora di tornare a lavorare. Il modello di business di SmartBox è molto semplice: chiede alle strutture una commissione che è circa il doppio di quella richiesta dai grandi portali per le prenotazioni, che certo non fanno beneficenza; il risultato è che gli albergatori convenzionati se hanno qualche minima speranza di poter affittare una stanza all’ultimo minuto, ti dicono di essere al completo anche quando non lo sono affatto e gli unici che non ti dicono di essere al completo sono quelle strutture talmente pessime che, a parte che i poveracci ai quali rifilate una SmartBox, non vedranno mai mezzo cliente. Sin dall’inizio, Sterin aveva chiarissima l’intenzione di mettere parte del denaro accumulato con questa roba a servizio di un progetto politico di estrema destra; e per accelerare l’accumulazione di questo capitale necessario ad avviare una nuova controrivoluzione, prima – da vero patriota – ha spostato la sede fiscale in Belgio per sfuggire alle tasse messe sui super-ricchi da Hollande e poi ha licenziato tutti i lavoratori delle controllate locali che ha acquisito in Irlanda e poi anche in Italia. Quando l’ho incontrato a Parigi mi ha detto espressamente che il suo progetto politico era – come un Milei qualsiasi – ridurre al minimo l’intervento dello Stato francese nell’economia privatizzando i servizi essenziali come la sanità e l’istruzione e che, nel perseguire questo cammino, il suo desiderio più grande era nientepopodimeno che diventare santo; con Pericle ora si pone l’obiettivo di “lottare contro i mali principali del nostro paese” che sono “il socialismo, lo wokismo, l’islamismo e l’immigrazione” e, per raggiungere questi obiettivi, sta lavorando per mettere insieme un migliaio di “persone allineate, in grado di rappresentare la spina dorsale del nuovo governo che conquisterà il potere nel 2027”.
Ecco: il blocco sociale che sta mettendo fine alla dittatura delle élite globaliste è trainato da questa gente qua; sarebbe il caso di non farsi troppe illusioni. Il dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta, dopo 5 secoli, è ormai agli sgoccioli e non saranno le élite che hanno dominato per 5 secoli a indicare la via d’uscita, a prescindere da quanto vi piacciano le loro narrazioni strampalate; se vogliamo trovare una via d’uscita (prima che sia troppo tardi) ci dobbiamo organizzare da soli e, per farlo, ci serve un media che invece che ai deliri degli Sterin, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuseppe Cruciani