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Tag: trump

Orban salverà l’Europa dal suicidio? ft. Gianandrea Gaiani

I nostri Clara Statello e Gabriele Germani hanno intervistato Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, sulle questioni più dirimenti dell’attualità politica e militare: la guerra in Ucraina va verso una soluzione? Perché l’Europa si tira indietro dal percorso di pace intrapreso da Trump e Orban? Cosa determinerà il ritorno degli Euromissili in Europa? Buona visione!

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Gli USA spaccati: Kamala vuole la guerra – ft. Giacomo Gabellini

Oggi i nostri Giuliano e Gabriele hanno intervistato il sempre preparato Giacomo Gabellini attorno alle strategie messe in campo dai due diversi candidati alle presidenziali USA di novembre. Mentre sembra ormai solo questione di formalità la conferma della candidatura di Kamala Harris, Trump solleva problemi di legittimità attorno la sua figura. Mentre i Democratici puntano allo scontro attorno al mondo, i Repubblicani sembrano prediligere una strategia pragmatica che, nell’immediato, scaricherebbe i costi della difesa sui singoli scenari ai partner europei e asiatici. Buona visione.

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Da Trump a Le Pen: la rivincita del capitalismo straccione e le lacrime di coccodrillo degli analfoliberali

Tra analfoliberali sull’orlo di una crisi di nervi e miliardari fintosovranisti travestiti da working class heroes, andrà a finire che moriremo tutti, ma – di sicuro – non di noia: dopo 50 anni di pilota automatico, le diverse fazioni del grande capitale dell’Occidente imperialista, impanicate dal loro progressivo e inevitabile declino, sono tornate a farsi la guerra; e gli ultimi giorni, tra attentati falliti e la prima volta in assoluto dal 1968 che un commander in chief decide di rinunciare spontaneamente alla corsa per il secondo mandato, sono stati in assoluto i più movimentati del teatrino politico USA degli ultimi decenni. Ma al di là della rappresentazione teatrale, in cosa consistono davvero queste fazioni del capitale sull’orlo della guerra civile? Che interessi materiali rappresentano? Ha davvero senso tifare per una piuttosto che per l’altra? E sono davvero così alternative tra loro? Dalla Francia della Le Pen agli USA di The Donald, in questo video proveremo a dare alcune informazioni che speriamo ci permettano di navigare in queste acque turbolente senza essere totalmente in balia della propaganda e dei mezzi di produzione del consenso delle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari; prima di farlo, però, vi ricordo di mettere un like a questo video (proprio per permetterci di portare avanti la nostra guerra quotidiana contro il pensiero unico imposto dagli algoritmi) e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare le notifiche: a voi costa solo pochi secondi, ma a noi permette di dare ogni giorno un po’ più di voce al 99% e a chi dalle faide tra pezzi diversi di oligarchia, alla fine, ha sempre e solo da rimetterci.

The Donald con Volodymyr Zelenski

Come mi capita spesso, non c’avevo capito una seganiente: unico tra tutti gli Ottoliner, ho continuato per mesi a dire che, a mio avviso, la vittoria di Trump nelle prossime presidenziali di novembre non era scontata per niente; nonostante i sondaggi, il senso comune, la continua debacle in Ucraina e il disastro in Medio Oriente, per mesi – infatti – i democratici hanno continuato a registrare un sostegno record da parte delle oligarchie che continuavano a riversare montagne di quattrini nelle casseforti dei comitati elettorali pro Biden, mentre il piatto di Trump (a parte l’attivismo del MAGA, i movimentisti del Make America Great Again) continuava a piangere. Sarò superficialmente economicista, ma a queste condizioni tutta ‘sta cavalcata trionfale verso la presidenza, tutto sommato, mi sembrava un po’ difficile, fino a che il vento non ha cominciato a cambiare decisamente direzione; sarà stata la fine dell’incognita giudiziaria, sarà stata l’efficacia retorica di Trump, saranno state le millemila gaffe di Biden, fatto sta che, a un certo punto, i flussi di quattrini hanno cominciato palesemente a cambiare segno: nel giro di poche settimane, Trump ha cominciato a registrare il sostegno di alcuni pezzi da 90 del grande capitale a stelle e strisce. Prima è stato il turno di Arthur Schwarzmann, eminenza grigia dell’alta finanza USA e fondatore di Blackstone, il fondo che (più di ogni altro al mondo) sta lavorando per una totale finanziarizzazione del mercato immobiliare residenziale; poi è arrivato il sostegno dal gotha dell’anarco-capitalismo distopico made in Silicon Valley – da Elon Musk a Peter Thiel, che si è guadagnato un posto al sole nella prossima amministrazione Trump grazie alla nomina a vicepresidente in pectore del suo protegé JD Vance – fino ad arrivare addirittura all’ipotesi di un posto da sottosegretario al tesoro per Jamie Dimon, il CEO di JP Morgan, di gran lunga la più grande banca privata del pianeta e la grande vincitrice della crisi finanziaria che l’anno scorso ha comportato, in pochi giorni, 3 dei 5 più grandi fallimenti bancari della storia statunitense, spacciati dalla grande macchina propagandistica al soldo delle oligarchie finanziarie come cosucce da niente. E meno male che Trump era il paladino dei working poors della Rust Belt. Cosa diavolo stava succedendo?
Negli ultimi anni, in particolare insieme ad Alessandro Volpi, abbiamo provato a descrivere l’affermazione di una nuova forma di capitalismo che altri, più quotati di noi, definiscono da tempo Asset Manager Capitalism; in questa forma di capitalismo, i principali centri di potere sono i grandi monopoli finanziari globali del risparmio gestito, a partire dai Big Three: BlackRock, Vanguard e State Street. Totalmente organici ai finto-progressisti democratici – in particolare a partire dal 2008 – questi fondi sono stati messi nella condizione di concentrare nelle loro mani una quantità di liquidità spropositata che hanno utilizzato per acquisire quote di controllo nella stragrande maggioranza delle grandi aziende statunitensi quotate allo Standard&Poor 500, ma soprattutto per gonfiare a dismisura una bolla finanziaria di dimensioni mai viste pompando il valore delle azioni oltre ogni limite possibile immaginabile; questo meccanismo si è rafforzato a tal punto da diventare il vero e proprio cuore pulsante dell’accumulazione capitalistica dell’Occidente collettivo, dove il grosso dei patrimoni delle oligarchie consiste, appunto, in montagne di azioni che hanno valori completamente scollegati dai reali valori economici delle aziende che le emettono e che riescono a mantenere solo grazie alla continua iniezione di liquidità gestita da questi mastodontici fondi. Questa nuova configurazione dell’accumulazione capitalistica però, inevitabilmente, ha consegnato a questi fondi un potere senza precedenti che ha cominciato a suscitare qualche mal di pancia anche tra una fetta di coloro che, a livello di ricchezza personale, da questo meccanismo – fino ad allora – in realtà ci avevano guadagnato eccome, com’è il caso proprio degli stessi Elon Musk e Peter Thiel; ma quello che spesso sfugge agli analfoliberali è che il fine ultimo del vero capitalista non è la ricchezza, ma il potere. Le cose non sono facili da distinguere, perché nel capitalismo il potere corrisponde sostanzialmente alla quantità di ricchezza accumulata, ma il fine vero, appunto, è il potere e quando, per qualche ragione, alla quantità di ricchezza accumulata non corrisponde direttamente una quota più o meno simile di potere, qualcosa si comincia a incrinare, che è esattamente quello che è cominciato ad avvenire: i grandi fondi garantivano di accumulare ricchezza gonfiando la bolla finanziaria, ma a quella ricchezza non corrispondeva un pari potere, perché a detenere il potere erano sostanzialmente i fondi stessi, che erano arrivati a piegare ai loro voleri tutto il partito democratico, le amministrazioni che esprimevano e la stragrande maggioranza dei governi degli alleati vassalli degli USA – come è stato plasticamente dimostrato durante l’ultimo G7 dove il CEO di BlackRock, Larry Fink, si è preso il palcoscenico e si rivolgeva ai vari capi di Stato come a un branco di bimbi scemi dicendogli esattamente cosa dovevano concedergli per non saltare tutti per aria e cioè, per inciso, tutti i servizi pubblici essenziali e tutte le principali infrastrutture, a partire da tutto quello che è necessario per effettuare la transizione ecologica.
Comunque, quello che è avvenuto è che pezzi sempre più consistenti di élite economica e di oligarchie USA hanno visto in Donald Trump, che da questi fondi è sempre stato avversato, l’opportunità per riequilibrare a loro vantaggio i rapporti di forza all’interno del grande capitale statunitense e da lì la partita, effettivamente, si è fatta piuttosto interessante: attorno all’idea di riequilibrare i rapporti di forza con i giganti della gestione dei risparmi si è formato un blocco sociale trasversale ampio, variegato ed estremamente influente e che, soprattutto, poteva contare su un referente politico che aveva il vento in poppa; ed ecco allora che tra le fila dei democratici qualcuno ha cominciato a suggerire che, per questo livello di scontro, la vecchia anatra zoppa di Rimbambiden non era più all’altezza. Poi è arrivato l’attentato fallito di Butler, che ha accelerato a dismisura questa dinamica già in corso da tempo e ha costretto a passare dalle parole ai fatti: la storica rinuncia alla corsa per il secondo mandato di Rimbambiden va inserita in questo tipo di dinamica e di conflitto; ora il rischio, però, è che alla narrazione bollita degli analfoliberali ne segua una ancora più bollita di matrice analfosovranista. I capitani di ventura che si sono coalizzati attorno a Trump, infatti – dai petrolieri ai guru delle criptovalute, dai padroni della gestione dei dati (come Thiel) a quelli che hanno fatto i miliardi grazie agli schemi piramidali più spregiudicati – continuano comunque a dipendere dalla bolla speculativa tenuta in piedi dalla liquidità dei grandi fondi. Non darei quindi troppo peso alle boutade di JD Vance su un potenziale ridimensionamento del ruolo del dollaro, magari illudendosi che questo preluda a un fantomatico neo-isolazionismo statunitense che rinvia l’escalation bellica: questa, a mio avviso, è tutta fuffa propagandistica priva di basi materiali concrete; semplicemente, si tratta di una riconfigurazione dei rapporti di forza tra le diverse fazioni del grande capitale nell’ambito della quale la volontà del centro imperiale di saccheggiare tutti gli alleati vassalli rischia anzi, inevitabilmente, di farsi ancora più feroce e plateale. D’altronde l’élite trumpiana è sostanzialmente l’erede diretta della classe dirigente che ha circondato Reagan e Paul Volcker, il famigerato ex presidente della FED che – con una politica dei tassi di una violenza senza precedenti – ha proprio avviato una fase di rientro dei capitali a Wall Street che ha seminato il panico in tutto il resto del mondo. Il processo da tenere sott’occhio mi pare evidente sia questo, mentre tutte i conflitti tra chi spinge per il fossile e chi per le rinnovabili, tra chi vorrebbe proibire l’aborto e chi invece sogna un eterno lungo pride, tra chi vorrebbe abbattere ogni confine e chi invece vorrebbe costruirci muri alti 12 metri, mi pare appartengano più alla sfera della rappresentazione teatrale della politica, dove si fa a gara a chi la spara più grossa, ma poi, sostanzialmente, dietro agli slogan di concreto si fa poco o niente, da una parte e dall’altra; e questo processo che, ovviamente, assume dimensioni epocali nel centro imperiale, mi sembra evidente che riguardi, in scala ridotta, anche le periferie.
Il quotidiano francese L’Humanité, due giorni fa, è entrata in possesso di un documento riservato che descrive nel dettaglio un piano “per installare al potere in Francia un’alleanza tra estrema destra e destra conservatrice”; “Un progetto politico” commenta L’Humanité “redatto come un business plan di una start-up, che dettaglia un piano organico e sistematico in una serie di tappe coordinate sapientemente, con tanto di target da avvicinare, talenti da reclutare” e via dicendo. Il nome in codice del piano è Pericle che oltre a rifarsi al grande leader populista ateniese, in francese sarebbe anche un acronimo per “patrioti radicati resistenti identitari cristiani liberali europei sovranisti”. Il piano prevede un contributo finanziario a fondo perduto di ben 150 milioni da investire nell’arco di una decina di anni; e a tirare fuori la grana sarebbe lui: Pierre Edouard Sterin che, quando lavoravo a Report, ho avuto l’occasione di conoscere personalmente. Pierre Edouard Sterin, infatti, deve la sua fortuna a questa robetta qua:

si chiamano SmartBox e sono gli ormai famigerati cofanetti che regaliamo quando vogliamo fare uno spregio a qualcuno e che contengono buoni per piccoli pacchetti turistici che quando uno li consuma non vede l’ora di tornare a lavorare. Il modello di business di SmartBox è molto semplice: chiede alle strutture una commissione che è circa il doppio di quella richiesta dai grandi portali per le prenotazioni, che certo non fanno beneficenza; il risultato è che gli albergatori convenzionati se hanno qualche minima speranza di poter affittare una stanza all’ultimo minuto, ti dicono di essere al completo anche quando non lo sono affatto e gli unici che non ti dicono di essere al completo sono quelle strutture talmente pessime che, a parte che i poveracci ai quali rifilate una SmartBox, non vedranno mai mezzo cliente. Sin dall’inizio, Sterin aveva chiarissima l’intenzione di mettere parte del denaro accumulato con questa roba a servizio di un progetto politico di estrema destra; e per accelerare l’accumulazione di questo capitale necessario ad avviare una nuova controrivoluzione, prima – da vero patriota – ha spostato la sede fiscale in Belgio per sfuggire alle tasse messe sui super-ricchi da Hollande e poi ha licenziato tutti i lavoratori delle controllate locali che ha acquisito in Irlanda e poi anche in Italia. Quando l’ho incontrato a Parigi mi ha detto espressamente che il suo progetto politico era – come un Milei qualsiasi – ridurre al minimo l’intervento dello Stato francese nell’economia privatizzando i servizi essenziali come la sanità e l’istruzione e che, nel perseguire questo cammino, il suo desiderio più grande era nientepopodimeno che diventare santo; con Pericle ora si pone l’obiettivo di “lottare contro i mali principali del nostro paese” che sono “il socialismo, lo wokismo, l’islamismo e l’immigrazione” e, per raggiungere questi obiettivi, sta lavorando per mettere insieme un migliaio di “persone allineate, in grado di rappresentare la spina dorsale del nuovo governo che conquisterà il potere nel 2027”.
Ecco: il blocco sociale che sta mettendo fine alla dittatura delle élite globaliste è trainato da questa gente qua; sarebbe il caso di non farsi troppe illusioni. Il dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta, dopo 5 secoli, è ormai agli sgoccioli e non saranno le élite che hanno dominato per 5 secoli a indicare la via d’uscita, a prescindere da quanto vi piacciano le loro narrazioni strampalate; se vogliamo trovare una via d’uscita (prima che sia troppo tardi) ci dobbiamo organizzare da soli e, per farlo, ci serve un media che invece che ai deliri degli Sterin, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuseppe Cruciani

Global Southurday – Trump manderà la NATO in corto circuito? – ft. Alberto Fazolo

Torna il consueto appuntamento del sabato con Alberto Fazolo per parlare di politica estera. Partiamo dalla rielezione di Ursula von der Leyen con il decisivo appoggio dei Verdi: la rielezione va in continuità con il rinnovato impegno bellico in Ucraina da parte dell’Ue. Successivamente l’intervista verte sugli euromissili e sull’addestramento di truppe ucraine alle porte di Roma, mostrando il coinvolgimento italiano nel conflitto. Un’eventuale elezione di Trump rischia inoltre di mettere in crisi il sistema delle scelte NATO, generando confusione e incertezze militari e politiche. Infin, si è parlato dell’attacco Houthi contro Tel Aviv di venerdì mattina che ha causato un morto e alcuni feriti, mostrando la fallacia del sistema di difesa anti-missile israeliano. Buona visione!

