Perché il vertice BRICS di Kazan è l’ultima speranza che abbiamo per evitare la terza guerra mondiale
Ottoliner buongiorno e benvenuti a questo nuovo appuntamento delle cronache di fine impero; come molti di voi sapranno, nonostante il silenzio assordante del circo mediatico domani a Kazan avrà inizio quello che, con ogni probabilità, è l’evento di politica internazionale più importante dell’anno: il sedicesimo summit annuale dei BRICS (ormai ufficialmente BRICS+), probabilmente il più importante dalla loro fondazione nel 2009, subito dopo lo scoppio della grande crisi finanziaria causata dagli USA e pagata da tutto il resto del mondo. L’Occidente collettivo, infatti, che è ostaggio di una ristrettissima oligarchia finanziaria che deve il suo dominio all’imperialismo finanziario USA e alla dittatura globale del dollaro, ha già dichiarato la guerra totale al resto del mondo per ostacolare l’ineluttabile transizione a un nuovo ordine multipolare; e, dopo aver subito una clamorosa sconfitta nella prima battaglia sul fronte ucraino, è impegnato a sostenere la deflagrazione definitiva di un secondo fronte in Medio Oriente per salvare la faccia, destabilizzare il pianeta e ostacolare così, appunto, la crescita economia e industriale dei presunti avversari. Di fronte alle evidenti difficoltà del blocco occidentale, in molti (ovviamente intendo tra gli antimperialisti che, comunque, alle nostre latitudini sono una piccola minoranza, per quanto sempre più consistente), presi dall’entusiasmo, tifano per una resa dei conti definitiva che metta fine per sempre all’imperialismo a guida USA attraverso le armi e – sempre presi dall’entusiasmo – sono spinti a farsi un’immagine dei BRICS+ come di un blocco di Paesi coeso, pronto a guidare questa distruzione – via missili ipersonici – del Grande Satana. Purtroppo (o per fortuna) rischiano di rimanere delusi: ammesso e non concesso che alcuni dei BRICS+ auspichino davvero la resa dei conti definitiva via armi contro il dominio dell’Occidente collettivo, quello che possiamo dire con un discreto margine di certezza è che, di sicuro, non è una posizione condivisa e nemmeno maggioritaria; al contrario delle facilonerie massimaliste o delle puttanate sugli opposti imperialismi, le classi dirigenti dei Paesi BRICS+ non hanno niente a che vedere coi deliri fascistoidi sulla guerra sola igiene del mondo di marinettiana memoria, che è invece un patrimonio culturale che appartiene interamente ai battaglioni Azov e ai coloni israeliani. I Paesi BRICS+ vogliono la pace e la stabilità per continuare a intraprendere i loro rispettivi percorsi di crescita e riscatto nazionale: alcuni con un occhio di riguardo, in particolare, verso le loro classi popolari come la Cina, guidata dal più grande e organizzato partito comunista della storia; altri con un occhio di riguardo, in particolare, per le loro élite economiche e politiche come l’India e gli Emirati Arabi Uniti. Il punto è che, al contrario dei piddini e delle fazioni più radicali della sinistra ZTL, sanno benissimo (perché lo sperimentano sulla propria pelle in modo plateale da decenni) che l’architettura finanziaria internazionale esistente è stata costruita in modo dettagliato e certosino proprio per ostacolarne la crescita e per permettere a tutto l’Occidente – e, in particolare, agli USA e alle sue oligarchie – di appropriarsi del grosso della ricchezza del pianeta anche a costo di ostacolarne la crescita complessiva. L’obiettivo dei BRICS+, quindi, è quello di mettere insieme tutti i Paesi che – proprio a causa dell’architettura finanziaria globale attuale – vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza e delle loro prospettive di crescita, nel tentativo di costruire in modo collaborativo nuove istituzioni che permettano di emanciparsi dall’unipolarismo USA e dalla dittatura del dollaro.
