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Trump, Le Pen, AFD: abbiamo finalmente un’alternativa?

Oh! Finalmente quando ci saranno Trump, Le Pen e Alternative fur Deutschland, quegli ipocriti dei progressisti globalisti la finiranno di fare guerre e di seminare il terrore in giro per il mondo; l’imperialismo dei finti buonisti è finalmente sconfitto e il popolo e la democrazia stanno per trionfare! Ce l’avrete sicuramente anche voi quell’amico un po’ speciale che, da una parte, si dichiara anti-sistema e dice di essere per la democrazia e gli interessi classi popolari e, dall’altra, esulta per tutte le vittorie elettorali della peggiore destra identitaria solo perché almeno non hanno vinto i Biden, i Macron o gli Scholz di turno (che culo!) o che, addirittura, vagheggia di improbabili alleanze tra le destre suprematiste del pianeta e le forze socialiste in nome della comune lotta al capitalismo e alla globalizzazione. Ora, se fino a qualche anno fa allucinazioni di questo tipo erano quantomeno scusabili – data l’assoluta egemonia culturale del progressismo liberale che poteva davvero far pensare ad un nemico comune – oggi invece potrebbero dimostrarsi dei deliri estremamente pericolosi perché, come si sottolinea anche in un recentissimo studio dell’istituto di scienze sociali tedesco Tricontinental, una nuova forma di destra sembra prendere sempre più piede nella politica occidentale; una destra tanto diversa dalla destra liberale e finto conservatrice a cui ci eravamo abituati negli ultimi decenni, quanto dalla destra fascista del ‘900, con la quale pure sembrare mostrare qualche inquietante analogia. Una destra, insomma, in gran parte inedita, ben rappresentata da Trump e dai suoi imitatori europei che oggi fanno il pieno alle urne e che, contrariamente al wishful thinking di qualche compagno sui generis, non sembra avere nessuna intenzione di mettere in discussione i rapporti di forza oligarchici nelle nostre società, né di porre fine alla volontà di dominio dell’Occidente sul resto del mondo. Insomma: proprio nulla di anti-sistema; una destra, anzi, che agli occhi delle tanto detestate élite transnazionali potrebbe rivelarsi particolarmente funzionale alla nuova fase storica che stiamo vivendo, tanto che potrebbe essere capace di imporre, nei prossimi anni, una vera e propria nuova egemonia culturale. Perché, per chi non se ne fosse accorto, da qualche anno siamo entranti in una nuova fase della storia mondiale: quella fase in cui a causa della straordinaria crescita della Cina, della ritrovata potenza russa e dall’organizzazione del Sud globale in un blocco sempre più coeso, l’Occidente americano si è visto costretto a dichiarare guerra al resto del mondo per conservare la propria egemonia; una guerra destinata a durare a lungo, già caldissima sul piano economico e probabilmente sempre più calda sul piano militare, senza possibilità di prevedere fino dove arriverà l’escalation.