#UE #Russia #Ucraina #euromissili #guerra #pace #Israele #Yemen #Palestina #Trump #NATO

La Cina rispedisce al mittente le dichiarazioni di guerra del partito unico di Trump, Vance e Ursula

“Non permetteremo al Partito Comunista Cinese di costruire la sua classe media sulla pelle dell’America”: con queste parole, il suprematista JD Vance, inspiegabilmente eletto a simbolo della lotta anti-establishment da un pezzo di dissenso confuso, ha voluto inaugurare la sua nomina a vicepresidente in pectore rafforzando il ribaltamento della realtà che caratterizza la propaganda dell’impero. Nel frattempo, in Cina prende il via il Terzo Plenum del Partito Comunista Cinese che rappresenta, probabilmente, il più importante degli appuntamenti istituzionali che caratterizzano ogni mandato presidenziale e dove Xi Jinping ha ribadito con forza la necessità della Cina sotto attacco di cambiare radicalmente il suo modello di sviluppo per concentrarsi sullo sviluppo delle nuove forze produttive e la conquista della totale indipendenza e sovranità tecnologica. Il probabile cambio di guardia alla Casa Bianca e la conferma della vecchia élite di svendipatria in Europa non cambia di una virgola le carte in tavola: da una parte chi lavora giorno e notte per costruire un nuovo ordine globale, dall’altro chi fa ricorso a tutto l’armamentario colonialista per tentare di ostacolare con ogni mezzo necessario l’emancipazione dei popoli.
Con questa puntata, Mondocina sospende per un paio di mesi la programmazione regolare; ci rivediamo a settembre (ma quasi sicuramente anche prima, ma solo se accade qualcosa di particolarmente rilevante).

Operazione J.D. Vance: un’icona dell’America profonda al servizio della guerra e delle oligarchie

Il prossimo leader repubblicano: così David Graham martedì intitolava su The Atlantic il suo ritratto dell’uomo del momento, James David Vance, il volto iconico dell’America profonda che The Donald ha incoronato suo vice in piena zona Cesarini pochi minuti prima dell’inizio della grande convention repubblicana di Milwaukee. Una mossa a sorpresa che ha immediatamente incendiato gli animi delle opposte tifoserie che, tutto sommato, condividono un’idea di fondo: The Donald non è un presidente come gli altri; la sua eventuale elezione comporterà stravolgimenti profondi e la scelta di Vance come vice non fa che confermarlo, solo che una parte considera questa profonda trasformazione un pericolo esistenziale che rischia di mettere fine alla democrazia per come l’abbiamo conosciuta e l’altra, invece, la considera l’ultima opportunità che abbiamo per mettere fine alla dittatura del gender e dei minipony imposta dalle élite globaliste e dal deep state. Ovviamente – per quanto entrambe le tifoserie, in realtà, non siano del tutto prive di argomenti – si tratta, in soldoni, nella migliore delle ipotesi di un gigantesco equivoco; nella peggiore, di una gigantesca messa in scena. Al netto di alcune differenze tutto sommato piuttosto trascurabili, anche a questo giro, come in ogni elezione presidenziale americana, il popolo non sarà chiamato a scegliere tra opzioni realmente alternative, ma – molto più banalmente – a dare una semplice indicazione sul tipo di narrazione che, in questa fase specifica, ha più possibilità di distrarci dalle scelte drammatiche che vengono prese sulla nostra pelle dal partito unico della guerra e degli affari, attirando la nostra attenzione su una lunga serie di puttanate sostanzialmente ininfluenti; l’incoronazione di Vance a vice, allora, va letta principalmente da questo punto di vista: il colpo di scena di uno sceneggiatore talentuoso che sta scrivendo il copione della favoletta che proveranno a rifilarci mentre, sotto la superficie, continuano a portare avanti gli interessi strategici dell’imperialismo USA e delle oligarchie finanziarie che lo dominano. E a questo giro, bisogna ammetterlo, il copione è veramente appassionante e incredibilmente efficace, esattamente quello che serviva per provare a ridare uno slancio ideale a un paese che si trova ad affrontare sfide epocali in una condizione di frammentazione mai vista prima. Ma prima di addentrarci nei dettagli del grande romanzo popolare di James David Vance, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra battaglia contro gli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e di attivare tutte le notifiche, perché se loro, per diffondere le loro favolette, possono contare su Netflix, i guru della Silicon Valley e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, noi, per provare a riportare il dibattito sul piano della realtà, abbiamo soltanto il vostro sostegno.

James David Vance

C’era una volta il wishful thinking degli analfoliberali: interpretavano ogni segnale come la premessa del crollo della Russia sotto il peso delle sanzioni economiche e dell’eroica resistenza Ucraina e quello della Cina sotto il peso del suo sistema dirigista e distopico fondato su numeri fasulli e propaganda; nonostante la macchina propagandistica, giorno dopo giorno la realtà gli ha presentato il conto. Ovviamente, ancora oggi, gli analfoliberali e i loro potenti organi di disinformazione di massa continuano a bombardarci di minchiate totalmente infondate, ma la stragrande maggioranza della popolazione ormai ha imparato il giochino e alle loro vaccate, sostanzialmente, non abbocca più. Purtroppo però, non abbiamo fatto manco in tempo a festeggiare questa epocale disfatta di una forma di wishful thinking che eccone avanzare a passo spedito subito un’altra, possibilmente ancora più delirante e pericolosa: è la speranza che un palazzinaro multimiliardario, una sorta di Flavio Briatore on steroids imperialista e suprematista fino al midollo come Donald Trump, rappresenti un’alternativa concreta ai piani distopici delle oligarchie e del deep state impegnati in un’escalation bellica senza limiti a sostegno della lotta di classe dall’alto contro il basso e dal centro dell’impero contro il resto del mondo, una speranza che ultimamente rischiava di venire un po’ incrinata dal sostegno che The Donald, nelle ultime settimane, ha cominciato a raccogliere da pezzi consistenti delle stesse oligarchie – dal potentissimo fondatore di BlackStone Stephen Schwarzman agli odiatissimi venture capitalist della Silicon Valley, nonché dall’intero establishment neo-conservatore del Partito Repubblicano. Per rilanciare allora la narrazione del Trump antisistema avversato dalle élite c’era bisogno di un colpo di scena; anzi, di due: il primo è la manna dal cielo dell’attentato fallito di sabato scorso che, inevitabilmente, ha scatenato ogni tipo di teoria cospirazionista. Il secondo, appunto, è stata la nomina a vice di James David Vance.