E non è ancora finita, perché – ovviamente – questo processo, per l’imperialismo USA e per le sue oligarchie, rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale al pari dei missili a medio raggio con testate atomiche in Ucraina per la Russia; e contro le minacce esistenziali, le grandi potenze – piaccia o non piaccia – reagiscono con ogni mezzo necessario, compreso il ricorso all’atomica, che è proprio quello che i BRICS+ vorrebbero in ogni modo evitare. Inoltre, sebbene il sistema finanziario attuale impedisca il pieno sviluppo delle economie nazionali, cionondimeno ha garantito ad alcune fazioni delle élite del Sud globale di partecipare, col ruolo di gregari, alla grande rapina globale impedendogli – sì – l’accesso alla stanza dei bottoni (che è prerogativa esclusiva delle oligarchie diretta emanazione di Washington e di Wall Street), ma comunque assicurandogli guadagni imponenti; il risultato che segue al combinato disposto di questi due elementi rischia (un’altra volta) di deludere così non solo chi spera che i BRICS+ dichiarino la guerra guerreggiata all’imperialismo USA, ma anche quelli che sperano che almeno gli dichiarino una vera e propria guerra economica. Fortunatamente, però, noi – che siamo moderati e pacifisti – ci accontentiamo di molto meno, e chi s’accontenta gode; e io, personalmente, nel leggere il documento ufficiale del ministero delle finanze e della Banca Centrale della Federazione russa, che mette nero su bianco la proposta concreta di riforma del sistema finanziario globale che sarà discussa durante il summit, ho goduto come un riccio. Il documento, infatti, è una prova da manuale di realismo politico e di concretezza: invece di porsi obiettivi roboanti spendibili in conferenza stampa (ma, sostanzialmente, velleitari), si pone obiettivi realistici in grado di trovare un ampio consenso non solo all’interno delle élite più filo-occidentali degli stessi BRICS+, ma – addirittura – in una parte consistente di élite occidentali vere e proprie, ma che, ciononostante, gradualmente, ma inesorabilmente, svuotano dall’interno l’imperialismo finanziario USA e la dittatura del dollaro. Ovviamente, come tutti i piani frutto della realpolitik, il punto starà nel valutare concretamente, passo dopo passo, come questo piano procede in mezzo alla complicata dialettica che metterà in moto; per questo, noi di Ottolina Tv insieme agli amici Giacomo Gabellini col suo canale Il Contesto, Davide Martinotti col suo canale Dazibao e Stefano Orsi con il suo canale personale, abbiamo deciso di unire le forze e, nei prossimi giorni – da martedì a giovedì, dalle 18 alle 20 -, trasmettere in contemporanea a reti unificate su tutti e tre i nostri canali due ore di approfondimento su quello che emergerà dal summit, nel tentativo di uscire dalle rappresentazioni macchiettistiche e propagandistiche tanto dell’informazione mainstream quanto della cosiddetta controinformazione che vive più di slogan e wishful thinking che di analisi rigorose.
Prima di addentrarci in questa tre giorni, però, come Ottolina Tv, insieme a Gabriele Germani e ad Alessandro Bartoloni Saint Omer, abbiamo voluto fare una piccola introduzione for dummies che dia gli strumenti di base per poter giudicare in modo indipendente, ma informato, quello che avverrà nei prossimi giorni. E’ con estremo piacere, quindi, che vi presento questa piccola introduzione in 3 capitoli ai BRICS+ e allo storico summit di Kazan 2024.
Gabriele
Buongiorno a tutti, Ottoliner: oggi, con l’avvicinarsi dell’evento dell’anno – il vertice dei BRICS a Kazan – vi presentiamo un pippone speciale; corale, direi. I BRICS nascono nel giugno del 2009 come un gruppo informale di area economica e politica tra quattro paesi: Brasile, Russia, India e Cina; a questi, dal 14 aprile del 2011, si è aggiunto il Sudafrica, passando da BRIC a BRICS, dove la esse è la lettera iniziale del paese africano; questi rappresentano oggi oltre il 40% della popolazione mondiale e il 25% del PIL globale. Il loro obiettivo principale? Creare un’alternativa concreta al sistema dominato dagli Stati Uniti d’America e dalle potenze occidentali, spesso visto come ingiusto e dannoso per molte nazioni in via di sviluppo. A differenza delle vecchie istituzioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, che hanno spesso imposto condizioni gravose ai paesi più poveri, i BRICS promuovono una cooperazione basata sul rispetto reciproco: hanno creato nel 2014 una propria banca, la New Development Bank, che finanzia progetti di sviluppo nei paesi emergenti senza le tipiche ingerenze politiche. Non parliamo solo di economia: i BRICS vogliono costruire un sistema internazionale più giusto. L’aspetto più affascinante dei BRICS è la loro visione di un mondo multipolare: in passato, gli Stati Uniti si sono spesso comportati come poliziotti del mondo intervenendo in ogni angolo del pianeta per difendere i propri interessi; ma i BRICS puntano a un ordine mondiale dove non esiste una sola superpotenza, ma tante nazioni che collaborano, ognuna con la propria voce e priorità.
