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Tag: capitalismo

Se nell’era della dittatura delle oligarchie finanziarie il genocidio diventa il “new normal”

Mentre guardate questo video, io e il buon vecchio Mario Ferdinandi – il leggendario editor di Ottolina Tv – dovremmo essere in procinto di atterrare a Samarcanda dove seguiremo il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona che però, da quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, a Verona non si può fare più perché, come dice Matteo Papeete Salvini, boicottare Lucca Comics per il patrocinio dell’ambasciata di Israele è razzismo, mentre boicottare tutto quello che ricorda anche lontanamente la Russia è democrazia; e da allora viene organizzato un po’ in giro per il mondo. E nell’attesa di capire come riusciremo a tenervi compagnia anche da qui nei prossimi giorni, aiutandovi a gettare lo sguardo oltre i confini angusti della propaganda suprematista del nord globale in declino, volevo intanto condividere questo pensierino confortante; da un po’ di giorni a questa parte, infatti, di fronte alle immagini strazianti che arrivano da Gaza e all’incredibile escalation di violenza verbale a cui abbiamo assistito che, nell’arco di poche ore, ha sdoganato definitivamente idee come la punizione collettiva, la comparazione di intere popolazioni ad animali, la pulizia etnica e il genocidio, mi continuo a fare la stessa domanda: e se il genocidio fosse il new normal? Cioè, se nell’era del declino inesorabile del dominio globale dell’uomo bianco, in cui ci hanno catapultato 50 anni di controrivoluzione neoliberista e di affermazione del dominio delle oligarchie finanziarie, lo sterminio indiscriminato di intere popolazioni diventasse il metodo più o meno standard per la risoluzione dei conflitti?
Ma perché un pensiero così tetro? Proviamo a mettere in fila un po’ di cose.
Il mondo è sempre più spaccato in due, con le ex potenze coloniali assoggettate a Washington da un lato e gli ex paesi colonizzati – oggi ribattezzati sud globale – dall’altro; questa contrapposizione viene spesso analizzata in termini meramente geopolitici, come se si trattasse di blocchi tutto sommato interscambiabili, con l’unica differenza – appunto – che uno è il vecchio egemone in relativo declino, e l’altro il pezzo di mondo subalterno in relativa ascesa. Non è una lettura completamente priva di fondamento e può aiutare a comprendere alcune dinamiche ma a nostro avviso, in realtà, rischia anche di confonderne molte altre. Per capire perché questa contrapposizione non sarebbe, in realtà, solo tra vecchi e nuovi aspiranti all’egemonia globale ma anche tra modelli economici e sociali diversi, conviene forse ricostruire brevemente la storia di come questa contrapposizione è venuta a definirsi, che poi, in soldoni, è la storia del capitalismo nella sua fase matura.

