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Alessandro Volpi: perchè oggi la fine del Mercato Tutelato per Luce e Gas è una Follia

Intervist8lina: benvenuti a questo nuovo appuntamento con le interviste di OttolinaTV. Il nostro ospite oggi è Alessandro Volpi, professore all’università di Pisa e attento osservatore di tutti quei processi che mirano alla finanziarizzazione della nostra disastrata economia e comportano sia un attacco sempre più feroce alle condizioni di vita della stragrande maggioranza del popolo italiano, sia a una devastazione totale del suo tessuto produttivo. La fine del mercato tutelato delle bollette energetiche delle famiglie italiane è un obiettivo che il partito unico degli affari e della guerra persegue orami da anni. Per compiere il passo definitivo però, evidentemente, serviva proprio il Governo di quelli che con sprezzo del pericolo si autodefiniscono patrioti e sovranisti, e che hanno deciso di fare il salto definitivo della staccionata nel peggiore dei momenti possibili, con  tutti i dati sull’economia nazionale in caduta libera, e sopratutto con le famiglie che non riescono più a risparmiare un euro e ricorrono sempre di più all’indebitamento selvaggio, come se fossimo ormai degli americani qualsiasi.

CHI ERA COSTANZO PREVE? Omaggio a uno dei più grandi marxisti italiani del ‘900

Il 23 novembre di dieci anni fa moriva Costanzo Preve, uno dei più grandi e controversi marxisti italiani del ‘900.
Lontano da tutte le principali correnti marxiste, nemico giurato di ogni servilismo ideologico filo-americano, Costanzo Preve è stato una meteora di integrità e coraggio all’interno del panorama filosofico italiano. Anche dopo la caduta dell’Urss, mentre tanti altri intellettuali marxisti facevano pubblica abiura delle loro idee per rivendersi agli apparati culturali della nuova sinistra capitalista e alla moda, Preve è rimasto sempre coerente e l’ha pagata a caro prezzo, con un totale ostracismo da parte della cultura ufficiale e con un lungo e doloroso anonimato. Gran parte delle sue opere, infatti, sono state pubblicate da una piccola casa editrice di Pistoia, Le Petite Plaisance e, ancora oggi, nominare la sua figura in ambienti universitari comporta sicura derisione e malcelato disprezzo. Tra le sue intuizioni filosofiche più brillanti ci sono la definizione di capitalismo assoluto – per indicare l’attuale fase del capitalismo occidentale, rimasto privo di forze politiche e culturali alternative -, la definizione di filosoFiat – per indicare la filosofia di pensatori organici al pensiero dominante come Gianni Vattimo e Massimo Cacciari – e, infine, il suo tentativo di pensare una nuova forma politica di comunitarismo inteso come correzione democratica del comunismo.
Poliglotta dagli anni dell’università, nel corso della sua vita Preve ha appreso inglese, portoghese, francese, tedesco, spagnolo, russo, greco antico e moderno, arabo, ebraico e latino. Coerentemente al suo modo di intendere la filosofia – lontano da formalismi ipocriti e inteso come dialogo amicale tra persone comuni – Preve amava farsi intervistare al bar o in tuta e calzini sulla poltrona di casa sua. Pochi mesi prima di morire pubblicò il suo testamento spirituale, La Nuova storia alternativa della filosofia, un’opera monumentale di rilettura integrale di tutta la storia del pensiero occidentale.

Costanzo Preve

Costanzo Preve nasce a Valenza nel 1943, da madre casalinga e padre funzionario alle Ferrovie dello Stato; a Torino studia Giurisprudenza e Scienze politiche prima di recarsi in Francia, Grecia e Germania dove, oltre che studiare filosofia, lavora come operaio. Tornato in Italia, a causa della distanza dagli ambienti dell’operaismo torinese e sessantottino, Preve non trova spazio all’Università e, dal 1968 fino alla pensione, deciderà di insegnare prima letteratura francese e poi storia e filosofia nei licei. A proposito dell’Università, che svolgeva – ai suoi occhi – una funzione ideologica simile a quella che aveva il clero religioso durante lancien regime, scrive: “Il Nuovo Clero organizza la mediazione simbolica e fornisce le informazioni necessarie per stabilizzare il dominio dell’oligarchia finanziaria. Esso non è più composto di preti e sacerdoti […] ma è costituito di due nuovi settori, l’uno secolare (i giornalisti, o meglio il circo mediatico globalizzato che organizza lo spettacolo della simulazione quotidiana) e l’altro regolare (la corporazione universitaria mondiale, che struttura il sapere complessivo sulla base della frammentazione programmatica delle potenze mentali della produzione)”.
Alla lotta intellettuale Preve affianca la lotta politica: negli anni settanta aderisce, per un breve periodo, al PCI e poi a vari gruppi della sinistra extra-parlamentare. Nei primi anni Novanta, anziché tentare la via di fuga tipica di tanti marxisti pentiti, Preve si preoccupa di capire le cause profonde della caduta dell’Urss e di porre rimedio a quello che considera il limite teorico del comunismo, cioè l’assenza di fondazione filosofica. A proposito degli intellettuali della sua generazione, scrive: “Mentre ai tempi di Hegel e Schopenhauer, ma anche ai tempi di Adorno, gli intellettuali erano generalmente più intelligenti delle persone comuni, oggi ci troviamo in una situazione nuova: gli intellettuali sono nella stragrande maggioranza più stupidi delle persone comuni. È una novità degli ultimi 50 anni e lo vediamo quando vengono interpellati nei talk show televisivi perché dicono una quantità di stupidaggini molto maggiore di quelle che si sentono pronunciare dai tassisti, dai baristi o dalle casalinghe al mercato”. Ma il distacco emotivo dalla cosiddetta sinistra avviene definitivamente nel 1999 con l’appoggio del governo D’Alema al bombardamento NATO in Jugoslavia; nel saggio del 2000 “Il bombardamento etico. Saggio sull’interventismo umanitario” Preve scrive che questa decisione ha posto fine per sempre alla legalità costituzionale italiana e che, da quel momento, l’Italia si trova di fatto senza una costituzione. In un paese serio inoltre – insiste – i vertici di quel governo sarebbero stati condannati davanti alla corte marziale per alto tradimento.
Dal punto di vista filosofico, la sua diagnosi delle società occidentali – dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’incontrastato domino statunitense sui corpi e sulle anime degli europei – ruota intorno al concetto di capitalismo assoluto: il capitalismo, secondo Preve, non era né un’ideologia né un soggetto sociale e culturale complessivo (non possiamo infatti identificare borghesia e capitalismo), ma un processo strutturale anonimo e impersonale che si legittima in modo esclusivamente performativo, e cioè con la sua capacità di garantire merci e servizi accessibili almeno ai due terzi delle società metropolitane “laddove il restante terzo” scrive Preve “è consegnato alla polizia, alle agenzie di assistenza e beneficenza, all’emarginazione e alle reti di solidarietà prevalentemente mafiose”. Il capitalismo, inoltre, non è per nulla conservatore – come la stragrande maggioranza dei comunisti del ‘900 ha sostenuto – ma è, al contrario – come già sapeva Marx – una forza rivoluzionaria nichilista, in quanto tende a distruggere tutti i sistemi ideologici, economici e politici “tradizionali” che incontra sul suo cammino e che potrebbero rappresentare un pericoloso ostacolo al processo di mercificazione di tutte le dimensioni della vita individuale e comunitaria. Questa distruzione dei valori e dei costumi tradizionali, nonché di tutte le dimensioni dello spirito umano differenti da quella puramente economica – come la politica, la filosofia o la religione – procede attraverso la formazione di sempre nuove classi sociali e ideologie dominanti, ogni volta sempre più aderenti e funzionali al fine capitalistico di economicizzazione totale della realtà : “Perché l’economia possa avere un potere simbolico assoluto” scrive Preve “non deve essere limitata da niente di esterno, ed apparire come completamente autosufficiente e sovrana su se stessa. Si tratta di un totalitarismo concettuale che persino le religioni non hanno mai osato sostenere in questa forma […] In questo modo, il capitalismo è fondato su di una illimitatezza potenziale assoluta, perché non esistono limiti esterni, come la religione, la filosofia e la politica. L’attuale e fatale giudizio dei mercati, cui si sono sottomessi anche i vari comunisti non è che uno sviluppo di questa premessa”.
Dagli anni ’70 in poi, prima negli USA e poi – a cascata – nelle sue province europee e asiatiche, grazie ad una finanziarizzazione del capitale e ad una globalizzazione di questa forma economica stiamo assistendo ad un continuo allargamento della forbice tra ricchi e poveri; queste trasformazioni strutturali, insieme alla liberalizzazione dei costumi, sono state – agli occhi di Preve – la base materiale della distruzione delle classi borghese e proletaria e dell’affacciarsi di 3 nuove classi sociali incapaci di muovere critiche radicali al capitalismo: un’oligarchia finanziaria globale, della quale qui a Ottolina parliamo ormai da anni e che rappresenta oggi la nuova nobiltà: al posto del proletariato, una massa informe di precari sempre più atomizzati, senza coscienza di classe, costretti a inseguire le opportunità di mercato in giro per il mondo e condannati a rinunciare a progetti lavorativi e familiari stabili e, nel mezzo, una sempre più povera global middle class, la quale “unificata da viaggi facili” – scrive Preve – “dall’umanitarismo distratto e superficiale, da un inglese turistico – operazionale della comunicazione semplificata e standardizzata, da un multiculturalismo indotto in funzione della distruzione della propria cultura nazionale, dall’accettazione conformistica del politicamente corretto circostante (femminismo di genere, pacifismo rituale e puramente narcisistico – ostensivo, ecologismo da pubblicità di fette biscottate, falso interesse caritativo verso i migranti, ecc.), non è più ovviamente la vecchia piccola borghesia”. In questa nuova forma di capitalismo post-borghese e post-proletario, dunque, si è rotta – secondo Preve – la precedente alleanza tra due forme di critica al capitalismo: quella economica delle classi lavoratrici a bassi redditi (che presupponeva un radicamento territoriale e una coscienza di classe che oggi non esiste più) e quella artistico-culturale della piccola borghesia insoddisfatta dell’ipocrisia dei valori conservatori e tradizionali – critica di cui non ha più sentito bisogno una volta superato il bigottismo pretesco e raggiunta la totale liberalizzazione dei costumi. E così, negli ultimi decenni, il capitalismo è rimasto – di fatto – privo di critiche radicali e nemici politici, un capitalismo, appunto, assoluto e totalitario.
Altre caratteristiche importanti del suo pensiero sono la critica alla dicotomia destra/sinistra che serviva, agli occhi di Preve, solo a distrarre gli ultimi dai reali conflitti sociali in atto, al politicamente corretto, che vedeva come una pericolosa importazione culturale dalla sinistra liberal americana e infine, naturalmente, la battaglia contro il neo-liberismo economico e contro qualunque ideologia reazionaria. Nemico filosofico di quello che considerava un ingenuo comunismo mondialista, Preve rivalutava inoltre il ruolo potenzialmente emancipatorio e democratico dello stato nazionale: secondo il filosofo torinese, infatti, l’internazionalismo era da intendersi come costruzione di un rapporto paritario e democratico tra Stati nazionali rispettosi delle reciproche differenze, e non certo come l’abolizione forzata – in nome di principi astratti – delle differenze stesse; un’idea in contrasto tanto con il nazionalismo quanto con il mondialismo.
Nell’autunno del 2004 Costanzo Preve, in un articolo, ipotizzò una sua concreta proposta politica: il nome scelto era MOVIMENTO ITALIANO PER LA LIBERAZIONE E L’INDIPENDENZA; “Si dice italiano” scrive Preve “non certo per nazionalismo, quanto per indicare che non si pretende di rappresentare simbolicamente il mondo intero, ma ci si limita a relazionarci con altre forze a noi simili ed affini presenti in Europa e nel mondo. Il termine liberazione” poi “deve essere inteso in due sensi: liberazione dalla dittatura dell’economia capitalistica – neoliberale, che mercifica tutto e tutti, e liberazione dalla dittatura militare imperiale americana, che priva l’Italia e l’Europa di ogni sovranità. Il termine indipendenza” infine, conclude Preve, rappresenta essenzialmente il fine politico di questa organizzazione Politica. E “chi lo trova generico e poco classista” sottolinea “dovrebbe rifletterci un poco sopra. La parola comunismo come fine politico infatti implicherebbe almeno due cose: primo, che tutti gli aderenti siano d’accordo a priori con queste finalità, e secondo, che si avesse fra di noi la condivisione di un significato univoco di questa paroletta, il che ovviamente non è”.
Morto nel 2013, Preve non ha fatto in tempo a vedere la profonda crisi dell’impero americano a cui stiamo assistendo oggi, né l’emergere di un possibile nuovo ordine multipolare capace di mettere in discussione il regime neo – liberale del capitalismo assoluto: ciononostante, noi non abbiamo dubbi da che parte delle barricate avrebbe deciso di combattere. E se anche a te piacerebbe veder nascere un Movimento italiano per la liberazione e per l’indipendenza, fai la tua parte: aiutaci a contrastare la propaganda di regime del capitalismo totalitario e aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Cacciari

HENRY KISSINGER – L’uomo che aiutò le oligarchie finanziarie USA a conquistare il mondo. E fallì.

Henry Kissinger è stato, con ogni probabilità, in assoluto l’uomo politico occidentale più importante degli ultimi 70 anni; uomo della mediazione e meritato Nobel per la pace per alcuni, feroce macellaio per altri, in realtà non è stato nessuna delle due cose o, al limite, entrambe. Il punto è che questo tipo di bilancio un po’ moralisticheggiante rischia di portarci completamente fuori strada: Henry Kissinger, infatti, è stato per eccellenza l’architetto e il comandante in capo del Superimperialismo, e cioè il progetto imperiale che mirava ad assicurare – attraverso la dittatura del dollaro da un lato e la proiezione militare globale dall’altro – l’egemonia delle oligarchie finanziarie USA sull’intero pianeta e, per perseguire questo piano, guerra e pace andavano dosate magistralmente. Kissinger è stato sia saggio pacifista – nella misura in cui ha sempre pensato che un conflitto tra grandi potenze avrebbe ostacolato il successo del Superimperialismo – che anche guerrafondaio feroce, perché sempre pronto a ricorrere alla violenza per impedire a tutti gli altri paesi di perseguire sovranità e democrazia e ostacolare, così, l’egemonia delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce: un piano sofisticatissimo che ha influenzato profondamente tutti i principali eventi storici degli ultimi 50 anni e che però oggi, tutto sommato, appare sempre più chiaramente come un sogno irrealizzabile. La dipartita di Kissinger quindi, da questo punto di vista, assume un valore simbolico che va ben oltre il fatto di cronaca e sembra suggellare il fallimento definitivo delle ambizioni imperiali ed egemoniche di Washington; la domanda, a questo punto, è “cosa verrà dopo?”.

Henry Kissinger

Dal golpe di Pinochet in Cile alle missioni criminali in Laos, dalle strette di mano al dittatore sanguinario Videla alle armi proibite contro l’Iran, ma anche le trattative contro la proliferazione nucleare, la fine del conflitto in Vietnam, l’apertura alla Cina di Mao prima e di Deng poi e – addirittura – le critiche al regime razzista della minoranza bianca suprematista in Rhodesia che gli sono valse l’accusa di simpatizzante comunista: non c’è evento di rilievo nella storia degli ultimi 50 anni nel quale Kissinger non abbia ricoperto un ruolo di primissimo piano e, tutto sommato, non sempre necessariamente deleterio – almeno per le sue ricadute concrete; d’altronde, a guidare l’azione di Kissinger non era qualche pericolosissima ideologia visionaria e totalitaria, come una Annalena Braebock qualsiasi, ma la difesa a spada tratta degli interessi egoistici di una minuscola classe di oligarchi. E per difendere gli interessi materiali di qualcuno i sogni non servono; bisogna fare i conti con la realtà, anche quando non ci piace. Il realismo di Kissinger è stato definito dalla pubblicistica analfoliberaloide molto spesso come machiavellico; niente di più lontano dalla realtà. Se lo scienziato politico fiorentino, infatti, aveva dedicato tutta la sua vita a individuare gli strumenti concreti di governo che permettevano al Principe di mettere a freno le ambizioni delle oligarchie, lo spregiudicato pragmatismo di Kissinger aveva esattamente l’obiettivo opposto: trasformare l’intero pianeta in una riserva di caccia a disposizione delle oligarchie stesse, l’unica classe veramente transnazionale che, a suo avviso, sarebbe in grado di garantire – pur in mezzo a una miriade di sotterfugi – stabilità e benessere; d’altronde gli doveva tutto.
Nato in Germania in una famiglia ebraica piccolo borghese, dopo aver partecipato in un organismo di controspionaggio alla guerra contro il nazifascismo, Kissinger entra presto a far parte della fitta rete di prestigiosi think tank che gravitano attorno all’università di Harvard; è qui che, nel 1955, incontrerà Nelson Rockefeller – terzogenito del multimiliardario John Davison Rockefeller Jr. e rappresentante di spicco del partito repubblicano – che diventerà il suo principale sponsor. Per il grande salto, però, dovrà attendere altri 14 anni; è il 1969, gli USA sono attraversati da proteste oceaniche contro la guerra in Vietnam e alla Casa bianca viene eletto Richard Nixon. Su indicazione di Rockefeller accetta di incontrare l’inesperto Kissinger ed è amore a prima vista; poche ore di chiacchiere ed ecco che arriva l’offerta della vita: Nixon chiede a Kissinger di diventare il suo assistente per la Sicurezza Nazionale. Come ricorda Carolyn Eisenberg dell’università di Hofstra in una lunga intervista rilasciata a Jacobin “Quando viene nominato, Kissinger, in realtà non ha nessuna vera esperienza politica, e non ha idea di come funzioni concretamente la macchina amministrativa” ma, come dicono i francesi, se ne sbatte il cazzo. Anzi, decide da subito di fare a modo suo: “Nell’istituire l’ufficio per la sicurezza nazionale” commenta la Eisenberg “farà molta attenzione a massimizzare il suo potere personale, e farà in modo che tutti i funzionari di gabinetto e il resto del personale, per raggiungere il presidente, debbano necessariamente passare tramite lui” e questo, continua la Eisenberg, gli permetterà “di influenzare la politica in misura sproporzionata rispetto al suo ruolo ufficiale”. Un potere che, sin da subito, metterà al servizio di una classe specifica: “Kissinger era” spiega ancora la Eisenberg “il terminale politico degli esponenti dell’alta società dell’East Coast, che orbitavano attorno ad Harvard e a Wall Street, a partire dai Rockefeller”.
Le oligarchie che Kissinger e Nixon devono servire, però, non stanno navigando esattamente in buone acque: la quota di prodotto interno lordo che finisce nelle loro tasche, da aver sfiorato il picco del 50% tra le due guerre, sta precipitando sempre più verso quota 30% – pochi punti percentuali in più della quota che finisce nelle tasche dei lavoratori sindacalizzati. Nel 1930 il gap era di 30 punti e la situazione internazionale, tra l’umiliazione che gli USA stanno subendo in Vietnam e, in generale, l’irruzione delle lotte anticoloniali – sostenute o meno dall’Unione Sovietica in buona parte del globo – minaccia in modo sempre più evidente il primato di Washington. Per assecondare le ambizioni egemoniche globali delle oligarchie nazionali c’è bisogno di una rivoluzione copernicana, e quella rivoluzione copernicana ha un nome preciso: la fine del sistema di Bretton Woods e della convertibilità del dollaro in oro. E’ la precondizione necessaria per permettere quello che comincerà ad accadere su scala massiccia soltanto a partire da qualche decennio dopo quando, per sfuggire alla crescita di potere relativo dei lavoratori in casa propria, si comincerà a delocalizzare a destra e manca in tutto il pianeta, ma – grazie al dollaro ormai sganciato dall’oro e sempre di più valuta di riserva globale – riuscendo comunque a tenere ben saldo il controllo dell’economia grazie alla concentrazione del grosso della ricchezza globale nelle mani di una ristrettissima oligarchia finanziaria, che è appunto – in soldoni – quello che Michael Hudson definisce Superimperialismo.