Nel corso degli anni, sempre più Stati hanno cominciato a guardare ai BRICS con rinnovato interesse; ad esempio, il primo gennaio del 2024 hanno aderito altri cinque paesi: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Arabia Saudita e Iran. Altri hanno presentato domanda di adesione negli ultimi mesi: questa estate hanno provveduto l’Azerbaigian (un fedele alleato occidentale), la Turchia, secondo esercito della NATO, ma anche Cuba, il Venezuela, il Nicaragua e la Palestina (con le dovute complicanze dovute alla guerra e all’occupazione israeliana). Da segnalare, al primo gennaio 2024, anche la non adesione al blocco dell’Argentina, dove il presidente Milei ha annullato l’ingresso del Paese al gruppo in poche settimane: ricordiamo che questa scelta arriva dopo alcune dichiarazioni (tanto roboanti quanto impossibili) in campagna elettorale sul “non commerciare con paesi comunisti” in cui includeva Cina e Brasile, membri BRICS e maggiori partner commerciali di Buenos Aires. Anche altri Stati si stanno avvicinando ai BRICS formalizzando richiesta di adesione o dando segnali di interessamento attraverso la partecipazione dei propri ministri degli esteri agli incontri del gruppo; tra gli altri Kazakistan, Venezuela, Nigeria, Indonesia, Thailandia e persino il vicino di casa per eccellenza di sua maestà la Casa Bianca: il Messico. Anche il Bangladesh, in passato, ha mostrato interesse per il gruppo, aderendo alla Nuova Banca di Sviluppo assieme all’Uruguay.
Vediamo quindi sul mappamondo una mappa fatta di tanti Paesi coinvolti, a vario titolo e grado di interesse, nel progetto e persino una serie di dinamiche interne a questo blocco: mentre la Cina, la Russia e l’Iran sembrano costruire un blocco più contrapposto all’Occidente, dal carattere euro-asiatico e con un maggior ruolo politico del pubblico, la parte IBSA del gruppo (India, Brasile e Sud Africa) sembra più collegata al circuito finanziario e commerciale occidentale. I BRICS si delineano come i giganti della nuova era, l’era multipolare fatta di tanti vettori multifattoriali; i giganti della nuova era multipolare dove le alleanze, le convergenze e gli attriti si fanno e si disfano con estrema rapidità e sono determinati da una serie infinita di fattori.