Ma chi è James David Vance e perché la sua nomina è così importante dal punto di vista della narrazione trumpiana? Come sottolinea sempre David Graham su The Atlantic, “La rapida ascesa di J. D. Vance dall’oscurità alla nomina alla vicepresidenza è una di quelle storie che possono accadere soltanto negli USA, e che modellerà ciò che l’America è, nel bene e nel male, per le generazioni a venire”. La scelta della candidatura di Vance è stata immediatamente salutata, appunto, come la prova provata che Trump non ha rinunciato alla sua crociata anti-sistema per assecondare le élite che lo hanno prima sdoganato e poi riempito di quattrini: di origini più che umili, con una storia personale più che travagliata e solito a dichiarazioni fortemente anti-establishment, dalla politica economica a quella internazionale, Vance viene infatti spacciato come l’anima più genuinamente anti-sistema del MAGA, il movimento che si riconosce nello slogan del Make America Great Again.
Purtroppo, però, potrebbe essere un giudizio piuttosto avventato: Vance infatti diventa un personaggio pubblico di rilievo nel 2016 quando, appena 32enne, diventa un caso letterario nazionale grazie al suo Hillbilly Elegy – Memoria di una famiglia e di una cultura in crisi; si tratta di un’opera autobiografica dove, attraverso la travagliata storia della sua disastratissima famiglia, Vance compone un affresco spietato della classe lavoratrice bianca impoverita della Rust Belt che rappresenta uno degli zoccoli duri dell’affermazione del trumpismo. Nonostante si tratti di un testo che ha la profondità di un editoriale di Massimo Gramellini (o forse proprio per questo), il libro riceve immediatamente una quantità spropositata di recensioni entusiaste dal gotha dell’editoria conservatrice e diventa immediatamente un enorme caso letterario, ma probabilmente con finalità diametralmente opposte a quelle a cui state pensando: il ritratto che Vance fa del white-trash, infatti, è impietoso e superficiale; la sua storia è la storia di una famiglia che viene da un angolo remoto del Kentucky, nella catena montuosa degli Appalachi, e poi si trasferisce nella piccola cittadina di Middletown, in Ohio, nel cuore della Rust Belt. Qui il giovane e paffutello JD viene cresciuto insieme alla sorella dai nonni materni, mentre la madre passa da una relazione sconclusionata all’altra e, soprattutto, da una dipendenza all’altra; ma la descrizione impietosa del degrado, invece che spingere alla ricerca delle cause profonde, sfocia esclusivamente nel classico appello alle responsabilità individuali e alla necessità di darsi da fare e superare gli ostacoli a suon di determinazione per inseguire il sogno americano, che Vance cita innumerevoli volte lungo tutto il testo e che, alla fine, realizza: JD, infatti, rincorre la sua emancipazione prima arruolandosi nei Marines e poi conquistandosi faticosamente un posto nella scuola di legge di Yale. Ma attenzione: al contrario dei figli di papà che lo circondano da lì in poi, non si scorderà mai da dove viene; nonostante il giudizio moralistico sui parenti, tiene fede ai suoi obblighi nei confronti della famiglia, e, grazie al suo successo personale conquistato con così tanta dedizione, riesce a portare un po’ di sicurezza e di serenità anche in quel posto di merda di Middletown. Insomma: più che un working class hero, un mezzo mitomane.
La cosa interessante è che questa lettura prettamente moralistica e ultra-individualista dei problemi che affliggono il proletariato impoverito della Rust Belt, in realtà, viene utilizzata in quell’anno da Vance stesso per criticare proprio Trump e il suo movimento: all’apice del successo letterario e della prima campagna presidenziale di The Donald, sempre su The Atlantic Vance pubblica un articolo/manifesto che non lascia troppo spazio alle interpretazioni e dove definisce esplicitamente Donald Trump “oppio per il popolo”.
Vance parte col descrivere di nuovo il suo cavallo di battaglia: l’epidemia di consumo di oppiacei ed eroina che ha travolto il proletariato bianco della Rust Belt, a partire da sua madre: “Qualche sabato fa” scrive Vance “io e mia moglie abbiamo trascorso la mattinata facendo volontariato in un orto comunitario nel nostro quartiere di San Francisco. Dopo alcune ore di lavoro occasionale, noi e gli altri volontari ci siamo dispersi verso le nostre rispettive destinazioni: gustosi brunch, gite di un giorno nella regione del vino, visite alle gallerie d’arte. Era una giornata perfettamente normale, per gli standard di San Francisco”, ma in “Quello stesso sabato, nella piccola cittadina dell’Ohio dove sono cresciuto, quattro persone sono andate in overdose di eroina. Un tenente della polizia locale ha riassunto freddamente la banalità di tutto ciò: Non è poi così insolito per un periodo di 24 ore qui. Aveva ragione: anche a Middletown, Ohio, era stata una giornata perfettamente normale”. “Gli americani veramente estranei alla dipendenza” continua Vance “sono veramente pochi. Poco prima di laurearmi in giurisprudenza, ho saputo che mia madre giaceva in coma in un ospedale, conseguenza di un’apparente overdose di eroina. E l’eroina era solo l’ultima delle sue droghe preferite. Gli oppioidi da prescrizione l’avevano già portata più volte in ospedale in passato, e nel decennio precedente al suo primo assaggio di vera eroina erano costati terribilmente cari alla nostra famiglia. E prima che suo padre abbandonasse la bottiglia verso la mezza età, era un ubriacone notoriamente violento. Nella nostra comunità c’è da tempo un grande desiderio di alleviare il dolore; l’eroina è solo il veicolo più nuovo”; “Ora” continua Vance “in questa stagione elettorale, sembra che molti americani siano alla ricerca di un altro antidolorifico. Come gli altri, promette una rapida fuga dalle preoccupazioni della vita e una soluzione facile ai crescenti problemi sociali delle comunità e della cultura degli Stati Uniti. Non richiede nulla di particolare. Ed entra in circolo non attraverso i polmoni o le vene, ma attraverso gli occhi e le orecchie. Il suo nome è Donald Trump”: “Ciò che Trump offre” continuava Vance “è una facile fuga dal dolore. Ad ogni problema complesso promette una soluzione semplice. Può riportare posti di lavoro semplicemente punendo le società che delocalizzano. Può curare l’epidemia di dipendenza costruendo un muro messicano e tenendo fuori i cartelli. Può risparmiare agli Stati Uniti l’umiliazione e la sconfitta militare con bombardamenti indiscriminati. E non importa che nessun leader militare credibile abbia appoggiato il suo piano. Trump non offre mai dettagli su come funzioneranno questi piani, perché non può. Le promesse di Trump sono l’ago nella vena collettiva dell’America”. “La grande tragedia” continuava Vance “è che molti dei problemi individuati da Trump sono reali e richiederebbero una riflessione seria e un’azione misurata”, ma “Trump è eroina culturale: fa sentire meglio alcuni per un po’. Ma non può risolvere ciò che li affligge e un giorno se ne renderanno conto. E solo allora, forse, la nazione sarà in grado di sostituire il rapido effetto placebo dello slogan Make America Great Again con la vera medicina”. Appena due anni dopo, come per incanto, il nostro caro James David si era convinto che quell’oppiaceo, quella eroina culturale, in realtà era esattamente quello che serviva per risvegliare il popolo americano e da lì in poi, da critico fervente, diventerà uno dei volti più noti proprio del MAGA, il Make america great again; cosa sarà stato mai a fargli cambiare idea?