Friedrich Engels

C’era un volta, infatti, un sistema chiamato capitalismo industriale: a imporlo come sistema economico egemone tra i paesi più sviluppati era stata una classe sociale che si era andata formando nel tempo e che, a differenza dell’aristocrazia che aveva dominato incontrastata per secoli, fondava il suo potere nella capacità di creare ricchezza. La chiamavano borghesia: una classe “sommamente rivoluzionaria” come affermavano enfaticamente già nel 1848 nel Manifesto del partito comunista Karl Marx e Friedrich Engels, i padri fondatori del socialismo scientifico. “Dov’è giunta al potere”, infatti, “ha distrutto i rapporti feudali”, ci ha mostrato “di che sia capace l’attività umana” e “ha compiuto ben altre meraviglie che non le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche”. Per farlo, appunto, s’è dovuta sbarazzare con furia rivoluzionaria di tutti i vecchi parassiti che stavano in cima alla piramide della vecchia gerarchia sociale e che rappresentavano un ostacolo per lo sviluppo della società tutta. Questa nuova classe sociale dominante, non meno feroce delle precedenti, traeva ciò nonostante la sua forza dalla liberazione delle forze produttive; laddove la vecchia aristocrazia parassitaria non vedeva altro che l’opportunità per una nuova forma di rendita, l’élite più avanzata della borghesia rivoluzionaria vedeva la necessità di creare le precondizioni per lo sviluppo: infrastrutture, istruzione di massa e servizio sanitario universale. Se la vecchia aristocrazia parassitaria ostacolava lo sviluppo pur di rafforzare i rapporti gerarchici all’interno della società e intascare i frutti del sottosviluppo, la nuova borghesia industriosa e produttiva la società la rivoluzionava continuamente per permettere allo sviluppo di dispiegarsi con tutta la forza possibile immaginabile. Ovviamente non era un’opera di bene: il fine altro non era che estrarre quanto più valore possibile da una nuova società enormemente più ricca, produttiva e opulenta di qualsiasi altra forma di organizzazione sociale si fosse mai vista in passato e concentrarlo nelle mani di pochi. Nel farlo, però, la borghesia rivoluzionaria non solo gettava le fondamenta di una società in grado di creare una quantità di ricchezza incommensurabilmente superiore a quanto mai visto fino ad allora, ma in maniera naturale e ineluttabile generava anche una nuova classe sociale rivoluzionaria che avrebbe avuto, in qualche modo, il compito storico di portare a termine la grande rivoluzione avviata dalla borghesia, ereditandone la capacità di liberare le forze produttive ma portando questo stesso processo alle estreme conseguenze impedendo, una volta per tutte, la concentrazione della ricchezza – e quindi anche del potere politico – nelle mani di una nuova ristretta élite; questa classe altro non era che il proletariato della grande fabbrica, e la storia dei secoli successivi, almeno in Occidente, è stata appunto la storia del conflitto insanabile tra queste due classi. Un conflitto che, dopo i 30 anni d’oro del così detto compromesso tra capitale e lavoro che ha caratterizzato i paesi industrialmente avanzati del nord globale dopo la fine della seconda guerra mondiale, la borghesia aveva cominciato a percepire potesse definitivamente perdere.
Esattamente come previsto dai fondatori del socialismo scientifico, infatti, lo sviluppo industriale fondato sulla grande fabbrica aveva consegnato alla nuova classe dei lavoratori salariati tutti gli strumenti per tentare l’assalto al cielo; dentro la grande fabbrica i lavoratori condividevano le stesse condizioni materiali, le stesse contraddizioni e lo stesso sfruttamento. Erano una comunità umana dal destino condiviso e questo rendeva possibile, se non addirittura naturale, la creazione di organizzazioni di massa – dai sindacati ai partiti – in grado di accumulare una forza tale da contendere il monopolio del potere alla classe dominante. Contro queste organizzazioni, e contro l’ipotesi di vedere perlomeno ridimensionata – se non addirittura del tutto azzerata – la sua posizione di dominio, la borghesia ha tentato di ricorrere ai metodi più feroci: disinformazione, repressione, ricatti, stato d’emergenza e strategia della tensione. Ma i margini di manovra erano sempre più ristretti: il potere di quelle organizzazioni, nel tempo – infatti -, aveva abbondantemente influenzato il funzionamento e addirittura l’architettura stessa delle istituzioni e dello Stato che garantivano, anche se con non poche eccezioni, una quantità di diritti fondamentali tali da ridurre sensibilmente la capacità di reazione dei dominatori, fino a quando i rapporti di forza si erano spostati talmente tanto a favore del lavoro che il capitale non decise che, per sopravvivere, era arrivato il momento di rivoluzionare di nuovo tutto il sistema da cima a fondo.
E’ quella che noi definiamo la controrivoluzione neoliberista e che è, appunto, la rivoluzione condotta dall’alto per rimuovere i presupposti che avevano consegnato alle masse dei lavoratori un potere sufficiente per tentare di condurre il loro assalto al cielo. Un obiettivo mica da poco: com’era possibile, infatti, continuare a garantire la crescita della capacità di creare ricchezza – che solo la concentrazione della produzione in fabbriche sempre più grandi e avanzate poteva permettere – impedendo allo stesso tempo che chi ci lavorava acquisisse sempre più potere politico? La risposta si chiama globalizzazione neoliberista; in sostanza, l’idea era che quelle grandi fabbriche, delle quali in nessun modo potevano fare a meno, e quella gran rottura di coglioni dei lavoratori, che ci stavano dentro, dovessero essere reinsediate fuori dai nostri confini nazionali. Prima, però, era necessario trovare il modo per essere sicuri che il controllo sarebbe rimasto saldamente in mano alle borghesie occidentali; d’altronde, l’era d’oro del colonialismo era finita e gli stati del sud del mondo formalmente erano ormai diventati tutti stati sovrani. Come si faceva ad essere sicuri che non avrebbero utilizzato la nuova potenza industriale creata grazie al sostegno dell’Occidente per rivoltarglisi contro e rivoluzionare le gerarchie di potere a livello internazionale?
La soluzione che trovarono si chiama finanziarizzazione: in soldoni, consiste in una rivoluzione totale dell’architettura finanziaria, tale da consentire una concentrazione tale di potere economico nelle mani di una ristretta oligarchia – foraggiata e protetta dalla forza militare dell’impero – da rendere tutto il resto del pianeta totalmente dipendente dalla loro capacità di allocare dove più gli conviene le risorse, ma non solo. La finanziarizzazione, infatti, consente la cooptazione delle classi dirigenti dei nuovi paesi dove il capitale occidentale ha permesso lo sviluppo industriale perché, in cambio della loro lealtà, gli permette di appropriarsi di una fetta consistente della ricchezza prodotta nei rispettivi paesi e di utilizzarla per continuare a fare soldi dai soldi nel grande casinò delle bolle speculative del centro dell’impero; quando sentite dire, ad esempio, che gli USA si aspettavano che contribuendo a trasformare la Cina nella fabbrica del mondo sarebbero poi riusciti a trasformarla in una democrazia liberale perfettamente integrata nell’ordine internazionale “fondato sulle regole”, si intende esattamente questo: grazie al dominio delle oligarchie finanziare occidentali e alla cooptazione delle oligarchie cinesi, si aspettavano che la Cina si trasformasse da stato sovrano a protettorato amministrato da fiduciari delle oligarchie stesse. Un piano geniale e ultra-sofisticato. Ovviamente un piano costosissimo, eh? Con l’inaugurazione dell’era del dominio delle oligarchie finanziarie si diceva definitivamente addio ai livelli di crescita che avevano caratterizzato la fase gloriosa dell’ascesa del capitalismo industriale: se negli anni ‘60 la crescita globale era stata in media superiore al 5%, nei decenni successivi si è assestata stabilmente sotto il 4 e, in buona parte, si è concentrata in Cina.