Ecco: in questo clima di guerra, come sottolinea giustamente anche il Tricontinental, la cara vecchia egemonia culturale liberale dominante in Occidente negli ultimi 40 anni, fondata in gran parte su valori universalistici e umanitari, sull’individualismo consumistico e sul rifiuto delle identità tradizionali, sembra destinata a lasciare il passo a ben altre culture e valori – molto più adatti al nuovo clima di ostilità e conflitto – e alle nuova esigenza fondamentale delle oligarchie dell’impero, ossia quella di ritrasformare le nostre società in società di guerra, società, cioè, nelle quali saranno richiesti sempre maggiori sacrifici individuali in nome della difesa comune dell’Occidente e in cui i diritti sociali e civili saranno sempre più spesso negati in nome dell’interesse collettivo. E ancora, società nelle quali per mantenere il consenso tra la popolazione, nonostante tutte queste nuove privazioni, l’Occidente dovrà rispolverare valori comunitaristi, identitari e, soprattutto, fortemente bellicisti e suprematisti. La propaganda infatti – e questo è forse il punto fondamentale per capire la nuova egemonia culturale di destra che si sta affacciando all’orizzonte – tenterà di venderci la guerra che gli Stati Uniti hanno deciso di dichiarare al resto del mondo per mantenere la propria egemonia ed impedire la nascita di un nuovo ordine multipolare, come il solito scontro di civiltà: la guerra che la civiltà occidentale è già – suo malgrado – costretta a combattere per difendersi da sanguinari dittatori e fondamentalisti religiosi senza scrupoli (Palestina docet): ed ecco quindi perché la cultura politica della destra identitaria e xenofoba – una volta abbandonata ogni pericolosa retorica sovranista e nazionalista ed abbracciata in pieno quella del puro suprematismo occidentale identificandosi pienamente con i confini dell’Impero degli Usa – sembra essere particolarmente funzionale a questo scopo.
Nei prossimi anni insomma, se (come prevede il Tricontinental) questa nuova destra prenderà il potere, non dovremo più aspettarci la cara vecchia retorica a cui ci avevano abituato in questi anni sull’umanitarismo, la globalizzazione e la necessità di superare muri e confini, ma pura propaganda di guerra, incentrata sulla superiorità della civiltà occidentale e sulla necessità di difenderla a tutti i costi, anche costo di vedere i salari diminuire, a costo di limitare qualche “eccesso democratico” e a costo di chiudere qualche canale di informazione indipendente che puzza un po’ troppo di propaganda anti – occidentale. Per farvi un’idea di quello che ci aspetta e di come veda il mondo questa gente poco rassicurante (che però gliela farà vedere una volta per tutte a quei guerrafondai dei progressisti), basta tenere a mente le parole usate da Trump, Le Pen o anche dei nostri giornali di destra per commentare lo sterminio di massa in corso a Gaza: non ipocrisia e doppio standard, come tra i tanto odiati sinistroidi, ma proprio soddisfazione e malcelata esaltazione per le bombe democratiche israeliane sulle famiglie palestinesi. Ecco: e voi pensate che questa gente avrà un atteggiamento differente quando, invece che le donne e bambini di Gaza, sotto le bombe occidentali ci saranno le famiglie iraniane,venezuelane o cinesi? In questo video ipotizzeremo alcune caratteristiche fondamentali della nuova destra del prossimo decennio, del perché non sembra avere assolutamente nulla di anti – sistema e del perché, anzi, la sua cultura politica identitaria e suprematista sembra essere particolarmente funzionale alle oligarchie in questa nuova fase di guerra dell’Occidente americano contro il resto del mondo. E infine, come sottolinea la ricerca del Tricontinental, vedremo come tutto questo non sia in fondo che il naturale e fisiologico sbocco delle politiche e della cultura neoliberista degli ultimi decenni.
Fino ad oggi, i partiti di centro – destra potevano essere considerati come la semplice variante finto – sovranista e finto – conservatrice del partito unico neoliberista, sostanzialmente intercambiabili con la sinistra ZTL e utili a portare alle urne le fasce più anziane della popolazione e i più sospettosi nei confronti di nuove mode e costumi. Ma in questa nuova fase di conflitto tra l’Occidente americano e popoli sovrani del Sud globale, in tutto l’Occidente le destre identitarie e xenofobe sembrano pian piano prendere il posto del vecchio centro – destra liberale e potrebbero assumere un ruolo molto più importante e decisivo: le élite economiche occidentali infatti, avendo la necessità si trasformare nuovamente le nostre società in società di guerra, potrebbero aver trovato nell’estrema destra, come già successo in passato, loro nuova espressione politica e culturale di riferimento; come si sottolinea nella ricerca del Tricontinental infatti, già negli anni 20 e 30 del ‘900 la destra autoritaria, che prese il nome di fascismo, nacque dalle contraddizioni – o, se vogliamo, dalle stesse premesse – delle società liberali a capitalismo avanzato. Come vi ricorderete, terrorizzate dalla minaccia socialista, in quell’occasione le oligarchie economiche europee appoggiarono entusiaste fascismi di ogni genere e tipo per proteggere i propri interessi dalle rivendicazioni dei lavoratori e mantenere così saldi i propri privilegi. Oggi la situazione sembrerebbe essere simile, ma anche molto diversa: la minaccia per le élite occidentali non viene più dall’interno, dato che 40 anni di rincoglionimento di massa neoliberista hanno tagliato alla radice anche solo la possibilità che nasca una qualche forza rivoluzionaria, ma dall’esterno; da paesi che (al contrario dei governi europei) tengono alla loro libertà e sovranità, che rappresentano ormai quasi l’80 per cento della popolazione mondiale e che oggi sono abbastanza organizzati da non accettare più le imposizioni di Washington. Per questo, scrivono gli autori della ricerca, differentemente dagli anni 20 e 30 del novecento, le oligarchie oggi non hanno bisogno di smantellare la Costituzione, di dichiarare fuori legge partiti scomodi e mandare in galera gli oppositori politici – e, insomma, di cambiare l’assetto giuridico politico fondamentale delle democrazie liberali in un assetto strettamente dittatoriale e autoritario per reprimere con la forza il dissenso. Anzi! Questo assetto – ormai svuotato di qualsiasi valore sostanziale a causa della concentrazione capitalistica di ricchezza e potere – nonostante forse qualche necessario aggiustamento, può ancora essere in gran parte garantito, con il vantaggio di meglio nascondere le strutture economico – finanziarie che contano proprio dietro le procedure ormai puramente estetico – rituali della democrazia, nonché come ottime armi di propaganda interna per convincerci della nostra superiorità morale sul resto del mondo.
“Per prima cosa” si legge nello studio “bisogna prendere atto che in quei paesi con Costituzioni che pure danno rilievo alle elezioni multipartitiche, si è assistito sempre più alla graduale instaurazione di quello che è effettivamente un regime monopartitico. Questa regola del partito unico può talvolta essere mascherata dall’esistenza di due o anche tre partiti, celando la realtà che la differenza tra questi partiti è diventata sempre più trascurabile.”; “In questo contesto” continua “si sta verificando uno slittamento verso destra. Di un nuovo tipo di destra che è emerso non solo attraverso le elezioni, ma anche esercitando il dominio nelle arene della cultura, della società, dell’ideologia e dell’economia. Questo nuovo tipo di destra non è necessariamente interessato a rovesciare le norme della democrazia liberale, e ha permesso per questo un suo intimo abbraccio con le forze liberali.” Svuotamento sostanziale della democrazia, concentrazione oligarchica del potere e della ricchezza e sfruttamento del lavoro sono, in fondo, il terreno comune sui cui liberalismo e estrema destra si sono da sempre trovati d’accordo e il motivo per il quale, in passato, le società capitaliste sono facilmente passate da un assetto politico più liberale ad un più sfacciatamente autoritario, cambiando la nomenclatura del potere economico e adattandosi al meglio alle esigenze storiche del momento; nelle società neoliberiste occidentali degli ultimi 40 anni, poi, questo terreno comune è diventato estremamente evidente e rischia di diventarlo ancora di più: “Per prima cosa, le forze politiche liberali e l’estrema destra” scrivono gli autori della ricerca “sono entrambe state impegnate su tutta la linea per diminuire la presa della sinistra sulle istituzioni”. “E senza un serio impegno nei confronti del benessere sociale e dei programmi ridistributivi, il liberalismo ha deragliato nel mondo delle politiche di estrema destra, finendo tra le altre cose per aumentare le spese per l’apparato repressivo interno che sorveglia i quartieri operai e le frontiere internazionali”; “Anche in politica estera,” continua il report “nei paesi imperialisti c’è stata e c’è una confluenza molto alta tra liberali ed estrema destra sul mantenimento dell’egemonia americana, l’ostilità e il disprezzo per il Sud globale e un aumento dello sciovinismo, come si vede dal sostegno militare totale al genocidio che Israele sta conducendo contro i palestinesi”. Insomma: quello che ci dice il Tricontinental è che, per quanto ci faccia male dircelo, le nostre amate ex democrazie (presto ex liberali) sono in verità già da molto tempo – nella struttura oligarchica, predatoria e imperialista del potere economico politico – di estrema destra.
La novità, però, è che con la fine della pace e l’entrata in questa nuova fase storica di conflitto tra potenze, la narrazione politica e culturale liberale progressista (dietro alle quale, fino a poco tempo fa, venivano mascherati tutti questi processi di smantellamento sostanziale della democrazia e libertà sociali) potrebbe essere diventata di intralcio e potrebbe lasciare il posto ad un’egemonia culturale e politica sfacciatamente identitaria, xenofoba e suprematista, maggiormente capace di legittimare nella popolazione la postura di guerra dell’Occidente contro il resto del mondo e far meglio digerire tutti i sacrifici che verranno richiesti in nome della presunta difesa collettiva. Come scrive anche Mimmo Porcaro in un suo interessantissimo articolo dedicato a Costanzo Preve “Da tutto questo consegue che sul piano culturale e filosofico il nemico principale non è più semplicemente (se mai lo è stato) l’individualismo progressista” – come molti ancora continuano a pensare esultando per la vittoria di Trump, gli scarsi risultati di Macron e sognando improbabili alleanze tra forze identitarie e neosocialiste – “ma” continua Porcaro “la complementarietà tra il progressismo liberale e il comunitarismo di destra”, una complementarietà che perdura in questa fase di transizione di sostanziale conflitto militare a bassa intensità tra grandi potenze e che potrebbe, però, presto lasciare spazio ad un monologo della destra identitaria qualora gli animi si scaldassero, la guerra aumentasse di intensità e i sacrifici richiesti ai lavoratori occidentali aumentassero. Quello che dobbiamo tenere a mente è, però, che il nuovo tipo di destra che si appresterebbe quindi a diventare il nuovo referente politico e culturale privilegiato dalle élite occidentali si presenta alla storia con alcune caratteristiche politiche inedite, come inedito, del resto, è il contesto geopolitico che stiamo vivendo; sbagliato, pertanto, sarebbe applicare automaticamente le stesse categorie politiche utilizzate per comprendere le destre e i fascismi novecenteschi. Ad esempio, l’identità e comunità di riferimento non può più evidentemente essere quella nazionale; da sempre, infatti, negli imperi le retoriche nazionaliste vengono demonizzate e combattute in quanto mettono inevitabilmente in discussione l’autorità del potere del centro dell’impero; e quindi, nel nostro caso, non più nazionalismo, ma occidentalismo e – come abbiamo visto nel caso dell’Ucraina e come vediamo adesso con Israele – un’imposta identificazione culturale e politica con tutti i paesi considerati alleati di Washington. Per la propaganda, la nostra nuova nazione sono i confini dell’Occidente – e i confini dell’Occidente con i paesi satelliti degli Usa, compresi quelli nel Medio Oriente e nel Pacifico.
Un’altra caratteristica di questa nuova destra che possiamo tentare di ipotizzare è che che non verranno messe in discussione, soprattutto sul piano ideologico, le procedure ritualistiche democratiche, né l’assetto liberaloide dello Stato, che tanto già consentono – con le loro maglie larghe – massima concentrazione del potere e massima censura e repressione in caso di necessità; sul piano dei diritti, è verosimile che non verranno toccati i diritti civili delle minoranze oggi più protette – come i diritti delle donne e le minoranze di genere – e, al tempo stesso, implementate misure sempre più stringenti di controllo e censura, ad esempio nei media e nell’informazione (che ci faranno sembrare il buon vecchio soft power un dolce ricordo). Sul piano dei diritti sociali (come sottolineavamo in precedenza), data la condizione emergenziale data dallo stato di guerra, possiamo prevedere nuovi tagli al welfare e ai salari venduti come patriottici sacrifici per la difesa collettiva. Infine i caratteri conservatori – identitari della nuova destra potrebbero non essere diretti tanto in chiave xenofoba nei confronti delle minoranze interne che vivono in Occidente (la cui forza lavoro e integrazione nella società di guerra, con processi di sempre maggiore assimilazione, sarà comunque necessaria), ma contro tutti i popoli sovrani non allineati che l’Occidente dovrà cercare di schiacciare e con un’inevitabile crescente razzismo nei confronti del regime cinese e del suo popolo. Insomma: ci sarà da divertirsi.
Queste sono solo alcune ipotesi; nei prossimi mesi torneremo ancora ed ancora su questo argomento, con video e interviste che meglio ci permetteranno di analizzare il fenomeno di questa nuova destra e di aggiornare le nostre categorie politiche alla luce degli straordinari cambiamenti geopolitici in atto. Chi rimane indietro, infatti, non solo è perduto, ma rischia di combattere un mondo che non esiste più e, a causa della disperazione per l’oggettiva mancanza di una reale alternativa politica che rappresenti gli interessi italiani, europei e del 99%, di scambiare i nemici con gli amici. E se anche tu vuoi aiutarci a costruire un media che porti avanti questa elaborazione intellettuale e politica e che ti racconti il mondo dagli occhi degli interessi del 99%, allora aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Donald Trump

La guerra tecnologica è un flop: perché gli USA sono costretti a tornare a mediare con Pechino