Peter Thiel

La risposta è piuttosto semplice: si chiama Peter Thiel, il famigerato venture capitalist multimiliardario della Silicon Valley che, da sempre, affianca alla sua carriera di imprenditore visionario un’aura da guru dell’anarco-capitalismo più selvaggio che, però, non gli ha impedito di andare sempre a braccetto con l’intelligence USA; in particolare a partire dal 2004, quando con i soldi di In-Q-Tel, la società di venture capital della CIA, fondò Palantir che, come ha scritto Enrique Dans della IE Business School di Madrid, è “una delle società più sinistre del mondo”, “incarna tutto ciò che è sbagliato e immorale nella scienza dei dati” e che, in combutta – appunto – con i servizi, è impegnata sin dalla sua fondazione “in quello che sembra essere il più grande tentativo della storia di creare un macro-database globale da parte di un’azienda privata”. Peter Thiel è considerato uno degli ispiratori del cosiddetto movimento neo-reazionario, una specie di accelerazionismo di estrema destra che mira al ritorno a forme ultra-autoritarie di governo, monarchia assoluta compresa; la tesi – tutto sommato anche abbastanza corretta – è che “libertà e democrazia non siano compatibili”, almeno se prendiamo la loro accezione (sostanzialmente da sociopatici) di libertà e che, ovviamente, la priorità vada data alla difesa della libertà assoluta delle persone con maggiori capacità di fare un po’ cosa cazzo gli pare. Insomma: per usare un termine che magari vi è un po’ più familiare, parliamo sostanzialmente di nazisti, anche se fanno fatica a identificarsi direttamente ed esplicitamente col nazifascismo perché lì c’era comunque l’idea dello Stato imprenditore come promotore dello sviluppo delle forze produttive che, invece, per loro è un compito che spetta esclusivamente alle grandi corporation e al capitale finanziario privato. Il nostro JD ha avuto modo di conoscere da vicino Thiel durante gli anni alla scuola di legge di Yale e, come scrive Vance stesso in un suo articolo di 4 anni fa intitolato Come mi sono unito alla resistenza, “L’incontro con Peter” sottolinea JD “rimane il momento più significativo del mio periodo alla Yale Law School” non solo perché “era forse la persona più intelligente che avessi mai incontrato, ma anche, se non soprattutto, perché era un fervente cristiano” ed è proprio per devozione cristiana che, qualche anno dopo, Vance seguirà Thiel in una delle sue innumerevoli iniziative imprenditoriali, diventando uno dei top manager del fondo di venture capital specializzato in nuove tecnologie Mithril Capital; nel frattempo Thiel era diventato tra i principali sostenitori proprio di Donald Trump ed ecco così che, per pura coincidenza, avviene anche la conversione di JD non solo al cristianesimo messianico e filo-sionista, ma anche al trumpismo.
Ma la costruzione del personaggio Vance era appena all’inizio; nel 2017 JD decide di tornare in Ohio dove fonda un’organizzazione no-profit per combattere l’epidemia di oppiacei nella Rust Belt e un altro fondo per favorire la crescita delle iniziative imprenditoriali locali, ma secondo una lunga inchiesta di Business Insider del 2021 è tutta fuffa: “Molti politici cercano di rafforzare la propria immagine puntando sul proprio senso degli affari e sugli sforzi filantropici” sottolinea l’articolo. “In realtà, però, non è chiaro cosa Vance abbia ottenuto attraverso la sua azienda o il suo ente di beneficenza. Un’analisi di Insider della documentazione fiscale di Our Ohio Renewal ha mostrato che nel suo primo anno, l’organizzazione no-profit ha speso di più in servizi di gestione forniti dal suo direttore esecutivo – che funge anche da principale consigliere politico di Vance – che in programmi per combattere l’abuso di oppioidi. Il gruppo, che ha chiuso il suo sito web e abbandonato il suo account Twitter dopo aver pubblicato solo due tweet, afferma di aver commissionato un sondaggio per valutare i bisogni e il benessere degli abitanti dell’Ohio, ma la campagna di Vance ha rifiutato di fornire qualsiasi documentazione del progetto. E una portavoce della più grande coalizione anti-oppioidi dell’Ohio ha detto a Insider di non aver sentito parlare dell’organizzazione di Vance. E’ tutta una farsa, ci ha dichiarato Doug White, l’ex direttore del programma di master in gestione della raccolta fondi presso la Columbia University, che ha esaminato la dichiarazione dei redditi di Our Ohio Renewal per Insider” . D’altronde si sa: gli innovatori intraprendenti che combattono contro il sistema e il deep state non possono muovere un passo senza che gli si scateni contro la solita macchina del fango; rimane qualche dubbio sul fatto che Vance appartenga davvero a questa categoria, un dubbio che deve essere sorto non solo a noi: mentre infatti Vance lavorava giorno e notte per costruirsi questa immagine di Don Chisciotte anti-sistema, in quelli che vengono spesso considerati i posti più strategici da dove si costruisce la propaganda delle élite globaliste evidentemente si cominciava a pensare che la minaccia non fosse poi così reale e che, anzi, si poteva dare un bel contributo concreto a creare questo personaggio di fiction.
Nel 2020, infatti, nientepopodimeno che Netflix – e cioè l’avamposto per eccellenza della cosiddetta ideologia gender – decideva di dare un’altra botta di celebrità al nostro paladino anti-establishment investendo 50 milioni di dollari per trasformare il suo mediocre libro in un film che sarei tentato dire essere di bruttezza rara, ma che tutto sommato, visto quanto sono brutti in media i prodotti Netflix, non sfigura nemmeno troppo: il film si chiama, appunto, Hillbilly Elegy (tradotto in Italia in Elegia Americana) e da quando Vance è stato nominato vicepresidente in pectore, è tornato a scalare la classifica dei film Netflix più visti. Il film è piuttosto fedele al testo e allo spirito del libro: il degrado, verissimo, nel quale è precipitata l’America profonda, l’assoluta mancanza di una risposta collettiva e politica a questa deriva, il primato assoluto della famiglia e dei valori tradizionali come risposta a questo degrado, l’idea che solo la determinazione individuale paga e il ritratto di JD come di un eroe buono e senza macchia, intelligentissimo e in grado di trovare il successo nonostante tutte le avversità, ma anche un po’ pacioccone e sempre in grado di prendersi le sue responsabilità e perdonare i peccatori che lo circondano. Da quando è stato nominato, il cosiddetto mondo del dissenso si è messo a dissezionare le varie dichiarazioni politiche e le possibili mosse future, inseguendo l’illusione che la risposta che non siamo in grado di costruire dal basso con il nostro lavoro quotidiano arrivi magicamente un bel giorno dall’alto per gentile concessione; non fanno che parlare, giustamente, di quanto la classe politica sia una branca di teatranti e poi, inspiegabilmente, si fanno incantare da un personaggio costruito meticolosamente, pezzo dopo pezzo, a tavolino, col sostegno di oligarchi multimiliardari invischiati con la CIA e dei principali mezzi di produzione del consenso in circolazione. Se oggi Vance incarna meglio il senso comune è, molto banalmente, perché è stato costruito nel tempo a tavolino proprio per questo e intercettare così il voto che oggi i vecchi tromboni liberaloidi, dopo che sono stati presi a schiaffi per anni, non possono più intercettare; pensare che questa rappresentazione teatrale corrisponda poi anche a un cambio di linea concreto, significa molto semplicemente non aver capito come funziona il teatrino della democrazia rappresentativa nell’era della dittatura delle oligarchie – e con questo non voglio in nessun modo sostenere che all’interno delle classi dirigenti non esista nessuna forma di dialettica e che ogni opzione vada valutata nel dettaglio, al di là di ogni settarismo e di ogni schematismo, ma che ancora ci sia qualcuno che valuta politicamente le opzioni possibili in base alle puttanate che ci raccontano e alle commedie che mettono in scena mi sembra disarmante.
Per de-costruire le narrazioni e la propaganda degli arruffapopoli, abbiamo sempre più bisogno di un vero e proprio media tutto nostro che, invece che alla loro commedia, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Matteo Salvini

L’Ue fa da spettatrice mentre Trump e Biden trasformano la NATO nel braccio armato di Wall Street

I mercati hanno salutato l’attentato che ha spalancato i cancelli della Casa Bianca a The Donald con entusiasmo; significa che il capitale ha ormai decretato che la svolta neo-autoritaria è la strada più sicura? Forse. O forse è anche peggio di così. Il nostro Alessandro Volpi la vede ancora più nera: ai grandi capitali, di chi arriva alla Casa Bianca non gliene può fregare di meno perché i rapporti di forza, ormai, sono totalmente a vantaggio di Wall Street; l’unica fonte potenziale di instabilità può solo arrivare dall’esterno. Ed ecco che la NATO si trasforma ufficialmente nel braccio armato delle oligarchie finanziarie e a pagare il conto sono i cosiddetti alleati di Washington.

Da Reagan a Trump: quando gli attentati falliti permettono di accelerare la svolta ultra-reazionaria

30 marzo 1981, Washington, Hilton Hotel: in meno di 5 secondi, John Warnock Hinckley, giovane rampollo di una ricca famiglia di petrolieri texani vicina all’ala moderata dei repubblicani, rappresentata allora dall’amico vice presidente George W. Bush, esplode 7 colpi della sua calibro 22; il bersaglio è una ex star di B movie, diventato poi particolarmente noto in veste di presidente del più importante sindacato di attori di Hollywood, incarico che ha onorato trasformandosi in uno dei più efficienti bracci armati della caccia alle streghe del maccartismo. Si chiamava Ronald Reagan e, da appena 69 giorni, era stato ufficialmente nominato quarantesimo presidente degli Stati Uniti d’America; venne raggiunto da un proiettile che gli perforò un polmone e si arrestò ad appena 25 millimetri dal cuore. Affrontato con successo l’intervento di emergenza e dopo appena 10 giorni di convalescenza, Reagan tornerà sulla scena politica circondato da un’aura di popolarità senza precedenti che gli permetterà, negli 8 anni successivi, di portare a termine senza ostacoli quella radicale controrivoluzione conservatrice sulla quale si fonda il mondo distopico nel quale siamo tuttora immersi. Come ci ricorda Marco D’Eramo , il grosso del piano di quella controrivoluzione, poco prima, era stato messo nero su bianco in un lunghissimo libro bianco di oltre 1000 pagine curato dalla Heritage Foundation, uno dei più importanti e influenti think tank reazionari a stelle e strisce e che, alla fine del doppio mandato di Reagan, si vantava pubblicamente “che il 60-65% delle sue raccomandazioni fosse stato fatto proprio dall’amministrazione, che nel corso di due mandati vantò tra i suoi membri 36 funzionari provenienti dal think tank” (Marco D’Eramo – Dominio: la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi).

