Skip to main content

Tag: cina

La Guerra degli Oligarchi contro il Resto del Mondo per difendere l’Evasione e i Paradisi Fiscali

All’ONU l’Occidente collettivo ha ingaggiato un’altra guerra frontale col resto del mondo; d’altronde ne valeva la pena. Dopo aver provato a difendere il genocidio ed essere stato brutalmente asfaltato, i valori del mondo libero da difendere – a questo giro – erano forse ancora più fondamentali: il sacrosanto diritto delle oligarchie finanziarie ad evadere il fisco e a nascondere i loro quattrini nei paradisi fiscali. Ma non gli è andata proprio benissimo, diciamo; prima di mettere ai voti la risoluzione presentata da un gruppo di paesi africani – e che costituisce un tassello fondamentale nella lotta del sud globale contro il furto sistematico di ricchezza da parte delle oligarchie – la Gran Bretagna ha provato a presentare un emendamento pro evasori e paradisi fiscali ed è finita così: 55 favorevoli e ben 107 contrari.

Alex Cobham

Ma la batosta più grossa è arrivata al momento della votazione della risoluzione vera e propria: Occidente collettivo 48, Sud globale CENTOVENTICINQUE. “Per i paesi del Sud del mondo” ha esultato Alex Cobham, amministratore delegato del Tax Justice Network, “questa è una vittoria storica, ma a beneficiarne non saranno soltanto loro, ma tutto il mondo: i paradisi fiscali e i lobbisti della finanza hanno avuto, fino ad oggi, troppa influenza sulla politica fiscale globale; oggi iniziamo a riprendere il potere sulle decisioni che riguardano tutti noi”. La guerra di resistenza del Sud del mondo contro l’asse del male è sempre più chiaramente anche la nostra guerra, la guerra del 99%: cosa aspettiamo a prenderne parte?
“Per decenni” affermavano giovedì scorso gli amici del Tax Justice Network “il risultato del voto odierno all’ONU è stato considerato impossibile da raggiungere. L’ultimo tentativo di portare il processo decisionale sulle norme fiscali all’ONU” ricostruisce il comunicato “risaliva ormai agli anni ‘70. E il fallimento di quel tentativo aveva dissuaso qualsiasi altro tentativo simile per quasi 50 anni”.1 “La lotta decennale dei paesi del sud del mondo per istituire un processo pienamente inclusivo presso le Nazioni Unite, e permettere così finalmente a tutti i paesi in via di sviluppo di partecipare sul serio alla definizione dell’agenda e delle norme sulla tassazione internazionale” ha commentato l’Unione Africana“ è finalmente diventata una realtà”.2
Ma di cosa stiamo parlando, esattamente? La questione in ballo è nientepopodimeno che quella dei negoziati internazionali per la definizione di un trattato fiscale globale che permetta di contrastare – come sottolineava nel luglio scorso nella sua relazione la direzione generale delle Nazioni Unite – “l’evasione fiscale, l’elusione fiscale aggressiva, il riciclaggio di denaro e i flussi finanziari illeciti”.3 E, ovviamente, il ruolo dei paradisi fiscali: meccanismi che, come sottolinea il Tax Justice Network, causano agli stati “una perdita equivalente allo stipendio annuo di un infermiere a favore di un paradiso fiscale OGNI SECONDO. Nei prossimi dieci anni” calcola il Network “i paesi perderanno quasi 5 mila miliardi a causa dei paradisi fiscali”.4 E secondo Thabo Mbeki, già presidente del Sudafrica e oggi a capo della commissione speciale dell’Unione Africana che si occupa dei flussi