La guerra tecnologica che gli USA hanno ingaggiato contro la Cina si sta rivelando un flop ancora più grande delle sanzioni e la guerra per procura contro la Russia, ben oltre ogni più pessimistica previsione: secondo un recente rapporto della Banca Federale di New York, se “i controlli sulle esportazioni per negare alla Cina l’accesso alle tecnologie strategiche” effettivamente ha comportato una fuga dai rapporti con la Cina delle aziende USA, allo stesso tempo però non si è verificato nessun fenomeno consistente di “reshoring o di friend shoring”; il risultato quindi, in soldoni, è stato molto banalmente che “I fornitori americani interessati hanno registrato in media 857 milioni di perdite in termini di capitalizzazione, con perdite totali di tutti i fornitori di 130 miliardi di dollari”. Oltre che alla capitalizzazione, le perdite sono sensibili anche in termini “di ricavi, redditività” oltre che “un calo significativo dell’occupazione” e non è che succede perché investono meno, eh? Anzi: gli investimenti corrono (tanto il grosso viene rimborsato come credito fiscale con soldi pubblici), solo che, con sempre meno rapporti con la Cina e nessuno che è in grado di sostituirla, i soldi investiti rendono decisamente meno. Insomma: per far dispetto alla moglie gli statunitensi si stanno allegramente martellando gli zebedei e la moglie, intanto, ha trovato nuove fonti di piacere; mentre le aziende USA, infatti, perdono un sacco di quattrini “Le aziende non statunitensi che attualmente forniscono beni alle aziende cinesi prese di mira dalle sanzioni sperimentano un aumento dei ricavi e della redditività consistenti” e la stragrande maggioranza di queste aziende non statunitensi sono – ovviamente – proprio cinesi. Insomma: un successone, come dimostra in maniera plateale il caso Huawei; Huawei è tornata a ruggire” titolava venerdì Il Giornanale. “Due anni fa era a un passo dal fallimento” ricorda l’articolo; “Ora il fatturato vola grazie agli smartphone che divorano le vendite cinesi di Apple e l’utile balza a 7 miliardi di euro”. E Huawei è solo la punta dell’iceberg: come scrive Asia Nikkei, ad esempio, “Per il produttore cinese di cavi sottomarini Wuhan FiberHome International Technologies, essere banditi dal governo degli Stati Uniti non è nulla di cui preoccuparsi. In effetti, è stato positivo per gli affari”; per reagire alle sanzioni infatti, sottolinea ancora l’articolo, “Pechino ha iniziato a impegnarsi per diventare autosufficiente nella tecnologia dei cavi sottomarini, aumentando così a dismisura gli ordini nei confronti di produttori nazionali come FiberHome”.