L’attentato a Ronald Reagan

Un precedente piuttosto inquietante: proprio come Reagan allora, infatti, anche il nostro The Donald rappresenta tutto sommato un outsider; entrambi, poi, vengono “ritenuti totalmente ignoranti e inadeguati alla presidenza”, due “candidati su cui l’estrema destra non puntava, perché considerati inaffidabili, ma assistiti e pilotati dopo l’elezione” (Marco D’Eramo – Dominio: la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi) e, ora come allora, a descrivere nel dettaglio la missione di questi candidati ultra-reazionari ritenuti del tutto impresentabili dai benpensanti, ecco che immancabilmente arriva l’ennesimo, lunghissimo e dettagliatissimo libro bianco della Heritage Foundation. C’ha pure lo stesso identico titolo: Mandate for Leadership, mandato per la leadership, oltre 1000 pagine di suprematismo messianico allo stato puro; per completare il parallelo, mancava giusto un altro attentato fallito. Ma prima di provare a fare un piccolo riassunto del piano delirante che, con ogni probabilità, caratterizzerà la missione civilizzatrice di The Donald, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra battaglia quotidiana contro il regime distopico degli algoritmi e, già che ci siete – se ancora non lo avete fatto – di iscrivervi a tutti i nostri canali social e attivare le notifiche; non basterà da solo a rinviare l’inizio di un’altra lunga stagione di lotta di classe dall’alto contro il basso, ma almeno ci aiuterà a diffondere un po’ di consapevolezza su cosa ci aspetta e, magari, anche su cosa è necessario fare per difendersi.
“Nell’inverno del 1980” ricorda nella prefazione al libro bianco Paul Dans, direttore del progetto di transizione presidenziale 2025 presso la Heritage Foundation, “la nascente Heritage Foundation inoltrò al presidente eletto Ronald Reagan il suo testo Mandato per la leadership. Questo lavoro collettivo da parte dei principali intellettuali conservatori e di ex funzionari governativi, definiva le principali prescrizioni politiche, agenzia per agenzia, per il presidente entrante… E la rivoluzione che seguì molto probabilmente non sarebbe mai avvenuta, se non fosse stato per il lavoro di questi attivisti. Con questo testo ora siamo tornati al Futuro, e oltre. Ma” sottolinea Dans, ormai “non siamo più nel 1980. Adesso il gioco è cambiato. E” – alzate bene le antenne perché questo passaggio è notevole – “la lunga marcia del marxismo culturale all’interno delle nostre istituzioni ormai è avvenuta”. Insomma: altro che pensiero unico neo-liberale; nonostante facciate tanto i democratici e vi mascheriate da umili servi del grande capitale, siete sempre i soliti vecchi comunisti che hanno trasformato il governo federale in “un colosso armato contro i cittadini americani e i valori conservatori” ponendo le libertà fondamentali “sotto assedio come mai prima d’ora”. Di fronte al trionfo del socialismo e dell’internazionalismo proletario, la missione storica di tutti noi sinceri conservatori non può che essere “invertire la tendenza, e ripristinare i valori fondativi della nostra Repubblica”, una missione così ampia e fondamentale che non può essere semplicemente affidata a qualche “punta di diamante”, ma che “necessita di un lavoro collettivo da parte di tutto il nostro movimento”. Insomma: sembra quasi uno dei tanti appelli che lanciamo come Ottolina Tv, solo che la finalità – invece che dare voce al 99% – è quella di metterlo definitivamente a tacere con ogni mezzo necessario e consegnare lo scettro del potere a una minoranza di fondamentalisti cristiani suprematisti che hanno il compito di ripulire le istituzioni da tutte le infiltrazioni (come ai bei tempi andati del maccartismo e della caccia alle streghe) e rilanciare la missione civilizzatrice dell’eccezionalismo USA, costi quel che costi: “Il Nostro obiettivo” continua Dans, ormai senza più nessun freno inibitore, “è mettere insieme un esercito di conservatori allineati, controllati, addestrati e preparati a mettersi al lavoro fin dal primo giorno per decostruire” quello che definiscono “the administrative state”, lo stato amministrativo e cioè, appunto, la macchina distopica nella quale sarebbe stato trasformato l’apparato statale federale con l’affermarsi dell’egemonia del marxismo culturale.
Questa linea viene ribadita e approfondita poi nell’introduzione, affidata a Kevin Roberts, il presidente della Heritage Foundation: “44 anni fa” ricorda Roberts, riferendosi al periodo immediatamente precedente l’inizio della controrivoluzione neo-liberale avviata da Reagan, “gli Stati Uniti e il movimento conservatore versavano in gravissime difficoltà. Entrambi erano stati traditi dall’establishment di Washington e non avevano più punti di riferimento: erano frammentati, e strategicamente alla deriva” e il tutto proprio mentre “eravamo assediati da avversari esistenziali, stranieri e domestici. La fine degli anni ’70 fu in assoluto uno dei momenti più bassi dell’intera storia americana, e della coalizione politica che avrebbe dovuto preservarne l’unicità in termini di libertà e prosperità umana”; “Oggi” continua Roberts “l’America e il movimento conservatore stanno attraversando un’era di divisione e pericolo simile alla fine degli anni ’70”. “L’inflazione sta devastando i bilanci familiari, i morti per overdose continuano ad aumentare e i bambini subiscono la tossica normalizzazione dei diritti transgender con drag queen e pornografia che invadono le biblioteche scolastiche”, ma soprattutto “All’estero, una dittatura comunista totalitaria a Pechino è impegnata in una guerra fredda strategica, culturale ed economica contro gli interessi, i valori e le persone dell’America” che rappresenta una minaccia esistenziale per “i fondamenti morali stessi della nostra società”; “Eppure” continua Roberts “gli studiosi di storia non possono fare a meno di notare come, nonostante tutte queste sfide, l’ultima parte degli anni ’70 alla fine si sia rivelata il momento in cui la destra politica si è riunificata, ha riunificato il paese, e ha portato gli USA a una lunga serie di vittorie politiche, economiche e globali di portata storica”. In questa svolta, rivendica con orgoglio Roberts, “la Heritage Foundation è orgogliosa di aver svolto un ruolo piccolo ma fondamentale”: come abbiamo già anticipato, infatti, a partire dal 1979 la fondazione cominciò a mettere insieme centinaia di opinion leader ultraconservatori di ogni genere che insieme lavorarono alla stesura di un lungo elenco di politiche concrete da implementare per “riformare il governo federale e salvare il popolo americano dalle disfunzioni di Washington”; nell’arco dei due mandati dell’amministrazione Reagan, sottolinea Roberts, “Oltre il 60% di queste raccomandazioni vennero tradotte in atti concreti”, permettendogli così di “mettere fine alla stagflazione, rilanciare la fiducia e la prosperità americana e vincere la Guerra Fredda”. Quattro decenni dopo però, denuncia Roberts, “La nostra classe dirigente politica e la nostra élite culturale sono riuscite ancora una volta a spingere di nuovo l’America verso il declino”; “La buona notizia però” rilancia “è che oggi sappiamo esattamente quale sia la via d’uscita, anche se le sfide attuali non sono più quelle degli anni ’70”. E quella via d’uscita è, appunto, la promessa conservatrice, il sottotitolo del libro bianco, una promessa che fondamentalmente si articola attraverso 4 pilastri fondamentali: “1. Ripristinare la famiglia come fulcro della vita americana e proteggere i nostri figli”; “2. Smantellare lo stato amministrativo e restituire il potere dell’autogoverno al popolo americano”; “3. Difendere la sovranità, i confini e la generosità della nostra nazione contro le minacce globali” e, infine, “4. Garantire il diritto individuale, datoci da Dio, di vivere liberamente”. Insomma: in piena continuità con la retorica conservatrice che si è fatta strada con l’ascesa dei post-fascisti in Italia e in Europa, un bel mix esplosivo di Dio, patria e famiglia con l’aggiunta tutta neo-liberale del primato assoluto del diritto del più forte a esercitare una libertà senza confini a sottomettere e sfruttare gli altri; come dire che chi parla di ritorno del fascismo, potrebbe rivelarsi tutto sommato ingiustificatamente ottimista.
Visto che l’attuazione concreta di un piano così ambizioso e ideologicamente orientato potrebbe essere ostacolata dai dipendenti pubblici che hanno sentito così tante volte le vaccate sui valori liberali da arrivare, in qualche modo, a crederci davvero, il libro bianco propone due linee d’azione piuttosto inquietanti: la prima è ampliare a dismisura il numero di funzionari pubblici che ricadono sotto la categoria di incaricati politici, in modo da permettere a Trump di ricorrere allo spoil system, invece che per 3 – 4 mila funzionari, per diverse decine di migliaia. Per capire meglio dove andare a mirare più direttamente, il piano prevede di sottoporre ai dipendenti pubblici un questionario per capire chi aderisce senza tentennamenti all’ideologia neo-conservatrice e chi no: “Molte persone perderanno il lavoro” ha chiarito Roberts in un’intervista all’Associated Press; “Molti edifici pubblici verranno chiusi. Però noi speriamo che queste persone possano comunque prosperare. Speriamo che possano essere riconvertiti all’industria privata”. Molti osservatori conservatori, però, hanno sottolineato come questa operazione presenti numerose criticità e non certo perché è illiberale; molto semplicemente, perché è concretamente molto difficile da realizzare e svuoterebbe la macchina pubblica di competenze essenziali – come se per i Milei de noantri, gli orfani di Milton Friedman e di Pinochet, questo rappresentasse un problema. In realtà è un incentivo: quello che rimane di pubblico, meno funziona – da un certo punto di vista – e meglio è. Comunque ovviamente ci sono dei limiti; per superarli, quindi, ecco la seconda illuminante proposta: a quelli competenti che ci dobbiamo tenere e che non sono fedeli militanti neo-conservatori, togliamogli comunque ogni forma di indipendenza. Il libro bianco, infatti, propone un’estensione massiccia dei poteri della Casa Bianca a discapito dell’indipendenza delle diverse agenzie governative: dall’FBI alla Federal Trade Commission, tutta la complessa articolazione della macchina statale sviluppata in ossequio ai principi liberali deve essere ribaltata in ossequio, questa volta, alla nuova svolta neo-autoritaria.
Il problema a questo punto, una volta sdoganata la svolta neo-autoritaria, è trovare il modo di inventarsi qualcosa per giustificare la guerra totale all’autoritarismo cinese, alla quale viene data la priorità assoluta in politica estera: “Per 30 anni” sottolinea Roberts sempre nell’introduzione “i leader politici, economici e culturali americani sono andati a braccetto con la Cina comunista e il Partito Comunista genocida che la governa, mentre svuotavano la base industriale dell’America”; “Il Partito Comunista Cinese ha dettato i termini della nostra relazione, per poi infrangerli ogni volta che le tornava utile. Hanno rubato la nostra tecnologia, spiato la nostra gente e minacciato i nostri alleati, il tutto con trilioni di dollari di ricchezza e potere militare finanziati grazie alla facilità con la quale potevano accedere al nostro ricco mercato interno”. “Il rapporto economica con la Cina” sentenzia “dovrebbe essere interrotto, non ripensato”: per giustificare ideologicamente la completa avversione a uno Stato straniero che, nella peggiore delle ipotesi, può essere accusato esclusivamente di non aver implementato quelle divisioni tra i poteri dello Stato tipiche dell’assetto liberale (proprio mentre proponi di smantellarle anche te per primo), non rimane altro che l’aspetto razziale e identitario; ed ecco così spiegata la totale adesione al progetto sionista. E’ un esempio: secondo i simpatici amici dell’Heritage Foundation, infatti, gli USA devono tornare ad essere una stato confessionale, perfettamente aderente alle sue radici giudaico-cristiane; come ha dichiarato l’ex direttore dell’ufficio di gestione e bilancio dell’amministrazione Trump Russel Vought, dovremmo “riconoscere l’America come nazione cristiana” e anche se dovremmo garantire “una separazione istituzionale tra Chiesa e Stato”, dovremmo superare “la separazione del cristianesimo dalla sua influenza sul governo e sulla società”.