Warren Buffett con Barak Obama

Ma, d’altronde, era un prezzo più che congruo da pagare affinché, come dice Warren Buffet, la guerra di classe – che ovviamente non si è mai fermata – molto semplicemente, invece che dal basso contro l’alto, cambiasse radicalmente segno: “E’ la mia di classe” ha affermato Buffet “che fa la guerra, la classe dei ricchi; e la sta vincendo”.
Forse si è fatto prendere un po’ troppo dall’entusiasmo, e la storia di questi ultimi anni sembra dimostrarlo piuttosto chiaramente: il piano di dominio e di sottomissione degli stati sovrani del sud del mondo che il capitale occidentale ha aiutato a svilupparsi, infatti, potrebbe non essere andato esattamente come previsto. A partire, ovviamente, dalla Cina, dove quello che l’aperisinistra sconfittista e pariolina ha definito per anni turbo-capitalismo, in realtà si è dimostrato essere qualcosa di profondamente diverso da quanto descritto dalle loro analisi boldrine e dirittumaniste. Grazie al monopolio del potere esercitato dal partito comunista, infatti, la doppia manovra di subordinazione finanziaria e di cooptazione delle oligarchie è miseramente fallita; a controllare la finanza cinese, non senza contraddizioni, rimane saldamente lo Stato, e le oligarchie che l’Occidente voleva cooptare non hanno potere politico. Spesso, anzi, vengono prese proprio platealmente a pesci in faccia, come è successo a Jack Ma non appena ha cercato di impossessarsi di una fetta importante – appunto – del potere finanziario del paese con l’approdo in borsa di Ant Group, il braccio finanziario del suo impero. Un modello che, nel sud globale, da un po’ di tempo a questa parte ha cominciato a fare scuola: la Cina non ha soltanto contribuito a svelare a tutto il mondo il funzionamento concreto della trappola costruita dal nord globale, ma ha anche dimostrato che è possibile sottrarsi dal giogo del neocolonialismo e ha anche dimostrato concretamente come si fa.
E quindi siamo finalmente arrivati ai giorni nostri e all’idea del genocidio indiscriminato come ultimo strumento a disposizione delle oligarchie del nord globale per perpetrare un sistema di potere internazionale non solo profondamente ingiusto ma, quel che ancor più conta, platealmente antistorico. Ma perché questa idea tetra del genocidio come sfogo naturale di queste contraddizioni? Alcuni spunti in ordine sparso:

1– Se contro le organizzazioni politiche dei lavoratori del nord globale – quando ancora eravamo paesi industriali -, nonostante tutti i limiti imposti dalle istituzioni e da quelle che allora erano ancora regole democratiche, siamo ricorsi a stragi, attentati, sospensione dello stato di diritto e chi più ne ha più ne metta, pensiamo al livello di ferocia che si può raggiungere nell’ambito di un ordine internazionale in balia del puro arbitrio del più forte e che, tra l’altro, si nutre del razzismo e del suprematismo che impedisce di vedere nei popoli estranei alla tradizione occidentale veri e propri esseri umani.

2– Se la lotta di classe interna al nord globale non si è trasformata in una vera e propria carneficina è in buona parte perché, allora, il capitale – per rilanciare il suo dominio – ha trovato nella globalizzazione neoliberista e nella finanziarizzazione una scappatoia apparentemente meno cruenta. Oggi, invece, oltre al tentativo di ricorrere alla violenza pura, quali alternative rimarrebbero alle oligarchie occidentali per contrastare il loro declino?

3– La storia ci ha dimostrato, in maniera abbastanza inequivocabile, che le conseguenze nefaste sulla crescita economica di una lunga fase di conflitti e di stermini su larga scala non può essere considerata un deterrente efficace contro la necessità delle oligarchie di proteggere e riaffermare il loro dominio.

4– Come nel caso di Gaza dove, nonostante le fantasie delle anime belle che sperano in una fratellanza pre-politica tra la meglio gioventù dell’occupante e quella dell’occupato, l’intera popolazione sostiene la lotta di liberazione, e quindi è l’intera popolazione ad essere considerata – del tutto razionalmente – il nemico da abbattere; idem, nei paesi sovrani del sud globale, il nemico delle oligarchie finanziarie dell’occidente collettivo è l’intero popolo, che non si esprime attraverso organizzazioni politiche di massa ma attraverso lo Stato stesso che, proprio nell’affermare la sua sovranità, rappresenta l’interesse generale. E quindi, proprio come a Gaza, non è certo sufficiente colpire un pezzo di classe dirigente, come gli USA – ad esempio – hanno provato a fare in modo spesso fallimentare negli ultimi 20 anni tra Libia, Iraq e Siria; certo, possono aver guadagnato del tempo e possono aver ostacolato lo sviluppo dei nemici strategici, ad esempio complicando l’accesso alla risorse energetiche alla Cina. Ma, alla fine, l’esigenza storica di costruire uno stato sovrano per affermare gli interessi generali è sempre riemersa. La devastazione indiscriminata, tale da rendere impossibile il risorgere dello stato nazionale, è l’unica soluzione che garantisce gli interessi strategici sul medio – lungo termine.

Benjamin Netanyahu

Ed ecco che il genocidio diventa la nuova normalità: un tempo si diceva socialismo o barbarie. Da allora il capitale ha condotto una lotta di classe spietata, e l’ha vinta. E la prospettiva socialista è stata rinviata chissà per quanto. Ma il conflitto è come la materia: non si crea e non si distrugge. Cambia forma, e la storia non si arresta. Ed ecco che così, oggi, con la necessaria dose di realismo potremmo parlare piuttosto di multipolarismo o genocidio. Tu con quale team ti schieri?