Golda Meir, Richard Nixon e Henry Kissinger

Per portare avanti questo piano Nixon e Kissinger hanno bisogno di due cose: da un lato, mantenere un certo livello di pace complessiva che permetta ai capitali e ai flussi commerciali di andarsene avanti e indietro per il pianeta senza correre particolari rischi e, quindi, evitare l’escalation del conflitto tra grandi potenze; dall’altro, invece, evitare che i vari paesi in giro per il mondo si mettano in testa di sfruttare l’ondata delle lotte anticoloniali per emanciparsi pure dal neocolonialismo di carattere più economico che militare a stelle e strisce e di trasformarsi, da repubbliche delle banane eterodirette e in preda delle scorribande dei capitali statunitensi, a veri e propri stati sovrani.
Ed ecco così il grande piano complessivo che tiene insieme le due anime del buon vecchio Kissinger: pacifista con le grandi potenze e spietato guerrafondaio con i paesi “non allineati”, e qui gli esempi letteralmente si sprecano, a partire – ovviamente – da quello che gli statunitensi considerano da sempre il loro cortile di casa: l’America latina in pieno subbuglio. Meno di 10 prima l’amministrazione Kennedy, per impedire che l’esempio della rivoluzione patriottica cubana contagiasse l’intero continente, aveva avviato un piano per la cooperazione allo sviluppo e l’integrazione economica noto come Alleanza per il progresso; come il suo proponente, è durato come un gatto in tangenziale. I pochi passi avanti che aveva innescato, invece di tranquillizzare le élite locali e i latifondisti, li avevano messi sul piedi di guerra: ed ecco così che, già nel ‘64, arriva il golpe militare in Brasile, pienamente sostenuto dagli USA che avevano questi vizietti ben prima che arrivasse Kissinger. E per reazione, di fronte al clamoroso fallimento dell’Alleanza per il progresso – sempre prima che arrivasse Kissinger – i vari movimenti dell’America latina si erano andati radicalizzando: come ricorda Aldo Marchesi dell’università della Repubblica in Uruguay “Un vertice dei ministri degli esteri latinoamericani del 1969 pubblicherà il famoso “Consenso di Viña del Mar” che accusava le potenze mondiali di perpetuare il sottosviluppo nella regione. Ma un ulteriore radicalizzazione” continua Marchesi “avverrà con l’ascesa nel 1973 del peronista di sinistra Hector José Cámpora alla presidenza dell’Argentina, che aumenterà la prospettiva di un asse Lima – Santiago – Buenos Aires – L’Avana come alternativa all’egemonia americana nella regione”. “I regimi militari di Bolivia e Perù” continua ancora Marchesi “si allontaneranno dall’influenza americana, iniziando a proporre un programma di trasformazione sociale legato alla nazionalizzazione delle risorse naturali e alla trasformazione agraria. E In Cile” prosegue ancora “la coalizione di sinistra che perseguiva il socialismo con mezzi pacifici e legali ispirerà coalizioni nei paesi vicini, come il Fronte Ampio dell’Uruguay”.
La reazione delle élite locali sostenute da Washington sarà violentissima: la prima pedina a cadere fu la Bolivia, dove Hugo Banzer Suarez mette fine al breve tentativo di golpe patriottico guidato dal leader socialista Juan Jose Torres; poi, nel giugno del 1973, fu il turno dell’Uruguay dove, contro l’insurrezione dei Tupamaros, il presidente Juan Maria Bordaberry portò a termine una sorta di auto – golpe che inaugurerà una dittatura militare che durerà fino al 1985; poco dopo fu il turno del Cile di Salvador Allende, spodestato dal golpe militare di Pinochet sostenuto dagli USA e da Kissinger in persona, e che aprì la strada a una feroce dittatura che non si limitò a reprimere nel sangue gli elementi più avanzati della società cilena, ma anche a trasformare il Cile nel laboratorio mondiale del neoliberismo, che gettò nella miseria masse sterminate di lavoratori e cittadini comuni; e infine, nel 1976, ecco che arriva l’ora della giunta militare di Videla in Argentina che, giusto per non lasciare nessuno spazio all’ambiguità, darà le chiavi della politica economica del paese a Jose Alfredo Martinez de Hoz, talebano dell’ultraliberismo e amico personale di David Rockefeller (fratello minore di Nelson), lo sponsor ufficiale di Henry Kissinger. Pochi mesi dopo, mentre in tutto il mondo montava l’indignazione contro contro le carneficine dei regimi cileno ed argentino, Kissinger puntava a vincere direttamente il premio simpatia in un tour del continente dove assicurava il pieno sostegno della sua amministrazione alla guerra di civiltà che questi regimi fascisti stavano conducendo contro i capelloni locali. Ne valeva la pena: a differenza che in Indocina, in America Latina questi simpatici compagni di ventura avevano garantito a Kissinger di portare a compimento con successo la sua strategia; il rischio di avere degli stati sovrani nel cortile di casa era scampato e l’agenda neoliberista delle dittature consolidava il controllo totale delle oligarchie finanziarie USA sull’economia locale.
Un copione leggermente diverso – ma con una morale molto simile – è quello che è andato in scena qualche anno dopo un pochino più a nord, nell’America centrale; anche qui c’era stata una lunga annata di rivolte popolari: nel 1979 il Fronte di liberazione nazionale sandinista in Nicaragua aveva messo fine alla dittatura – sostenuta da Washington – di Somoza; nel 1980 in El Salvador 5 organizzazioni di sinistra si erano coalizzate ed avevano dato vita al Fronte di liberazione nazionale Farabundo Marti e, nel 1982, in Guatemala 4 organizzazioni della guerriglia avevano dato vita all’Unità rivoluzionaria nazionale guatemalteca. Alla Casa bianca c’era Reagan che, ironia della sorte, aveva fondato buona parte della sua ascesa – all’interno del partito repubblicano prima e alla presidenza poi – in buona parte proprio criticando da destra Henry Kissinger, accusato di essere troppo tenero con le dittature comuniste; la reazione all’ascesa dei movimenti di liberazione del Centroamerica da parte delle élite locali fu feroce, ma gli USA la sostennero senza se e senza ma.
Ma i risultati non è che fossero proprio entusiasmanti: “Il fronte sandinista” ricorda Hilary Goodfriend dell’università della California, sempre su Jacobin, “era ancora al potere, nonostante il sostegno nordamericano a una guerra segreta condotta in gran parte dall’Honduras, che fu invaso dalle forze armate statunitensi al punto da essere rinominato “USS Honduras”. Nel frattempo” continua la Goodfriend “lo stato guatemalteco stava conducendo una guerra genocida contro le comunità indigene rurali, e l’esercito salvadoregno e gli squadroni della morte ad esso associati attiravano la condanna internazionale per il loro flagrante disprezzo per la vita civile. Joan Didion scrisse nel 1982 che l’impegno americano in El Salvador sembrava basato sull’autosuggestione, un lavoro onirico ideato per oscurare qualsiasi intelligenza che potesse turbare il sognatore”.

Ronald Reagan e Henry Kissinger

In parole povere, la situazione gli stava completamente sfuggendo di mano: serviva una svolta. Ed ecco così che Reagan chiama a presiedere la Commissione nazionale bipartisan per il centro America proprio il vecchio Henry che, sostanzialmente, ritira fuori la vecchia idea che John Kennedy aveva perseguito per l’America latina: per sconfiggere definitivamente la guerriglia bisogna dare un bel po’ di quattrini ai governi in carica, in modo che possano accontentare con logiche clientelari i bisogni primari delle popolazioni e indebolire la base sociale della guerriglia mentre reprimono quel poco che ne rimane. Kissinger riesce a farsi accordare la bellezza di 8 miliardi di dollari di aiuti, più altri 400 milioni di dollari di aiuti militari; “E’ un mandato per il socialismo, finanziato dai contribuenti statunitensi” tuonò allora il senatore ultrareazionario Jesse Helms.
In realtà fu un ottimo investimento che, un’altra volta, favorì il dominio delle oligarchie USA sul continente. La prima fase fu quella della repressione, con l’ONU che nel ‘93 ha certificato 40 mila morti in Nicaragua, 75 mila in El Salvador, e 200 mila in Guatemala; e poi, subito dopo, arrivò anche il tempo per gli affari: in cambio degli aiuti, gli USA imposero ai governi fantoccio della regione la solita lunga serie di ricette lacrime e sangue della classica cucina neoliberista creando, così, opportunità straordinarie di investimento per le oligarchie che Kissinger si era sempre proposto di servire fedelmente. Nel frattempo però, lungo tutti questi anni, Kissinger ha sempre lavorato anche per stemperare il conflitto diretto tra grandi potenze; il piano era chiaro e decisamente insidioso: invece che sconfiggere il socialismo con le armi, lo sconfiggeremo con i quattrini. L’idea – che avrebbe continuato a influenzare la politica estera USA per decenni – era che se riusciamo a imporre riforme neoliberali ai nostri partner in cambio di una montagna di quattrini di investimenti, questi paesi gradualmente perderanno la loro sovranità in favore dei detentori di capitale e, alla fine, diventeranno necessariamente soltanto altri pezzettini della grande mappa del dominio delle oligarchie finanziarie e – quindi – del mondo unipolare guidato dagli USA e imposto più o meno gentilmente proprio attraverso la globalizzazione neoliberista.
Una missione che Kissinger non ha perseguito soltanto da uomo politico, ma anche da uomo d’affari: nel 1982, infatti, fonda a New York la società di consulenza Kissinger Associates; nei decenni successivi aiuterà il grande capitale USA a fare affari in giro per il mondo approfittando direttamente della rete di contatti di Kissinger. A finanziare l’operazione sarà Goldman Sachs e gli affari andranno così bene che Kissinger ripagherà il debito in appena due anni, invece dei 5 preventivati. E graziarcazzo: proprio nel 1982, infatti, il Messico dichiara di non essere in grado di ripagare il suo debito estero e, nell’arco di pochi mesi, lo seguono a ruota diverse altre decine di paesi; a questo punto entra in ballo l’FMI, che si offre di aiutare i paesi a ristrutturare il debito in cambio delle solite riforme lacrime e sangue e di una marea di privatizzazioni. Per i clienti della Kissinger Associates una vera cuccagna; col senno di poi, però, oggi possiamo dire che la grande strategia di Kissinger e il sogno del Superimperialismo avranno fatto fare una marea di soldi a un ristretto gruppo di amichetti ma, alla fine, sono fallite: non solo la Cina non ha mai abbracciato pienamente la strada della rivoluzione neoliberista e – al contrario di quello che sperava Kissinger – ha usato gli investimenti esteri per rafforzare la sua indipendenza e la sua sovranità invece che per distruggerla, ma quello a cui assistiamo negli ultimi anni è proprio che, nonostante tutte le lusinghe del grande capitale USA, sempre più paesi guardano alla parabola cinese come al modello a cui ispirarsi per innescare un vero processo di crescita economica anche a casa loro.
Quello che però sappiamo, anche, è che questo esito non era per niente scontato: come ha raccontato magistralmente, ad esempio, Isabella Weber nel suo bellissimo “How China escaped shock therapy” (Come la Cina ha evitato la shock therapy), la Cina ha rischiato più volte di seguire le orme della Russia di quel criminale svendipatria di Eltsin, di suicidarsi e di innescare quel tipo di cambiamento traumatico che l’avrebbe resa succube del capitale finanziario a stelle e strisce; nei confronti di tutti quei funzionari cinesi che, lontani dalle luci della ribalta, si sono battuti giorno dopo giorno affinché questo non avvenisse, siamo tutti debitori e forse – anche se in maniera diversa – siamo debitori anche nei confronti di quei politici e funzionari americani che dopo Kissinger hanno abbandonato il suo realismo pragmatico, hanno perseguito sguaiatamente il sogno irrealizzabile di un primato USA fondato sulla forza bruta e, in questo modo, hanno aiutato prima i cinesi e – oggi – tutto il resto del Sud globale ad aprire gli occhi e a non cedere alle lusinghe degli oligarchi a stelle e strisce.
Non tutti i mali vengono per nuocere: il filosofo tedesco Wilhelm Wundt la chiamava “eterogenesi dei fini”; ti poni un obiettivo, ma siccome non capisci un cazzo scaturisci un effetto completamente diverso. Succede spesso anche a noi, a quelli che si sforzano di stare dalla parte giusta della storia; per questo è indispensabile un vero e proprio media che ci permetta di orientarci e di non cadere nelle trappole della propaganda dell’1%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundM e su PayPal.

E chi non aderisce è George W. Bush

LA TRAGEDIA DEL CORNO D’AFRICA (parte2) Se il Genocidio in Sudan è tutta colpa del neoliberismo

In Sudan è in corso un altro genocidio, totalmente dimenticato; d’altronde non dovrebbe sorprendere. Il Corno d’Africa è, in assoluto, una delle aree più martoriate del pianeta: a partire dalla fine del dominio coloniale, non c’è stato anno in cui un paese a caso tra Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan e Sudan del nord non sia stato attraversato da qualche feroce conflitto e, molto spesso, più di uno. Secondo la propaganda suprematista le cause sono molteplici ma, sostanzialmente, hanno tutte la stessa matrice: non sono abbastanza evoluti. Le magnifiche sorti e progressive della modernità – che caratterizzano il quieto vivere del nostro giardino ordinato – non hanno ancora attraversato la regione, lasciandola in balia del tribalismo più arretrato condito da una corruzione endemica alla quale poi, per i più progressisti, si è andata ad aggiungere pure la siccità.