Giuliano
Così il nostro Gabriele riassume l’essenza degli Stati nazionali che si sono coalizzati nei BRICS+; ma perché mai questa cosa dovrebbe accendere l’entusiasmo nel cuore ferito di un sincero democratico e di chi sta dalla parte dei diritti violati degli oppressi? Molti di questi Paesi non sono – essi stessi – caratterizzati da logiche di sopraffazione, di sfruttamento e di mancanza di democrazia? Spesso addirittura più violente di quelle alle quali assistiamo nei Paesi del mondo occidentale che tanto disprezzate? Sono questi, legittimamente, i dubbi più frequenti tra chi – venendo da una tradizione più o meno progressista, democratica (se non addirittura socialista e comunista) – si confronta con le nostre analisi e i nostri contenuti; ma rischiano di essere dubbi un po’ del cazzo: il punto è che il trionfo dell’ideologia (se non addirittura dell’antropologia) neo-liberale ha svuotato queste grandi famiglie politiche dell’Occidente sviluppato di ogni capacità di analisi strutturale della realtà lasciando spazio al gossip, alle narrazioni e al moralismo. La realtà, quindi, non è più una complicata sequenza di cause ed effetti con delle gerarchie (più o meno) precise, ma un insieme indistinto di fatti scollegati tra loro ai quali applicare il proprio giudizio morale che, ovviamente, come tutto il resto, non è frutto di storia e rapporti materiali, ma astratto e atemporale. Assoluto. Dopo 75 anni di apartheid la resistenza palestinese opta per un’operazione eclatante di ferocia inaudita? Eh, ma non si fa! Dopo 20 anni di offensiva espansionista della NATO la Federazione russa reagisce con una drammatica operazione militare? Oh mio dio, contessa! Sono avvivati i bavbavi! Dopo aver constatato il fallimento del panarabismo laico e socialista, il movimento anti-coloniale dell’Asia occidentale ripiega sull’Islam come mezzo per far risorgere la lotta di liberazione? Oh my god! Questa non è davvero la nostra resistenza! Movimenti popolari del Sud globale, nati con le migliori intenzioni, invece si trasformano, per impotenza, in ancelle dell’imperialismo a guida USA? Eh, ma son ragazzi. Vanno capiti. Loro sì che rispettano i diritti delle donne (o, almeno, di quelle che non muoiono sotto le bombe degli alleati).
Il punto è che il mondo è fatto, anche se non esclusivamente, di rapporti materiali e oggi il rapporto materiale al quale tutti gli altri sono subordinati si chiama – o, almeno, così è come lo definiamo noi – superimperialismo e, cioè, la fase matura dell’imperialismo finanziario incentrato su Washington e su Wall Street che impone vincoli, limiti e ostacoli a tutto il resto del pianeta; e l’aspetto fondamentale di questo sistema è l’unipolarismo USA e, cioè, la capacità degli USA di imporre (grazie alle istituzioni finanziarie globali e al dominio militare) gli interessi delle sue oligarchie al di sopra di tutto. Ma nonostante questo sistema abbia imposto negli ultimi 50 anni un prezzo insostenibile sul 99% dell’umanità, la capacità di opporvisi – in particolare da parte delle masse popolari dell’Occidente collettivo – è stata sostanzialmente pari a zero; anche nei rari momenti di reale mobilitazione di massa come, ad esempio, durante l’entusiasmante parentesi del movimento dei movimenti o, ancora, con l’opposizione globale all’invasione criminale dell’Iraq e, di nuovo, con il possente movimento nato in seguito alla grande crisi finanziaria del 2008, le oligarchie statunitensi non solo hanno continuato a fare beatamente cosa stracazzo gli pareva, ma – anzi – hanno colto l’occasione per accelerare il passo della loro colossale rapina. E i Paesi del Sud del mondo che hanno tentato di ribellarsi – dal Venezuela all’Iran – hanno costretto le loro popolazioni a subire conseguenze disastrose; il motivo è molto semplice: non esisteva un’alternativa. Il superimperialismo aveva prosciugato alla fonte il fiume carsico che alimentava i conflitti e li nutriva al punto da poter ambire a cambiare concretamente i rapporti di forza materiali; l’affermazione di un organismo multilaterale dei Paesi del Sud globale costretti a pagare il conto degli USA, come quello dei BRICS+, rappresenta oggettivamente un potenziale gigantesco fattore di progresso principalmente per questo motivo: mette fine alla lunga era del There is no alternative, come ci racconta il nostro buon Alessandro.