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Dalla tecnocrazia alla teologia politica: Come ostacolare il piano del capitale contro la democrazia

Una lunga guerra contro la democrazia. E’ questo in sostanza il fulcro dell’azione politica delle élite del nord globale durante l’ultimo ormai mezzo secolo proprio mentre, paradossalmente, il ricorso strumentale proprio al concetto di democrazia, si affermava come il principale paravento ideologico dietro il quale dissimulare il ritorno all’impiego della forza bruta su una scala raramente vista prima nella storia dell’umanità; una guerra pianificata nei minimi dettagli, esplicitamente.

Samuel P. Huntington, Copyright World Economic Forum

Siamo nel 1975 e un gruppo di studiosi e ricercatori capeggiati dal famigerato politologo statunitense Samuel Huntington pubblica un celebre rapporto destinato a fare epoca. “La crisi della democrazia”, si intitola, “sulla governabilità delle democrazie”; un lavoro su commissione con un committente di eccellenza.

E’ la famigerata Commissione Trilaterale, il think tank che da 50 anni anima i pensieri più contorti di ogni vero complottista e purtroppo, spesso, non senza ragioni; era stata fondata 2 anni prima da David Rockefeller in persona e da allora si era posta un unico obiettivo: riaffermare il dominio delle elite sul resto della società in quegli anni di irrefrenabile fermento politico e di protagonismo delle masse popolari.

La ricetta è degna di una puntata di Black mirror: il funzionamento efficace di un sistema democratico”, si legge nel rapporto, “necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi”.

Non è una battuta. E’ letteralmente l’obiettivo politico che, a partire da quel 1975, si sono date esplicitamente le élite del nord globale per riaffermare il loro dominio sul resto della società: indurre all’apatia il maggior numero di persone possibili, che in quegli anni si erano messe in testa di rivendicare per se un ruolo attivo nel governo del pianeta.

Come ammettono esplicitamente anche i relatori del rapporto, ovviamente questo obiettivo “è intrinsecamente anti-democratico, ma”, sottolineano, “è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene”.

Una democrazia anti-democratica quindi: questo è stato il modello di società perseguito con ogni mezzo necessario nell’ultimo mezzo secolo.

Cosa mai sarebbe potuto andare storto?

Oggi parliamo di quello di cui avremmo bisogno, a ormai mezzo secolo di distanza, per ritornare a ostacolare i piani distopici di un manipolo di oligarchi.

1927. Il celebre giurista e politologo tedesco Carl Schmitt conclude uno dei suoi innumerevoli saggi: “Il concetto del politico”, lo intitola. Un testo profetico; in poche battute Schmitt infatti descrive con precisione quasi chirurgica le principali dinamiche che caratterizzeranno il conflitto geopolitico negli ormai quasi 100 anni successivi. La storia degli ultimi 100 anni infatti è storia di sanguinose guerre globali, in 3 atti: il primo è quello delle guerre coloniali ed imperialistiche, con il continente europeo come epicentro; il secondo è quello delle guerre neocoloniali, anticoloniali e di carattere prevalentemente ideologico, generate dalla guerra fredda tra USA e URSS; e infine il terzo è quello delle guerre postcoloniali e imperialistiche degli USA che si protraggono fino ad oggi.

Ma se per i primi due atti, il contenuto tragico del copione è universalmente riconosciuto, per il terzo le cose sono più complesse. Secondo la propaganda liberale infatti, il crollo del blocco sovietico sarebbe dovuto coincidere con un’era di pace, prosperità e armonia tra gli Stati, scandita dalla progressiva espansione di istituzioni economiche “neutrali” come i mercati globali. Gli Stati Uniti erano il cavaliere dalla splendente armatura, la globalizzazione neoliberista il suo destriero: una bella favola con un finale talmente lieto che, nell’ingenua formulazione di Fukuyama, avrebbe portato con sé la “fine della storia”.

Eppure, già Schmitt aveva previsto che questo lieto fine, questo mondo fatato in cui gli USA sarebbero stati i garanti, era appunto una vana speranza: “sarebbe un errore”, scrive Schmitt, “credere che una posizione politica raggiunta con l’aiuto della superiorità economica si presenti come «essenzialmente non bellicosa». Non bellicosa” – come si confà all’essenza dell’ideologia liberale – “è solo la terminologia” conclude Schmitt. La millantata non bellicosità, al contrario, si tradurrà necessariamente nel creare con ogni mezzo necessario “una situazione mondiale in cui poter far valere senza impedimenti il suo potere economico”, con la beffa che poi si arrogherà anche il diritto di considerare “violenza extraeconomica” qualsiasi azione compiuta “da un popolo, o un altro gruppo umano” nel tentativo di “sottrarsi agli effetti” di questo stesso strapotere.

L’ho già risentito, diciamo.

In particolare negli ultimi 30 anni, infatti, ogni qualvolta una parte del mondo cercava di sottrarsi alle imposizioni del mercato globale, che è tutto tranne che libero, veniva immediatamente riportata all’ordine imposto dalle direttive imperiali, sostenute da una logica ferrea: se il mercato globale è pace e prosperità, chiunque non voglia aderirvi acriticamente o è un pazzo o un potenziale pericolo, e pertanto può essere solamente isolato o “ricondotto alla ragione” con ogni mezzo necessario, a partire dall’utilizzo dei più avanzati strumenti tecnologici finalizzati all’uccisione fisica violenta, che però, più sono distruttivi e violenti, più vengono celati dietro il paravento di contorsioni retoriche che eliminano la guerra dal lessico comune e riempono la bocca della propaganda di termini apparentemente neutri come sanzioni, peacekeeping, guerre umanitarie e bombe intelligenti.