Xi Jinping

Ciononostante, gli USA non sembrano avere strategie alternative e continuano a rilanciare con la stessa moneta; il problema è che, come ampiamente prevedibile, la guerra per procura in Ucraina è un disastro ed è in buona parte un disastro perché le sanzioni contro la Russia non funzionano; e le sanzioni contro la Russia non funzionano perché, in qualche misura, il mondo è già multipolare e – a parte gli alleati vassalli più stretti – di quello che decidono a Washington ormai in buona parte del mondo, molto banalmente, non gliene frega una seganiente, ben oltre quanto si immaginassero tutti i media mainstream. Dopo 2 anni di fallimento totale delle sanzioni, infatti, a inizio 2024, quando gli USA hanno introdotto nuove sanzioni che – sulla carta – dovrebbero essere molto più restrittive, per settimane sui giornaloni di quelli studiati (come abbiamo riportato decine di volte su Ottolina Tv) non si faceva che annunciare l’inevitabile prossima resa delle aziende cinesi, che non avevano nessuna intenzione di mettere a repentaglio il loro business per salvare il culo ai russi; purtroppo per loro però, esattamente come nei due anni precedenti, questa profezia s’è rivelata totalmente infondata e i rapporti commerciali tra Russia e Cina sono continuati a crescere, e oggi vengono effettuati per il 90% direttamente in rubli o yuan. Ecco allora che gli USA ricorrono a una strategia innovativa e vincente: altre sanzioni; recentemente gli USA hanno allungato la blacklist delle aziende appestate di oltre 400 nuovi nomi e i cinesi, dopo i russi, fanno ovviamente la parte del leone. Un bel po’ di aziende – a partire dai produttori californiani di macchinari per la produzione di chip come Applied Materials e LAM – si sono leggerissimamente risentite: “Chiediamo di sospendere ulteriori controlli unilaterali sulle esportazioni fino a quando non si sarà adeguatamente provato che tali controlli non danneggeranno la competitività degli Stati Uniti nei semiconduttori avanzati e nelle apparecchiature per la produzione di semiconduttori” hanno mandato a dire a Rimbambiden tramite i parlamentari democratici californiani. E il crollo dei volumi d’affari in quello che era, fino a poco tempo fa, in assoluto il principale mercato per tutti questi produttori è solo una parte del problema; l’altra è che, a un certo punto, la Cina ha cominciato a reagire e ha risposto a controlli e limitazioni con altri controlli e limitazioni. E siccome, tutto sommato, l’economia USA dipende da quella cinese molto di più di quanto quella cinese dipenda da quella USA, questo tiro alla fune potrebbe rivelarsi essere una strategia non esattamente vincente. In principio era stato il turno del gallio e del germanio e, cioè, due materie prime fondamentali proprio per l’industria dei semiconduttori; a luglio del 2023 la Cina aveva introdotto alcune restrizioni e i prezzi erano esplosi, arrecando un danno considerevole proprio ai produttori USA e dei suoi alleati. A ottobre di quest’anno la Cina poi è tornata a rilasciare un po’ di licenze per l’esportazione, ma i prezzi sono rimasti elevati : come ricorda sempre Asia Nikkei “Martedì scorso il prezzo di riferimento per il gallio destinato ai mercati occidentali era di 525 $ al chilogrammo, in aumento dell’86% rispetto alla fine di giugno 2023” ; il punto è che i produttori stanno facendo scorte perché hanno capito che la Cina ha il potere di governare il mercato come più l’aggrada e temono che – con gli USA che continuano come degli automi a ricorrere alle sanzioni nonostante gli effetti nefasti – la reazione cinese più prima che poi è destinata a rifarsi sentire.
Per provare a calmare un po’ le acque, dopo 8 anni di assenza l’altra settimana un consigliere per la sicurezza nazionale USA è tornato a Pechino; durante gli incontri che Jake Sullivan ha tenuto col ministro degli esteri Wang Yi prima e con Xi Jinping poi, ovviamente la guerra delle sanzioni ha ricoperto un ruolo di primo piano. La formuletta di Sullivan è sempre la solita: le nostre sanzioni hanno come unico obiettivo quello di evitare che nostra tecnologia favorisca il rafforzamento militare di altri; non abbiamo intenzione di colpire l’economia cinese, ma solo di garantire la sicurezza USA. La risposta cinese è chiara: come scrive il Global Times infatti, “Non è un segreto che anche il germanio e il gallio possono essere utilizzati per componenti di uso militare” e quindi, se continuate a farci la guerra tecnologica con la scusa della sicurezza nazionale, abbiamo già la giustificazione pronta per reagire come si deve. Il problema di fondo è che, come sottolineava qualche mese fa un rapporto dell’azienda di software per la difesa Govini, gli USA si riempiono la bocca di decoupling e derisking, ma poi sono totalmente dipendenti dalle forniture cinesi anche per l’industria militare stessa: “Innanzitutto”, riassumeva Forbes commentando l’articolo, “oltre il 40% dei semiconduttori che sostengono i sistemi d’arma del Dipartimento della Difesa e le infrastrutture associate provengono ora dalla Cina. In secondo luogo, dal 2005 al 2020, il numero di fornitori cinesi nella catena di fornitura dell’industria della difesa statunitense è quadruplicato. E in terzo luogo, tra il 2014 e il 2022, la dipendenza americana dall’elettronica cinese è aumentata del 600%”. La guerra degli USA alla Cina, necessariamente, si fonda sulla proiezione nel mare: secondo Govini, per fare un esempio, le portaerei della classe Ford hanno a bordo oltre 6000 componenti cinesi. Ci siamo scervellati per mesi su come le portaerei fossero ormai vulnerabili di fronte all’arsenale di missili ipersonico cinese; in realtà, per affondarle non avrebbe bisogno di sparare nemmeno mezzo colpo: per poter sfruttare al meglio il suo incontrastato potere sul mercato delle terre rare (che sono un po’ il petrolio cinese), a fine giugno la Cina ha emanato una nuova legge che rafforza il monopolio dello Stato. “Nessuna organizzazione o individuo può invadere o distruggere le risorse di terre rare” recita il testo; la gestione delle risorse di terre rare “dovrà attuare le linee, i principi, le politiche, le decisioni e gli accordi del Partito [Comunista cinese] e dello Stato … e seguire i principi della pianificazione generale, garantendo sicurezza, innovazione scientifica e tecnologica e sviluppo verde” conclude. Mentre per ora su gallio e germanio (dei quali la Cina controlla oltre il 90% della produzione) Pechino ha deciso di allentare un attimo i cordoni, nelle ultime settimane a far parlare di se è stato l’antimonio, un minerale utilizzato principalmente come ritardante di fiamma nei veicoli e nell’elettronica: nonostante, in questo caso, la Cina controlli un po’ meno del 50% del mercato globale, l’annuncio delle restrizioni ha fatto lievitare il prezzo del 5% in 24 ore, portandolo a 25 mila dollari a tonnellata – e cioè più del doppio del prezzo registrato ancora a dicembre. Ovviamente, per tutti questi materiali, gli USA e anche gli alleati vassalli da un po’ di tempo a questa parte stanno cercando affannosamente di recuperare il tempo perduto, ma potrebbe essere più complicato del previsto: “Nuove catene di approvvigionamento minerario” scrive sempre Forbes “non sono solo una questione di aumento dell’estrazione mineraria; richiedono un intero ecosistema di sistemi di raffinazione, lavorazione e produzione, tutti costosi e che richiedono molti anni per essere costruiti”.
E le terre rare non sono l’unica materia prima che rischia di farci perdere la competizione con la Cina: l’allarme più grosso, infatti, potrebbe riguardare la conoscenza: a lanciarlo è, dalle pagine di Foreign Affairs, Amy Zegart, professoressa a Stanford e voce autorevole dell’Hoover Institution diretto da Condoleeza Rice; “Il potere non è più quello di una volta” riflette, e “i Paesi traggono sempre più potere dalle risorse immateriali”, ma “Secondo il Program for International Student Assessment, che valuta i quindicenni di tutto il mondo, nel 2022 gli Stati Uniti si classificavano al 34° posto in termini di competenza media in matematica, dietro a Slovenia e Vietnam”. “Più di un terzo degli studenti statunitensi” continua “ha ottenuto punteggi inferiori al livello di competenza matematica di base, il che significa che non possono confrontare le distanze tra due percorsi o convertire i prezzi in valute diverse”; d’altronde, essendo il paese che per primo – insieme al Regno Unito – ha abbracciato le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista, c’era da aspettarselo. Fino ad oggi, comunque, gli USA hanno rimediato a questa lacuna strutturale (che, per essere invertita, richiederebbe di trasformare profondamente l’intera società statunitense) con il drenaggio dei cervelli: significa che i Paesi civili del mondo investono una marea di risorse per la formazione di base dei loro cittadini e poi i pezzi migliori se li prendono gratis gli USA grazie ai colossi della formazione universitaria privata; ecco così che, nel 2022, solo il 32% dei dottorati in informatica erano cittadini USA. “Il primato degli Stati Uniti nell’attrarre talenti da tutto il mondo” sottolinea la Zegart “è un vantaggio enorme. Quasi il 45% di tutte le aziende Fortune 500 nel 2020, tra cui Alphabet, SpaceX e il gigante dei chip NVIDIA, sono state fondate da immigrati di prima o seconda generazione. E circa il 40% degli americani premiati con il premio Nobel in campo scientifico dal 2000 sono nati all’estero”. Insomma: un’altra forma di neocolonialismo bell’e buona che, però, comincia a scricchiolare; le politiche restrittive sull’immigrazione – che tanto peso hanno nel successo politico di Trump – stanno demolendo questo meccanismo dall’interno e la concorrenza si comincia a sentire. Nel 2022, per la prima volta, a conquistare il gradino più alto della classifica della produzione scientifica è stata la Cina; a penalizzare gli USA è anche il fatto che sì, in termini assoluti si continua a investire più che altrove in ricerca e sviluppo, ma il grosso di quell’investimento è in mano ai privati che, invece che fare ricerca di base e quindi porre i fondamenti per le grandi innovazioni del futuro, si limitano a ricercare quello che gli può fare aumentare i profitti nel trimestre successivo o – ancora meglio – l’andamento in borsa. Ecco, così, che i finanziamenti federali complessivi per la ricerca (in percentuale del PIL) negli USA sono diminuiti dal picco dell’1,9% nel 1964 ad appena lo 0,7% nel 2020, mentre in Cina superano l’1,3%.
Insomma: dalla loro guerra tecnologica contro la Cina gli USA, ad oggi, non sembrano aver ottenuto neanche lontanamente i risultati sperati e in futuro potrebbe andare molto, ma molto peggio (e forse non siamo i soli ad essercene accorti): tra gli schiaffi in Ucraina e i pessimi risultati della guerra tecnologica contro la Cina, che questa prima fase della grande guerra contro il resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare sia stata un fallimento è ormai opinione piuttosto diffusa anche tra gli strati profondi del potere statunitense; d’altronde, il benservito a Biden deriva anche da qua. Se non si può ancora parlare di una vera e propria ritirata strategica, perlomeno di un piccolo arretramento per provare a riorganizzare le fila sicuramente sì; e la sfida tra la Harris e Trump fondamentalmente è una sfida per decidere come debba avvenire questa riorganizzazione e a quali interessi specifici debba rispondere. Ovviamente però, dal momento che siamo in campagna elettorale, distinguere la fuffa dalle cose concrete è tutt’altro che semplice: come è ben noto, Trump si sta giocando la carta dell’isolazionismo, come se l’isolazionismo fosse un’opzione realistica per un impero globale che dipende per almeno due terzi della sua ricchezza dal saccheggio sistematico del resto del pianeta. La retorica di Trump è piuttosto chiara: meno inutili guerre guerreggiate e più guerra economica alla Cina; durante la sua prima amministrazione, la media dei dazi sui prodotti cinesi passò dal 3% al 19%, un aumento che comportò una bolletta per le tasche degli statunitensi pari allo 0,3% del PIL e fu comunque sufficiente a fare imbufalire parecchi settori dell’economia americana – a partire dagli agricoltori. Ora la proposta di Trump è aumentare quella soglia dal 19 al 50%, che comporterebbe una nuova bolletta che il Peterson Institute quantifica attorno al 2% del PIL; probabile che non tutti la vedano proprio di buonissimo occhio. I democratici, allora, hanno risposto con la nomina a candidato per la vicepresidenza di Timothy Walz: dal 2019 è il governatore del Minnesota, che è uno degli Stati USA dove la lobby degli agricoltori che si sono opposti alla politica dei dazi di Trump è più forte; Walz è un profondo conoscitore della Cina, dove si è recato la bellezza di 30 volte. E’ anche un critico feroce della Cina per tutto quello che riguarda la retorica sui diritti umani, ma sul versante dei rapporti commerciali ha la reputazione, appunto, di essere decisamente più pragmatico: è quello che si augura ad esempio, su Project Syndicate, Stephen Roach, l’ex presidente di Morgan Stanley Asia noto tra l’altro per un importante testo del 2014 dal titolo La co-dipendenza di America e Cina dove, appunto, perorava la causa di una governance economica più condivisa tra le due grandi potenze. Potrebbe essere Kamala Harris la prossima Richard Nixon? è il titolo dell’articolo: il riferimento, ovviamente, è alla grande svolta di Nixon del 1972 che aprì la strada a un nuovo ciclo di relazioni costruttive tra USA e Repubblica Popolare Cinese; “Nonostante Walz sia sempre stato un falco sulle questioni inerenti i diritti umani” sottolinea appunto Roach “ha anche sottolineato l’importanza di una relazione sostenibile tra Stati Uniti e Cina, sostenendo che il dialogo è essenziale e deve avvenire assolutamente. In altre parole” si augura Roach “porterebbe un pragmatismo che manca gravemente nella posizione sempre più sinofobica dell’America nei confronti della Cina”. Ovviamente il parallelo con Nixon è decisamente fuori luogo: allora la Cina rappresentava un’opportunità straordinaria per il grande capitale USA in cerca del posto dove delocalizzare la produzione per potersi dedicare a tempo pieno alla speculazione finanziaria e vincere a tavolino una lotta di classe che, con la complicità del disastro in Vietnam, stava diventando insostenibile.
Il punto qui, però, è che non c’è bisogno di essere democratici o dalla parte del 99%, che sono posizioni che – per definizione – chi guida la nazione leader dell’imperialismo non può abbracciare, sia che ricorra alla retorica demagogica – populista dell’alt right o che ricorra a quella globalista e dirittumanista della sinistra ZTL; visti i risultati disastrosi ottenuti con la strategia della guerra totale fino ad oggi, per fare qualche passo in avanti basterebbe qualcuno con un minimo di senso della realtà: che la realtà si stia cominciando a imporre anche nelle menti perverse di almeno un pezzo di classe dirigente occidentale? Ovviamente non è il caso di farci illusioni: la violenza indiscriminata è una caratteristica fondativa di ogni imperialismo – e quello distopico USA non fa certo eccezione. Le contraddizioni e i rapporti di forza, però, pesano e oggi non sono a favore di Washington; gli unici che non se ne accorgono sono i media mainstream e i pennivendoli che ci lavorano. Abbiamo bisogno di una vera alternativa; aiutaci a costruirla: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Global Southurday – Kursk e Pechino: il doppio fallimento dell’Occidente

Riparte la nuova stagione del Global Southurday con alcune novità. Oggi la nostra Clara Statello ha intervistato Giacomo Gabellini sul rapporto tra Cina e Stati Uniti, alla luce del recente incontro tra Jack Sullivan e Wang Yi e in previsione di un eventuale cambio di colore alla Casa Bianca. Riuscirà Biden a ricucire con Pechino e come cambierà la postura di Washington in caso di vittoria di Trump? Dall’altro lato gli sforzi diplomatici della Cina per la pace in Ucraina si infrangono con l’offensiva lanciata sul Kursk, che si sta progressivamente trasformando in un vicolo cieco per Kiev. Buona visione.

La crisi sta arrivando: crolla la borsa, sfiducia nel dollaro, debito USA – ft. Vadim Bottoni

Oggi il nostro Gabriele Germani ha intervistato Vadim Bottoni (economista) con cui ha analizzato la situazione economica e finanziaria odierna. Cosa denota la recente crisi borsistica del 5 agosto? Siamo davanti a un cigno nero o a un qualcosa di più grande e strutturale? Cosa aspettarsi dal futuro? E in che modo i fondi speculativi e la politica USA reagiranno alla situazione odierna? Buona visione!