finanziari illeciti, “a causa delle multinazionali che spostano i profitti nei paradisi fiscali e a causa di individui facoltosi che nascondono la loro ricchezza nelle giurisdizioni offshore, si stima che i paesi a basso reddito perdano ogni anno l’equivalente di poco meno della metà dei loro bilanci sanitari pubblici collettivi”.5 Ma, in realtà, il problema va ben oltre queste cifre: l’elusione e l’evasione che sottrae risorse alle casse degli stati di tutto il pianeta in favore dei paradisi fiscali, infatti, è il nocciolo del patto col diavolo che sta alla base della globalizzazione neoliberista.
Facciamo un rapidissimo ripasso: il primo passo della globalizzazione neoliberista consiste nella delocalizzazione della produzione dai paesi più sviluppati – dove, grazie a secoli di lotta di classe, il costo del lavoro e di diritti dei lavoratori sono superiori – verso i paesi in via di sviluppo, dove i costi e i diritti sono inferiori; a questo punto però sorge un problema perché, attraverso le politiche fiscali, gli stati sovrani dei paesi in via di sviluppo sarebbero in grado di trasformare una parte consistente dei profitti in risorse che lo stato può investire per svilupparsi, rafforzare la sua indipendenza e minacciare così il dominio dei paesi più avanzati. Cosa fanno, allora, i paesi più sviluppati per sfuggire a questa conseguenza non voluta? Impongono ai paesi in via di sviluppo un quadro regolatorio che permette a chi ha delocalizzato la produzione nei loro territori di evadere ed eludere il fisco attraverso i paradisi fiscali; a quel punto, il plusvalore estratto dall’economia del paese destinatario degli investimenti non serve più a finanziarne lo sviluppo economico e l’indipendenza, ma ritorna negli USA sotto forma di capitali che vanno a ingrossare le bolle speculative e a partecipare il banchetto sono – ovviamente – anche le élite economiche locali, che vengono così cooptate dalle oligarchie finanziarie del Nord globale. Sottrarre i flussi finanziari internazionali alla fiscalità dei paesi in via di sviluppo diventa, così, il meccanismo principale attraverso il quale il Nord globale può delocalizzare la produzione senza però diminuire il suo primato politico, con la complicità degli svendipatria di tutto il pianeta (fine del ripasso).
Da questo punto di vista, come ha sottolineato giustamente sempre Cobham del Tax Justice Network, “la battaglia contro gli abusi fiscali globali è soprattutto una battaglia per la democrazia e per la libertà”, ed ecco così che – nel tempo – anche i paesi del Nord globale hanno dovuto far finta di interessarsi alla faccenda. Ma era un diversivo; terrorizzato dall’eventualità che i paesi del Sud del mondo si potessero coalizzare per trovare una via d’uscita comune da questo patto del diavolo, l’Occidente globale ha deciso di giocare d’anticipo e ha avviato dei negoziati multilaterali – appunto – per arrivare a un trattato fiscale globale che però, paradossalmente, escludeva proprio i paesi interessati. L’organo multilaterale deputato a gestire la trattativa, infatti, è stato individuato nell’OCSE – l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico -, il salotto buonodei paesi sviluppati, che come requisito minimo indispensabile per aderire prevede la totale subalternità ai piani egemonici delle oligarchie finanziarie di Washington, e i risultati si vedono.