Ma cosa permette agli interessi egoistici specifici del nord globale e delle sue élite economiche di spacciarsi come neutrali?

E’ una delle domande a cui prova a rispondere Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto e Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno, nel suo ultimo monumentale lavoro: “Teologia politica e diritto”.

Ma cosa potrà mai avere a che fare il dominio, spacciato per neutrale, di una determinata logica economica, che è la cosa apparentemente più mondana possibile immaginabile, addirittura con la teologia?

Per capirlo, bisogna fare un passettino indietro, e tornare a quello che è considerato in assoluto il padre fondatore delle scienze politiche moderne: il filosofo britannico Thomas Hobbes, e il suo Leviatano, una creatura biblica che Hobbes riesuma per descrivere lo stato moderno, al quale “tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite”, che “è in grado di informare la volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni” (Thomas Hobbes, Leviatano).

Lo stato moderno di Hobbes è il successore logico, cronologico e immanente di Dio, e la politica non è altro che la secolarizzazione della teologia, e quindi, appunto,Teologia Politica, per dirla con Carl Schmitt che proprio così ha intitolato quella che è considerata la sua opera principale, nell’ormai lontanissimo 1922. Secondo Schmitt, tutti i concetti basilari della dottrina politica nell’era dello Stato Moderno sono concetti teologici secolarizzati: lo Stato quindi non sarebbe, come sostiene la teoria politica moderna, il prodotto di una ragione umana che taglia i ponti con il passato e la tradizione, ma altro non è che la trasposizione sul terreno dell’immanenza dell’idea tradizionale di Dio come fondatore dell’ordine; come sottolinea Preterossi, riprende proprio la riflessione di Hobbes, alla disperata ricerca di un nuovo potere ordinatore di fronte al tragico spettacolo del fratricidio della guerra civile inglese che si svolgeva proprio davanti ai suoi occhi. “Per stabilizzare un nuovo ordine è stato necessario sostituire i vecchi assoluti con un artificio in grado di imporsi, di ottenere obbedienza con la coazione ma anche in virtù del riconoscimento razionale dell’unico fine minimo incontrovertibile dell’ordine: la garanzia della sopravvivenza grazie alla neutralizzazione della generale predisposizione alla violenza, e in particolare quella identitaria che si sprigiona durante una guerra civile”.

Seguendo questa logica, quasi 4 secoli dopo, alla religione laica dello Stato Assoluto di Hobbes, sarebbe subentrata un’altra religione laica, che Preterossi definisce Teologia Economica Neoliberista. Se in Hobbes era il Leviatano a dover sopperire all’assenza di una giustificazione divina del potere per garantire l’ordine sociale, oggi è l’economia a proporsi come terreno neutrale su cui costruire una società non conflittuale. Il potere politico degli stati, in questo senso, deve limitarsi a garantire le condizioni di esistenza del libero mercato, in cui la conflittualità può esprimersi nel suo surrogato: la concorrenza. E quando libero mercato e concorrenza entrano in crisi, ecco che si ricorre a un’altra giustificazione, un altro principio proposto come “neutrale”: quello della tecnica e della tecnocrazia.

Non è più semplicemente questione di dialettica tra opzioni politiche contrapposte, ma è proprio la politica in se, come strumento per la progettazione razionale e condivisa della vita in comune – comunque venga declinata – a venire malamente cacciata fuori dal palcoscenico della storia.

La teologia economica neoliberale”, sottolinea lucidamente Preterossi, “è una teologia politica “anti-politica”, perché fa dell’immanenza un assoluto”, ed esclude così a priori ogni possibilità di trasformazione che non derivi direttamente dalle sue logiche intrinseche; ed ecco perché la ripoliticizzazione del dibattito pubblico, di per se, rappresenta una forma di resistenza rispetto al nuovo Leviatano della religione neoliberista. Preterossi, nell’ultima parte del libro, si interroga su quali siano le modalità attraverso le quali questa ripoliticizzazione e l’elaborazione di nuove grandi visioni condivise in grado di riattivare una mobilitazione collettiva – che sola può ambire a spostare concretamente i rapporti di forza all’interno della società a favore dei subalterni – potrebbe concretamente avverarsi; per farlo, ricorre in primo luogo a Gramsci, che secondo Preterossi avrebbe cercato con la sua opera e la sua militanza di trovare “un’altra via della laicità, non meno completa di quella liberale” di segno completamente diverso “perché non individualista, né privatista” ma, al contrario, capace di creare “un’adesione a un plusvalore collettivo che non passi dalla paura e dalla superstizione, ma da un’accettazione consapevole, nutrita di passioni razionali”.

Insomma, il Gramsci di Preterossi avrebbe cercato di fondare una vera e propria religione secolare che, sempre secondo Preterossi, di quella mobilitazione collettiva oggi indispensabile sarebbe una precondizione imprescindibile. E oggi? Quali sarebbero oggi le possibili religioni laiche necessarie per rivitalizzare la mobilitazione politica?