Mark Duffield

Meno male che, in mezzo a tanta fuffa, ogni tanto c’è anche qualcuno che prova ad azionare il cervello: si chiamano Mark Duffield e Nicholas Stockton; entrambi hanno lavorato a lungo nella regione ricoprendo ruoli apicali per Oxfam e si sono fatti un’idea un po’ diversa del perché per gli abitanti del Corno d’Africa non ci sia pace, e hanno deciso di provare a spiegarcela in questo strepitoso articolo pubblicato pochi giorni fa sulla prestigiosa Review of African Political Economy. Come il capitalismo sta distruggendo il Corno d’Africa” si intitola, un piccolo capolavoro di applicazione scientifica di un po’ di sano materialismo storico; “Anche se abbondano spiegazioni superficiali che incolpano il cambiamento climatico, l’avarizia del generale di turno o le tensioni etniche radicate” scrivono nell’abstract “sulla crisi sempre più profonda dell’economia agropastorale che colpisce direttamente milioni di lavoratori in tutta la regione c’è poco o niente”. E invece il nocciolo sta tutto lì: “Il neoliberismo” continuano i nostri due autori nell’abstract “producendo un’economia estrattiva e violenta ed espansiva, ha trasformato la reciprocità che un tempo teneva uniti “agricoltori” e “pastori” in una relazione di guerra permanente” e “questa modalità di appropriazione è la causa principale dell’attuale crisi”. Siete convinti che la causa profonda di tutti i conflitti che, da decenni, travolgono il Corno d’Africa sia il tribalismo, la povertà e il sottosviluppo? Sbagliato: la principale responsabilità della tragedia del Corno d’Africa, sostengono Duffield e Stockton, è – udite udite – delle PECORE. Per dimostrarlo, i nostri due prestigiosi ricercatori hanno messo assieme un po’ di dati pubblicati dalla FAO e hanno messo insieme questo grafico:

la riga nera rappresenta la crescita demografica nei paesi del Golfo che, dai 20 milioni di abitanti del 1990, sono passati ai 60 attuali; le colonne rosse, invece, rappresentano il valore in dollari del bestiame importato, che è passato da 600 milioni del 1990 ad un picco di quasi 1,8 miliardi nel 2015, per poi assestarsi verso quota 1,4 miliardi, e le colonne in giallo, infine, rappresentano la quota di quel bestiame che arriva direttamente da Sudan e Somalia che, tra tutti i paesi del Corno d’Africa, sono probabilmente – in assoluto – quelli che hanno vissuto le tragedie più feroci e devastanti e che, ciononostante, hanno moltiplicato per 6 il valore delle loro esportazioni di bestiame. Una crescita esponenziale che ha permesso ai due paesi di sostituire Australia ed Europa dal gradino più alto dei fornitori di bestiame dei paesi del Golfo – proprio mentre questi vivevano un gigantesco boom demografico – fino ad arrivare “nel 2017 alla cifra sbalorditiva di 9,5 milioni di capi esportati, che pesavano per l’80% delle importazioni” e il paradosso è, scrivono Duffield e Stockton, che “La grande maggioranza di questi animali non provenivano dalle zone relativamente tranquille dei rispettivi paesi, ma dalla prima linea delle guerre civili”; il tutto “in un momento in cui entrambi i paesi erano nel bel mezzo di operazioni di aiuto umanitario multimiliardarie organizzate, presumibilmente, per salvare milioni di vite minacciate dalle carestie indotte dalla guerra”.
Ma cosa c’entra tutto questo con le guerre? Per spiegarlo, i nostri due autori si concentrano sulla storia – in particolare – di due gruppi etnici: i Bantu, che vivono nel sud della Somalia, e i Fur che, invece, vivono nel nel sudovest del Sudan, nel Darfur (che significa, appunto, Casa dei Fur): “Durante il periodo coloniale” ricordano Duffield e Stockton “entrambi i gruppi vivevano di un’economia di sussistenza in gran parte sedentaria basata sulla produzione intensiva di raccolti di frutta e verdura alimentati dalla pioggia e parzialmente irrigati”. In entrambi i casi, a nord di queste due etnie – dove le precipitazioni erano meno affidabili e le risorse idriche superficiali più scarse – vivevano altri gruppi di agro – pastori semi – nomadi che, oltre a pecore e capre, avevano anche grandi mandrie di bovini e di cammelli: “La transumanza stagionale a lunga distanza delle mandrie miste del nord” spiegano i nostri due autori “veniva negoziata con gli agricoltori del sud per massimizzare l’uso dei residui colturali e consentire il baratto e la vendita di bestiame, latte, raccolti, artigianato e servizi tra questi gruppi”. “Sebbene si potessero sviluppare attriti quando, ad esempio, gli animali si allontanavano nei campi o il bestiame veniva rubato” sottolineano Duffield e Stockton “esistevano processi compensativi per mantenere un sistema di scambio reciprocamente vantaggioso tra comunità sedentarie e semi-nomadi. In effetti, anzi, possiamo dire che tale reciprocità è proprio alla base dell’autosufficienza rurale che si era consolidata”, fino a che non è arrivato il boom demografico dei paesi del Golfo e, con lui, la fame di bestiame da importare per fornire le proteine alla sua popolazione. Le prime vittime sono stati i Bantu somali: “Il principale impatto demografico della guerra civile somala degli anni ‘80” ricostruiscono Duffield e Stockton “fu proprio lo sfratto di questi agricoltori di sussistenza da parte di pastori armati”, ma il fenomeno era destinato ad ampliarsi. “Data la distruttività ecologica intrinseca dell’allevamento militarizzato” spiegano i nostri due autori “quando la produttività degli allevamenti di pecore in Somalia ha iniziato a diminuire, il capitale mercantile – militare è andato alla ricerca di nuove opportunità in Sudan”; ed ecco così che il ricorso alla chiave di lettura tribalistica – che tanto piace all’orientalismo suprematista de’ noantri finalmente trova una spiegazione materiale concreta: “Sebbene il conflitto nel Darfur sia solitamente descritto in termini etnici” sottolineano infatti Duffield e Stockton “i massacri e gli spostamenti su larga scala ai quali assistiamo non sono che sintomi di questo conflitto tra modi di produzione. Qualunque fosse la loro origine etnica, i rapporti di forza si erano spostati a vantaggio di chi invece che il sorgo, vendeva le pecore. E così i pastori e le milizie che li sponsorizzavano furono in grado di acquistare armi sempre migliori e di usarle per allontanare gli “intrusi” non arabi dai migliori pascoli piovosi del Sudan”.

Nicholas Stockton

Insomma: seppur con caratteristiche locali, siamo di fronte al classico processo di espropriazione violenta e di privatizzazione di terreni – prima ad uso comune – che, dalle enclosure inglesi in poi, ha sempre caratterizzato il passaggio di una società da agricola a industriale; un processo ampiamente sostenuto dalla comunità internazionale che “a partire già dagli anni ‘70” ricordano Duffield e Stockton “ha facilitato la diffusione di filo spinato in gran quantità, soprattutto nella Somalia centrale e meridionale”. Il punto qui però è che, a differenza di quanto successo durante la fase dei disboscamenti proto – capitalisti in Europa, di borghesia in via di industrializzazione che non vedeva l’ora di impiegare queste masse di sfollati in giro non è che ce ne fosse molta; ed ecco, allora, che a metterci una pezza ci pensa il variegato universo delle ONG e degli aiuti umanitari che però, secondo Duffield e Stockton, non fanno altro che contribuire a “normalizzare” questo processo di spoliazione feroce spacciandolo come un “risultato inevitabile della scarsità, dell’ignoranza e dello stress ambientale”. Queste gigantesche masse di sfollati, infatti, vengono accolte in sterminati campi profughi che sono finanziati a livello internazionale ma sono poco controllati e “mal protetti”, e “come suggerisce l’esperienza della produzione di banane e di gomma arabica in Somalia e Sudan” svelano Duffield e Stockton “questi centri di concentrazione assomigliano in modo inquietante a veri e propri campi di lavoro forzato”. Ma il ciclo distruttivo non è ancora terminato perché “Il capitale mercantile incontrollato” sottolineano Duffield e Stockton “non è disposto a investire in una produzione sostenibile che erode i profitti”, ed ecco così che lo sfruttamento intensivo riduce rapidamente la redditività anche di questo nuovo modello di produzione: “La produzione di bestiame concentrata su ex terreni agricoli esaurisce presto la fertilità del suolo, soprattutto quando la produzione è fortemente concentrata attorno alle risorse idriche fornite da pozzi meccanizzati. Pertanto, la produzione di bestiame militarizzato è soggetta a un calo della redditività” e, con la redditività che diminuisce e la torta da spartire che si rimpicciolisce, ecco che lo scontro tra bande armate si intensifica e gli affari vanno in malora molto più rapidamente di quanto non ci si possa immaginare – appena “10-15 anni” sostengono i nostri due autori. Dopodiché “il capitale militare – mercantile è spinto inesorabilmente alla ricerca di guadagni più facili altrove”. “Considerando le esportazioni di bestiame nel lungo periodo” ricostruiscono Duffield e Stockton “l’epicentro della frontiera alimentare del Golfo si è spostato a sud attraverso la Somalia e l’Ogaden prima di migrare nel Darfur, nel Kordofan e ora, sembrerebbe, nel Nilo Azzurro meridionale” e – a giudicare dalla mole di investimenti dei paesi del Golfo nei porti del Kenya e della Tanzania – probabilmente nel prossimo futuro vedremo questa dinamica allargarsi sempre più verso sud e verso ovest: un’ondata che non mette a rischio soltanto la popolazione sedentaria che vive di agricoltura di sussistenza, ma l’esistenza stessa degli stati: “Per il capitale mercantile – militare” sottolineano Duffield e Stockton, infatti, “l’esistenza di uno stato unitario in grado di proteggere un sistema agricolo socialmente, ecologicamente ed economicamente sostenibile, rappresenta di per se un grosso ostacolo”. “Gli stati nazionali della Somalia e del Sudan”, ad esempio – continuano i due autori – per quanto in realtà molto spesso complici proprio di questo meccanismo di espropriazione “sono stati in realtà a lungo considerati dei freni a un’estrazione efficiente”.
Ed eccoci così tornati al punto di partenza, alla guerra che – ancora una volta – sta dilaniando il Sudan e che vede contrapposte le milizie dei “pastori”, da un lato, contro le forze armate regolari dall’altro, con il grosso della popolazione locale che – nonostante da quelle stesse forze armate regolari in passato sia stata violentemente repressa – si schiera col governo centrale proprio con l’idea che sia l’unico in grado di mettere un freno alla foga predatoria dei pastori sostenuti dalle milizie legate a doppio filo agli Emirati Arabi Uniti. “La guerra e la violenza bellica” tirano le somme i nostri due autori “sono intrinseche all’emergere storico dell’economia innaturale del capitalismo. Per il capitalismo, anziché essere contingente, la violenza è una relazione economica essenziale. Dagli anni ’70, il Corno d’Africa è stato attraversato da guerre civili e sociali senza fine. Il pensiero liberale presenta questa guerra permanente come una serie ininterrotta di disastri umanitari contingenti; in realtà, non sono altro che epifenomeni di un capitalismo mercantile estrattivo che opera attraverso la guerra permanente”.
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LA TRAGEDIA DEL CORNO D’AFRICA (parte 1) Sudan: storia di un genocidio che non fa notizia

Lontano dagli occhi e dal cuore dei tiktoker e degli opinionisti dei talk show, in Sudan si sta consumando l’ennesima catastrofe umanitaria di proporzioni bibliche: secondo quanto riportato dall’Economist, il Sudan oggi sarebbe in assoluto il paese col maggior numero di rifugiati interni al mondo; erano già 3,7 milioni prima di aprile – ai quali si aggiungevano anche 1,1 milioni di rifugiati stranieri che, ironia della sorte, avevano cercato in Sudan riparo da altri conflitti regionali – e poi è arrivato il cataclisma. Nell’aprile scorso, l’esercito regolare e i paramilitari guidati dal generale Hemeti – che avevano governato assieme da quando l’ex presidente Omar Al Bashir era stato costretto all’esilio impedendo la transizione democratica – hanno deciso che il modo migliore per decidere chi dei due avesse il diritto a governare l’intero paese era passare alle armi; da allora, nell’arco di pochi mesi, ai vecchi rifugiati se ne sono aggiunti altri 6,3 milioni. In tutto fanno 11 milioni di esseri umani – 5 volte Gaza – in buona parte a rischio genocidio. Come ai tempi dei tagliagole janjaweed nel Darfur – che, d’altronde, molto spesso sono esattamente gli stessi uomini che ora ingrassano le fila dei paramilitari di Hemeti – quello che vediamo dispiegarsi con ferocia davanti ai nostri occhi, infatti, non è altro che l’ennesimo capitolo della guerra epocale che da decenni infiamma il Corno dell’Africa. E non si tratta della solita guerra per procura tra grandi potenze che, infatti, sostanzialmente se ne strasbattono i coglioni (e con loro tutti i media che gli fanno da ufficio stampa – motivo per cui se ne parla così poco); tantomeno – però – si tratta semplicemente di guerre tribali legate a dinamiche che caratterizzano società che non hanno ancora abbracciato le magnifiche sorti e progressive della modernità. Al contrario – per quanto a noi abitanti del giardino ordinato del mondo sviluppato possa sembrare controintuitivo – si tratta di guerre scatenate proprio dalla logica interna del capitalismo e, in particolare, da quella fase barbara e violenta che si chiama accumulazione primaria.
La tragica, ennesima guerra in Sudan meriterebbe di per sé un lungo pippone, ma – proprio perché non parla solo della guerra in Sudan, ma di qualcosa di estremamente profondo che ha caratterizzato in modi sempre diversi le società che sono entrate nella cosiddetta modernità – a questo giro abbiamo deciso di dedicargliene addirittura due: nel primo, che è questo, proveremo a fare una cronistoria della guerra in corso e delle prospettive future; nel secondo, che pubblicheremo domani, cercheremo di inquadrarla in un discorso più generale.

Mohamed Hamdan Dagalo


Sabato 15 aprile, stato di Khartoum: le forze armate regolari del Sudan dichiarano che, nella notte, le due basi di Tiba e Soba sono state prese d’assalto; è il risultato del fallimento di una lunga trattativa tra le forze armate stesse e l’RSF, le forze paramilitari di supporto rapido guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo – meglio noto come Hemeti – che, poche ore dopo, dichiarerà di aver preso il controllo anche dell’aeroporto di Khartoum, della base aerea di Merowe e pure del palazzo presidenziale. Il motivo del contendere sembrerebbe essere molto semplice: per dare il via libera al nuovo governo transitorio, che avrebbe dovuto traghettare il paese a nuove elezioni, le forze armate regolari pretendevano di integrare nei loro ranghi i paramilitari, e Hamati non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. Istituita nel 2013, l’RSF è nata dalla riunione delle varie milizie che avevano messo a ferro e fuoco il Darfur nei primi anni 2000 commettendo una lunga serie di crimini, e lo avevano fatto in nome del governo centrale e dell’allora presidente al-Bashir. Diventata, nel tempo, una delle istituzioni più potenti del paese – in particolare grazie al controllo delle miniere d’oro del Darfur quando, nel 2019, le proteste di piazza hanno costretto al-Bashir alle dimissioni -, la giunta militare che è subentrata li ha coinvolti direttamente nel governo del paese assicurando ad Hemeti la carica di vicepresidente. Forze armate regolari e RSF condividevano la stessa priorità: impedire alla rivoluzione democratica di ottenere qualcosa di più sostanzioso che la sola rimozione di al-Bashir con ogni mezzo necessario; già nel giugno del 2019, per sedare le proteste, la giunta militare infatti aveva schierato proprio l’RSF che, nell’arco di pochi giorni, aveva causato oltre 100 vittime tra i manifestanti e una quantità spropositata di arresti. Una volta sedata la protesta, la coalizione delle Forze per la Libertà e il Cambiamento – che aveva guidato la rivoluzione democratica – aveva deciso di aprire una trattativa con la giunta militare entrando a far parte di un governo congiunto di transizione: una mossa criticata da molti dei protagonisti delle proteste e che ha spinto, ad esempio, il partito comunista sudanese a uscire dalla coalizione: c’avevano visto lungo. Dopo 2 anni, infatti, con la scusa sempre di dover riportare l’ordine in mezzo a un’altra ondata di proteste, forze armate regolari e RSF – di comune accordo – inscenano un altro golpe militare ed estromettono completamente le forze civili dal governo che, però, c’hanno la testa dura. E dopo l’ennesimo golpe hanno deciso di tornare al tavolo dei negoziati mentre, come ricorda Peoples Dispatch, manifestazioni oceaniche in tutto il paese si moltiplicavano al suono di “Nessun negoziato, nessun compromesso, nessuna partnership”. Come avrebbe dichiarato Fathi Elfadl del partito comunista sudanese – sempre a Peoples Dispatch – “l’Egitto e l’Arabia Saudita sostengono Burhan. Gli emirati sostengono Hemeti. Ma entrambi vogliono un regime militare in Sudan, anche se con strutture gerarchiche diverse”. Insomma, un puro e semplice scontro tra fazioni diverse che, tra l’altro, sono anche unite dalla matrice etnica: sia Burhan che Hemeti, infatti, sono espressione della maggioranza araba e un bello scontro diretto – per entrambi – è un’ottima occasione per portare avanti la pulizia etnica della minoranza nera africana, com’è accaduto due settimane fa.
Siamo ad Ardamata, una delle città satellite di El Geneina, la capitale del Darfur occidentale (uno dei tre stati che costituiscono la regione del Darfur): qui si trova l’ultimo campo profughi che accoglie le persone fuggite dalla città durante le carneficine degli ultimi 20 anni; creato nel 2004, ospitava oltre 40 mila membri della tribù locale di agricoltori neri africani Masalit che, il 13 novembre scorso, sono stati attaccati dalle milizie dell’RSF che, secondo Peoples Dispatch, avrebbe causato “almeno 1.300 vittime”. “Con questo attacco” scrive su Peoples Dispatch Pava Kulkarni, uno dei pochissimi giornalisti a continuare a provare a tenere accesi i riflettori su questa gigantesca tragedia, “tutte le persone sfollate durante la guerra civile in Darfur negli anni 2000, e testimoni dei crimini commessi allora, sono state cacciate dalla capitale dello Stato del Darfur occidentale dalle forze paramilitari di supporto rapido”. Kulkarni ricorda come, fino a prima dell’aprile scorso, intorno ad El Geneina ci fossero la bellezza di 135 campi di sfollati che ospitavano oltre 220 mila persone, campi che – ricorda Kulkarni – “erano stati oggetto di crescenti attacchi già prima della guerra, quando i capi della SAF e della RSF guidavano insieme la giunta militare rispettivamente come presidente e vicepresidente”. Con lo scoppio del conflitto, però, la situazione è definitivamente degenerata e “Tutti i campi di Geneina sono stati distrutti nei sette mesi successivi all’inizio della guerra”; “A Geneina non sono rimasti più sfollati interni della guerra civile” avrebbe dichiarato a Kulkarni Muhammad Almaldin, attivista locale per i diritti umani; “Sono tutti fuggiti oltre il confine, nel vicino Ciad”. Pulizia etnica riuscita, e ora è il momento della sostituzione: “la RSF” avrebbe affermato ancora Almaldin “sta portando qui le tribù arabe che le sostengono per ripopolare Geneina. Vengono importati da diverse parti del Sudan e anche dai vicini Ciad, Niger e Repubblica Centrafricana”. E non è solo questione di Geneina: “Gli sfollati” sottolinea Kulkarni “sono stati costretti a lasciare anche la maggior parte dei campi nel resto del Darfur occidentale. Attualmente” continua “ne rimangono soltanto 7, e sono tutti circondati da milizie affiliate all’RSF” ma – soprattutto – sono l’inferno in terra. “Non ci sono più né cibo né acqua, né strutture igieniche” avrebbe dichiarato Almaldin; “le ONG internazionali che gestivano questi campi operavano da Geneina. Ma i loro uffici e i loro magazzini sono stati attaccati e saccheggiati dalle milizie dell’RSF, e ora sono tutti fuggiti”. Secondo Almadin, solo nel Darfur occidentale sarebbero state uccise oltre 10 mila persone; negli altri due stati del Darfur la situazione, per ora, sembrerebbe leggermente meno drammatica.
Più che di vera e propria pulizia etnica, si tratterebbe di vittime civili rimaste coinvolte in scontri a fuoco tra forze regolari ed RSF a centinaia, ma potrebbe essere solo l’antipasto: gli occhi, adesso, sono puntati su El Fasher, la capitale del Darfur settentrionale ancora sotto il controllo delle forze armate regolari e da dove i cittadini – e in particolare la minoranza africana – se l’è data a gambe per evitare di finire nel mezzo agli scontri tra le due fazioni. Risultato: i campi profughi alla periferia della città oggi ospitano oltre 500 mila profughi. “Se l’RSF prendesse il pieno controllo anche di El Fasher” denuncia un rapporto pubblicato dal Sudan Transparency and Policy Tracker “si verificherebbe una grave catastrofe umanitaria, anche nelle aree che per ora sono considerate sicure” e non solo per gli sfollati di El Fasher “che viene utilizzata come hub per fornire medicine, cibo e carburante anche alle popolazioni di tutti gli altri stati del Darfur” continua il rapporto, e “tutto questo potrebbe essere interrotto se l’RSF prendesse la città”, cosa che potrebbe essere più vicina del previsto: “il nostro obiettivo è il controllo dell’intero Darfur” avrebbe dichiarato il fratello e vice di Hemeti. Come riporta giustamente Nigrizia, è “la prima volta dall’inizio del conflitto”.
L’avanzata dell’RSF nel Darfur avrebbe addirittura spinto alla creazione di una stranissima alleanza; lo riporta sempre Nigrizia: “I due principali gruppi armati del Darfur entrano in guerra” titola. Durante una conferenza stampa a Port Sudan che si è tenuta lo scorso 16 novembre, il Movimento di liberazione del Sudan e il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza – riporta Nigrizia – “hanno annunciato congiuntamente il loro coinvolgimento attivo a fianco dell’esercito contro l’RSF”; un necessario patto col diavolo: due gruppi, infatti, sono stati tra i principali protagonisti della resistenza nel 2003 contro i piani di pulizia etnica in Darfur (sostenuti proprio dal governo centrale) che oggi, però, è diventato il male minore. A portare avanti la pulizia etnica infatti – concretamente – non era stato l’esercito regolare sudanese ma, appunto, le milizie arabe filo – governative dei janjaweed guidate, allora, proprio da Hemeti, e che oggi come capo dell’RSF starebbe – appunto – riproponendo lo stesso identico copione: “In risposta alla minaccia delle RSF all’unità del Sudan e ai loro ripetuti assalti contro città, villaggi e civili indifesi, con conseguenti vittime e sfollamenti” si legge nella dichiarazione congiunta “rinunciamo ad ogni neutralità”.
Non sono i primi a turarsi il naso e a scendere al fianco delle forze regolari: “Gli attivisti democratici radicali che hanno dovuto affrontare una violenta repressione per mano dell’esercito sudanese” riportava – già il settembre scorso – Mohammed Amin su Middle East Eye “stanno combattendo ora al fianco dell’esercito contro l’RSF”.