#crisi #lunediNero #5agosto #finanza #dollaro #Trump #fondi #superimperialismo

I NeoCon chiedono a Trump e a Bibi la grande guerra in Medio Oriente per dimenticare la batosta Ucraina

È iniziato ieri il tour di OttolinaTv e Multipopolare nel Sud Italia; ovviamente il Marrucci non può restare 10 giorni senza un pippone e quindi vi proponiamo questa versione inedita, visto che negli ultimi giorni sono successe giusto due cosucce, in particolare sul fronte mediorientale. Oggi (2 agosto) appuntamento a L’Aquila; per tutti gli altri aggiornamenti seguiteci sui nostri canali social.

Perché Trump scommette sulla fine della dittatura del dollaro e si è innamorato dei Bitcoin – ft. Alessandro Volpi

Trump e il suo entourage sembrano aver fatto un bagno di realismo e di essere alla disperata ricerca di una via di fuga da un sistema totalmente dipendente dalla dittatura globale del dollaro e che oggi non risulta più sostenibile. L’ultimo segnale in questa direzione è la spettacolare giravolta che The Donald ha compiuto nei confronti delle criptovalute e, in particolare, dei bitcoin, che aveva sempre definito una truffa e che, invece, oggi sposa appieno di fronte alla gigantesca platea della mega-conferenza di Nashville, definendo il bitcoin l’acciaio del ventunesimo secolo e promettendo di fare tutto il necessario per rendere gli USA “la cripto-capitale del pianeta e la superpotenza bitcoin del mondo”. E’ un altro capitolo della guerra civile tra fazioni delle oligarchie finanziarie che sta accompagnando l’avvicinarsi della scadenza elettorale di novembre e potrebbe avere conseguenze gigantesche per tutto il resto del mondo. Ne abbiamo parlato, come sempre, con Alessandro Volpi. Buona visione.

Ricapitolone di Stefano Orsi: tutti i bluff degli USA

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani intervistano Stefano Orsi dopo una lunga pausa dalla festa di Ottolina Tv a Putignano, facendo il punto sulla guerra in Ucraina e sulla situazione internazionale (elezioni negli USA, tentativo di attentato a Trump e negoziati di pace cinesi). Emergono così tutti i bluff della NATO e degli Stati Uniti. Buona visione!

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La Meloni distrugge l’Italia e accoglie a braccia aperte i coloni statunitensi che invadono l’Europa

Mercoledì, CNN: Il NASDAQ registra il suo giorno peggiore dal 2022 (dipende un po’ per chi). Ed ecco i titoli del giorno dopo: Bloomberg – La crescita dell’Eurozona si ferma a causa della crisi tedesca, mentre sul Wall Street JournalLa crescita economica degli USA accelera, raggiungendo il tasso del 2,8% nel secondo trimestre. Cosa diavolo sta succedendo? Il punto è che il declino dell’Occidente non va in vacanza e l’imperialismo a guida USA continua imperterrito la sua guerra contro il resto del mondo; peccato, però, che dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per la guerra commerciale contro la Cina, la stia perdendo malamente e, mano a mano che cominciano a realizzarlo, si incendia lo scontro sul fronte interno e, con le presidenziali che si avvicinano, negli Stati Uniti è scoppiata una sorta di vera e propria guerra civile che però – guarda un po’ a volte il caso – non ha assolutamente niente a che fare con le analisi strampalate diffuse in egual misura da propaganda analfoliberale e analfosovranista. In campo, infatti, non c’è nessuna battaglia epocale in difesa della democrazia (che analfoliberali e analfosovranisti di tutto l’Occidente sono ugualmente impegnati a finire di demolire completamente) e non c’è nemmeno nessun conflitto tra pacifisti e guerrafondai, dal momento che l’uso sistematico della violenza, per l’imperialismo, è fondamentale e inevitabile, a prescindere da chi è al timone in un determinato momento. Entrambi gli schieramenti, in realtà, sono parimenti determinati a fare tutto quanto in loro potere per portare avanti senza indugi la doppia rapina che caratterizza il mondo libero da qualche decennio a questa parte e che consiste, appunto, da una parte nella rapina che gli USA, in quanto centro imperiale, compiono nei confronti della periferia dell’impero e, cioè, noi (noi italiani, noi francesi, noi tedeschi, ma anche, se non di più, noi giapponesi o noi coreani; insomma, i vassalli) e, dall’altra, la rapina che le oligarchie compiono col sostegno di tutti i governi occidentali nei confronti di tutte le altre fasce di popolazione e che, giusto per fare un esempio – come ha certificato Oxfam proprio negli ultimi giorni – dal 2013 al 2022 ha permesso all’1% più ricco del pianeta di aumentare il suo patrimonio di oltre 42 mila miliardi e cioè “un incremento pari a 34 volte quello registrato, nello stesso periodo, dalla metà più povera della popolazione mondiale”; da allora, il problema che le oligarchie rapinatrici hanno cominciato a trovarsi di fronte è che questa benedetta metà più povera della popolazione mondiale che, in larghissima parte, ovviamente abita le ex vecchie e nuove colonie, ha cominciato ad esprimere la sua ostilità nei confronti di questa rapina infinita e, soprattutto, ha cominciato a dimostrare di avere ormai gli strumenti per provare a mettergli (almeno in parte) fine – com’è il caso, ad esempio, di una ex colonia molto recente e, cioè, la Federazione Russa che, col crollo dell’Unione Sovietica, era diventata una vera e propria colonia pronta a farsi saccheggiare dalle oligarchie finanziarie dell’impero, in combutta con un manipolo di prenditori autoctoni elevati, in Occidente, a paladini della democrazia e della libertà.
Da un paio d’anni a questa parte, però, la musica sembra essere drasticamente cambiata: Il sorprendente boom della spesa al consumo in Russia titolava venerdì il Financial Times il suo lungo e dettagliato approfondimento giornaliero; “Mentre la guerra si trascinava” si legge nell’articolo “l’aumento dei salari in un’industria della difesa in forte espansione in tempo di guerra ha costretto le imprese civili a seguire l’esempio per attrarre lavoratori in un momento di grave carenza di manodopera. Il risultato è che la Russia si è trovata inaspettatamente nel mezzo di un boom della spesa al consumo”. “I salari reali sono alle stelle” avrebbe dichiarato al Times Janis Kluge, esperta di economia russa presso l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza: “Ci sono persone che difficilmente guadagnavano soldi prima che, improvvisamente, hanno enormi quantità di denaro”. Ecco: per capire perché lo scontro tra diverse fazioni dell’oligarchia del centro dell’impero sta degenerando verso una specie di guerra civile, invece che dalle narrazioni strampalate della propaganda, sarebbe il caso di partire da qua; la nave dell’imperialismo unitario sta inesorabilmente affondando ed è arrivata l’ora di farsi letteralmente la guerra in casa per decidere chi si spartirà il bottino prima di darsi alla fuga. Ma prima di snocciolare nel dettaglio tutti i numeri e i fatti accaduti la scorsa settimana che, a nostro avviso, dimostrano questa tesi, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra guerra quotidiana contro gli algoritmi e (se ancora non lo avete fatto) anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche; a voi costa solo pochi secondi di tempo, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di portare un’alternativa concreta alla propaganda guerrafondaia e classista dei media mainstream in casa e sui telefoni di sempre più persone.