Alessandro
There is alternative! In tanti, in questi anni, si erano disperati, sicuri che per tutta la loro vita non avrebbero mai sentito queste parole, sicuri che la globalizzazione finanziaria americana sarebbe stato il destino inemendabile del pianeta e che il capitalismo oligarchico su base mondiale, dopo la sconfitta del comunismo storico, era rimasto senza alternative credibili. E invece no: There is alternative; è questa la buona novella che Ottolina Tv è venuta a portare a intere generazioni di socialisti e anti-capitalisti cresciuti a pane, rassegnazione e Mark Fisher (il quale, detto tra parentesi, oggi scriverebbe tutto un altro libro). Il lavoro da fare è ancora lungo: a causa di decenni (per non dire millenni) di suprematismo culturale che ha riguardato più o meno tutte le culture politiche e che non riusciamo a scrollarci di dosso, facciamo molta fatica ad accettare che gli attuali processi rivoluzionari e di emancipazione non nascano all’interno della cultura occidentale, ma da paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America. Ma come!? Il fronte più avanzato della lotta al capitalismo predatorio e all’imperialismo armato americano è guidato da Xi Jinping? Ma non dovevano guidarlo Carola Rackete e Nicola Fratoianni? Ma dopo aver subito passivi 40 anni di neoliberismo, invece che stare con il ditino alzato a rimproverare quello e quell’altro movimento di resistenza nazionale di non essere abbastanza raffinato e illuminato, dovremmo osservare, rispettare e, soprattutto, imparare non solo come oggi, nel 2024, si fa resistenza alla finanziarizzazione e all’imperialismo, ma soprattutto come si vince. Sì, perché è questa la seconda buona novella che abbiamo il dovere di diffondere nelle disilluse, depresse e sempre più povere popolazioni europee e, cioè, che l’alternativa non solo esiste e lotta insieme a noi, ma sta anche vincendo. E nello sconcerto dei Rampini e dei Vittorio Emanuele Parsi di tutto il mondo, il gruppo di Paesi che si ritroverà a Kazan questa settimana non lo farà per scambiarsi nuove ricette sul come cucinare bambini, ma per continuare a forgiare il mondo nuovo: è questo il punto di partenza fondamentale per capire tutto quello che sta avvenendo oggi nel mondo, dalla nostra crisi economica – a partire dai 3 fronti principali della guerra.
E allora veniamo a noi, a noi abitanti – un tempo sazi e opulenti – delle provincie occidentali dell’Impero; inutile dire che una classe dirigente capace (o anche solo veramente intenzionata) di fare gli interessi delle nazioni europee e della loro alleanza, in questi ultimi 30 anni si sarebbe comportata in maniera diametralmente opposta a come ha fatto: avrebbe preso atto dell’emergere di nuove potenze mondiali che avrebbe spostato l’asse economico e politico del mondo e avrebbe fatto leva su queste potenze per emanciparsi gradualmente dall’occupante americano, riconquistando – passo dopo passo – la sovranità perduta ormai 80 anni fa. In fondo, è nel naturale interesse del nostro Paese e del nostro continente avere ottimi rapporti politici e commerciali con tutte le grandi potenze – dalla Russia alla Cina, dall’India agli Stati Uniti -, nonché condizione indispensabile per essere, a nostra volta, un polo politico che conta e non le colonie di qualcun altro, sacrificabili all’occorrenza. In verità, ancora oggi (esercitandoci ancora in un po’ di dolce wishful thinking) un Paese come l’Italia avrebbe tutte le caratteristiche e le carte in regola per cominciare questo processo e per farsi promotrice degli interessi europei nel mondo, sviluppando progetti di cooperazione economica, finanziaria e culturale win-win con il Sud globale; e già da domani potrebbe decidere di rientrare nelle Vie della Seta, entrare nel capitale azionario e attingere nuovi fondi di investimento nella banca principale dei BRICS (la celebre New Development Bank, che sarà protagonista del percorso di dedollarizzazione), aumentare l’export della manifattura italiana nel Sud globale, farsi promotrice degli interessi italiani ed europei nell’area del Sahel (dove non siamo mal visti come i francesi), porsi come Paese mediatore in Medio Oriente e in Ucraina etc etc etc. Insomma: le cose che qualunque italiano medio troverebbe assolutamente naturali e razionali e che (proprio per questo) non vengono fatte, avendo una classe dirigente collaborazionista molto più determinata ad eseguire gli ordini di Washington che non a pensare all’interesse nazionale e continentale. Ma tant’è; illuderci che la riscossa possa arrivare dall’alto sarebbe un peccato mortale. Solo il 99%, in solidarietà con le lotte per la sovranità nazionale dei Paesi del mondo e con il loro tentativo di sbarazzarsi delle loro oligarchie predatorie, potrà riprendere in mano il proprio destino e dimostrare che il famoso tramonto dell’Europa, di cui tanti pseudo intellettuali si riempiono la bocca, è pura letteratura fantasy. Per rendere tutto questo possibile e per tornare anche noi a vincere, abbiamo però bisogno di un media non controllato dalle oligarchie politiche collaborazioniste e dalle loro aziende; un media che racconti il mondo per come è e non per come gli analfoliberali vorrebbero che fosse; un media schierato dalla parte dell’Italia, dell’Europa, dei BRICS e del 99%, contro ogni imperialismo e predazione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal (e chi non aderisce è Paolo Flores d’Arcais).
