Da Trump a Le Pen: la rivincita del capitalismo straccione e le lacrime di coccodrillo degli analfoliberali
Tra analfoliberali sull’orlo di una crisi di nervi e miliardari fintosovranisti travestiti da working class heroes, andrà a finire che moriremo tutti, ma – di sicuro – non di noia: dopo 50 anni di pilota automatico, le diverse fazioni del grande capitale dell’Occidente imperialista, impanicate dal loro progressivo e inevitabile declino, sono tornate a farsi la guerra; e gli ultimi giorni, tra attentati falliti e la prima volta in assoluto dal 1968 che un commander in chief decide di rinunciare spontaneamente alla corsa per il secondo mandato, sono stati in assoluto i più movimentati del teatrino politico USA degli ultimi decenni. Ma al di là della rappresentazione teatrale, in cosa consistono davvero queste fazioni del capitale sull’orlo della guerra civile? Che interessi materiali rappresentano? Ha davvero senso tifare per una piuttosto che per l’altra? E sono davvero così alternative tra loro? Dalla Francia della Le Pen agli USA di The Donald, in questo video proveremo a dare alcune informazioni che speriamo ci permettano di navigare in queste acque turbolente senza essere totalmente in balia della propaganda e dei mezzi di produzione del consenso delle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari; prima di farlo, però, vi ricordo di mettere un like a questo video (proprio per permetterci di portare avanti la nostra guerra quotidiana contro il pensiero unico imposto dagli algoritmi) e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare le notifiche: a voi costa solo pochi secondi, ma a noi permette di dare ogni giorno un po’ più di voce al 99% e a chi dalle faide tra pezzi diversi di oligarchia, alla fine, ha sempre e solo da rimetterci.
Come mi capita spesso, non c’avevo capito una seganiente: unico tra tutti gli Ottoliner, ho continuato per mesi a dire che, a mio avviso, la vittoria di Trump nelle prossime presidenziali di novembre non era scontata per niente; nonostante i sondaggi, il senso comune, la continua debacle in Ucraina e il disastro in Medio Oriente, per mesi – infatti – i democratici hanno continuato a registrare un sostegno record da parte delle oligarchie che continuavano a riversare montagne di quattrini nelle casseforti dei comitati elettorali pro Biden, mentre il piatto di Trump (a parte l’attivismo del MAGA, i movimentisti del Make America Great Again) continuava a piangere. Sarò superficialmente economicista, ma a queste condizioni tutta ‘sta cavalcata trionfale verso la presidenza, tutto sommato, mi sembrava un po’ difficile, fino a che il vento non ha cominciato a cambiare decisamente direzione; sarà stata la fine dell’incognita giudiziaria, sarà stata l’efficacia retorica di Trump, saranno state le millemila gaffe di Biden, fatto sta che, a un certo punto, i flussi di quattrini hanno cominciato palesemente a cambiare segno: nel giro di poche settimane, Trump ha cominciato a registrare il sostegno di alcuni pezzi da 90 del grande capitale a stelle e strisce. Prima è stato il turno di Arthur Schwarzmann, eminenza grigia dell’alta finanza USA e fondatore di Blackstone, il fondo che (più di ogni altro al mondo) sta lavorando per una totale finanziarizzazione del mercato immobiliare residenziale; poi è arrivato il sostegno dal gotha dell’anarco-capitalismo distopico made in Silicon Valley – da Elon Musk a Peter Thiel, che si è guadagnato un posto al sole nella prossima amministrazione Trump grazie alla nomina a vicepresidente in pectore del suo protegé JD Vance – fino ad arrivare addirittura all’ipotesi di un posto da sottosegretario al tesoro per Jamie Dimon, il CEO di JP Morgan, di gran lunga la più grande banca privata del pianeta e la grande vincitrice della crisi finanziaria che l’anno scorso ha comportato, in pochi giorni, 3 dei 5 più grandi fallimenti bancari della storia statunitense, spacciati dalla grande macchina propagandistica al soldo delle oligarchie finanziarie come cosucce da niente. E meno male che Trump era il paladino dei working poors della Rust Belt. Cosa diavolo stava succedendo?