Alessandro Volpi

Da un paio d’anni a questa parte non abbiamo fatto altro che parlare delle Tre Sorelle del risparmio gestito, le ormai famigerate BlackRock, Vanguard e State Street; vi abbiamo raccontato di come, col sostegno di Washington e dei governi dei paesi vassalli, siano riuscite a costruire dei veri e propri monopoli finanziari di dimensioni mai viste nell’intera storia del capitalismo e di come abbiano utilizzato questa gigantesca liquidità, di gran lunga superiore addirittura all’intero PIL dell’Eurozona, per gonfiare a dismisura la bolla finanziaria dei mercati azionari statunitensi riuscendo a garantirne l’ascesa addirittura anche quando, tutto attorno, l’economia mondiale e l’intera architettura dell’ordine neo-liberale cadeva letteralmente a pezzi. Negli ultimi 2 anni, proprio mentre gli USA accumulavano una mazzata dietro l’altra sul campo in Ucraina, le borse statunitensi continuavano a galoppare felici sui prati come se niente fosse, raggiungendo capitalizzazioni mai viste e senza mai un minimo accenno di tentennamento fino almeno a mercoledì scorso, quando le borse USA hanno vissuto una vistosa battuta d’arresto e, in particolare, proprio il NASDAQ, il listino dei principali titoli tecnologici a stelle e strisce – e quindi proprio di quei titoli che maggiormente hanno beneficiato, negli ultimi anni, della gigantesca immissione di liquidità operata dalle Tre Sorelle: in un solo giorno, l’indice è crollato del 3,6%, il peggior risultato dall’ormai lontanissimo ottobre 2022.
I media specializzati sono immediatamente corsi a gettare acqua sul fuoco: il problema – è la tesi che va per la maggiore – starebbe nelle aspettative legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale; sostanzialmente, la prospettiva di una nuova grande rivoluzione tecnologica ha creato aspettative gigantesche che hanno attirato una quantità sconfinata di capitali, che hanno alimentato una corsa al rialzo delle azioni del settore. Ora, però, ci si comincia a chiedere se – al di là delle magnifiche sorti e progressive della nuova frontiera tecnologica – l’intelligenza artificiale possa concretamente essere tradotta (e in che tempi) in una serie di prodotti tangibili in grado di creare un flusso di denaro sufficiente a giustificare tutti questi investimenti – e questa riflessione sicuramente avrà giocato un suo ruolo, per carità; io però, che sono complottista e che alla favoletta dei mercati trasparenti che reagiscono in modo razionale alle informazioni non c’ho mai creduto, ho sempre l’impressione che queste spiegazioni, più che cogliere le cause profonde di quanto accade (anche quando sono, come questa, abbastanza verosimili), siano in buona parte riflessioni ex post che le cause profonde, più che svelarle, corrono sempre il rischio di dissimularle. E quindi, consapevole del rischio di sovra-interpretare un po’ quello che è successo, non posso fare a meno di vederci qualcosa di decisamente più strutturale.
Ora, sgombriamo il campo da malintesi: nessuno (e men che meno noi) ha interpretato questa battuta d’arresto come qualcosa di apocalittico, l’esplosione della bolla. Assolutamente no: la potenza di fuoco dei fondi è ancora tutta lì, più salda che mai, e la loro liquidità è più che sufficiente per continuare a mantenere intatta la bolla speculativa. Piuttosto, molto più laicamente, credo il tutto possa anche essere letto come un primo timido episodio di una nuova tendenza che, in vario modo, preannunciamo da qualche tempo: il ritorno della volatilità dei mercati e cioè, appunto – contro la logica dei grandi fondi del risparmio gestito – il ritorno a forti oscillazioni dei prezzi dei titoli azionari, e che questo ritorno della volatilità sia il risultato della guerra civile tra fazioni delle oligarchie finanziarie che è scoppiata con l’avvicinarsi della scadenza elettorale negli Stati Uniti. Come si stanno delineando, con sempre maggiore chiarezza, i due blocchi sociali in guerra tra loro lo abbiamo provato a descrivere in numerosi altri video e durante le ormai consuete chiacchierate con Alessandro Volpi e quindi non mi dilungo; in estrema sintesi, da un lato – appunto – c’è l’asse di ferro tra i giganti del risparmio gestito e i democratici, che potremmo chiamare il partito del derisking: l’obiettivo del partito del derisking è allargare a dismisura la platea dei soggetti che delegano ai fondi la gestione dei loro risparmi e, con questa potenza di fuoco, consolidare il dominio monopolistico di alcuni grandi gruppi nei rispettivi settori e stabilizzare i mercati azionari. Dall’altro c’è il blocco sociale composito che tiene insieme i fondi speculativi e un pezzo di vecchio capitalismo produttivo e che ha trovato nel Trump di Make America Great Again e nel suo vice (cresciuto tra i capitali di ventura della Silicon Valley) JD Vance la migliore sintesi politica possibile, che potremmo definire il partito degli spiriti selvaggi; il partito degli spiriti selvaggi punta a rilanciare la concorrenza, più che alla costruzione di monopoli, e vede nella volatilità dei mercati – invece che un nemico – un’opportunità per ricreare un habitat dove only the strong survive: partito del derisking e partito degli spiriti selvaggi hanno interessi contrapposti, in particolare modo per quel che riguarda le politiche monetarie.
Il partito del derisking vede di buon occhio politiche monetarie restrittive e, quindi, alti tassi d’interesse da parte della Banca Centrale e un dollaro forte – e questo perché, in questo modo, la liquidità che manca al sistema ce la mettono direttamente le Tre Sorelle che diventano il centro non solo finanziario, ma anche politico dell’intero sistema; il partito degli spiriti selvaggi vede invece di buon occhio politiche monetarie più espansive e, quindi, tassi d’interesse più contenuti e un dollaro più debole: le politiche monetarie espansive servono a fornire ai fondi la liquidità che serve per fare le classiche operazioni di leverage buy-out e, cioè, di comprare aziende ricorrendo al debito, ristrutturarle, spezzettarle e rivenderle con ampi margini. Un dollaro più debole, invece, serve a rendere le aziende statunitensi più competitive sui mercati internazionali e tornare a fare profitti anche attraverso gli investimenti produttivi e non più solo ed esclusivamente attraverso la finanza; ma la cosa che qui ci preme sottolineare, in particolare, è che il conto della guerra feroce che si è scatenata tra questi due partiti del derisking e degli spiriti selvaggi, tanto per cambiare, lo paghiamo noi: per una strana coincidenza, subito dopo il mercoledì nero del ritorno della volatilità sui mercati azionari, Standard&Poors ha pubblicato il suo Purchasing Managers Index, il famigerato indice PMI; come chi ci segue ha imparato da tempo, l’indice PMI è un indice che viene costruito a partire da una lunga serie di interviste ai responsabili agli acquisti delle principali aziende di ogni paese ai quali vengono chieste informazioni dettagliate su produzione, ordini, livelli occupazionali, prezzi (e molto altro ancora) e indica le prospettive di crescita dei relativi settori che, nel caso della manifattura dell’Eurozona, sono disastrose. L’indice indica una prospettiva di crescita quando è sopra i 50 punti, di flessione quando è inferiore; il PMI manifatturiero dell’Italia è a 45,7 – e non siamo manco quelli messi peggio, anzi: la Polonia è a 45, la Francia a 44,1, l’Austria a 43,6, la Germania – addirittura – a 42,6. E il problema non è solo che sono cifre drammatiche, ma che sono decisamente peggiori del previsto e non tanto perché sono peggiori, ma perché pone un grosso interrogativo sulle capacità di comprendonio dei nostri quadri aziendali.
Poche ore dopo la pubblicazione degli indici PMI, infatti, sono arrivati altri dati significativi: questa volta riguardano la crescita effettiva del PIL statunitense nel secondo trimestre del 2024; anche qui i migliori economisti in circolazione hanno preso una cantonata, ma questa volta in meglio. Si aspettavano una crescita del 2%; s’è avvicinata al 3 e indovinate un po’ cos’è che, in particolare, ha contribuito a questo risultato? Come sottolineiamo da tempo, a trainare sono gli investimenti delle imprese, che sono cresciuti di un corpulento 5,2% a discapito degli investimenti in Europa e il tutto, come ormai avrete imparato, grazie ai finanziamenti pubblici che Washington ha messo in campo per convincere le aziende ad abbandonare a se stessi i paesi vassalli e a concentrarsi tutte per Make America Great Again, finanziamenti che, ormai, fanno letteralmente esplodere il debito pubblico statunitense che cresce di mille miliardi ogni 60 giorni che, in buona parte, finanziamo noi con il 70% dei nostri risparmi che ogni anno abbandonano l’Italia (come gli altri paesi europei) per dirigersi oltreoceano. Insomma: tutto ampiamente prevedibile, a parte per i nostri dirigenti e i nostri economisti che continuano a pensare che la propaganda che leggono sui media mainstream corrisponda alla realtà. Per la cronaca: indovinate a quanto sta, nel frattempo, l’indice manifatturiero dei paesi contro i quali l’invincibile Occidente collettivo ha ingaggiato la sua inarrestabile guerra economica (e non solo)? La Cina – che, secondo i nostri media, è anche a questo giro sull’orlo della bancarotta – è a 51,8, in forte crescita; la Russia, a 54,9. Gli USA, nonostante tutto il debito che stanno accumulando a spese nostre, registrano un non esattamente incoraggiante 49,5, in calo rispetto al mese precedente e al di sotto delle aspettative, una vera beffa: non solo per permettere agli USA di mantenere il loro primato, nella speranza che l’Occidente collettivo continui ancora a dominare sul resto del pianeta, ci facciamo serenamente derubare, ma poi questo benedetto primato (che non si capisce chi dovrebbe favorire concretamente) manco arriva. Cornuti e mazziati.
Anzi no, perché, in realtà, qualcosa da guadagnare ce lo abbiamo anche noi; lo annunciava entusiasta a 6 colonne in prima pagina l’inserto economico de La Repubblichina lunedì scorso: Boom degli arrivi dagli Stati Uniti – titolava – ossigeno per la crescita dei paesi del sud Europa. L’articolo riporta festante come addirittura “Gli americani sono la prima nazionalità a Capri, Forte dei Marmi e Portofino” e come “a settembre 2023 il 55% del volume degli acquisti dell’isola di Capri è stato effettuato da cittadini americani”; “Negli ultimi anni temevamo di avere perso una quota importante di turisti alto-spendenti” avrebbe dichiarato la presidente di Federturismo Marina Lalli: “La crescita del turismo americano ha abbondantemente compensato quel calo”. “Gli americani” continua la Lalli “sono in assoluto i turisti che spendono di più, alloggiano in alberghi di lusso, mangiano nei migliori ristoranti” (e a quanto pare, se ti comporti bene, ti lanciano pure le noccioline): ed ecco così che, dopo aver perso la possibilità di una brillante carriera in un’azienda ad alto tasso d’innovazione perché s’è spostata negli USA a caccia dei finanziamenti pubblici, l’ingegnere medio italiano potrà finalmente puntare a preparare una bella pizza ai grani antichi con la burrata a qualche analfabeta funzionale texano, magari al nero e senza un vero salario (tanto si sa che i texani, con le mance, sono di manica larga) e quando avrà finito di stare intorno a un forno a legna per 12 ore per un salario da Africa subsahariana, sarà costretto a stare in una città completamente rasa al suolo socialmente e culturalmente dal divertentificio per vecchi rincoglioniti di tutte le età che è quest’abominio chiamato industria turistica. Anzi, no; giusto questo non se lo dovrà accollare: nella città turistica dove lavora, una casa (nonostante le laute mance dei petrolieri fai da te texani) non se la potrà permettere perché, nel frattempo, la piaga degli affitti brevi ha fatto esplodere il prezzo degli affitti. A parte la schiavitù nelle piantagioni di cotone, sinceramente faccio fatica a pensare a un modello di sviluppo più degradante e aberrante di questo, tant’è che in tutta Europa la gente, piano piano, si comincia a ribellare; l’altro giorno a Barcellona, durante una manifestazione di circa 3000 persone, un gruppo di turisti bello spaparanzato sulla terrazza di un caffè è stato bullizzato dai colpi di centinaia di pistole ad acqua, che gli avrà anche comportato uno shock culturale: “A casa nostra” avrà pensato il turista colonizzatore statunitense medio “le pistole le usiamo diversamente”. Alcune amministrazioni particolarmente illuminate hanno cominciato a prendere delle contromisure: a Lisbona il rilascio di nuove licenze per l’affitto a breve è stato congelato e, sempre a Barcellona, l’amministrazione ha promesso di chiudere i 10 mila appartamenti in affitto su Airbnb entro il 2028; spinti da questa ondata di proteste, anche il PD (in cerca di un rapido restyling d’immagine, ora che – finalmente – è all’opposizione e può far finta di essere minimamente progressista in alcune vertenze senza indispettire troppo i suoi mandanti) ha depositato una legge che mirerebbe a ostacolare perlomeno gli eccessi più palesi. Una legge farlocca, che lascerebbe la facoltà ai Comuni di porre qualche limite al numero di abitazioni che è possibile destinare agli affitti brevi esentando, inoltre, dai limiti chiunque abbia ottenuto un finanziamento non ancora estinto per l’acquisto o la ristrutturazione di un immobile – ovviamente per trasformarlo da abitazione per residenti a scannatoio per il divertentificio. Insomma: una legge che dire all’acqua di rose è un eufemismo, eppure più che sufficiente per far chiudere la vena alle bimbe del governo Meloni. Agguato PD agli affitti brevi titolava Libero indignato la scorsa settimana: Attacco alla proprietà privata. Cioè, per questi svendere la patria è proprio un istinto; gli viene naturale: dalla Germania hitleriana agli USA della guerra civile tra oligarchi, l’importante è stendere tappeti rossi al prepotente e all’invasore di turno, alla faccia del sovranismo.
Sarebbe arrivata l’ora di organizzarsi per mandarli tutti a casa e riprenderci tutto quello che è nostro: per farlo, ci serve un vero e proprio media che, invece che agli interessi dei parassiti che campano di rendita, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Flavio Briatore