Omar al-Bashir

Ecco così che, magicamente, “Gruppi democratici radicali che hanno spodestato l’ex autocrate Omar al-Bashir” continua Amin “andranno in battaglia insieme a giovani combattenti legati al movimento islamico sudanese che invece lo hanno sempre sostenuto”. “Siamo ancora contro i massimi generali dell’esercito e contro il vecchio regime, ma crediamo che l’esercito debba servire l’intera popolazione sudanese ed è dovere dell’esercito nazionale proteggere il popolo” avrebbero affermato i comitati di resistenza di Khartoum in una recente dichiarazione; nonostante tutte le buone intenzioni del mondo potrebbe non bastare: “Quando scoppiò la guerra molti prevedevano lo stallo” scrive l’Economist, “ma attualmente l’RSF sta vincendo”. Nonostante le forze regolari controllino, ad oggi, il grosso delle terre più fertili e il commercio petrolifero attraverso lo sbocco sul mar Rosso di Port Sudan “l’RSF” ricorda l’Economist “controlla le miniere d’oro, il confine con il Ciad, e sta estendendo il suo controllo sulla pipeline che arriva dal Sudan del sud, dalla quale il governo di Khartoum dipende per le tariffe di transito”.
Come ha fatto l’RSF a guadagnare così tanto terreno? “In gran parte” sottolinea l’Economist “dipende dal diverso sostegno che gli outsider hanno dato alle due parti”: “Gli Emirati Arabi Uniti (EAU)” infatti, continua l’Economist “forniscono alla RSF armi, veicoli corazzati e droni attraverso il Ciad. Secondo un conteggio ci sarebbero stati 168 trasporti aerei dagli Emirati Arabi Uniti tra maggio e settembre, e il tutto nonostante nei confronti del Darfur dall’inizio degli anni 2000 sia in vigore un embargo sulle armi da parte delle Nazioni Unite”. Dall’altra parte, invece “l’Egitto” riporta sempre l’Economist “avrebbe fatto molto meno degli emirati”: lo scenario più probabile, continua l’articolo, sembrerebbe quello di una soluzione in stile libico, col paese diviso in due e il Nilo a fare da frontiera, ma anche una soluzione del genere difficilmente metterebbe fine alle ostilità. Hemeti e i suoi sostenitori emiratini difficilmente si accontenterebbero di un territorio senza sbocco al mare e d’altronde, per quanto l’RSF possa continuare a vincere numerose battaglie, “difficilmente il suo controllo si estenderà a tutto il paese”. Le forze regolari difficilmente potranno essere totalmente spazzate via, così come la miriade di milizie e di gruppi di ribelli che infestano il paese: “Cameron Hudson, un ex funzionario americano” riporta l’Economist “immagina uno scenario in cui decine di milioni di sudanesi fuggono attraverso il continente e il mar Rosso per sfuggire alla caduta del paese in mano ai signori della guerra e alla violenza delle milizie etniche”. D’altronde la comunità internazionale è in ben altre faccende affaccendata ed è piuttosto difficile credere che troverà la motivazione giusta per andarsi a impelagare in questo rompicapo: “il Sudan è morto” ha affermato laconicamente Nathaniel Raymond dell’Università di Yale “e nessuno si è nemmeno preso la briga di scriverne il necrologio”.
Ma – al di là della cronistoria di questo ennesimo, tragico conflitto – qual è la dinamica profonda che, da decenni, impedisce di trovare una soluzione pacifica ai millemila conflitti che attraversano il corno d’Africa? Per sapere la risposta vi toccherà guardarvi la seconda parte di questo video e magari, nel frattempo, pure mettere mano al portafoglio perché – non so voi, ma a me questa storia che ci sono morti ammazzati di serie a e di serie b non è che mi va tanto giù, e che una tragedia del genere passi totalmente sotto silenzio – escludendo, così, a priori che nell’opinione pubblica si smuova qualcosa che impedisca alle nostre classi dirigenti di girarsi dall’altra parte – sinceramente mi fa un po’ schifo. Oddio… visto cosa combinano quando decidono di metterci mano, tutto sommato forse è pure meglio così: però ecco – insomma – credo ci sarebbe bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte, in grado di raccontare in modo sensato tutta ‘sta monnezza, e magari anche di raggiungere un pubblico numericamente decente. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio Sambuca Molinari

TERRA LAICA – perché i conflitti nel mondo islamico non hanno niente a che vedere con la religione

“I conflitti tra Occidente e Islam […] non toccano tanto i problemi territoriali, quanto più ampi temi di confronto tra civiltà”. Con queste parole, nel suo “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, il prestigioso politologo statunitense Samuel P. Huntington dava inizio a una narrazione che, negli anni successivi, diventerà senso comune: l’idea che il mondo sia attraversato da uno scontro tra una civiltà occidentale e una islamica basate su valori radicalmente opposti e totalmente inconciliabili. E’ la sfumatura di suprematismo giusta al momento giusto: ridarà simpaticamente slancio a tutti i peggio pregiudizi razzisti contro le popolazioni di religione islamica – viste come inevitabilmente violente, rozze e premoderne – e, dopo l’11 settembre, servirà a giustificare senza se e senza ma tutti i crimini della war on terror che la propaganda spaccerà come una vera e propria moderna guerra di religione che, come nei bei tempi andati, vedrà nell’“Occidente” e nell“Islam” due mondi, due civiltà e due sistemi valoriali radicalmente opposti, del tutto impenetrabili. Ma quanto pesa davvero la religione negli innumerevoli conflitti che, negli ultimi decenni, hanno coinvolto in un modo o nell’altro il mondo islamico?

Arturo Marzano

“Che la religione – o meglio le religioni: islam, cristianesimo ed ebraismo – non sia la causa centrale dei conflitti in Medio Oriente” scrive Arturo Marzano nel suo “Terra laica. La religione e i conflitti in Medio Oriente”, “è qualcosa che chi si occupa di questa regione impara quasi subito”: secondo i media occidentali, al centro di tutti i conflitti in corso in Medio Oriente c’è sempre e solo l’Islam. Il Libano è uno stato fallito? Colpa dell’Islam. Iran e Arabia Saudita mettono a ferro e fuoco l’intera regione a suon di guerre per procura? Colpa dell’Islam. Il conflitto tra Israele e popolazione palestinese? Tutta colpa dell’Islam.
“A partire dal VII secolo fino all’età contemporanea” sostiene il celebre storico americano Zachary Lockman “l’Islam è stato il prisma privilegiato attraverso cui l’Europa si è rapportata alle esperienze imperiali e statuali esistenti in Medio Oriente”; “Una lettura stereotipata ed essenzialista dell’Oriente” continua Lockman “come se si trattasse di una regione incapace di mutamento, e impermeabile a qualsiasi forma di modernizzazione”. Un pregiudizio ampiamente diffuso anche nei più autorevoli ambienti accademici: l’idea di fondo è che se nell’Occidente contemporaneo l’unità di base dell’organizzazione umana è la nazione, capace di far convivere al suo interno identità religiose diverse, per il mondo musulmano – al contrario – sarebbe più opportuno parlare di un’unica religione divisa al suo interno in diverse nazioni; l’identità religiosa sarebbe quindi prevalente su quella nazionale. E di separazione tra stato e chiesa, ovviamente, manco a parlarne: mentre nell’Europa cristiana “La base religiosa dell’identità è stata sostituita dallo Stato nazione territoriale o etnico” teorizzava l’orientalista Bernard Lewis – poi ingaggiato come consigliere del governo USA ai tempi dell’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein – lo stesso non si può dire per i paesi del Medio Oriente, dove «Il concetto importato dall’Occidente di nazione etnica e territoriale rimane, così come quello di secolarismo, estraneo e non pienamente assimilato». Peccato però che in realtà, come ricorda Marzano, “Arabismo e nazionalismo arabo furono movimenti tendenzialmente laici che superavano le differenze religiose in nome di una più ampia identità araba”, e non è certo l’unico elemento macroscopico in grado di smontare a prima vista tutto l’impianto della narrazione propagandistica dell’impero: basta ricordare – ad esempio – come, durante la prima Guerra del Golfo, il grosso dell’opinione pubblica araba sosteneva il regime laico di Saddam Hussein per la sua opposizione alle mire imperialiste di Washington, mentre contestava ferocemente regimi arabi di matrice religiosa come quello saudita perché ritenuti, a ragione, filo – USA.
Anche per interpretare il conflitto tra Israele e Palestina come una questione prevalentemente confessionale ci vuole parecchia fantasia; come sostiene Marzano nel suo libro, piuttosto, siamo palesemente di fronte a un classico conflitto di natura meramente nazionale dove a scontrarsi sono due movimenti di liberazione nazionale, entrambi con l’obiettivo di creare un proprio Stato – nazione sulla stessa terra. Anche la contrapposizione tra Iran e Arabia Saudita non può essere analizzata solo come una questione religiosa tra sciiti e sunniti: numerosi analisti e giornalisti hanno fatto spesso ricorso alla guerra di religione tra sciiti e sunniti per leggere il conflitto tra Teheran e Riad, mentre si tratta di una rivalità di natura politica, economica e culturale che vede due potenze regionali contrapporsi utilizzando tutti i mezzi, incluso il ricorso all’elemento identitario. Nonostante in Arabia Saudita – in cui, tuttora, l’islam di stato è quello wahhabita – e nella Repubblica islamica dell’Iran – a capo della quale si trova il clero sciita – la dimensione religiosa sia importante, secondo Marzano questo conflitto va letto come uno scontro principalmente geopolitico e economico.

Ruhollah Khomeyni

La rivoluzione iraniana del 1979 ha rappresentato chiaramente uno spartiacque nella storia del paese, così come – più in generale – del Medio Oriente nel suo complesso: a livello internazionale la conseguenza più importante fu la rottura tra Teheran e Washington a seguito del cambio di regime; se l’Iran era stato, negli anni ‘70, il difensore degli interessi americani nel Golfo, dal 1979 gli Stati Uniti dovettero rinunciare al loro più stretto alleato nella regione e l’alleanza tra USA e Arabia Saudita – attaccata con veemenza dalla retorica di Khomeini, che accusava il regime saudita di essere servo degli americani – fece sì che la rivalità tra i due giganti petroliferi, prima entrambi filo – americani, esplodesse in una competizione per la supremazia regionale. In questa logica politica la religione è stata usata strumentalmente per creare divisioni all’interno dei paesi rivali e indebolire l’avversario: tra i tanti mezzi messi in campo da Teheran in funzione anti – saudita vi fu anche il tentativo di “esportare la rivoluzione” utilizzando strumentalmente la popolazione sciita sparsa nei paesi del Medio Oriente per affermare la propria supremazia. A partire proprio dall’Arabia Saudita dove, dopo il 1979, si è andata rafforzando l’ «identità confessionale» della minoranza sciita, a lungo esclusa e marginalizzata. Ad aumentare la tensione tra popolazioni sunnite e sciite ci si sono messe, da un lato, la retorica anti – saudita del presidente iraniano Ahmadinejad, eletto nel 2005, e – dall’altro – la guerra tra Israele e Hizballah del 2006 che causò un’ondata pro – iraniana e pro – sciita in tutto il Medio Oriente e la forte reazione da parte di Egitto, Giordania e Arabia Saudita. Arabia Saudita e Iran, inoltre, sono intervenute in Bahrein, Yemen e Siria sfruttando il pretesto religioso per portare avanti le proprie strategie di influenza geopolitica e di sicurezza. Parafrasando quanto scritto dallo studioso Fanar Haddad si potrebbe quindi parlare, piuttosto, di confessionalismo laico, nel senso che identità confessionali basate su questioni teologico – giuridiche sono state – e sono tuttora – utilizzate e brandite contro “l’altro” per obiettivi puramente politici con strumenti strettamente secolari.
Per chi vuole approfondire come la retorica dello scontro di civiltà e religioni sia funzionale alle élite per non farci capire nulla di quello che sta avvenendo in Medio Oriente, l’appuntamento è per mercoledì 29 novembre a partire dalle 21 in diretta su Ottolina Tv. Oltre alla solita crew di Ottosofia, sarà con noi il prof. Arturo Marzano, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia all’Università di Pisa. E – nel frattempo – contro la propaganda che fomenta le divisioni religiose per coprire le ambizioni geopolitiche di chi la finanzia abbiamo bisogno di un media indipendente che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è George W. Bush

Boom economico e tecnologie all’avanguardia: il clamoroso autogol delle sanzioni alla Russia

Nella migliore delle ipotesi – o nella peggiore (dipende dai punti di vista) – l’economia russa nel 2024 crescerà 3 volte più rapidamente di quella dell’eurozona – +1,5, contro +0,5% – e il gap continuerà anche per tutto l’anno successivo, il 2025, durante il quale l’eurozona dovrebbe crescere dell’1,2%, e la Russia del 2, poco meno del doppio. Ad affermarlo non è qualche propagandista filo – putiniano estratto a sorte dalle liste di proscrizione del Corriere della serva, ma qualcuno che non è certo imputabile di remare contro le magnifiche sorti e progressive dell’Occidente collettivo: si chiama Amundi ed è di gran lunga il principale fondo di investimenti del vecchio continente, il braccio armato delle oligarchie finanziare europee o, almeno, di quello che ne resta dopo due anni di guerra per procura alla Russia. In soldoni, “Significa che Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia non sono in grado di sanzionare un paese in modo efficace” avrebbe affermato il capo degli investimenti di Amundi, Vincent Mortier, durante una conferenza stampa; “Possiamo deplorarlo” ha sottolineato, “ma è una realtà”. Certo, le sanzioni sono servite a congelare il patrimonio di un certo numero di persone – ha continuato Mortier – ma gli effetti sulle importazioni e le esportazioni russe nel complesso sono stati, tutto sommato, irrilevanti. Il mese scorso il Fondo Monetario Internazionale aveva rivisto al rialzo le stime sulla crescita della Russia nel 2023 , di parecchio: dall’1,5% di luglio al 2,2; nell’aprile scorso stimavano una crescita dello 0,7%.