Preterossi, nella parte conclusiva del testo, affronta uno dei fenomeni su cui maggiormente si è concentrato il dibattito recente: il populismo. “Sarebbe molto riduttivo”, scrive Preterossi, “ritenere che le cause e il significato del populismo contemporaneo siano riconducibili unicamente agli effetti del web”; piuttosto bisognerebbe focalizzare l’attenzione verso quei “processi materiali di natura economica generati dalla globalizzazione finanziaria che minano la coesione sociale, da un lato, e all’esplosione delle contraddizioni della politica rappresentativa moderna che la spoliticizzazione neoliberale ha finito per enfatizzare, dall’altro. Più che della sola disintermediazione digitale”, continua Preterossi, il populismo sarebbe “la forma del politico contemporaneo, con le sue opacità e ambivalenze” e anche se “non è affatto detto che offra soluzioni efficaci”, sicuramente sarebbe per lo meno “in grado di saldare dimensione materiale e politica, ciò che la politica tradizionale oggi fa molta più fatica a fare”.

Senza alcuna forma di snobismo, Preterossi si chiede se il populismo possa costituire un nuovo vincolo sociale oppure soffra “degli effetti della disintermediazione”, tipici proprio dell’era del trionfo della religione neoliberale, replicandone le logica, ma una via di uscita potrebbe risiedere proprio nella declinazione che del macrocosmo populista danno autori come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che, secondo Preterossi, rappresenterebbero “una rottura con tutti il bagaglio dei pregiudizi sul populismo”, dal momento che il popolo che rappresenta l’oggetto della loro riflessione non è banalmente il popolo tenuto insieme dai legami di sangue e di appartenenza nazionale, ma molto più articolatamente il popolo tenuto insieme dalla convergenza delle diverse rivendicazioni dei subalterni.

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CONTRO IL FEMMINISMO LIBERALE: Cosa è e perché abbiamo bisogno di un Femminismo per il 99%

Argentina, Marzo 2015.

Contro il dilagare di femminicidi e la violenze sulle donne nasce il movimento Non Una Di Meno, ispirato dai versi della poetessa messicana Susana Chávez, vittima essa stessa di femminicidio: “Né una donna in meno, né una morta in più”.

Da lì in avanti l’onda femminista travolgerà rapidamente l’intera America latina, per poi lambire il Vecchio continente, fino addirittura alla Polonia, dove nel 2016, grazie ad oceaniche proteste di piazza, viene bloccata una proposta di legge per vietare le interruzioni di gravidanza anche in caso di gravi malformazioni del feto. 

Sempre nel 2016 Non Una Di Meno sbarca anche in Italia, dove però non si limita a fare proprie le battaglie del collettivo argentino, ma le integra con nuovi strumenti interpretativi, a partire dal concetto di intersezionalità.

Il concetto di intersezionalità era stato introdotto per la prima volta nell’ormai lontano 1989 dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere “i diversi modi in cui la razza e il genere interagiscono per determinare le molteplici esperienze delle donne nere sul terreno del lavoro”.

Riadattato, viene esteso a sostanzialmente tutte le contraddizioni che attraversano le nostre società: di razza, di genere, ma anche di classe, di religione e addirittura anagrafiche. L’idea è che scopo dell’analisi non sia più stabilire una gerarchia tra questi piani diversi, ma indagarne le interazioni, mettendo tutto sullo stesso piano e riconoscendone ad ognuna pari dignità.

L’anno dopo, il 2017, negli USA è l’anno del Me Too, movimento che denuncia molestie e abusi sessuali e che prende nome dall’hashtag diventato virale dopo le accuse da parte di alcune attrici di Hollywood contro il produttore cinematografico Harvey Weinstein.

Sempre nel 2017, secondo la Merriam-Webster, lo Zingarelli statunitense, femminismo è la parola dell’anno. Il termine, infatti, ha visto esplodere l’interesse da parte del pubblico (+70% rispetto al 2016) ed è stato il più cercato nel web in concomitanza con fatti di cronaca e notizie giornalistiche.

La parola “femminismo” è diventata trend topic associato a serie e film, come “The Handmaid’s Tale”, che raffigura un Nordamerica distopico dove l’infertilità è capillare e le donne fertili divengono incubatrici per ricche coppie sterili, o “Wonder Woman”, il primo film su un supereroe diretto da una donna e con una visione del mondo scevra da pregiudizi sui ruoli di genere.

Insomma: un fenomeno politico, sociale e culturale di dimensioni gigantesche, che chi vuole capire cosa gli succede attorno non può esimersi da studiare e indagare a fondo.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno storia e filosofia nelle scuole superiori, e questo è il nuovo episodio di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo dei limiti e delle contraddizioni del femminismo liberale, e dell’urgenza, al contrario, di un femminismo per il 99%.

Femminismo per il 99%”, proprio così si intitola il libro manifesto del 2019 firmato da Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser.

L’obiettivo è quello che la Fraser aveva annunciato già 6 anni prima in un celebre articolo pubblicato sul Guardian. “Come il femminismo è diventato l’ancella del capitalismo. E come riappropriarsene”, era il titolo.

Come femminista”, scriveva allora Fraser, “ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente”, riflette però Fraser, “ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi. In particolare”, sottolinea, la nostra critica del sessismo”, sembra che oggi venga utilizzata per giustificare “nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento.

Una volta”, specifica Fraser, “il movimento delle donne aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi”, conclude amaramente, “festeggia le imprenditrici”. Se prima si valorizzavano “la “cura” e l’interdipendenza umana”, oggi ci siamo ridotti a incoraggiare “il successo individuale e la meritocrazia”. Ma com’è potuto accadere? Per capirlo, sostiene Fraser, bisogna ampliare lo sguardo, e affrontare il nodo del “paradigma capitalista, che, sostiene, nel tempo “ha cambiato completamente rotta”.