Orban salverà l’Europa dal suicidio? ft. Gianandrea Gaiani

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani hanno intervistato Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, sulle questioni più dirimenti dell’attualità politica e militare: la guerra in Ucraina va verso una soluzione? Perché l’Europa si tira indietro dal percorso di pace intrapreso da Trump e Orban? Cosa determinerà il ritorno degli Euromissili in Europa? Buona visione!

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Gli USA spaccati: Kamala vuole la guerra – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Giuliano e Gabriele hanno intervistato il sempre preparato Giacomo Gabellini attorno alle strategie messe in campo dai due diversi candidati alle presidenziali USA di novembre. Mentre sembra ormai solo questione di formalità la conferma della candidatura di Kamala Harris, Trump solleva problemi di legittimità attorno la sua figura. Mentre i Democratici puntano allo scontro attorno al mondo, i Repubblicani sembrano prediligere una strategia pragmatica che, nell’immediato, scaricherebbe i costi della difesa sui singoli scenari ai partner europei e asiatici. Buona visione.

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Da Trump a Le Pen: la rivincita del capitalismo straccione e le lacrime di coccodrillo degli analfoliberali

Tra analfoliberali sull’orlo di una crisi di nervi e miliardari fintosovranisti travestiti da working class heroes, andrà a finire che moriremo tutti, ma – di sicuro – non di noia: dopo 50 anni di pilota automatico, le diverse fazioni del grande capitale dell’Occidente imperialista, impanicate dal loro progressivo e inevitabile declino, sono tornate a farsi la guerra; e gli ultimi giorni, tra attentati falliti e la prima volta in assoluto dal 1968 che un commander in chief decide di rinunciare spontaneamente alla corsa per il secondo mandato, sono stati in assoluto i più movimentati del teatrino politico USA degli ultimi decenni. Ma al di là della rappresentazione teatrale, in cosa consistono davvero queste fazioni del capitale sull’orlo della guerra civile? Che interessi materiali rappresentano? Ha davvero senso tifare per una piuttosto che per l’altra? E sono davvero così alternative tra loro? Dalla Francia della Le Pen agli USA di The Donald, in questo video proveremo a dare alcune informazioni che speriamo ci permettano di navigare in queste acque turbolente senza essere totalmente in balia della propaganda e dei mezzi di produzione del consenso delle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari; prima di farlo, però, vi ricordo di mettere un like a questo video (proprio per permetterci di portare avanti la nostra guerra quotidiana contro il pensiero unico imposto dagli algoritmi) e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare le notifiche: a voi costa solo pochi secondi, ma a noi permette di dare ogni giorno un po’ più di voce al 99% e a chi dalle faide tra pezzi diversi di oligarchia, alla fine, ha sempre e solo da rimetterci.