Vladimir Putin

Secondo Putin, si tratta di stime eccessivamente caute: “Abbiamo sempre detto con cautela che la crescita sarebbe stata intorno al 2,5%. Ora possiamo affermare con sicurezza che supereremo senz’altro il 3%. Nel frattempo la Commissione europea, invece, ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita dell’eurozona: dallo 0,8 ad appena lo 0,6%. “Se facciamo il punto sulla guerra in Ucraina” ha concluso Mortier “per gli USA l’impatto è stato neutrale; Turchia, Asia Centrale e Asia in generale ne hanno beneficiato; e l’unica a soffrire direttamente e fortemente è stata l’Europa”. Ma te guarda alle volte il caso, eh? Fortunatamente, però, ora che ad ammettere che le sanzioni contro la Russia sono state principalmente sanzioni contro l’Europa ci s’è messo anche il gotha del capitalismo finanziario europeo stesso: la Commissione, finalmente, ha deciso di intervenire. Come? Ma con altre sanzioni – ovviamente – e con meccanismi più rigidi che dovrebbero garantire che anche quelle vecchie, finalmente, siano implementate come si deve ma che – come sottolinea giustamente il nostro amato Andrew Korybko – anche a questo giro potrebbero non fare altro che “uccidere definitivamente la competitività delle nostre stesse aziende tecnologiche”. Cosa mai potrebbe andare storto?
Certo, dal punto di vista economico le sanzioni alla Russia sono state come darci una martellata sui coglioni, ma chissà almeno quanti danni gli abbiamo fatto dal punto di vista militare! Eh, come no… Tantissimi proprio: “La Russia sta iniziando a far valere la sua superiorità nella guerra elettronica” titola l’Economist; “Gran parte dell’attenzione su ciò di cui l’Ucraina ha bisogno nella sua lunga lotta per liberare il suo territorio dalle forze d’invasione russe si è concentrata sull’hardware: carri armati, aerei da combattimento, missili, batterie di difesa aerea, artiglieria e grandi quantità di munizioni. Ma una debolezza meno discussa” sottolinea l’autorevole rivista inglese “risiede invece nella guerra elettronica; e i sostenitori occidentali dell’Ucraina finora hanno mostrato scarso interesse nell’affrontarla”.
La discrepanza tra le capacità ucraine e quelle russe era evidente sin dall’inizio del conflitto, ma – sottolinea l’Economist – “ha avuto a lungo un impatto limitato. Ora però che le linee di contatto sono diventate relativamente statiche, la Russia è stata in grado di posizionare le sue formidabili risorse dove possono avere il maggiore effetto”. “Già a partire dal marzo scorso” ricostruisce l’Economist “l’Ucraina ha cominciato a notare come i suoi proiettili Excalibur guidati dal GPS avevano improvvisamente iniziato ad andare fuori bersaglio, a causa del disturbo russo” e lo stesso era cominciato a succede alle bombe guidate JDAM e anche ai razzi a lungo raggio GMLRS che nella maggioranza dei casi – sottolinea l’Economist – “ora vanno fuori strada”: parliamo di armi intelligenti a cui sono stati dedicati decine e decine di titoli dalla propaganda occidentale e che avrebbero dovuto cambiare per sempre l’andamento del conflitto ma che ormai, grazie alla tecnologie per la guerra elettronica sviluppate negli anni dai russi, non fanno quasi mai il loro dovere. E ancora peggio sembrerebbe andare con gli sciami di droni: “l’Ucraina” scrive l’Economist “ha addestrato un esercito di circa 10.000 piloti di droni che ora sono costantemente impegnati in un gioco del gatto e del topo con operatori di guerra elettronica russi sempre più abili” che sono in grado di “confondere i loro sistemi di guida o bloccare i collegamenti radio con i loro operatori” e fanno fuori qualcosa come “oltre 2.000 droni la settimana”. Ma non solo, perché i russi sarebbero in grado “di acquisire con una precisione di un metro le coordinate del luogo da cui il drone viene pilotato, per trasmetterle poi ad una batteria di artiglieria” che a quel punto avrebbe un bersaglio facile.
Quello che manca all’Ucraina in questa guerra impari contro gli armamenti per la guerra elettronica dei russi, svela l’Economist, è “il sostegno degli alleati occidentali”: “La guerra tecnologica” spiega l’Economist “rientra infatti in una categoria di trasferimento tecnologico limitato da un regime di controllo delle esportazioni rigidamente vigilato dal Dipartimento di Stato” e “c’è una certa riluttanza, soprattutto da parte degli americani, a mostrare la mano alla Russia, anche perché le informazioni utilizzabili, ad esempio sulle frequenze o sulle varie tecniche utilizzate, dalla Russia potrebbero finire anche in mano ai cinesi”. Quello che speravano gli alleati occidentali, piuttosto, era che anche i russi prima o poi potessero trovare delle difficoltà a fornire il fronte continuamente di nuovi strumenti per la guerra elettronica, che sono sì progettati e prodotti in Russia, ma dentro – spesso e volentieri – hanno anche tecnologia a stelle e strisce che non dovrebbe arrivare più e invece – misteri della fede – arriva eccome; come sottolinea infatti Bloomberg, nonostante la Russia sia il paese più sanzionato della storia delle sanzioni “anche impedire a tecnologia sensibile di raggiungere la Russia si è rivelato più complesso del previsto”. Attraverso “triangolazioni tramite paesi come il Kazakhstan, la Serbia e la Turchia” la Russia, infatti, sarebbe stata in grado “di mettere le mani sui cosiddetti articoli ad alta priorità” inclusi in questa lunga lista aggiornata dall’Unione nel settembre scorso (https://finance.ec.europa.eu/system/files/2023-09/list-common-high-priority-items_en.pdf ) e che possono essere “utilizzati per scopi militari”. “I recenti dati commerciali visti da Bloomberg” sottolinea l’articolo “mostrano che le esportazioni da quelle nazioni, oltre che da Armenia, Azerbaigian e Uzbekistan, sono sì diminuite parzialmente nella seconda metà di quest’anno, ma rimangono perlopiù superiori ai livelli prebellici”. Ancora più importanti nella fornitura di questi articoli ad alta priorità alla Russia risulterebbero essere Cina ed Hong Kong, dai quali proverrebbe – sottolinea Bloomberg – “oltre l’80% degli acquisti esteri russi. E la Russia” continua Bloomberg “sarebbe stata in grado di costruire anche nuove vie commerciali attraverso paesi come la Thailandia e la Malesia”. L’unico paese che ha costituito un altro canale prezioso per le triangolazioni e che si è detto disposto a introdurre norme più restrittive sarebbero gli Emirati Arabi; purtroppo però, sottolinea Bloomberg, “non forniscono dati commerciali tempestivi, rendendo difficile valutare i progressi”.
Contro le scappatoie che hanno reso le sanzioni totalmente inefficaci – allora – la Commissione ha proposto di provare a stringere la cinghia, proponendo una nuova serie di regole “che impedirebbero agli importatori di rivendere alla Russia i cosiddetti articoli ad alta priorità”, ma non solo: la proposta prevede infatti anche di obbligare le aziende importatrici a depositare dei soldi in un conto ad hoc dal quale la Commissione sia in grado di prelevare automaticamente qualora venissero contestate delle violazioni.

Andrew Korybko

“Almeno metà dei soldi depositati” riporta Bloomberg “verrebbe trasferita a un fondo fiduciario per l’Ucraina” e vederseli sottrarre potrebbe essere estremamente facile perché le aziende non risponderebbero soltanto per se, ma anche nel caso non avessero prontamente segnalato comportamenti illeciti da parte di aziende terze con le quali sono in affari; un pacchetto di manovre che – commenta l’analista Andrew Korybko – rischiano di “uccidere la competitività delle aziende tecnologiche europee” – un problema che sarebbe stato sollevato, riporta Bloomberg, anche da “inviati diplomatici di un gruppo dei principali stati membri”. A preoccupare, in particolare, la potenziale arbitrarietà dell’applicazione della regola sul congelamento dei beni depositati, dal momento che non passerebbe preventivamente da un tribunale, ma non solo: a preoccupare i potenziali partner commerciali, infatti, sarebbe anche il fatto che “chiunque si ritrovasse a fare affari con le società tecnologiche dell’Unione” commenta Korybko “dovrebbe essenzialmente permettere alla Commissione di spiare le sue attività al fine di monitorare il rispetto delle sanzioni”. Di fronte a tutti questi rischi – sottolinea Korybko – i clienti potrebbero essere scoraggiati “e optare invece per accordi molto più semplici e senza vincoli con aziende cinesi”. D’altronde che je frega?
A spingere per questa nuova ondata di restrizioni e ovviare, così, al fallimento di tutte le sanzioni con sanzioni ancora più nocive sono paesi che hanno poco da perdere perché – a parte una bella montagna di ideologia pro Washington – di aziende tecnologiche che producono “articoli ad alta priorità” semplicemente non ne hanno. A partire, ad esempio, dai paesi baltici – la punta di lancia degli USA contro gli interessi dei concorrenti europei: “Il loro interesse” sottolinea Korybko “è esclusivamente quello di limitare l’accesso della Russia a tutti i costi, compreso far perdere quote di mercato ai partner europei a favore della Cina”. L’industria tecnologica che – già di per sé – in Europa non è che sia particolarmente in forma, non sarebbe comunque l’unica ad essere penalizzata da questo dodicesimo pacchetto di sanzioni: un’altra mossa geniale, infatti, consisterebbe nell’aggiungere alla lista delle importazioni dalla Russia sottoposte a sanzioni anche i diamanti; Washington lo ha già fatto da mo’, l’Unione europea – invece – per ora ha declinato. Tutta colpa del Belgio: come ricorda il Brussels Time, infatti, “Si stima che circa l’86% dei diamanti grezzi del mondo passino ancora da Anversa almeno una volta”. Quello dei diamanti è un mercato che, a livello globale, vale oltre 100 miliardi e oltre un terzo dei diamanti di tutto il mondo arrivano proprio dalla Russia; tagliare le gambe così ad Anversa non sarebbe esattamente un ottimo affare e – soprattutto – sarebbe totalmente inutile. Gli indiani, infatti, non aspettano altro: già oggi la cittadina di Surat, 300 chilometri a nord di Mumbai, è la capitale mondiale della lavorazione dei diamanti e – in attesa di scippare ad Anversa tutto quello che proviene dalla Russia – al commercio e alla lavorazione dei diamanti ha dedicato quello che è stato descritto dai media l’edificio in assoluto più grande del mondo: 5 mila uffici che occupano la bellezza di 700 mila metri quadrati di superficie, collegati da oltre 130 ascensori; tanto a pagarlo saremo noi, sempre pronti a martellarci i coglioni quando si tratta di fare un regalino a zio Biden.
Contro la vocazione al suicidio delle elité degli svendipatria europei abbiamo bisogno di un media che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni

La Guerra degli Oligarchi contro il Resto del Mondo per difendere l’Evasione e i Paradisi Fiscali

All’ONU l’Occidente collettivo ha ingaggiato un’altra guerra frontale col resto del mondo; d’altronde ne valeva la pena. Dopo aver provato a difendere il genocidio ed essere stato brutalmente asfaltato, i valori del mondo libero da difendere – a questo giro – erano forse ancora più fondamentali: il sacrosanto diritto delle oligarchie finanziarie ad evadere il fisco e a nascondere i loro quattrini nei paradisi fiscali. Ma non gli è andata proprio benissimo, diciamo; prima di mettere ai voti la risoluzione presentata da un gruppo di paesi africani – e che costituisce un tassello fondamentale nella lotta del sud globale contro il furto sistematico di ricchezza da parte delle oligarchie – la Gran Bretagna ha provato a presentare un emendamento pro evasori e paradisi fiscali ed è finita così: 55 favorevoli e ben 107 contrari.

Alex Cobham

Ma la batosta più grossa è arrivata al momento della votazione della risoluzione vera e propria: Occidente collettivo 48, Sud globale CENTOVENTICINQUE. “Per i paesi del Sud del mondo” ha esultato Alex Cobham, amministratore delegato del Tax Justice Network, “questa è una vittoria storica, ma a beneficiarne non saranno soltanto loro, ma tutto il mondo: i paradisi fiscali e i lobbisti della finanza hanno avuto, fino ad oggi, troppa influenza sulla politica fiscale globale; oggi iniziamo a riprendere il potere sulle decisioni che riguardano tutti noi”. La guerra di resistenza del Sud del mondo contro l’asse del male è sempre più chiaramente anche la nostra guerra, la guerra del 99%: cosa aspettiamo a prenderne parte?
“Per decenni” affermavano giovedì scorso gli amici del Tax Justice Network “il risultato del voto odierno all’ONU è stato considerato impossibile da raggiungere. L’ultimo tentativo di portare il processo decisionale sulle norme fiscali all’ONU” ricostruisce il comunicato “risaliva ormai agli anni ‘70. E il fallimento di quel tentativo aveva dissuaso qualsiasi altro tentativo simile per quasi 50 anni”.1 “La lotta decennale dei paesi del sud del mondo per istituire un processo pienamente inclusivo presso le Nazioni Unite, e permettere così finalmente a tutti i paesi in via di sviluppo di partecipare sul serio alla definizione dell’agenda e delle norme sulla tassazione internazionale” ha commentato l’Unione Africana“ è finalmente diventata una realtà”.2
Ma di cosa stiamo parlando, esattamente? La questione in ballo è nientepopodimeno che quella dei negoziati internazionali per la definizione di un trattato fiscale globale che permetta di contrastare – come sottolineava nel luglio scorso nella sua relazione la direzione generale delle Nazioni Unite – “l’evasione fiscale, l’elusione fiscale aggressiva, il riciclaggio di denaro e i flussi finanziari illeciti”.3 E, ovviamente, il ruolo dei paradisi fiscali: meccanismi che, come sottolinea il Tax Justice Network, causano agli stati “una perdita equivalente allo stipendio annuo di un infermiere a favore di un paradiso fiscale OGNI SECONDO. Nei prossimi dieci anni” calcola il Network “i paesi perderanno quasi 5 mila miliardi a causa dei paradisi fiscali”.4 E secondo Thabo Mbeki, già presidente del Sudafrica e oggi a capo della commissione speciale dell’Unione Africana che si occupa dei flussi finanziari illeciti, “a causa delle multinazionali che spostano i profitti nei paradisi fiscali e a causa di individui facoltosi che nascondono la loro ricchezza nelle giurisdizioni offshore, si stima che i paesi a basso reddito perdano ogni anno l’equivalente di poco meno della metà dei loro bilanci sanitari pubblici collettivi”.5 Ma, in realtà, il problema va ben oltre queste cifre: l’elusione e l’evasione che sottrae risorse alle casse degli stati di tutto il pianeta in favore dei paradisi fiscali, infatti, è il nocciolo del patto col diavolo che sta alla base della globalizzazione neoliberista.
Facciamo un rapidissimo ripasso: il primo passo della globalizzazione neoliberista consiste nella delocalizzazione della produzione dai paesi più sviluppati – dove, grazie a secoli di lotta di classe, il costo del lavoro e di diritti dei lavoratori sono superiori – verso i paesi in via di sviluppo, dove i costi e i diritti sono inferiori; a questo punto però sorge un problema perché, attraverso le politiche fiscali, gli stati sovrani dei paesi in via di sviluppo sarebbero in grado di trasformare una parte consistente dei profitti in risorse che lo stato può investire per svilupparsi, rafforzare la sua indipendenza e minacciare così il dominio dei paesi più avanzati. Cosa fanno, allora, i paesi più sviluppati per sfuggire a questa conseguenza non voluta? Impongono ai paesi in via di sviluppo un quadro regolatorio che permette a chi ha delocalizzato la produzione nei loro territori di evadere ed eludere il fisco attraverso i paradisi fiscali; a quel punto, il plusvalore estratto dall’economia del paese destinatario degli investimenti non serve più a finanziarne lo sviluppo economico e l’indipendenza, ma ritorna negli USA sotto forma di capitali che vanno a ingrossare le bolle speculative e a partecipare il banchetto sono – ovviamente – anche le élite economiche locali, che vengono così cooptate dalle oligarchie finanziarie del Nord globale. Sottrarre i flussi finanziari internazionali alla fiscalità dei paesi in via di sviluppo diventa, così, il meccanismo principale attraverso il quale il Nord globale può delocalizzare la produzione senza però diminuire il suo primato politico, con la complicità degli svendipatria di tutto il pianeta (fine del ripasso).
Da questo punto di vista, come ha sottolineato giustamente sempre Cobham del Tax Justice Network, “la battaglia contro gli abusi fiscali globali è soprattutto una battaglia per la democrazia e per la libertà”, ed ecco così che – nel tempo – anche i paesi del Nord globale hanno dovuto far finta di interessarsi alla faccenda. Ma era un diversivo; terrorizzato dall’eventualità che i paesi del Sud del mondo si potessero coalizzare per trovare una via d’uscita comune da questo patto del diavolo, l’Occidente globale ha deciso di giocare d’anticipo e ha avviato dei negoziati multilaterali – appunto – per arrivare a un trattato fiscale globale che però, paradossalmente, escludeva proprio i paesi interessati. L’organo multilaterale deputato a gestire la trattativa, infatti, è stato individuato nell’OCSE – l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico -, il salotto buonodei paesi sviluppati, che come requisito minimo indispensabile per aderire prevede la totale subalternità ai piani egemonici delle oligarchie finanziarie di Washington, e i risultati si vedono.