Il capitalismo stato-assistito del dopoguerra”, scrive Fraser, “ha lasciato il posto a una forma innovativa di capitalismo, “disorganizzato”, globalizzato, neoliberista”.

Chi segue Ottolina sa che sul “disorganizzato” non siamo molto d’accordo, che il capitalismo neoliberista è più organizzato e pianificato che mai, solo che il pianificatore invece che gli Stati sono diventati direttamente le oligarchie finanziarie. 

Ma l’intuizione di Fraser rimane potentissima. “La seconda ondata del femminismo”, scrive, “è emersa come critica al capitalismo di prima maniera”, proprio mentre quel paradigma si era ormai trasformato in qualcosa di ancora più feroce e pervasivo.

E paradossalmente, di questo nuovo capitalismo più feroce e pervasivo, invece, il femminismo, è diventato addirittura “ancella”, fedele servitore. La trasfigurazione non poteva essere più radicale. Da componente essenziale della battaglia generale per l’uguaglianza, il femminismo si è così trasformato in battaglia per le “pari opportunità di dominio”. 

Ed ecco così che “in nome del femminismo”, si arriva a chiedere “alle persone comuni di essere grate che sia una donna e non un uomo a mandare a rotoli il loro sindacato, a ordinare a un drone di uccidere i loro genitori o a rinchiudere i loro figli in una gabbia al confine col Messico”. (Femminismo per il 99%. Un manifesto).

Per contrastare una deriva così radicale, sostiene Fraser, qualche critica puntuale qua e là non può bastare. C’è bisogno di intraprendere una battaglia intellettuale e culturale a tutto tondo, in grado di riconsegnarci strumenti di indagine adeguati per svelare il funzionamento concreto di questo nuovo capitalismo, e come questo funzionamento impatta direttamente anche sulle questioni di genere. 

Un obiettivo ambizioso, che sta alla base dell’ultima fondamentale opera  di Fraser, “Capitalismo Cannibale – come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta”.

Sulla scorta delle riflessioni di Marx e del marxismo, sostiene Fraser, abbiamo imparato a mettere a fuoco il capitalismo come sistema economico basato sulla merce e quindi sulla mercificazione del lavoro salariato fondata su un rapporto di dominio produttivo: il capitalista domina e sfrutta, il lavoratore è costretto a vendere la propria umanità sul mercato “per essere apprezzato al suo giusto valore”.

Marx, ribadisce Fraser, ha avuto il merito di essere sceso al di sotto del livello fenomenico dello scambio mercantile, rilevando che al cuore del capitalismo vi sono le imprese, cioè delle organizzazioni gerarchiche nelle quali chi mette il capitale domina e tutti gli altri sono dominati. Ma i rapporti di produzione, fondati sullo sfruttamento di molti da parte di pochi, sono solo una parte del quadro complessivo.

Perché oltre alla dimensione economica-produttiva ci sono altri rapporti di dominio che quello sfruttamento lo rendono possibile e senza i quali l’intera macchina non potrebbe funzionare. “Il capitalismo”, sottolinea lucidamente Fraser, “non è un’economia, ma un tipo di società caratterizzata da un’area di attività e relazioni economizzate distinta e delimitata da altre zone non-economizzate, da cui la prima dipende senza riconoscerle”.

La sfera della politica internazionale, ad esempio, che è caratterizzata da rapporti di dominio di tipo neocoloniale da parte del Nord Globale nei confronti del resto del mondo; o la sfera della politica, dove gli spazi di decisione e deliberazione democratica vengono sempre più ristretti e marginalizzati a favore del potere decisionale delle élites politico-finanziarie; o ancora, la sfera dell’ambiente, inteso come insieme di natura non-umana e che viene utilizzato come fucina inesauribile di risorse e sottoposto a uno sfruttamento sempre più brutale; e per finire, ovviamente, la sfera della “cura, ovvero tutto quel lavoro non retribuito senza il quale si incepperebbe tutto e che ricade quasi interamente sulle spalle del genere femminile.

Il lavoro salariato”, scrive Fraser infatti, “non potrebbe esistere in assenza del lavoro casalingo, dell’accudimento e dell’istruzione dei figli, della cura affettiva e di una miriade di altre attività che contribuiscono a creare nuove generazioni di lavoratori, a sostenere quelli esistenti e a mantenere legami sociali e visioni condivise” (Capitalismo cannibale).

Dalla sfera della produzione, magistralmente descritta ormai oltre un secolo e mezzo fa da Marx, Fraser così si allarga a quella della ri-produzione: “L’attività socio-riproduttiva”, scrive Fraser, “è assolutamente necessaria per l’esistenza del lavoro salariato, per l’accumulazione di plusvalore e per il funzionamento del capitalismo in quanto tale”.

Sebbene l’economia capitalistica non riconosca alle attività di sostentamento, di cura e di interazione che producono e mantengono i legami sociali alcun valore monetario e le tratti come se fossero gratuite, in realtà ne è totalmente dipendente. L’occultamento del ruolo essenziale di tutte queste attività è in larga parte dovuto al loro essere state forzatamente relegate in una sfera privata, distinta dalla sfera economica e sociale propriamente detta.

La lunga battaglia che ha attraversato il XX secolo è consistita in buona parte invece proprio nel loro riconoscimento e nella rivendicazione che a farsene carico fosse sempre di più lo stato, attraverso la fornitura di quelli che oggi chiamiamo servizi pubblici essenziali: dall’istruzione alla sanità.

In questo modo queste attività uscivano dalla sfera privata, senza però essere trasformate in merce.