Giuliano
“Illuderci che la riscossa possa arrivare dall’alto” sottolinea Alessandro “sarebbe un peccato mortale”: è quello che intendiamo quando parliamo di riscossa multipopolare e, cioè, un mix tra multipolare e popolare; la transizione verso un nuovo ordine multipolare è la dinamica principale della fase storica che stiamo attraversando e rappresenta una gigantesca opportunità che, per essere colta, deve essere riempita di contenuti dal ritorno del protagonismo delle masse popolari, sia nel Sud che nel Nord del pianeta. In cosa consista la proposta concreta che, dopo 16 lunghi anni di vita, i BRICS+ metteranno sul tavolo – a partire da domani – proprio per dare una base materiale tangibile a questa transizione a un nuovo ordine multipolare (soprattutto dal punto di vista finanziario) lo approfondiremo meglio in un altro pippone ad hoc domani; oggi qui, per chiudere questo lungo video, ci limitiamo ad elencare gli aspetti fondamentali che il rapporto preparato dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale russa ha elencato come principali distorsioni del sistema unipolare fondato sulla dittatura del dollaro, in cui siamo ancora immersi, e a fare un paio di valutazioni sul significato politico generale di questo tipo di lettura. Il primo aspetto da sottolineare è che l’intero rapporto, ancor prima degli aspetti di iniquità dell’architettura finanziaria globale attuale, punta in realtà a sottolineare le sue disfunzionalità e la sua sostanziale insostenibilità dal punto di vista proprio dell’accumulazione capitalistica: il rapporto, infatti, sottolinea come la quota degli scambi commerciali tra economie emergenti rispetto al totale globale è passata dal 10% di 30 anni fa al 26% attuale, ed è previsto che raggiunga il 32% entro il 2032
e, cioè, appena 5 punti in meno rispetto allo scambio commerciale tra economie sviluppate; ciononostante, si continua in tutti i modi a cercare di tenere in vita il ricorso al dollaro come valuta standard per il commercio internazionale e questo ostacola in modo spropositato gli investimenti transfrontalieri tra i Paesi in via di sviluppo. Nonostante il ruolo di primissimo piano raggiunto nel commercio globale, infatti, solo l’11% degli investimenti globali sono investimenti che le economie emergenti fanno in altre economie emergenti; il grosso, invece, continua ad essere drenato dalle economie più sviluppate e ovviamente, in particolare, verso i mercati finanziari USA che, invece che contribuire alla crescita della produzione di ricchezza globale, la affossano: questo, però, il rapporto (volutamente) non lo dice. L’obiettivo non è fare la morale alle élite economiche del Sud globale che impoveriscono i loro Paesi per fare fortuna a Wall Street, ma sottolineare come – nonostante, così, facciano un sacco di soldi – alla fine questo meccanismo non è sostenibile; e ci sono, invece, altre possibilità molto più sostenibili di fare altrettanti soldi senza continuare a impoverire il Sud del mondo a vantaggio del Nord.