The Donald con Volodymyr Zelenski

Come mi capita spesso, non c’avevo capito una seganiente: unico tra tutti gli Ottoliner, ho continuato per mesi a dire che, a mio avviso, la vittoria di Trump nelle prossime presidenziali di novembre non era scontata per niente; nonostante i sondaggi, il senso comune, la continua debacle in Ucraina e il disastro in Medio Oriente, per mesi – infatti – i democratici hanno continuato a registrare un sostegno record da parte delle oligarchie che continuavano a riversare montagne di quattrini nelle casseforti dei comitati elettorali pro Biden, mentre il piatto di Trump (a parte l’attivismo del MAGA, i movimentisti del Make America Great Again) continuava a piangere. Sarò superficialmente economicista, ma a queste condizioni tutta ‘sta cavalcata trionfale verso la presidenza, tutto sommato, mi sembrava un po’ difficile, fino a che il vento non ha cominciato a cambiare decisamente direzione; sarà stata la fine dell’incognita giudiziaria, sarà stata l’efficacia retorica di Trump, saranno state le millemila gaffe di Biden, fatto sta che, a un certo punto, i flussi di quattrini hanno cominciato palesemente a cambiare segno: nel giro di poche settimane, Trump ha cominciato a registrare il sostegno di alcuni pezzi da 90 del grande capitale a stelle e strisce. Prima è stato il turno di Arthur Schwarzmann, eminenza grigia dell’alta finanza USA e fondatore di Blackstone, il fondo che (più di ogni altro al mondo) sta lavorando per una totale finanziarizzazione del mercato immobiliare residenziale; poi è arrivato il sostegno dal gotha dell’anarco-capitalismo distopico made in Silicon Valley – da Elon Musk a Peter Thiel, che si è guadagnato un posto al sole nella prossima amministrazione Trump grazie alla nomina a vicepresidente in pectore del suo protegé JD Vance – fino ad arrivare addirittura all’ipotesi di un posto da sottosegretario al tesoro per Jamie Dimon, il CEO di JP Morgan, di gran lunga la più grande banca privata del pianeta e la grande vincitrice della crisi finanziaria che l’anno scorso ha comportato, in pochi giorni, 3 dei 5 più grandi fallimenti bancari della storia statunitense, spacciati dalla grande macchina propagandistica al soldo delle oligarchie finanziarie come cosucce da niente. E meno male che Trump era il paladino dei working poors della Rust Belt. Cosa diavolo stava succedendo?
Negli ultimi anni, in particolare insieme ad Alessandro Volpi, abbiamo provato a descrivere l’affermazione di una nuova forma di capitalismo che altri, più quotati di noi, definiscono da tempo Asset Manager Capitalism; in questa forma di capitalismo, i principali centri di potere sono i grandi monopoli finanziari globali del risparmio gestito, a partire dai Big Three: BlackRock, Vanguard e State Street. Totalmente organici ai finto-progressisti democratici – in particolare a partire dal 2008 – questi fondi sono stati messi nella condizione di concentrare nelle loro mani una quantità di liquidità spropositata che hanno utilizzato per acquisire quote di controllo nella stragrande maggioranza delle grandi aziende statunitensi quotate allo Standard&Poor 500, ma soprattutto per gonfiare a dismisura una bolla finanziaria di dimensioni mai viste pompando il valore delle azioni oltre ogni limite possibile immaginabile; questo meccanismo si è rafforzato a tal punto da diventare il vero e proprio cuore pulsante dell’accumulazione capitalistica dell’Occidente collettivo, dove il grosso dei patrimoni delle oligarchie consiste, appunto, in montagne di azioni che hanno valori completamente scollegati dai reali valori economici delle aziende che le emettono e che riescono a mantenere solo grazie alla continua iniezione di liquidità gestita da questi mastodontici fondi. Questa nuova configurazione dell’accumulazione capitalistica però, inevitabilmente, ha consegnato a questi fondi un potere senza precedenti che ha cominciato a suscitare qualche mal di pancia anche tra una fetta di coloro che, a livello di ricchezza personale, da questo meccanismo – fino ad allora – in realtà ci avevano guadagnato eccome, com’è il caso proprio degli stessi Elon Musk e Peter Thiel; ma quello che spesso sfugge agli analfoliberali è che il fine ultimo del vero capitalista non è la ricchezza, ma il potere. Le cose non sono facili da distinguere, perché nel capitalismo il potere corrisponde sostanzialmente alla quantità di ricchezza accumulata, ma il fine vero, appunto, è il potere e quando, per qualche ragione, alla quantità di ricchezza accumulata non corrisponde direttamente una quota più o meno simile di potere, qualcosa si comincia a incrinare, che è esattamente quello che è cominciato ad avvenire: i grandi fondi garantivano di accumulare ricchezza gonfiando la bolla finanziaria, ma a quella ricchezza non corrispondeva un pari potere, perché a detenere il potere erano sostanzialmente i fondi stessi, che erano arrivati a piegare ai loro voleri tutto il partito democratico, le amministrazioni che esprimevano e la stragrande maggioranza dei governi degli alleati vassalli degli USA – come è stato plasticamente dimostrato durante l’ultimo G7 dove il CEO di BlackRock, Larry Fink, si è preso il palcoscenico e si rivolgeva ai vari capi di Stato come a un branco di bimbi scemi dicendogli esattamente cosa dovevano concedergli per non saltare tutti per aria e cioè, per inciso, tutti i servizi pubblici essenziali e tutte le principali infrastrutture, a partire da tutto quello che è necessario per effettuare la transizione ecologica.
Comunque, quello che è avvenuto è che pezzi sempre più consistenti di élite economica e di oligarchie USA hanno visto in Donald Trump, che da questi fondi è sempre stato avversato, l’opportunità per riequilibrare a loro vantaggio i rapporti di forza all’interno del grande capitale statunitense e da lì la partita, effettivamente, si è fatta piuttosto interessante: attorno all’idea di riequilibrare i rapporti di forza con i giganti della gestione dei risparmi si è formato un blocco sociale trasversale ampio, variegato ed estremamente influente e che, soprattutto, poteva contare su un referente politico che aveva il vento in poppa; ed ecco allora che tra le fila dei democratici qualcuno ha cominciato a suggerire che, per questo livello di scontro, la vecchia anatra zoppa di Rimbambiden non era più all’altezza. Poi è arrivato l’attentato fallito di Butler, che ha accelerato a dismisura questa dinamica già in corso da tempo e ha costretto a passare dalle parole ai fatti: la storica rinuncia alla corsa per il secondo mandato di Rimbambiden va inserita in questo tipo di dinamica e di conflitto; ora il rischio, però, è che alla narrazione bollita degli analfoliberali ne segua una ancora più bollita di matrice analfosovranista. I capitani di ventura che si sono coalizzati attorno a Trump, infatti – dai petrolieri ai guru delle criptovalute, dai padroni della gestione dei dati (come Thiel) a quelli che hanno fatto i miliardi grazie agli schemi piramidali più spregiudicati – continuano comunque a dipendere dalla bolla speculativa tenuta in piedi dalla liquidità dei grandi fondi. Non darei quindi troppo peso alle boutade di JD Vance su un potenziale ridimensionamento del ruolo del dollaro, magari illudendosi che questo preluda a un fantomatico neo-isolazionismo statunitense che rinvia l’escalation bellica: questa, a mio avviso, è tutta fuffa propagandistica priva di basi materiali concrete; semplicemente, si tratta di una riconfigurazione dei rapporti di forza tra le diverse fazioni del grande capitale nell’ambito della quale la volontà del centro imperiale di saccheggiare tutti gli alleati vassalli rischia anzi, inevitabilmente, di farsi ancora più feroce e plateale. D’altronde l’élite trumpiana è sostanzialmente l’erede diretta della classe dirigente che ha circondato Reagan e Paul Volcker, il famigerato ex presidente della FED che – con una politica dei tassi di una violenza senza precedenti – ha proprio avviato una fase di rientro dei capitali a Wall Street che ha seminato il panico in tutto il resto del mondo. Il processo da tenere sott’occhio mi pare evidente sia questo, mentre tutte i conflitti tra chi spinge per il fossile e chi per le rinnovabili, tra chi vorrebbe proibire l’aborto e chi invece sogna un eterno lungo pride, tra chi vorrebbe abbattere ogni confine e chi invece vorrebbe costruirci muri alti 12 metri, mi pare appartengano più alla sfera della rappresentazione teatrale della politica, dove si fa a gara a chi la spara più grossa, ma poi, sostanzialmente, dietro agli slogan di concreto si fa poco o niente, da una parte e dall’altra; e questo processo che, ovviamente, assume dimensioni epocali nel centro imperiale, mi sembra evidente che riguardi, in scala ridotta, anche le periferie.
Il quotidiano francese L’Humanité, due giorni fa, è entrata in possesso di un documento riservato che descrive nel dettaglio un piano “per installare al potere in Francia un’alleanza tra estrema destra e destra conservatrice”; “Un progetto politico” commenta L’Humanité “redatto come un business plan di una start-up, che dettaglia un piano organico e sistematico in una serie di tappe coordinate sapientemente, con tanto di target da avvicinare, talenti da reclutare” e via dicendo. Il nome in codice del piano è Pericle che oltre a rifarsi al grande leader populista ateniese, in francese sarebbe anche un acronimo per “patrioti radicati resistenti identitari cristiani liberali europei sovranisti”. Il piano prevede un contributo finanziario a fondo perduto di ben 150 milioni da investire nell’arco di una decina di anni; e a tirare fuori la grana sarebbe lui: Pierre Edouard Sterin che, quando lavoravo a Report, ho avuto l’occasione di conoscere personalmente. Pierre Edouard Sterin, infatti, deve la sua fortuna a questa robetta qua:

si chiamano SmartBox e sono gli ormai famigerati cofanetti che regaliamo quando vogliamo fare uno spregio a qualcuno e che contengono buoni per piccoli pacchetti turistici che quando uno li consuma non vede l’ora di tornare a lavorare. Il modello di business di SmartBox è molto semplice: chiede alle strutture una commissione che è circa il doppio di quella richiesta dai grandi portali per le prenotazioni, che certo non fanno beneficenza; il risultato è che gli albergatori convenzionati se hanno qualche minima speranza di poter affittare una stanza all’ultimo minuto, ti dicono di essere al completo anche quando non lo sono affatto e gli unici che non ti dicono di essere al completo sono quelle strutture talmente pessime che, a parte che i poveracci ai quali rifilate una SmartBox, non vedranno mai mezzo cliente. Sin dall’inizio, Sterin aveva chiarissima l’intenzione di mettere parte del denaro accumulato con questa roba a servizio di un progetto politico di estrema destra; e per accelerare l’accumulazione di questo capitale necessario ad avviare una nuova controrivoluzione, prima – da vero patriota – ha spostato la sede fiscale in Belgio per sfuggire alle tasse messe sui super-ricchi da Hollande e poi ha licenziato tutti i lavoratori delle controllate locali che ha acquisito in Irlanda e poi anche in Italia. Quando l’ho incontrato a Parigi mi ha detto espressamente che il suo progetto politico era – come un Milei qualsiasi – ridurre al minimo l’intervento dello Stato francese nell’economia privatizzando i servizi essenziali come la sanità e l’istruzione e che, nel perseguire questo cammino, il suo desiderio più grande era nientepopodimeno che diventare santo; con Pericle ora si pone l’obiettivo di “lottare contro i mali principali del nostro paese” che sono “il socialismo, lo wokismo, l’islamismo e l’immigrazione” e, per raggiungere questi obiettivi, sta lavorando per mettere insieme un migliaio di “persone allineate, in grado di rappresentare la spina dorsale del nuovo governo che conquisterà il potere nel 2027”.
Ecco: il blocco sociale che sta mettendo fine alla dittatura delle élite globaliste è trainato da questa gente qua; sarebbe il caso di non farsi troppe illusioni. Il dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta, dopo 5 secoli, è ormai agli sgoccioli e non saranno le élite che hanno dominato per 5 secoli a indicare la via d’uscita, a prescindere da quanto vi piacciano le loro narrazioni strampalate; se vogliamo trovare una via d’uscita (prima che sia troppo tardi) ci dobbiamo organizzare da soli e, per farlo, ci serve un media che invece che ai deliri degli Sterin, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuseppe Cruciani