La controrivoluzione neoliberista in buona parte consiste proprio nel riportare indietro le lancette della storia che marciavano spedite verso la sempre crescente soddisfazione di questi bisogni primari da parte della collettività e delle sue istituzioni.

Tutto quello che è cura, cessa così di essere riconosciuto nel suo valore sociale di precondizione essenziale alla produzione stessa, e da responsabilità collettiva torna ad essere responsabilità privata.

Ed è proprio nelle modalità in cui avviene questa ri-privatizzazione di queste funzioni sociali essenziali che si gioca tutto lo scontro di facciata tra le due facce della stessa medaglia del dominio capitalistico contemporaneo, quella fintamente progressista, e quella realmente reazionaria: dove quella reazionaria mira semplicemente a ristabilire le vecchie gerarchie in ambito domestico, con la donna che torna all’acquaio, quella fintamente progressista mira a trasformare anche queste funzioni ri-privatizzate in merce, con donne e uomini che molto progressivamente e senza discriminazioni si devono spaccare la schiena entrambi 12 ore al giorno per affidare la cura dei loro cari a qualche azienda privata, possibilmente di proprietà di qualche fondo speculativo.

Il femminismo liberale, in sostanza, è proprio per questo che si batte ed è per questo che trova nel grande capitale all’affannosa ricerca di nuovi spazi dove essere impiegato in modo profittevole e garantito uno sponsor entusiasta. Ed ecco così spiegato, continua Fraser, come una parte del movimento femminista sia diventato “ancella del capitale”: concentrandosi solo su una delle sfere del dominio (quello della discriminazione di genere), ha spalancato la porta ad altre forme ancora più feroci.

E, sostiene Fraser, tutto sommato anche insostenibili.

Da un lato”, scrive infatti Fraser, “la produzione economica capitalista non è autosufficiente, ma dipende dalla riproduzione sociale; dall’altro, la sua spinta a un’accumulazione illimitata minaccia di destabilizzare proprio i processi e le capacità riproduttive di cui il capitale e noi tutti abbiamo bisogno”.

L’effetto”, sottolinea Fraser, “è quello di mettere periodicamente a rischio le necessarie condizioni sociali dell’economia capitalistica stessa”.

Per farci capire meglio questa contraddizione, Fraser ci fa pure, diciamo così, un disegnino. L’uroboro infatti è un simbolo rappresentante un serpente o un drago che si morde la coda.

Distruggendo le proprie condizioni di possibilità”, sostiene Fraser, “la dinamica di accumulazione del capitale imita l’uroboro e si mangia la sua stessa coda”.

Capita la minaccia, però, ora occorre trovare anche il rimedio. E il rimedio, secondo Fraser, si chiama Socialismo. Però, precisa, un Socialismo del XXI secolo

Per la filosofa, infatti, il socialismo del XXI secolo “Deve de-istituzionalizzare le molteplici tendenze alla crisi: non «solo» quella economica e finanziaria, ma anche quella ecologica, quella socio-riproduttiva e quella politica.

Occorre quindi andare oltre la sola prospettiva economica e smascherare in un colpo solo l’ideologia del capitale, che separa le sfere del sociale, occultando la loro importanza come precondizioni per lo sfruttamento economico, ma anche quella di un certo socialismo, che si concentra solo sulle aree di crisi economiche, trascurando le altre.

La proposta di Fraser è di invertire il rapporto gerarchico tra economia e politica: “Un socialismo per il XXI secolo deve democratizzare il processo di progettazione istituzionale, rendendo il contenuto e la portata dei diversi ambiti sociali una questione politica. In breve”, scrive, “ciò che il capitalismo ha deciso per noi alle nostre spalle dovrebbe essere scelto da noi attraverso un processo decisionale collettivo e democratico”.

L’autrice immagina un sistema decisionale in cui il mercato e la proprietà privata non svolgano più un ruolo di direzione. “Qualsiasi cosa venga deciso”, scrive, “dovrà essere fornito per effetto di un diritto e non solo sulla base della capacità di pagare

Non si tratta di disconoscere o mortificare aprioristicamente il mercato come strumento per la corretta allocazione delle risorse, anzi: “Una volta che il vertice e la base saranno socializzati e de-mercificati”, sottolinea infatti Fraser, “la funzione e il ruolo dei mercati nel mezzo si trasformeranno” e in questa “zona intermedia”, sarà possibile sperimentare liberamente tra diverse alternative. Accanto a forme cooperative o autogestite, anche i mercati potranno trovare un loro spazio, mettendosi a questo punto a disposizione dell’interesse generale, e non in contrapposizione ad esso.

Da questo punto di vista, il femminismo della Fraser, appunto, non è altro che un fondamentale tassello della battaglia a tutto campo che sempre di più vede contrapposte le ristrettissime oligarchie del nord globale a tutto il resto del pianeta.

Un femminismo, appunto, per il 99%

Per chi vuole approfondire, come sempre, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 27 Settembre a partire dalle 21 in diretta su OttolinaTV.

Oltre alla solita crew di Ottosofia, stasera saranno con noi, Anna Cavaliere, ricercatrice di Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Salerno, e Luca Baccelli, professore di Filosofia del Diritto all’Università di Camerino.

Nel frattempo, se anche tu sei convinto che per contrastare lo strapotere mediatico delle oligarchie e dell’1% servirebbe come il pane un vero e proprio media che dia voce al 99, aiutaci a costruirlo.

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E chi non aderisce è Chiara Ferragni.