Quello che infatti, invece, il rapporto sottolinea in modo molto accurato è che molti dei loro soldi che abbandonano il Sud globale per cercare remunerazioni migliori, in realtà, alla fine sono costretti ad accontentarsi dei titoli del tesoro statunitense che negli ultimi 10 anni – in media – hanno avuto remunerazioni più basse addirittura dell’inflazione; e quindi, invece che arricchirli, li hanno impoveriti, mentre a casa c’erano migliaia e migliaia di opportunità di fare soldi attraverso l’economia reale che, però, non venivano sfruttate perché mancavano capitali adeguati. La distorsione attuale, ovviamente – sottolinea il rapporto – è dovuta al monopolio del dollaro e degli USA sulle istituzioni finanziarie globali, che a lungo è stato accettato supinamente perché si pensava che il mercato globale, per funzionare, avesse necessariamente bisogno di una valuta di riserva globale e che questa (ovviamente) non potesse che essere quella della potenza egemone; ma secondo il rapporto questa necessità oggi non esiste più: “La ricerca universale di una valuta mondiale è stata una conseguenza dell’asimmetria informativa globale, che era uno stato naturale per gli operatori commerciali che non avevano mezzi efficaci per comunicare tra loro su scala mondiale in tempo reale. Pertanto, fare affidamento su un unico mezzo di scambio accettato universalmente era il modo più sicuro e prevedibile di condurre affari”. Ora però, continua il rapporto, “l’asimmetria informativa è quasi scomparsa: i partecipanti sono in grado di elaborare in modo efficace i prezzi di ogni merce in ogni valuta in tempo reale” e quindi “la necessità di una moneta mondiale sta scomparendo”. Come si articola la proposta concreta per sostituire un sistema incentrato su un’unica valuta – universalmente riconosciuta come la valuta di riserva globale – con un nuovo sistema multipolare anche dal punto di vista valutario, lo approfondiremo domani; quello che qui volevo sottolineare, prima di salutarci, è come il rapporto, mentre sottolinea come gli squilibri attuali sono destinati a mettere definitivamente a repentaglio la stabilità finanziaria globale, dall’altra fa di tutto per rassicurare le oligarchie globali che con la transizione a un ordine multipolare, anche dal punto di vista valutario le occasioni per arricchirsi non solo non diminuirebbero, ma (paradossalmente) potrebbero anche aumentare: secondo il rapporto, infatti, alcuni Paesi (e, ovviamente, il riferimento qui, in particolare, è alla Cina) oggi pongono degli ostacoli alla libera circolazione dei capitali – e quindi alle opportunità di valorizzazione del capitale – proprio perché oggi aprirsi alla libera circolazione dei capitali significa assecondare questa gigantesco drenaggio di risorse da parte di una parte del mondo contro un’altra. Se, invece, si creasse un’architettura finanziaria che non si va a sostituire a quella attuale, ma ad aggiungere, rompendo questa condizione di monopolio, i Paesi come la Cina sarebbero incentivati a liberalizzare di più il loro mercato dei capitali perché non sarebbe di per se un suicidio, o un regalo; ma non solo: a questo punto, liberalizzare i mercati per i Paesi più restii diventerebbe una necessità, perché se vogliono che le loro valute diventino valute utilizzate negli scambi internazionali, hanno bisogno di garantirne la stabilità e la stabilità la si garantisce, appunto, liberalizzando, che sostanzialmente significa dare garanzie che il governo non può manipolare l’andamento della valuta a suo piacere, a seconda dei suoi obiettivi di politica economica.