L’attentato a Donald Trump

Come ripetiamo continuamente, con la guerra che avanza senza tentennamenti, quello liberale non è più l’involucro istituzionale ideale per le potenze dell’imperialismo occidentale e la svolta neo-autoritaria, a meno di un grande movimento di massa, è inevitabile e molto più vicina di quanto non si pensi; la Heritage Foundation ha perlomeno il merito di dirlo chiaramente e di anticiparci con chiarezza quello che ci dobbiamo attendere dal prossimo futuro: ora sta a noi organizzarci per impedirglielo. Per farlo, di sicuro – di fronte alle loro decine di think tank riempiti di quattrini fino agli occhi da un manipolo di oligarchi suprematisti – come minimo abbiamo bisogno di un vero e proprio media in grado di smontare, pezzo dopo pezzo, la loro retorica e le loro menzogne e dare voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il generale Vannacci

Attentato a Trump: America a rischio caos – ft. Roberto Vivaldelli

L’attentato a Donald Trump ha sollevato molti dubbi sulle falle del Secret Service, dando adito a speculazioni su cosa c’è dietro e chi è stato davvero. Al di là delle teorie cospirazioniste di destra e sinistra, con il giornalista Roberto Vivaldelli cerchiamo di ricostruire il tentato omicidio, lo scenario in cui si è svolto, cosa non ha funzionato, come condizionerà l’elettorato e come cambierà la campagna elettorale. L’America riuscirà a ritrovare una coesione o scivolerà in una spirale di violenza?

Il ritorno degli Euromissili in Germania avvicina l’armageddon nucleare

SM-6, Tomahawk, Dark Eagle, OpFires, PrSM: la lista delle nuove sigle da imparare è corposa, ma mi sa che ci toccherà cominciare a familiarizzarci un pochino. Quelli elencati sopra, infatti, sono i nomi in codice dei nuovi missili a raggio intermedio più o meno pronti a invadere la Germania e far precipitare definitivamente il vecchio continente nel conflitto aperto contro il gigante russo; lo hanno annunciato in un brevissimo comunicato congiunto i governi tedesco e statunitense mercoledì scorso, quasi come se niente fosse: “Gli Stati Uniti” si legge “inizieranno il dispiegamento episodico delle capacità di fuoco a lungo raggio della loro task force multi-dominio in Germania nel 2026, come parte della pianificazione per lo stazionamento duraturo di queste capacità in futuro. Una volta completamente sviluppate” continua la dichiarazione “queste unità convenzionali per il fuoco a lungo raggio includeranno” appunto “SM-6, Tomahawk e armi ipersoniche in via di sviluppo, che hanno una portata significativamente più lunga rispetto agli altri sistemi d’arma lanciati da terra attualmente presenti in Europa. L’esercizio di queste capacità” conclude la dichiarazione “dimostrerà l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della NATO e il suo contributo alla deterrenza integrata europea”. Insomma: bentornati Euromissili.

Sergey Ryabkov

A 5 anni dall’uscita unilaterale degli USA dal Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF per gli amici) che nel 1987 aveva messo fine a quella che probabilmente è stata la più pericolosa corsa al riarmo dell’intera storia dell’umanità, la guerra per procura provocata dagli USA in Ucraina contro la sicurezza nazionale russa e ogni velleità sovranista del vecchio continente fornisce la scusa perfetta per trasformarci, di nuovo, nell’avamposto della guerra imperialista contro ogni tentativo di emancipazione dei popoli dalla dittatura delle oligarchie finanziarie transnazionali: “Questa” ha commentato il viceministro degli esteri russo Sergey Ryabkov “è l’ennesima prova tangibile della politica di destabilizzazione intrapresa dagli USA nell’era post Trattato INF”; “Dopo che Washington ha deliberatamente distrutto il Trattato INF” ha ribadito Ryabkov “gli americani hanno chiaramente dichiarato la loro intenzione di posizionare armi precedentemente proibite dal trattato in diverse regioni del mondo. E con il sostegno incondizionato dei loro alleati, ora passano alla fase attiva dei loro piani”. Ryabkov ha poi sottolineato come, ovviamente, “Le azioni degli Stati Uniti e dei loro satelliti che creano ulteriori minacce missilistiche alla Russia non rimarranno senza la dovuta risposta da parte nostra” e ha ricordato come Putin abbia già parlato apertamente della necessità di “riconsiderare la moratoria unilaterale della Russia sullo schieramento di missili terrestri a raggio intermedio” che impegnava la Russia, almeno formalmente, a continuare a rispettare i parametri del trattato: “Le agenzie russe” ha continuato Ryabkov, sono state costrette ora a avviare “il lavoro sullo sviluppo di contromisure compensative, e continueranno questo lavoro in modo sistematico”; “La dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Germania” ha insisstito Ryabkov “avrà conseguenze distruttive per la sicurezza regionale e la stabilità strategica”, “ma purtroppo” ha concluso, era tutto ampiamente “previsto”. Per chi ancora si illude che il sempre più probabile cambio di guardia alla Casa Bianca il prossimo novembre potrebbe rappresentare una svolta nell’escalation bellicista di Washington e dei suoi vassalli, è bene ricordare che il ritiro unilaterale degli USA dal Trattato INF è stata proprio una scelta della prima amministrazione Trump; l’esigenza strutturale delle oligarchie USA di dichiarare guerra a chiunque anche solo accenni ad avanzare critiche alla dittatura globale del dollaro, delle differenze di narrazione utilizzate dalle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari, molto banalmente, se ne sbatte completamente i coglioni e continua a procedere con il pilota automatico qualunque sia il pupazzo temporaneamente elevato al ruolo di commander in chief.
Il ritorno ai missili a medio-lungo raggio precedentemente proibiti dal trattato stracciato da The Donald ha già un precedente: nell’aprile scorso, infatti, per la prima volta l’esercito statunitense aveva inviato all’estero elementi del suo nuovissimo sistema missilistico terrestre noto col nome di Typhon, in grado – appunto – di lanciare sia missili da crociera Tomahawk che missili multiuso SM-6; la destinazione, manco a dirlo, era stata The next Ukraine, la prossima Ucraina dell’Asia-Pacifico, la non tanto ex colonia USA delle Filippine. “L’arrivo di Typhoncommentava il 15 aprile The War Zone “invia un segnale forte a Pechino e in tutta la regione”; la corsa a riempire nuovamente il globo di sistemi d’attacco a medio e lungo raggio in grado di minacciare gli obiettivi sensibili delle grandi potenze ribelli del pianeta è talmente strategica che ha imposto una riorganizzazione complessiva delle forze armate USA, sintetizzata in un libro bianco pubblicato lo scorso 28 febbraio: al primo punto del piano c’è il completamento della creazione di 5 task force multi-dominio che dovranno includere unità di difesa aerea e missilistica nonché, appunto, “unità dotate di nuovi sistemi missilistici a lungo raggio, compresi quelli ipersonici”. “Per quasi vent’anni” sottolinea il libro bianco “la struttura delle forze dell’Esercito ha rispecchiato l’attenzione alle operazioni di contro-insurrezione e antiterrorismo che hanno dominato dopo gli attacchi dell’11 settembre… Ma alla luce del cambiamento del contesto di sicurezza e dell’evoluzione del carattere della guerra, l’Esercito si sta concentrando nuovamente sulla conduzione di operazioni di combattimento su larga scala contro potenze militari tecnologicamente avanzate”: il sistema Typhon inviato nelle Filippine è stato esattamente assegnato alla prima di queste task force; l’arrivo anche nel cuore del vecchio continente era, ovviamente, esclusivamente questione di tempo. Nel novembre del 2021 infatti, ben prima della fantomatica invasione dell’Ucraina da parte del plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino, l’esercito americano in Germania aveva ufficialmente riavviato il famigerato 56esimo comando di artiglieria; come ricostruisce The War Zone, si tratta dell’unità che, tra il 1963 e il 1991, aveva il mandato di comandare battaglioni armati con missili balistici con testate nucleari Pershing e Pershing II: L’esercito rilancia l’unità missilistica nucleare della Guerra Fredda per schierare nuove armi a lungo raggio in Europa, titolava allora la testata.