Joseph Stiglitz

Come denuncia da anni il premio Nobel Joseph Stiglitz, fondatore e presidente della Commissione Indipendente per la Riforma della tassazione internazionale delle Corporation, “Quasi un decennio di negoziati multilaterali in seno all’OCSE non ha prodotto risultati apprezzabili. Il tipo di soluzioni di cui il mondo ha bisogno rimane ancora lontano”.6
Diciamo che è un eufemismo; la prova provata che l’azione dell’OCSE non fosse altro che un diversivo è arrivata questa estate: il governo laburista australiano stava lavorando da mesi a un disegno di legge che imponeva a tutte le aziende di rendere pubblici tutti i dati fiscali relativi a ogni paese dove operano, “Una mossa che, secondo gli attivisti” riporta il Financial Times “avrebbe contribuito a reprimere l’elusione fiscale costringendo le aziende a rivelare quanti dei loro ricavi sono contabilizzati in giurisdizioni a bassa tassazione”.7 Secondo il Financial Times “sarebbero state colpite circa 2.500 multinazionali con ricavi annuali superiori ai 700 milioni di dollari, tra cui colossi come META, la compagnia petrolifera British Petroleum e il colosso delle assicurazioni di Hong Kong AIA”. Il disegno di legge sarebbe dovuto approdare in aula lo scorso giugno per entrare in vigore a partire dal primo luglio, ma all’ultimo qualcosa è andato storto: inaspettatamente, “dalla versione del disegno di legge che alla fine è arrivata in aula” riporta il Financial Times “erano state rimosse le richieste di informazioni più cruciali”. Indovinate un po’ cos’era successo? Esatto, era intervenuta l’OCSE: “l’organizzazione con sede a Parigi” riporta il Financial Times “ha esercitato pressioni sul governo laburista australiano affinché annacquasse la legge”. “I funzionari dell’organismo intergovernativo” continua il Times “avrebbero intimidito il tesoro australiano ricordandogli che l’Australia è tra i firmatari di un accordo dell’OCSE del 2015 che prevede che le dichiarazioni fiscali non possono essere rese pubbliche”. “L’OCSE ha progettato riforme orientate a favore dei suoi membri, e cioè dei paesi avanzati, e delle loro imprese” ha commentato Stiglitz. In questo modo, continua Stiglitz, questo sforzo per introdurre una riforma che, sulla carta, dovrebbe servire a far aumentare le entrate per i paesi in via di sviluppo “potrebbe in realtà avere l’effetto esattamente opposto”.8 Dovevano forzare i paesi a introdurre nuove regole per limitare la quantità di quattrini che finiscono nei paradisi fiscali e si ritrovano a fare lobbying contro quei pochissimi paesi che provano a muovere qualche passo per far pagare le tasse alle multinazionali: come potevano pensare di farla franca?
In realtà potevano, eccome. E qui c’è un altro snodo politico epocale perché, come abbiamo già sottolineato, il Nord globale non è l’unico responsabile del furto colossale di ricchezza delle oligarchie a danno della gente comune: a dargli una bella mano ci sono anche le élite economiche dei paesi in via di sviluppo stessi, che sono ben felici di estrarre ricchezza dai propri paesi al fianco delle multinazionali per poi investirla nelle bolle speculative made in USA facendo altri soldi dai soldi. E, tra queste élite economiche, un posto d’onore spetta spesso proprio ai leader politici ultra – corrotti che si intascano i soldi del finanziamento allo sviluppo garantito dalla comunità internazionale, e invece di investirli nell’economia nazionale li imboscano nei paradisi fiscali. Questa commistione di interessi illeciti e inconfessabili – fino ad oggi – ha sempre impedito al Sud globale di coalizzarsi e di dichiarare guerra all’Occidente collettivo in nome dei rispettivi interessi nazionali ma, evidentemente, qualcosa negli ultimi anni è cambiato: ispirati dall’esempio cinese – dove, invece, la guida del Partito Comunista è riuscita a garantire che le risorse liberate con le delocalizzazioni venissero investite per sostenere lo sviluppo economico di tutto il paese – le opinioni pubbliche dei paesi in via di sviluppo hanno cominciato a pretendere dai loro governi di mettere fine a questo furto sistematico, pena ritrovarsi rovesciati da un golpe patriottico come, ad esempio, è avvenuto negli ultimi anni in Mali, in Burkina Faso e in Niger. Ed è infatti proprio dall’Africa che è partita la battaglia contro l’azione diversiva dell’OCSE; nel 2022, infatti, “un gruppo di 54 paesi africani, frustrati dal processo dell’OCSE” riporta il Financial Times “hanno portato con successo una risoluzione all’assemblea generale dell’ONU” che chiedeva al Segretario Generale delle Nazioni Unite di produrre un rapporto che facesse un bilancio sullo stato dell’arte della cooperazione fiscale internazionale e indicasse le modalità per trasferire i negoziati dall’OCSE direttamente all’ONU, dove anche i paesi in via di sviluppo avrebbero potuto dire la loro.9 Da allora, per cercare di far naufragare questo processo i paesi del Nord globale le hanno provate tutte: “Ue e Regno Unito vogliono spazzare via l’intero processo e ucciderlo” avrebbe dichiarato uno dei negoziatori al Financial Times; “non vogliono che le questioni fiscali vengano dibattute qui alle Nazioni Unite”. “Stanno facendo di tutto per mantenere lo status quo e mantenere i paesi in via di sviluppo alla periferia delle discussioni fiscali globali” avrebbe confermato un altro negoziatore.10
L’opera di lobbying, però, non va in porta e quando, nel luglio scorso, Guterres finalmente presenta la sua relazione il giudizio è impietoso – per quanto possa essere impietoso un documento ufficiale dell’ONU, perlomeno: il processo avviato dall’OCSE – dice Guterres – non risolve “un malcontento ampio e radicato nei confronti di trattati fiscali che non danno poteri sufficienti agli stati ospitanti nei confronti delle multinazionali” e quindi è necessario creare “meccanismi di cooperazione fiscale internazionali pienamente inclusivi ed efficaci”.

G77 a Cuba

Con il via libera della direzione generale dell’ONU, a questo punto, i paesi africani presentano il loro piano agli altri paesi in via di sviluppo durante l’assemblea del G77 che si è tenuta a settembre all’Avana, raccogliendo un sostegno sostanzialmente unanime. Ed ecco così che si arriva alla storica risoluzione presentata all’ONU giovedì scorso: per la prima volta, tutto quello che è fuori dal giardino ordinato del Nord globale si schiera come un sol uomo per chiedere la fine del furto sistematico di ricchezza operato da una manciata di oligarchi a danno di tutta la popolazione mondiale. Come ricorda in un tweet il Tax Justice Network “I paesi che ieri hanno votato contro la riforma fiscale delle Nazioni Unite consentono il 75% degli abusi fiscali globali. Questi paesi rappresentano solo il 15% della popolazione mondiale. I paesi che hanno votato a favore della riforma rappresentano l’80%”.11 Ma attenzione: non è una guerra dei popoli del sud del mondo contro i popoli del nord. E’ una guerra di tutti i popoli, tanto del sud quanto del nord, contro le oligarchie: impedendo ai capitali di essere sottratti al fisco per finire nei paradisi fiscali, i paesi del Sud globale impediscono alle oligarchie di fare soldi senza mai investire il becco di un quattrino nell’economia reale, senza mai correre il rischio di perdere il loro potere politico e, anzi, rafforzandolo.
Come sosteniamo da sempre, la battaglia del Sud del mondo, guidata dai paesi che sono riusciti ad affermare con forza la sovranità dei propri stati a discapito dell’impero e dei suoi complici locali, è l’avanguardia della battaglia globale del 99% contro l’1%; altro che la barzelletta degli analfoliberali e dei fintosovranisti sui cinesi che ci rubano il lavoro. Per non passare alla storia come dei collaborazionisti qualunque che si sono sacrificati in nome degli interessi dei propri stessi carnefici, è arrivato il momento di alzare la testa e di cominciare davvero a partecipare alla battaglia dalla parte giusta della storia, a partire proprio da questa battaglia epocale per un quadro fiscale globale che favorisca il lavoro invece della rendita. Il voto storico di giovedì all’ONU, infatti, è solo un inizio: la risoluzione infatti prevede che nei prossimi mesi, a New York, si riunisca per ben 15 giorni lavorativi complessivi un comitato intergovernativo nominato ad hoc e incaricato di buttare giù una bozza di cornice per la cooperazione fiscale internazionale, da sottomettere poi alla prossima assemblea generale dell’ONU che si terrà nel settembre del 2024. Le lobby delle oligarchie sono già al lavoro e fanno di tutto per tenere il dibattito lontano dai riflettori: su questo voto storico, nella stampa italiana – per quello che abbiamo potuto vedere – non c’è traccia. Lavorare nell’ombra, con valigette cariche di dollari, per remare contro la storia: impediamoglielo, mobilitiamoci e, soprattutto, diamo vita a un vero e proprio media che dichiari guerra all’omertà della propaganda a libro paga delle oligarchie e dia voce agli interessi concreti del 99%.
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E chi non aderisce è Hillary Clinton

1 https://taxjustice-net.translate.goog/press/un-adopts-plans-for-historic-tax-reform/?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it
2 https://www.ft.com/content/5a7353e8-6aec-4896-b6e5-fa88033c399a
3 https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N23/220/39/PDF/N2322039.pdf?OpenElement
4 https://twitter.com/TaxJusticeNet/status/1727304638603665626
5 https://www.ft.com/content/39ddedad-8faa-4e38-b95c-35cd47028056
6 https://tinyurl.com/yb7sfwpm
7 https://www.ft.com/content/b21cfde0-8940-45db-b3e3-3e9807d7b957
8 https://www.ft.com/content/fed78c75-1da8-4a1a-8cfc-219e99fe246c
9 https://www.ft.com/content/552052ab-8650-44b3-a4d2-6affca339132
10 https://www.ft.com/content/552052ab-8650-44b3-a4d2-6affca339132
11 https://twitter.com/TaxJusticeNet/status/1727716449576198287

GAZA E IL TABU’ DEL 7 OTTOBRE – Perché la propaganda continua a mentire sull’attacco di Hamas

“Il massacro del 7 ottobre come la Shoah”: così titolava la sua ennesima, lunga sbrodolata inconcludente Fiamma Nirenstein qualche giorno fa su Il Giornale; “non ci sono eventi storici più comprovati della Shoah e della mostruosa strage del 7 ottobre scorso” scriveva nell’articolo. “Ambedue” continuava “sono stati programmati con passione distruttiva verso gli ebrei: uno a uno, bambini, genitori, nonni” anche se – concedeva – “con dimensioni diverse”. Meno male, dai… qualche differenzina ce la vede pure lei. E’ già qualcosa.
Imporre all’opinione pubblica una ricostruzione di quanto accaduto il 7 ottobre la più drammatica e inquietante possibile è una parte essenziale del meccanismo genocida messo in moto da Israele; per giustificare lo sterminio indiscriminato di migliaia di bambini indifesi e il perseguimento della soluzione finale attraverso la pulizia etnica, il mito fondativo deve essere solido, indiscutibile, sconvolgente. Ma siamo davvero proprio sicuri che c’abbiano detto tutta la verità, nient’altro che la verità?

Ehud Olmert

“Comunque vada, Hamas ha riportato una vittoria”: a dirlo non è qualche leader dell’asse della resistenza, ma nientepopodimeno che un ex premier israeliano di persona personalmente. Il riferimento, ovviamente, è all’esito della trattativa sullo scambio di prigionieri e a pronunciarsi è Ehud Olmert che così, a occhio, sa di cosa parla: sindaco di Gerusalemme durante la seconda intifada di inizi anni 2000 e a capo del governo durante l’operazione Piombo Fuso che, come oggi, si poneva l’obiettivo dichiarato di annichilire Hamas, di scambi di prigionieri se ne intende. Era stata proprio una faccenda di prigionieri, infatti, nel 2006 a dare il via all’operazione Piombo Fuso; ad essere rapito, in quel caso era stato, il giovane carrista franco – israeliano Shalit Gilad. Verrà rilasciato solo 5 anni dopo, in cambio della bellezza di 1.027 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane; per l’entità sionista, non esattamente un trionfo, diciamo. Ma cosa c’entra tutto questo con la ricostruzione dei fatti del 7 ottobre?
C’entra, c’entra. L’operazione diluvio di Al-Aqsa infatti, con ogni probabilità, aveva sostanzialmente due obiettivi: il primo, di carattere politico, consisteva nel riportare l’attenzione della comunità internazionale sulla questione nazionale palestinese che, fino ad allora, ci si illudeva fosse ormai sostanzialmente risolta con una vittoria schiacciante dell’occupazione israeliana; il secondo, di carattere strettamente militare, consisteva – appunto – nel fare incetta di prigionieri da barattare con la liberazione del maggior numero possibile di palestinesi detenuti, appunto, nelle carceri israeliane, a partire dai 700 minori e dagli oltre mille che non sono mai stati sottoposti a un processo e vivono nel limbo di quel crimine conclamato che è la detenzione amministrativa. Ed è proprio la dottrina elaborata dalle forze armate israeliane per impedire alle forze della resistenza di catturare prigionieri e ricattare Tel Aviv che sta alla base di tutto quello che ancora non torna nelle ricostruzioni ufficiali della propaganda giustificazionista del genocidio su quanto realmente avvenuto il 7 ottobre, un giallo in tre atti.
Il primo: siamo sul valico di Erez, che non è solo – semplicemente – la principale porta d’ingresso per il carcere a cielo aperto di Gaza, ma anche il principale avamposto militare e la sede dell’amministrazione civile del carceriere e il primo obiettivo del diluvio di Al-Aqsa. I militanti della resistenza attaccano le infrastrutture militari del varco a partire dalle prime ore dell’alba; poco dopo entrano in scena gli Apache delle forze armate israeliane, armati di missili Hellfire, che bombardano a tappeto. Bisogna imporre la ritirata alla resistenza e impedirle di fare prigionieri, a costo di causare vittime anche tra gli israeliani. Non è una scelta estemporanea: è una procedura formale adottata dalle forze armate israeliane sin dal lontano 1986. Si chiama Direttiva Annibale – dal nome del generale cartaginese che si avvelenò piuttosto che essere catturato dai romani – e che prevede che “Il rapimento deve essere fermato con ogni mezzo, anche a costo di colpire e danneggiare le nostre stesse forze” (Eyal Weizman, Goldsmith College di Londra), ed è la chiave di volta per provare a capire cos’è successo, da lì in poi, in quella drammatica giornata.
E siamo al secondo atto del nostro giallo: la location, a questo giro, è il kibbutz di Be’eri, ad appena 5 chilometri dal confine; con un bilancio di oltre 100 vittime, è il luogo di uno dei massacri che ha destato più indignazione in assoluto, ma su chi abbia ucciso chi ci sono più dubbi di quanto non si voglia far trapelare. Pochi giorni dopo gli avvenimenti, infatti, una delle pochissime sopravvissute, Yasmin Porat, aveva rilasciato un’intervista a una radio israeliana: dichiarava di essere stata rinchiusa in una stanza con altri 12 prigionieri, controllati a vista da una quarantina di membri della resistenza. “Ci hanno trattato molto umanamente” ha dichiarato; “eravamo spaventati a morte e hanno provato a tranquillizzarci. Il loro obiettivo era rapirci e portarci a Gaza, non ucciderci”. Esattamente quello che le forze armate israeliane avevano il mandato di evitare con ogni mezzo necessario, ed ecco così che, quando arrivano nel villaggio, inizia uno scontro violentissimo: uno dei rapitori prende Yasmin ed esce allo scoperto, usandola come scudo umano; la donna grida ai soldati israeliani di fermare il fuoco, senza risultati. Attorno a sé vede corpi di persone morte ovunque: “Erano stati uccisi dai terroristi?” chiede l’intervistatore: “No” risponde Yasmin “sono stati uccisi dal fuoco incrociato”. “Quindi potrebbero essere stati uccisi dalle nostre forze di sicurezza?” chiede l’intervistatore: “Senza dubbio” risponde Yasmin.

Max Blumenthal

Ma è solo la punta dell’iceberg: come riporta un giornalista del media israeliano i24 “Case piccole e pittoresche sono state bombardate o distrutte” e “prati ben tenuti sono stati divelti dalle tracce di un veicolo blindato, forse un carro armato”. Ancora, dopo 11 giorni dall’attacco, in mezzo alle macerie di una casa sono stati ritrovati i corpi di una madre e di suo figlio e – sostiene Max Blumethal in un lungo articolo pubblicato su GrayZone – “Gran parte dei bombardamenti a Be’eri sono stati effettuati da equipaggi di carri armati israeliani”. Tuval Escapa è uno dei responsabili della squadra incaricata di garantire la sicurezza del kibbutz Be’eri; durante l’attacco, avrebbe improvvisato una specie di linea diretta per coordinare i residenti del kibbutz e l’esercito israeliano, ma non è andata come sperava: “I comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, incluso bombardare le case dei loro occupanti per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi”, e a effettuare i bombardamenti non sarebbero stati solo i carri armati.
E qui siamo al terzo atto del giallo: la location, questa volta, è l’ormai tristemente arcinoto festival di musica elettronica Nova, a pochi chilometri dal kibbutz; secondo Blumenthal, è qui che gli Apache delle forze armate israeliane armati di missili Hellfire avrebbero concentrato la loro potenza di fuoco nel tentativo di impedire alle auto dei membri della resistenza – che, con ogni probabilità, stavano trasportando anche prigionieri da portare a Gaza – di portare a termine la loro missione e che, sottolinea la stessa stampa israeliana, è molto probabile non fosse stata poi neanche più di tanto programmata: “Tra i funzionari della sicurezza” riporta infatti Haaretz “in molti sostengono che i terroristi che hanno compiuto il massacro del 7 ottobre non sapevano in anticipo del festival”. Blumethal riporta un’intervista a un pilota di uno di questi elicotteri Apache presenti nell’area, rilasciata al notiziario israeliano Mako: il pilota avrebbe ammesso di non avere la minima idea di quali fossero i veicoli che potevano trasportare prigionieri israeliani, ma di aver comunque ricevuto l’ordine di aprire il fuoco lo stesso. Blumenthal riporta anche un articolo del quotidiano israeliano Yeditoh Aharanoth dove si sottolineava come “i piloti si sono resi conto che c’era un’enorme difficoltà nel distinguere all’interno degli avamposti e degli insediamenti occupati chi era un terrorista e chi era un soldato o un civile”, “E così” commenta Blumenthal “senza alcuna intelligenza o capacità di distinguere tra palestinesi e israeliani, i piloti hanno scatenato una furia di colpi di cannoni e missili sulle aree israeliane sottostanti”. “Le forze di sicurezza israeliane” continua Blumethal “hanno anche aperto il fuoco su israeliani in fuga che hanno scambiato per uomini armati di Hamas. Una residente di Ashkelon di nome Danielle Rachiel ha descritto di essere stata quasi uccisa dopo essere fuggita dal festival musicale Nova: “Quando abbiamo raggiunto la rotonda, abbiamo visto le forze di sicurezza israeliane!” Rachel ha ricordato; “Abbiamo tenuto la testa bassa [perché] sapevamo automaticamente che avrebbero sospettato di noi, a bordo di una piccola macchina scassata… dalla stessa direzione da cui provenivano i terroristi. Le nostre forze allora hanno iniziato a spararci, mandando in frantumi i finestrini”.
Per quanto fondate principalmente su articoli apparsi sui media israeliani, Haaretz ha subito etichettato le ricostruzioni di Blumenthal come “tesi cospirazioniste”, che è l’etichetta che ormai si affibbia con una certa facilità a qualsiasi cosa metta in questione la narrazione dominante, fino a quando però – pochi giorni dopo – Haaretz stesso non ha dato la notizia di un rapporto della polizia che confermerebbe che i partecipanti al festival sono stati uccisi – almeno in parte – proprio dall’esercito israeliano: “Secondo una fonte della polizia” scrive Haaretz “un elicottero da combattimento dell’IDF avrebbe sparato ai terroristi e apparentemente avrebbe colpito anche alcuni dei ragazzi che stavano partecipando al festival”; “Quello che abbiamo visto qui era una Direttiva Annibale di massa” avrebbe dichiarato il pilota di uno degli elicotteri Apache ad Haaretz. Il punto, però, è che a questo giro la Direttiva Annibale avrebbe ampliato a dismisura il numero di vittime tra la popolazione civile israeliana, ma senza ottenere grossi risultati: la resistenza palestinese è rientrata a Gaza col più grande bottino di prigionieri della storia del conflitto, e così oggi si ritrova in mano una potente arma di ricatto. “Questa tregua permetterà ad Hamas di riorganizzarsi” ammette Olmert nell’intervista al Fatto Quotidiano, ma “è un rischio che dobbiamo correre per forza”.