La liberalizzazione del mercato dei capitali delle grandi economie emergenti – e, in particolare, della Cina – è da sempre il sogno del grande capitale internazionale: quando leggete tutte quelle puttanate su Xi Jinping autocrate che ha impresso un’ulteriore svolta totalitaria al Paese alla quale abboccano, immancabilmente, anche le fazioni più sinistrate dell’analfoliberalismo, in realtà è la finanza occidentale che si lamenta perché Xi, invece di aprirsi all’assalto dei capitali stranieri, ha aumentato il livello di controllo sovrano sui flussi finanziari; e la promessa di una maggiore liberalizzazione dei flussi di capitali non è l’unico ramoscello d’ulivo che la feroce federazione russa porge alle oligarchie occidentali. Buona parte del rapporto, infatti, è dedicata a promuovere le gigantesche opportunità di guadagno che si aprirebbero per i capitali di tutto il mondo in termini di partnership pubblico-privato grazie a un sistema finanziario più democratico: è esattamente il meccanismo del derisking finanziario che abbiamo denunciato milioni di volte, lo Stato sovrano che si mette a disposizione dell’accumulazione capitalistica garantendo, grazie all’utilizzo spregiudicato del monopolio della forza entro i suoi confini nazionali, una remunerazione adeguata dei capitali, in particolare – udite udite – per quanto riguarda proprio gli enormi investimenti necessari per portare avanti la transizione ecologica, che i funzionari di Putin definiscono – senza se e senza ma – esistenziale. Insomma: per rimanere al linguaggio forbito che gli amici dell’alt right hanno contribuito a far diventare senso comune nel mondo del dissenso de noantri, Putin è diventato gretino e servo di Karl Schwab e di Larry Fink (e, giudizio personale, ha fatto anche parecchio, ma parecchio bene). Frequentare zio Xi, evidentemente, gli ha fatto bene: la Cina, infatti, da Paese del terzo mondo, nell’arco di 40 anni è diventata l’unica vera superpotenza manifatturiera del globo esattamente facendo fare un sacco di soldi ai più spregiudicati tra gli ultra-ricchi statunitensi. E non solo: ha fatto leva sul fatto che il capitale (come insegnava quel barbuto di Treviri) non è particolarmente lungimirante; è guidato dall’ingordigia e dalla voracità, e quando si tratta di pianificare è abbastanza scarsino. La Cina, così, l’ha attirato come il miele garantendogli la possibilità di fare una quantità di quattrini spropositata, solo che, mentre li faceva arricchire, invece che diventare sempre più simile e dipendente dall’Occidente (come avevano previsto le oligarchie occidentali), sfruttava quei capitali per seguire una sua via sovrana allo sviluppo e diventare sempre più indipendente. Insomma: una volta tanto, a usare la cara vecchia strategia del divide et impera non era il centro imperiale, ma una ex colonia che lottava per portare a termine la sua guerra di liberazione nazionale.
Ecco: l’impressione chiara che si ha leggendo il lungo rapporto del ministero delle finanze e della Banca Centrale della Federazione russa è che abbiano imparato la lezione; ora – sia chiaro – tra il dire e il fare c’è di mezzo e il e questa partita non è complessa: di più. Ma se siamo i primi a sottolineare sempre che la terza guerra mondiale è già scoppiata e che le guerre mondiali finiscono solo quando qualcuno perde, bene: se c’è ancora una remota ipotesi che ci si possa fermare prima che sia troppo tardi forse sta proprio qui; o meglio qui, in questo documento, insieme ai Kinzhal in Ucraina, alla supremazia navale cinese a Taiwan e ai missili balistici iraniani. Il segnale che le potenze emergenti del Sud globale hanno inviato manu militari dai tre fronti, infatti, è che la guerra convenzionale l’imperialismo a guida USA non la può vincere; ciononostante, anche se non la puoi vincere, quando la guerra rimane l’unica possibilità che hai per non soccombere, quella rimane la via. A meno che, appunto, alle tue oligarchie non venga offerto un ramoscello d’ulivo così consistente da convincerle che tutto sommato, nel medio termine, anche durante questa fantomatica transizione a un nuovo ordine multipolare occasioni per continuare a fare una quantità spropositata di quattrini non mancano, anzi! Poi domani si vedrà, tanto le oligarchie – nonostante i tappeti rossi che gli stende la propaganda – qualche limite cognitivo ce l’hanno eccome, proprio come classe sociale; e a pensare a domani fanno abbastanza fatica, come insegna il caso cinese. Ad aiutarle a non capire una seganiente delle conseguenze delle loro azioni – va ammesso – dà un bel contributo anche l’informazione mainstream, ormai interamente trasformata in propaganda autoreferenziale, come sempre accade quando gli imperi volgono verso il declino; un lusso che, però, noi non ci possiamo permettere perché questa gigantesca trasformazione rappresenta senz’altro un’occasione. Ma le occasioni vanno anche sapute sfruttare e, per sfruttarle, abbiamo bisogno di organizzarci; e, per organizzarci, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che guardi il mondo dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
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