La base del comando ha il suo centro operativo a Mainz-Kastel, il castello di Magonza, dove appunto sta prendendo forma anche la seconda divisione multi-dominio dell’esercito e sin da subito è stato chiaro che, oltre ai sistemi Typhon, l’obiettivo era equipaggiarli con il Precision Strike Missile, l’ultimo arrivato della famiglia dei missili balistici e, soprattutto, con il Dark Eagle, l’arma ipersonica a lungo raggio che l’esercito sta sviluppando come parte di un programma congiunto con la marina americana; secondo The War Zone “La Dark Eagle dovrebbe essere in grado di colpire obiettivi ad almeno 1.725 miglia di distanza” che percorrerebbe “lungo una traiettoria di volo atmosferica, ad una velocità fino a Mach 17”. E la Germania è solo la punta dell’iceberg: tra i vari eventi secondari tenutesi durante l’ultimo Summit NATO, particolare rilevanza – anche se non da parte dei media mainstream – ha avuto il quadrilaterale tra Francia, Germania, Italia e Polonia durante il quale è stata firmata una lettera di intenti per lo sviluppo dell’ELSA, lo European Long Range Strike Approach, la risposta tutta europea al ritorno – appunto – al dispiegamento di missili a lungo raggio che mira a “sviluppare, produrre e fornire capacità nell’area degli attacchi a lungo raggio, che sono estremamente necessarie per scoraggiare e difendere il nostro continente”, come recita il thread su X pubblicato per l’occasione dall’ambasciata francese negli USA. Insomma: finalmente l’era post Trattato INF, inaugurata dal compagno Trump ben prima che la guerra per procura in Ucraina deflagrasse definitivamente, si sta concretizzando in una corsa al riarmo missilistico generalizzato nel vecchio continente e ora, come sottolinea The War Zone, rimane solo da attendere “di vedere esattamente che tipo di risposta arriverà dalla Russia”. A lanciare l’allarme, sempre interrogato da The War Zone, ci pensa Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project presso il think tank della FAS, la federazione degli scienziati americani, che sottolinea come “è inevitabile che la Russia reagisca con annunci sui propri missili a lungo raggio, compresi missili potenzialmente balistici”; l’idea, infatti, è che la reazione russa non preveda solo l’installazione di nuovi sistemi d’arma in grado di raggiungere i punti sensibili di tutto il vecchio continente, ma anche direttamente “obiettivi simili negli Stati Uniti” e “in questo caso, l’arma preferita sarebbero probabilmente i missili balistici intercontinentali con testate nucleari, potenzialmente multiple”: come sottolinea sul suo profilo X l’analista militare filo-atlantista Pavel Podvig “Se vi piacevano gli SS-20, amerete gli RS-26”.
Gli SS-20, appunto, sono i missili balistici sovietici a raggio intermedio che rappresentavano il cuore della deterrenza nucleare durante la Guerra Fredda, prima dell’entrata in vigore del Trattato INF che aveva acceso una luce di speranza decretandone la distruzione; l’RS-26, invece, è sostanzialmente il suo erede diretto: come ricorda sempre The War Zone “Il recente status dell’RS-26 è piuttosto poco chiaro, con rapporti risalenti al 2018 secondo i quali il programma sarebbe stato sospeso a favore di altre armi strategiche, comprese quelle ipersoniche”, ma “i recenti sviluppi potrebbero portare a un ripensamento”. “Un’arma del genere” conclude The War Zone “reintrodurrebbe nel teatro europeo una dinamica ben nota, con un missile balistico russo con capacità nucleare, la cui gittata è ottimizzata per colpire le capitali dell’Europa occidentale e obiettivi militari chiave. In questo modo, l’RS-26 potrebbe diventare un analogo dell’SS-20 e potrebbe avere lo stesso impatto sulla situazione di sicurezza strategica del continente”. E se questo bel quadretto non vi basta, eccovi la ciliegina: Robert C. O’Brien è stato uno dei più ascoltati consiglieri per la sicurezza nazionale della seconda parte dell’amministrazione Trump e tra gli architetti del ritiro unilaterale dal Trattato INF e dalle pagine di Foreign Affairs fa una proposta inquietante; “Si vis pacem, para bellum” – se vuoi la pace, preparati alla guerra – rilancia nell’incipit dell’articolo e, per prepararsi alla guerra, suggerisce che “Gli Stati Uniti devono mantenere la superiorità tecnica e numerica rispetto agli arsenali nucleari cinesi e russi combinati” e “per fare ciò, Washington deve testare l’affidabilità e la sicurezza delle nuove armi nucleari nel mondo reale per la prima volta dal 1992, non solo utilizzando modelli computerizzati”. “Un’idea terribile” ha commentato sul New York Times Ernest Moniz, che da segretario per l’energia durante l’amministrazione Obama aveva l’incarico di supervisionare l’arsenale nucleare a stelle e strisce: “Nuovi test ci renderebbero meno sicuri” avrebbe affermato, perché “Non possono essere separati dalle ripercussioni globali”; “Una detonazione statunitense” ricorda il Times “violerebbe il Trattato sul divieto totale degli esperimenti nucleari, a lungo considerato una delle misure di controllo degli armamenti di maggior successo. Firmato dalle potenze atomiche del mondo nel 1996, mirava a frenare una costosa corsa agli armamenti che era andata fuori controllo”.
Negli ultimi mesi mi sono scontrato spesso con persone che sostenevano che la certezza della mutua distruzione in caso di escalation nucleare continuava ad essere un deterrente sufficientemente potente da tenerci al sicuro; sarò catastrofista, ma mi sembra una gigantesca puttanata, il classico bias che ci impedisce di ragionare razionalmente su scenari eccessivamente catastrofici. Al contrario, a me sembra palese che, giorno dopo giorno, la necessità dell’impero fondato sul dollaro e sullo schema Ponzi della finanza speculativa di arrestare la transizione a un nuovo ordine multipolare renda verosimili anche gli scenari più catastrofici; se volete approfondire le ragioni profonde che ci hanno portato a questa lettura della fase che stiamo attraversando, abbiamo provato a ricostruirle in questo breve pamphlet che riassume oltre due anni del nostro sforzo quotidiano per orientarci tra – come dice sempre Xi Jinping – “trasformazioni che non vedevamo da 100 anni”. Secondo la nostra analisi, in realtà, l’unico modo per mettere al sicuro la sopravvivenza della nostra specie è cacciare a pedate (una volta per tutte) dai posti di comando tutti i fedeli servitori del partito unico della guerra e degli affari e, per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un vero e proprio media che smonti la retorica suprematista e guerrafondaia delle oligarchie e dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Daniele Capezzone