Ehud Barak

Attenzione, però, a non cedere ai sentimentalismi: posizioni come queste non rappresentano, come si sente spesso sostenere, una fazione più moderata e dialogante all’interno dell’establishment israeliano. Per entrambi, il fine rimane esattamente lo stesso: la distruzione di una prospettiva nazionale per il popolo palestinese che presuppone l’annichilimento della resistenza, che oggi è guidata da Hamas, che quindi va annientata. Whatever it takes. Il più grande rimpianto di Olmert, infatti, è ai tempi di Piombo Fuso aver fatto solo un decimo dei morti fatti in questo ultimo mese e mezzo, e di aver lasciato il lavoro a metà: “In quel frangente” riflette nostalgico Olmert “non avevo più la forza di proseguire fino all’annichilimento di Hamas”, ma “se potessi tornare indietro, farei l’opposto: terrei duro”. Ma contro chi? Chi è che lo spinse a demordere? Olmert è chiaro: furono “l’allora ministro della Difesa Ehud Barak e il capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi”. Ci risiamo: i vertici militari che spingono alla prudenza e alla mediazione la politica sono di animo gentile? Macché: semplicemente, a differenza di Olmert, sanno di cosa parlano. Il punto infatti è che, allora come oggi, dal punto di vista militare gli obiettivi che rimpiange Olmert e che oggi rivendica Netanyahu – molto semplicemente – non sono raggiungibili.
Un film che abbiamo, in qualche modo, visto in Ucraina: la politica si nutre di pensiero magico, spera di ottenere risultati militari oggettivamente non raggiungibili, li persegue per un po’ di tempo sulla pelle dei soldati ucraini come dei bambini palestinesi e alla fine, quando il fallimento diventa palese anche ai lettori de la Repubblichina o del Giornale, ecco che arriva l’editoriale di turno che ribalta la realtà e dipinge la sconfitta come una vittoria. Gli innumerevoli motivi per i quali l’annichilimento di Hamas è una chimera li ricorda magistralmente, in un lungo articolo di ieri su Foreign Affairs, Audrey Kurth Cronin, direttrice del prestigioso Carnegie Mellon Institute for Strategy and Technology: “Il vantaggio asimmetrico di Hamas” si intitola. “Gli Stati e gli eserciti tradizionali” ricorda la Cronin “hanno sempre penato parecchio nel tentativo di sconfiggere i gruppi terroristici, ma la guerra tra Israele e Hamas dimostra perché oggi è diventato quasi impossibile”; “molti progressi tecnologici” ricostruisce la Cronin “hanno portato benefici sproporzionati ai gruppi terroristici” tanto che la Cronin attribuisce la nascita stessa del terrorismo proprio a una novità tecnologica: la dinamite.
Era il 1867; fino ad allora “i proiettili che usano polvere da sparo, come le granate, erano delicati e pesanti. La dinamite invece si nasconde facilmente sotto i vestiti e può essere accesa rapidamente e lanciata agilmente contro un bersaglio. Il risultato fu un’ondata di azioni terroristiche portate avanti da piccoli gruppi e da singoli individui, compreso l’assassinio con la dinamite nel 1881 dello zar russo Alessandro II”. La seconda tappa di questa avvincente cronistoria delle azioni terroristiche arriva nel 1947 con l’introduzione dell’AK-47, che “cambiò di nuovo l’equazione a favore degli attori non statali”; “Le statistiche parlano chiaro” sottolinea la Cronin: “tra il 1775 e il 1945 gli insorti hanno vinto contro gli eserciti statali circa il 25% delle volte. Dal 1945 questa cifra è balzata a circa il 40%. E gran parte di questo cambiamento può essere attribuito all’introduzione e alla diffusione globale dell’AK-47”.
Ora le rivoluzioni tecnologiche che rendono Hamas un nemico sostanzialmente impossibile da debellare sono parecchie: razzi Qassam auto – costruiti che, dai 15 chilometri di gittata che avevano nel 2005, ora ne hanno 250, i droni suicidi Zouari che evitano le difese aeree israeliane, i piccoli droni commerciali che trasportano granate o mitragliatrici da azionare a distanza, ma ancora la comunicazione social, che sta permettendo ad Hamas di contrastare efficacemente la propaganda sionista. E poi i tunnel, i benedetti tunnel di cui parliamo dall’inizio e che – anche se presi dall’entusiasmo verso la propaganda israeliana ogni tanto facciamo il tentativo di rimuovere – in realtà stanno sempre lì, e Israele non sa minimamente cosa farci. Ma a parte la tecnologia, sottolinea la Cronin, “Il più importante vantaggio asimmetrico di Hamas è di carattere strategico: lo sfruttamento della risposta di Israele al suo attacco. Poiché l’obiettivo dell’attacco di Hamas” continua la Cronin “era quello di provocare una reazione eccessiva e controproducente da parte di Israele, la risposta violenta dell’IDF ha infiammato l’opinione pubblica nella regione contro Israele esattamente come Hamas voleva”; “In parole povere” continua la Cronin “Israele ha abboccato rispondendo all’attacco di Hamas con la repressione violenta, un metodo di antiterrorismo popolare ma raramente efficace che funziona meglio quando i membri dei gruppi terroristici possono essere distinti e separati dalla popolazione civile: un compito impossibile a Gaza”.

Ebrahim Raisi

“Israele non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi” ha ribadito ieri il presidente iraniano Ebrahim Raisi: “Ciò che ha fatto il regime sionista dimostra che è diventato disperato di fronte alla resistenza palestinese. Ma l’uccisione di donne e bambini non si traduce in vittoria” e, anzi “ha creato un’atmosfera senza precedenti di odio anti – sionista in tutto il mondo”. Pure in Vaticano: “Questa non è guerra” ha affermato papa Bergoglio, “è terrorismo”. Insomma, per dirla con la Cronin “Israele ha pochi modi per eliminare i vantaggi asimmetrici di Hamas. Il Paese non può invertire il cambiamento tecnologico o eliminare completamente la simpatia che attira la resistenza palestinese”. Per indebolire Hamas, l’unica arma a disposizione di Israele è la moderazione: “Dato che Hamas ha progettato il suo attacco per alimentare una reazione eccessiva da parte di Israele” conclude la Cronin “la cosa migliore che Israele può fare ora è rifiutarsi di fare il gioco di Hamas”.
Insomma: nel mondo suprematista c’è un gran dibattere sulle strategie più giuste per continuare il business as usual del colonialismo e dell’occupazione illegittima fondata sull’apartheid; abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio nuovo media che affermi ogni giorno che dopo il 7 ottobre non ci potrà mai più essere business as usual e che l’unico modo per sconfiggere la resistenza è eliminare la ferocia imperialista alla quale sta resistendo. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fiamma Nirenstein

CHI METTERA’ FINE AL GENOCIDIO? Come i BRICS stanno rimpiazzando l’Occidente e ricostruendo l’ONU

L’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi non si arresta e travolge tutti i paesi del mondo, anche quelli con le classi dirigenti più ciniche che però, in un modo o nell’altro, all’opinione pubblica qualcosa sono comunque costrette a concedere. A parte negli USA e in qualche paese vassallo del Nord globale che si conferma così – al netto di una montagna di retorica – la parte in assoluto meno democratica del pianeta, completamente in balia degli interessi egoistici di una manciata di oligarchi. Il problema, però, è che questo manipolo di paesi in mano a un manipolo di oligarchi è, ancora oggi, in grado di ostacolare le Nazioni Unite, e così tiene per le palle l’intera comunità internazionale. O forse sarebbe meglio dire teneva: se per l’ostruzionismo dell’asse del male le Nazioni Unite non sono in grado di muovere un dito neanche di fronte a un genocidio del genere, vorrà dire che la comunità internazionale, a un certo punto, proverà a dotarsi di strumenti alternativi. Certo, sarà un percorso lungo e tortuoso che – però – ieri ha subito un’accelerazione di portata storica: per la prima volta in quasi 15 anni di vita, ieri i BRICS si sono riuniti per una conferenza di emergenza interamente dedicata a una questione internazionale imprevista. Non era mai successo prima, nemmeno quando i membri erano soltanto 5; oggi sono 11, ma di fronte alla carneficina hanno parlato con una voce sola: “La posizione dei membri BRICS è unanime” commenta il Global Times e “si sono impegnati a promuovere un cessate il fuoco a Gaza e prevenire l’escalation della violenza, presentando progetti di legge e organizzando riunioni nel quadro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”. “Alcuni altri paesi occidentali” continua il Global Times “non hanno la volontà e il coraggio di difendere la giustizia, creando così un vuoto nel sistema di governance globale. I paesi BRICS, che rappresentano i paesi dei mercati emergenti e quelli in via di sviluppo, si sono fatti avanti per colmare il vuoto”.
Che sotto le macerie di Gaza, oltre ai corpi martoriati dei bambini arabi, stiano rimanendo sepolte anche le ultime speranze di dominio globale incontrastato degli USA?
UNO: immediato cessate il fuoco;
DUE: corridoi umanitari per la popolazione di Gaza;
TRE: intervenire per impedire che il conflitto si allarghi;
QUATTRO: convocare una conferenza di pace per riportare al centro dell’agenda politica internazionale la soluzione dei due Stati.

Xi Jinping

Il piano in quattro punti proposto ieri da Xi Jinping nella prima riunione straordinaria dei BRICS a 11 per mettere fine al genocidio in corso a Gaza non è solo giusto ma è anche l’unica soluzione possibile, e che infatti è condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale che, da ormai oltre un mese e mezzo, riempie strade e piazze di tutto il pianeta un giorno sì e l’altro pure per testimoniare la sua indignazione obbligando tutti i governi – anche quelli meno democratici – a provare almeno di dare l’impressione di lavorare in quella direzione. A partire dal sostegno alle risoluzioni ONU di condanna alle azioni criminali dell’entità sionista. Ma, come sottolinea sempre il Global Times, “il conflitto israelo-palestinese è uno specchio che riflette molte cose. A causa dell’opposizione di alcuni paesi per lo più occidentali” continua l’articolo “il Consiglio di sicurezza dell’ONU non è stato in grado di intraprendere azioni concrete”: un immobilismo che le opinioni pubbliche di tutto il mondo, e in particolare dei paesi a maggioranza islamica, non hanno nessuna intenzione di assecondare.
Fortunatamente, però, oggi esiste un’alternativa concreta alle vecchie istituzioni multilaterali: “I BRICS” sottolinea il Global Times “stanno diventando un simbolo e un’entità che sostiene la giustizia internazionale, e maggiore sarà l’influenza che avranno sulla scena internazionale, meglio sarà per la pace e la tranquillità del mondo”. Ed ecco così che gli USA si ritrovano in un bel cul de sac e il sostegno incondizionato alla ferocia sionista – giustificato dal ruolo strategico che Israele ricopre nei piani imperiali a stelle e strisce – comincia a presentare il conto. Per contrastare la crescita dell’influenza di quelli che considera i suoi avversari strategici – a partire da Russia e Cina – gli USA, infatti, stanno provando a corteggiare in ogni modo possibile i paesi del Sud Globale; l’esempio più eclatante si è avuto probabilmente nell’area del Sahel dove, di fronte all’ondata di colpi di stato patriottici che ha travolto paesi come il Mali, il Burkina Faso e il Niger, invece di accodarsi alla retorica bellicista e neocolonialista francese, gli USA hanno mantenuto un tono tutto sommato più conciliante e hanno cercato di tenere aperto il dialogo per non perdere totalmente la loro influenza. Qualcosa di simile è avvenuto anche proprio in Medio Oriente dove, di fronte all’intensificarsi delle relazioni con Russia e Cina – ad esempio – da parte dell’Arabia Saudita, hanno deciso di usare molte più carote che bastoni. Il bagno di sangue avviato da Israele dopo il diluvio di Al-Aqsa, e il sostegno incondizionato al genocidio che gli USA sono stati sostanzialmente obbligati a garantire, sta facendo rapidamente tabula rasa di tutti questi sforzi e sta accelerando in maniera clamorosa il processo di allineamento dei paesi del Sud globale agli interessi strategici proprio di Cina e Russia, a partire dal rafforzamento dei BRICS: “Dato che gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a convincere Israele a concedere un cessate il fuoco a Gaza” sottolinea il Global Times “il mondo arabo e i paesi in via di sviluppo mostrano crescente disappunto nei suoi confronti e ripongono ormai maggiori speranze proprio nei BRICS, una piattaforma che amplifica la voce dei paesi in via di sviluppo sugli affari mondiali”.
Ora qui è il caso di sottolineare una cosa che dovrebbe essere scontata, ma evidentemente non lo è: come per il processo di dedollarizzazione o anche – rimanendo più vicini alla questione israelo-palestinese – la questione del rafforzamento dell’asse della resistenza non si tratta di una soluzione magica; gli equilibri regionali, e ancora di più quelli globali, non si rigirano come un calzino dalla sera alla mattina. I BRICS al momento, e per molto tempo ancora, non sono assolutamente in grado di esprimersi con una voce unica così forte e perentoria da risolvere come per incanto la carneficina che ci troviamo di fronte, come non sono in grado di abolire l’egemonia del dollaro o come l’asse della resistenza non è in grado di sconfiggere militarmente Israele. Si tratta di tendenze storiche: processi lunghi, tortuosi e macchinosi, dall’esito sostanzialmente imprevedibile e che non sono in grado di soddisfare la sete di scoop continui tipica dell’era dell’iper – informazione. L’idea che cambiamenti di questa portata possano avvenire nel tempo di un tiktok è un frutto del dominio del pensiero magico, che mal si concilia col tentativo di capire come sta cambiando il sistema mondo a livello strutturale profondo, ma “anche se uno o due vertici singoli potrebbero non essere sufficienti per risolvere direttamente il conflitto” sottolinea giustamente il Global Times dove, da bravi cinesi, sono molti più avvezzi a usare il materialismo dialettico di quanto non siano gli attivisti esagitati dell’Occidente “la presenza collettiva e le rivendicazioni coerenti dei paesi in via di sviluppo saranno utili per trovare una tabella di marcia per la pace israelo-palestinese, la promozione della pace e la realizzazione di una coesistenza pacifica”. “Attraverso il meccanismo dei BRICS” continua il Global Times “l’aspetto collettivo del Sud del mondo acquisisce tutta la sua importanza, e sebbene non risolva necessariamente il conflitto, l’unità dei paesi in via di sviluppo è un svolta di portata storica” che è stata riconosciuta anche dall’ONU: al vertice dei BRICS, infatti, ha partecipato anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres “che” sottolinea il Global Times “rappresenta le aspettative che la comunità internazionale nutre affinché i BRICS svolgano un ruolo sempre più decisivo nell’affrontare i dossier più scottanti”.
Gli unici che fanno di tutto per non accorgersene, tanto per cambiare, sono i nostri media mainstream di ogni colore politico; la notizia compare solo in un trafilettino in fondo a pagina 9 del Corriere che manco parla di BRICS, ma solo di Xi e del suo appello per convocare una conferenza di pace. Di fronte al Mondo Nuovo che avanza, le cariatidi prezzolate di quello vecchio hanno deciso di adottare la tattica vincente dei bambini delle materne che sperano che, chiudendo gli occhi, i mostri che li perseguitano scompariranno per sempre (che, comunque, è sempre meglio della tattica adottata da Sallusti). Qui in ballo non c’è lo storico vertice dei BRICS, ma un altro avvenimento storico che va esattamente nella stessa identica direzione: è il ritorno di Putin, dopo quasi due anni di assenza, a un incontro del G20 – seppure virtuale; un segno palese di quanto, dopo un anno e mezzo di pensiero magico – che consiste nell’idea che hanno le élite politiche e i media che uno scenario improbabile si possa realizzare semplicemente invocandolo ripetutamente contro ogni evidenza – sia arrivata l’ora di cominciare a fare i conti con la realtà, come – a malincuore – è costretta ad ammettere addirittura la Reuters (che non è esattamente la Pravda): “L’Occidente e l’Ucraina hanno ripetutamente promesso di sconfiggere la Russia nella guerra e di espellere le forze russe, ma il fallimento della controffensiva ucraina nel raggiungere un qualsiasi obiettivo concreto ha sollevato preoccupazioni in Occidente riguardo a questa strategia”. Che – fatta la tara del tasso spropositato di propaganda dei media occidentali – in soldoni equivale a dire che l’Occidente finalmente ha preso atto di aver perso la guerra.
Come riassumeva questo evento Sallusti ieri su Il Giornale? “Perché il ritorno di Putin fra i grandi è una vittoria NATO”. Giuro, eh? (spetta che vi faccio vedere l’originale, sennò mi dite che sono del PD e che polemizzo in modo strumentale contro la destra che è vicina al popolo).