Negli ultimi anni, in particolare insieme ad Alessandro Volpi, abbiamo provato a descrivere l’affermazione di una nuova forma di capitalismo che altri, più quotati di noi, definiscono da tempo Asset Manager Capitalism; in questa forma di capitalismo, i principali centri di potere sono i grandi monopoli finanziari globali del risparmio gestito, a partire dai Big Three: BlackRock, Vanguard e State Street. Totalmente organici ai finto-progressisti democratici – in particolare a partire dal 2008 – questi fondi sono stati messi nella condizione di concentrare nelle loro mani una quantità di liquidità spropositata che hanno utilizzato per acquisire quote di controllo nella stragrande maggioranza delle grandi aziende statunitensi quotate allo Standard&Poor 500, ma soprattutto per gonfiare a dismisura una bolla finanziaria di dimensioni mai viste pompando il valore delle azioni oltre ogni limite possibile immaginabile; questo meccanismo si è rafforzato a tal punto da diventare il vero e proprio cuore pulsante dell’accumulazione capitalistica dell’Occidente collettivo, dove il grosso dei patrimoni delle oligarchie consiste, appunto, in montagne di azioni che hanno valori completamente scollegati dai reali valori economici delle aziende che le emettono e che riescono a mantenere solo grazie alla continua iniezione di liquidità gestita da questi mastodontici fondi. Questa nuova configurazione dell’accumulazione capitalistica però, inevitabilmente, ha consegnato a questi fondi un potere senza precedenti che ha cominciato a suscitare qualche mal di pancia anche tra una fetta di coloro che, a livello di ricchezza personale, da questo meccanismo – fino ad allora – in realtà ci avevano guadagnato eccome, com’è il caso proprio degli stessi Elon Musk e Peter Thiel; ma quello che spesso sfugge agli analfoliberali è che il fine ultimo del vero capitalista non è la ricchezza, ma il potere. Le cose non sono facili da distinguere, perché nel capitalismo il potere corrisponde sostanzialmente alla quantità di ricchezza accumulata, ma il fine vero, appunto, è il potere e quando, per qualche ragione, alla quantità di ricchezza accumulata non corrisponde direttamente una quota più o meno simile di potere, qualcosa si comincia a incrinare, che è esattamente quello che è cominciato ad avvenire: i grandi fondi garantivano di accumulare ricchezza gonfiando la bolla finanziaria, ma a quella ricchezza non corrispondeva un pari potere, perché a detenere il potere erano sostanzialmente i fondi stessi, che erano arrivati a piegare ai loro voleri tutto il partito democratico, le amministrazioni che esprimevano e la stragrande maggioranza dei governi degli alleati vassalli degli USA – come è stato plasticamente dimostrato durante l’ultimo G7 dove il CEO di BlackRock, Larry Fink, si è preso il palcoscenico e si rivolgeva ai vari capi di Stato come a un branco di bimbi scemi dicendogli esattamente cosa dovevano concedergli per non saltare tutti per aria e cioè, per inciso, tutti i servizi pubblici essenziali e tutte le principali infrastrutture, a partire da tutto quello che è necessario per effettuare la transizione ecologica.
Comunque, quello che è avvenuto è che pezzi sempre più consistenti di élite economica e di oligarchie USA hanno visto in Donald Trump, che da questi fondi è sempre stato avversato, l’opportunità per riequilibrare a loro vantaggio i rapporti di forza all’interno del grande capitale statunitense e da lì la partita, effettivamente, si è fatta piuttosto interessante: attorno all’idea di riequilibrare i rapporti di forza con i giganti della gestione dei risparmi si è formato un blocco sociale trasversale ampio, variegato ed estremamente influente e che, soprattutto, poteva contare su un referente politico che aveva il vento in poppa; ed ecco allora che tra le fila dei democratici qualcuno ha cominciato a suggerire che, per questo livello di scontro, la vecchia anatra zoppa di Rimbambiden non era più all’altezza. Poi è arrivato l’attentato fallito di Butler, che ha accelerato a dismisura questa dinamica già in corso da tempo e ha costretto a passare dalle parole ai fatti: la storica rinuncia alla corsa per il secondo mandato di Rimbambiden va inserita in questo tipo di dinamica e di conflitto; ora il rischio, però, è che alla narrazione bollita degli analfoliberali ne segua una ancora più bollita di matrice analfosovranista. I capitani di ventura che si sono coalizzati attorno a Trump, infatti – dai petrolieri ai guru delle criptovalute, dai padroni della gestione dei dati (come Thiel) a quelli che hanno fatto i miliardi grazie agli schemi piramidali più spregiudicati – continuano comunque a dipendere dalla bolla speculativa tenuta in piedi dalla liquidità dei grandi fondi. Non darei quindi troppo peso alle boutade di JD Vance su un potenziale ridimensionamento del ruolo del dollaro, magari illudendosi che questo preluda a un fantomatico neo-isolazionismo statunitense che rinvia l’escalation bellica: questa, a mio avviso, è tutta fuffa propagandistica priva di basi materiali concrete; semplicemente, si tratta di una riconfigurazione dei rapporti di forza tra le diverse fazioni del grande capitale nell’ambito della quale la volontà del centro imperiale di saccheggiare tutti gli alleati vassalli rischia anzi, inevitabilmente, di farsi ancora più feroce e plateale. D’altronde l’élite trumpiana è sostanzialmente l’erede diretta della classe dirigente che ha circondato Reagan e Paul Volcker, il famigerato ex presidente della FED che – con una politica dei tassi di una violenza senza precedenti – ha proprio avviato una fase di rientro dei capitali a Wall Street che ha seminato il panico in tutto il resto del mondo. Il processo da tenere sott’occhio mi pare evidente sia questo, mentre tutte i conflitti tra chi spinge per il fossile e chi per le rinnovabili, tra chi vorrebbe proibire l’aborto e chi invece sogna un eterno lungo pride, tra chi vorrebbe abbattere ogni confine e chi invece vorrebbe costruirci muri alti 12 metri, mi pare appartengano più alla sfera della rappresentazione teatrale della politica, dove si fa a gara a chi la spara più grossa, ma poi, sostanzialmente, dietro agli slogan di concreto si fa poco o niente, da una parte e dall’altra; e questo processo che, ovviamente, assume dimensioni epocali nel centro imperiale, mi sembra evidente che riguardi, in scala ridotta, anche le periferie.