“Certamente” ammette Sallusti “si tratta di un passo che rompe l’isolamento assoluto con l’occidente in cui Putin si trova da ormai due anni” e “già mi vedo”continua “i filo-putiniani nostrani alzare i calici al rientro dello zar sulla scena e spacciarla per la sconfitta della politica occidentale filo-Ucraina, quando invece” – ecco lo scooppone del Nosferatu de noantri – “è l’esatto opposto”. Sallusti ammette che “è ormai evidente che questa guerra non la vincerà in senso tecnico nessuno dei due contendenti” ma, con un virtuosismo da guinness dei primati, eccolo rovesciare sul tavolo un poker d’assi di arrampicamento sugli specchi: secondo Sallusti, infatti, questo pareggio altro non è che una sconfitta russa, che ha fatto “un tale macello umano e politico da impedire in futuro qualsiasi possibilità di annettersi l’Ucraina neppure in caso di resa del nemico”. “Non è poco” sottolinea, “anzi, è già di per se una vittoria”. Chi s’accontenta gode, come dice il detto. Giusto qualche mese fa, la guerra non poteva finire se non con la riconquista non solo di tutti i territori persi fino ad oggi, ma anche della Crimea e, con il crollo economico della Russia, la fine politica di Putin e magari anche il suo arresto e la condanna per crimini di guerra; obiettivi talmente vitali da giustificare una recessione in tutto il Nord globale, una crisi umanitaria nel cuore dell’Europa e il sacrificio di decine e decine di migliaia di giovani vite ucraine spinte a suicidarsi al fronte in nome di promesse totalmente campate in aria.

Vladimir Putin e Yasser Arafat

Tutto cancellato; era uno scherzo, ma l’unico a ridere – alla fine – è Putin: gli ultimi dati economici pubblicati dalla Russia sanciscono il fallimento totale delle sanzioni suicide imposte dagli USA e che hanno avuto come unico risultato la devastazione definitiva dell’economia dell’eurozona, e ora Putin torna da vincitore al tavolo dei grandi, dettando le sue condizioni e quelle del Sud globale. “Ormai la situazione nell’economia globale” ha spiegato Putin ai colleghi del G20 “richiede decisioni collettive raggiunte attraverso il consenso e che riflettano l’opinione della stragrande maggioranza della comunità internazionale, sia dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo”. “Nuovi potenti centri dello sviluppo economico globale stanno emergendo e si stanno rafforzando” ha continuato Putin: “una parte significativa degli investimenti, del commercio e del consumo globale si stanno spostando verso l’Asia, l’Africa e l’America Latina, dove vive il grosso della popolazione mondiale”.
Dall’Ucraina a Gaza, il colpo di coda del Nord globale, che sperava di invertire il suo declino a suon di bombe, sta miseramente fallendo; l’incognita rimane ancora capire quante vite siamo ancora disposti a sacrificare in nome della difesa di un’egemonia che è ormai completamente antistorica e contraria agli interessi della comunità umana dal futuro condiviso. Contro il ribaltamento della realtà e le arrampicate sugli specchi dei propagandisti dell’impero, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Alessandro Sallusti

JIHAD E IMPERIALISMO – Come USA e Israele hanno imparato ad amare l’ISIS

“La guerra all’Isis è una necessità per tutti i Paesi civili, non solo di questo o di quello Stato, perché è uno scontro tra la nostra civiltà da una parte e chi invece come l’Isis rappresenta l’odio, la superstizione, il terrorismo”. Siamo nel novembre del 2015; pochi giorni prima Parigi era precipitata nel panico a causa di una serie di attentanti portati a termine da un commando di una decina tra uomini e donne che causeranno oltre 400 feriti e ben 130 vittime, a partire dalle 90 rimaste uccise nel solo agguato presso il teatro del Bataclan, e a catechizzare le folle era nientepopodimeno che Silvio Berlusconi, che ammoniva: “Non è una singola nazione ad essere minacciata, ma tutto il mondo civile” e lanciava un appello accorato: “Mi auguro che il sangue che è stato versato a Parigi serva non solo ad Hollande, ma a tutti i leader europei per capire la necessità di estirpare il male alla radice”.
“Non è una guerra all’Islam” scandiva Barack Obama solo un anno prima, dalla tribuna del Palazzo di Vetro dell’ONU, ma “non si può negoziare con il male”. Quello dell’ex presidente statunitense era un vero e proprio allarme: “Sono 15.000 i jihadisti stranieri da oltre 80 Paesi andati in Siria negli ultimi anni. E’ la vendetta per l’aggressione francese al Califfato”. Ciò che accomuna queste dichiarazioni è considerare l’Isis, o più in generale il fondamentalismo islamico, come un prodotto della perversione di qualche debosciato che vuole abbattere la democrazia occidentale. L’Isis, Al Qaida e il vasto mondo del jihadismo sarebbero un frutto andato a male dell’Islam, fuoriuscito dai binari rassicuranti delle libertà individuali del Nord globale.

A noi di Ottosofia – amanti della storia e della filosofia – questa ricostruzione non convince molto, ma quando una ricostruzione è problematica occorre trovare la domanda giusta per offrire una lettura alternativa. E’ tempo di chiedersi: “Come si è affermato il jihadismo e che funzione gioca nel grande scacchiere mondiale?” Per abbozzare una prima risposta ci è venuto in aiuto questo testo di Maurizio Brignoli: “Jihad e Imperialismo. Dalle origini dell’islamismo ad Al Qaida e Isis”. La premessa dell’autore è chiara: “Non è la religione la questione principale da prendere in esame per spiegare le cause del fenomeno Isis, Al Qaida, ecc., bensì l’imperialismo nella sua dimensione economica, politica, militare e ideologica”. Per comprendere le principali organizzazioni jihadiste, secondo Brignoli, sarebbe necessario inserire questi fenomeni “all’interno del grande scontro inter – imperialista in atto per il controllo delle fonti energetiche, dei corridoi commerciali e delle aree valutarie” che è proprio quello che cercheremo di fare brevemente in questo video. La chiamano galassia islamista, mettendo tutto nello stesso calderone; eppure, sottolinea Maurizio Brignoli in Jihad e Imperialismo, “non si tratta di qualcosa di omogeneo”. Tutt’altro; secondo Brignoli le famiglie del jihadismo, spesso e volentieri in aperto conflitto tra loro, sono per lo meno 5: al primo posto ci sono quelli che Brignoli definisce i tradizionalisti, e cioè quelli che, fra il XIX e il XX secolo, hanno utilizzato la religione per combattere il colonialismo; poi ci sono quelli che definisce i reazionari, e cioè i sauditi, trasformati in una specie di “papi” dell’Islam con l’aiuto degli Stati Uniti; la terza forma è la galassia dei Fratelli musulmani che, a sua volta, è composta da una miriade di sottogruppi; poi ci sono gli islamo-nazionalisti che, dagli Hizballah libanesi al palestinese Hamas, sono impegnati in una lotta di liberazione nazionale; e infine i jihadisti veri e propri, che hanno preso le distanze dai Fratelli musulmani per dedicarsi interamente alla lotta armata.
Per capire davvero questo complesso universo – suggerisce Brignoli – più che intrafunarsi in mille diatribe di carattere etnico e religioso sarebbe necessario osservarli attraverso la lente del concetto di imperialismo così come sviluppato da Lenin, e cioè “una fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico” – riassume Brignoli – “caratterizzata da una concentrazione monopolistica della produzione e del capitale, dalla nascita del “capitale finanziario”, dall’esportazione di capitale e dalla spartizione del mondo fra le diverse imprese monopolistiche e le grandi potenze imperialistiche”. In questa prospettiva lo jihadismo contemporaneo deve essere riletto nella logica di imposizione degli USA del proprio dominio imperialista, che ha conosciuto una nuova configurazione all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica. Come troviamo scritto nella National Security Strategy USA del 1991, infatti, “Un nuovo ordine mondiale non è un fatto acquisito, ma un’aspirazione e un’opportunità. Abbiamo a portata di mano una possibilità straordinaria, costruire un nuovo sistema internazionale in accordo con i nostri valori e ideali. Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza realmente globali in ogni dimensione. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana (…)”. A partire, appunto, dal Medio Oriente: “Nel Medio Oriente e nell’Asia sud-occidentale” continua il documento “il nostro obiettivo generale è quello di rimanere la potenza esterna predominante nella regione e preservare l’accesso statunitense e occidentale al petrolio della regione. Per sostenere le vitali relazioni politiche ed economiche che abbiamo lungo tutto l’arco del Pacifico, dobbiamo mantenere nella regione il nostro status di potenza militare di prima grandezza”. Ecco così – in tutto il suo splendore – il mantra dell’eccezionalità USA, poliziotto del mondo per preservare l’accesso del Nord globale al petrolio della regione, ma soprattutto per controllare l’accesso del più temuto tra i potenziali competitor: la Cina, che è diventata ancora più minacciosa da quando ha deciso di ampliare la sua sfera di influenza con le Nuove Vie della Seta – attraverso le quali non ambisce solo a spingere sull’acceleratore dell’integrazione economica e regionale dell’area a partire da un’ondata massiccia di infrastrutture fisiche, ma anche a sfruttare questa integrazione per portare avanti un’agenda di emancipazione dalla dittatura del dollaro. “Nella realizzazione delle Vie della Seta” sottolinea infatti Brignoli “si sta potenziando anche la forza della moneta cinese, difatti diversi dei numerosi accordi bilaterali siglati dai cinesi con i paesi interessati prevedono l’utilizzo dello yuan quale valuta per i pagamenti (…)”. “Circa il 90% del commercio mondiale di prodotti petroliferi coinvolge il dollaro” ricorda il Global Times che, però, sottolinea come la situazione stia “gradualmente cambiando” a partire dagli “sforzi della Russia per spezzare il dominio del dollaro come valuta principale nel commercio mondiale di prodotti petroliferi. La fine del dominio del dollaro nel commercio di energia” conclude il Global Times “è una buona scelta per opporsi alle azioni unilaterali degli Stati Uniti”. Per gli Stati Uniti si tratta di una linea rossa, dal momento che – sottolinea Brignoli – “l’enorme duplice debito statunitense commerciale e di bilancio non sarebbe più sostenibile se il dollaro cessasse di essere la moneta dominante negli scambi delle principali materie prime e valuta di riserva mondiale, dal momento che gli USA non riuscirebbero più a vendere un sufficiente numero di buoni del tesoro per finanziare il loro debito”.
Per ostacolare l’integrazione economica dell’area e la spinta alla dedollarizzazione – che comporterebbe una crisi dell’egemonia degli USA – ecco allora che va consolidato il ruolo del paese come poliziotto del mondo e, per farlo, è necessario tessere una fitta rete di alleanze con i partner regionali, a partire dallo stato di Israele. Non è un caso che il progetto di dominio imperialistico a stelle e strisce si unisce – continua Brignoli – con il “piano Yinon” del 1982, che prevedeva di ridisegnare le frontiere arabe in stati più piccoli, deboli e quindi incapaci di opporsi alle mire espansionistiche sioniste. “Quello che gli israeliani stanno pianificando non è un mondo arabo” scriveva l’antropologo palestinese Khalil Nakhleh “ma un mondo di Stati arabi frammentato e pronto a soccombere all’egemonia israeliana”, ed è proprio sempre con l’obiettivo delle frammentazione che entra in ballo la love story tra gli USA e il jihadismo a partire dalla Siria, dove “lo scontro inter – imperialistico” ricostruisce Brignoli “era inizialmente articolato lungo questi due fronti: Usa – Ue – Turchia – Arabia Saudita – Eau – Qatar – Israele, che hanno usato come truppe di terra Isis, al-Nusra e diverse fazioni curde, contro Russia – Iran – Siria – Hizballah, secondo fronte strettamente alleato della Cina”. Altro che lotta all’ISIS: Brignoli, a riguardo, riporta le dichiarazioni di Efraim Inbar – il direttore del Begin – Sadat Center for strategic studies (Besa) di Tel Aviv durante gli ultimi mesi dell’amministrazione Obama – che ricordava come “l’Isis non ha mai sparato un colpo contro Israele” e quindi, suggeriva, “deve essere al massimo indebolito, ma non distrutto. Sradicare lo Stato Islamico sarebbe un errore strategico. Prolungandogli la vita piuttosto, probabilmente ci si assicura la morte di estremisti islamici per opera di altri “cattivi ragazzi” in Medio Oriente, e probabilmente continueremo a risparmiarci diversi attacchi terroristici in Occidente”. Nell’ottica di conservazione del dominio USA e dei suoi alleati, il permanere dell’Isis ha uno scopo strategico; d’altronde, puntualizzava Inbar, “la stabilità non è un valore in sé e per sé. È auspicabile solo se serve ai nostri interessi. E la sconfitta dell’Isis incoraggerebbe l’egemonia iraniana nella regione”. Ecco perché, nonostante la guerra mondiale per procura in Siria sia stata sostanzialmente l’ennesimo gigantesco fallimento del Nord Globale, la destabilizzazione continua “come sembrerebbe dimostrato dalle operazioni di esfiltrazione effettuate per salvare i comandanti dell’Isis a Raqqa e Deir el-Zor”. “Tramontato il progetto obama – clintoniano di creare un Sunnistan che interrompesse la Via della Seta e spazzasse via la mezzaluna sciita alleata di Mosca” riflette Brignoli “i combattenti dell’Isis potranno essere impiegati proprio contro la suddetta mezzaluna con operazioni di guerriglia anziché con la creazione di una forma pseudo – statale.

Ayman al-Zawahiri

L’Isis” conclude “non potrà certo più puntare all’edificazione di un’entità statuale, che costituiva la più significativa novità nel panorama jihadista, ma dovrà riconvertirsi in attore permanente di destabilizzazione, come nella migliore tradizione delle strategie imperialistiche, con un modello decentralizzato basato su un rapporto più stretto con le popolazioni locali sul modello evolutivo dell’ultima Al Qaida di al-Zawahiri”.
Un Isis de – statalizzato e pienamente addomesticato, quindi, mantenuto in vita al solo scopo di mantenere il controllo dell’area mediorientale, tassello fondamentale per gli USA che funziona anche grazie al supporto di Israele e attraverso l’indebolimento delle realtà arabe. Per capire quale terrorismo – nello specifico – verrà sponsorizzato dal Nord globale nel prossimo futuro a difesa del suo giardino ordinato e contro le minacce della giungla selvaggia che ci circonda, l’appuntamento è per stasera mercoledì 22 novembre con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica; ospite d’onore, per l’appunto, Maurizio Brignoli.
Mentre la propaganda suprematista cerca di utilizzare la carta del terrorismo per giustificare la guerra di Israele contro i bambini arabi, per provare a capire qualcosa del mondo che ci circonda noi abbiamo sempre più bisogno di un vero e proprio nuovo media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Magdi Allam

Argentina: la Ricetta Scaduta di Milei che Spalanca le Porte al Fascioliberismo – ft. Roberto Lampa

“Guardate il video di nova lectio che è fatto decisamente meglio e non chiede sottoscrizioni economiche”. Queste le parole scelte da un utente YouTube per commentare il nostro video di stamattina su Milei

Ma che avrà detto mai NovaLectio?

Per scoprirlo, ci siamo guardati il video: come sempre, è confezionato e narrato benissimo, roba che noi effettivamente ce la sogniamo.

C’ha un solo difettoon dice un ca**o, mezz’ora butta nel cesso.

La wikipedia video del tubo italiano riesce a parlare per mezz’ora di fila dell’infinita serie di default che perseguitano l’Argentina da due secoli a questa parte, senza sostanzialmente mai affrontare il nodo della moneta e della fuga dei capitali. È come parlare della storia dell’Italia senza mai nominare la Nato, le basi USA, l’euro e Maastricht. Milei è oggettivamente un personaggio imbarazzante e pericolosissimo, e a parte la propaganda fascioliberista in stile Il Giornale e Libero, viene giustamente universalmente perculato, anche dal MainStream . Che però, in quanto MainStream, non ha gli strumenti per spiegare l’eterna crisi argentina, il suo nesso con l’imperialismo USA, e perchè, al di là del folclore, Milei sia davvero pericoloso. E così, tra una ricostruzione farlocca e l’altra, non si fa che alimentare proprio quel sentimento di repulsione che ha portato Milei alla vittoria, della serie, se tanto non siete in grado di spiegarmi davvero perchè stiamo con le pezze al culo, e proporre ricette ragionevoli, tanto vale affidarci al giullare di turno, che almeno fa ride e promette di spaccare tutto. E infatti, lo stesso utente che ci aveva consigliato il video di Nova Lectio, subito dopo posta un altro commento: “Milei è un grande presidente rivoluzionario”, scrive.

Non fa una piega.

Con Roberto Lampa, ricercatore di storia del pensiero economico all’università di Macerata e con alle spalle una carriera accademica all’università di buenos aires, abbiamo cercato di rimettere in fila le cose che contano davvero.

Buona visione