Il quotidiano francese L’Humanité, due giorni fa, è entrata in possesso di un documento riservato che descrive nel dettaglio un piano “per installare al potere in Francia un’alleanza tra estrema destra e destra conservatrice”; “Un progetto politico” commenta L’Humanité “redatto come un business plan di una start-up, che dettaglia un piano organico e sistematico in una serie di tappe coordinate sapientemente, con tanto di target da avvicinare, talenti da reclutare” e via dicendo. Il nome in codice del piano è Pericle che oltre a rifarsi al grande leader populista ateniese, in francese sarebbe anche un acronimo per “patrioti radicati resistenti identitari cristiani liberali europei sovranisti”. Il piano prevede un contributo finanziario a fondo perduto di ben 150 milioni da investire nell’arco di una decina di anni; e a tirare fuori la grana sarebbe lui: Pierre Edouard Sterin che, quando lavoravo a Report, ho avuto l’occasione di conoscere personalmente. Pierre Edouard Sterin, infatti, deve la sua fortuna a questa robetta qua:
si chiamano SmartBox e sono gli ormai famigerati cofanetti che regaliamo quando vogliamo fare uno spregio a qualcuno e che contengono buoni per piccoli pacchetti turistici che quando uno li consuma non vede l’ora di tornare a lavorare. Il modello di business di SmartBox è molto semplice: chiede alle strutture una commissione che è circa il doppio di quella richiesta dai grandi portali per le prenotazioni, che certo non fanno beneficenza; il risultato è che gli albergatori convenzionati se hanno qualche minima speranza di poter affittare una stanza all’ultimo minuto, ti dicono di essere al completo anche quando non lo sono affatto e gli unici che non ti dicono di essere al completo sono quelle strutture talmente pessime che, a parte che i poveracci ai quali rifilate una SmartBox, non vedranno mai mezzo cliente. Sin dall’inizio, Sterin aveva chiarissima l’intenzione di mettere parte del denaro accumulato con questa roba a servizio di un progetto politico di estrema destra; e per accelerare l’accumulazione di questo capitale necessario ad avviare una nuova controrivoluzione, prima – da vero patriota – ha spostato la sede fiscale in Belgio per sfuggire alle tasse messe sui super-ricchi da Hollande e poi ha licenziato tutti i lavoratori delle controllate locali che ha acquisito in Irlanda e poi anche in Italia. Quando l’ho incontrato a Parigi mi ha detto espressamente che il suo progetto politico era – come un Milei qualsiasi – ridurre al minimo l’intervento dello Stato francese nell’economia privatizzando i servizi essenziali come la sanità e l’istruzione e che, nel perseguire questo cammino, il suo desiderio più grande era nientepopodimeno che diventare santo; con Pericle ora si pone l’obiettivo di “lottare contro i mali principali del nostro paese” che sono “il socialismo, lo wokismo, l’islamismo e l’immigrazione” e, per raggiungere questi obiettivi, sta lavorando per mettere insieme un migliaio di “persone allineate, in grado di rappresentare la spina dorsale del nuovo governo che conquisterà il potere nel 2027”.
Ecco: il blocco sociale che sta mettendo fine alla dittatura delle élite globaliste è trainato da questa gente qua; sarebbe il caso di non farsi troppe illusioni. Il dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta, dopo 5 secoli, è ormai agli sgoccioli e non saranno le élite che hanno dominato per 5 secoli a indicare la via d’uscita, a prescindere da quanto vi piacciano le loro narrazioni strampalate; se vogliamo trovare una via d’uscita (prima che sia troppo tardi) ci dobbiamo organizzare da soli e, per farlo, ci serve un media che invece che ai deliri degli Sterin, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Giuseppe Cruciani
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