Joseph Stiglitz

Come denuncia da anni il premio Nobel Joseph Stiglitz, fondatore e presidente della Commissione Indipendente per la Riforma della tassazione internazionale delle Corporation, “Quasi un decennio di negoziati multilaterali in seno all’OCSE non ha prodotto risultati apprezzabili. Il tipo di soluzioni di cui il mondo ha bisogno rimane ancora lontano”.6
Diciamo che è un eufemismo; la prova provata che l’azione dell’OCSE non fosse altro che un diversivo è arrivata questa estate: il governo laburista australiano stava lavorando da mesi a un disegno di legge che imponeva a tutte le aziende di rendere pubblici tutti i dati fiscali relativi a ogni paese dove operano, “Una mossa che, secondo gli attivisti” riporta il Financial Times “avrebbe contribuito a reprimere l’elusione fiscale costringendo le aziende a rivelare quanti dei loro ricavi sono contabilizzati in giurisdizioni a bassa tassazione”.7 Secondo il Financial Times “sarebbero state colpite circa 2.500 multinazionali con ricavi annuali superiori ai 700 milioni di dollari, tra cui colossi come META, la compagnia petrolifera British Petroleum e il colosso delle assicurazioni di Hong Kong AIA”. Il disegno di legge sarebbe dovuto approdare in aula lo scorso giugno per entrare in vigore a partire dal primo luglio, ma all’ultimo qualcosa è andato storto: inaspettatamente, “dalla versione del disegno di legge che alla fine è arrivata in aula” riporta il Financial Times “erano state rimosse le richieste di informazioni più cruciali”. Indovinate un po’ cos’era successo? Esatto, era intervenuta l’OCSE: “l’organizzazione con sede a Parigi” riporta il Financial Times “ha esercitato pressioni sul governo laburista australiano affinché annacquasse la legge”. “I funzionari dell’organismo intergovernativo” continua il Times “avrebbero intimidito il tesoro australiano ricordandogli che l’Australia è tra i firmatari di un accordo dell’OCSE del 2015 che prevede che le dichiarazioni fiscali non possono essere rese pubbliche”. “L’OCSE ha progettato riforme orientate a favore dei suoi membri, e cioè dei paesi avanzati, e delle loro imprese” ha commentato Stiglitz. In questo modo, continua Stiglitz, questo sforzo per introdurre una riforma che, sulla carta, dovrebbe servire a far aumentare le entrate per i paesi in via di sviluppo “potrebbe in realtà avere l’effetto esattamente opposto”.8 Dovevano forzare i paesi a introdurre nuove regole per limitare la quantità di quattrini che finiscono nei paradisi fiscali e si ritrovano a fare lobbying contro quei pochissimi paesi che provano a muovere qualche passo per far pagare le tasse alle multinazionali: come potevano pensare di farla franca?
In realtà potevano, eccome. E qui c’è un altro snodo politico epocale perché, come abbiamo già sottolineato, il Nord globale non è l’unico responsabile del furto colossale di ricchezza delle oligarchie a danno della gente comune: a dargli una bella mano ci sono anche le élite economiche dei paesi in via di sviluppo stessi, che sono ben felici di estrarre ricchezza dai propri paesi al fianco delle multinazionali per poi investirla nelle bolle speculative made in USA facendo altri soldi dai soldi. E, tra queste élite economiche, un posto d’onore spetta spesso proprio ai leader politici ultra – corrotti che si intascano i soldi del finanziamento allo sviluppo garantito dalla comunità internazionale, e invece di investirli nell’economia nazionale li imboscano nei paradisi fiscali. Questa commistione di interessi illeciti e inconfessabili – fino ad oggi – ha sempre impedito al Sud globale di coalizzarsi e di dichiarare guerra all’Occidente collettivo in nome dei rispettivi interessi nazionali ma, evidentemente, qualcosa negli ultimi anni è cambiato: ispirati dall’esempio cinese – dove, invece, la guida del Partito Comunista è riuscita a garantire che le risorse liberate con le delocalizzazioni venissero investite per sostenere lo sviluppo economico di tutto il paese – le opinioni pubbliche dei paesi in via di sviluppo hanno cominciato a pretendere dai loro governi di mettere fine a questo furto sistematico, pena ritrovarsi rovesciati da un golpe patriottico come, ad esempio, è avvenuto negli ultimi anni in Mali, in Burkina Faso e in Niger. Ed è infatti proprio dall’Africa che è partita la battaglia contro l’azione diversiva dell’OCSE; nel 2022, infatti, “un gruppo di 54 paesi africani, frustrati dal processo dell’OCSE” riporta il Financial Times “hanno portato con successo una risoluzione all’assemblea generale dell’ONU” che chiedeva al Segretario Generale delle Nazioni Unite di produrre un rapporto che facesse un bilancio sullo stato dell’arte della cooperazione fiscale internazionale e indicasse le modalità per trasferire i negoziati dall’OCSE direttamente all’ONU, dove anche i paesi in via di sviluppo avrebbero potuto dire la loro.9 Da allora, per cercare di far naufragare questo processo i paesi del Nord globale le hanno provate tutte: “Ue e Regno Unito vogliono spazzare via l’intero processo e ucciderlo” avrebbe dichiarato uno dei negoziatori al Financial Times; “non vogliono che le questioni fiscali vengano dibattute qui alle Nazioni Unite”. “Stanno facendo di tutto per mantenere lo status quo e mantenere i paesi in via di sviluppo alla periferia delle discussioni fiscali globali” avrebbe confermato un altro negoziatore.10
L’opera di lobbying, però, non va in porta e quando, nel luglio scorso, Guterres finalmente presenta la sua relazione il giudizio è impietoso – per quanto possa essere impietoso un documento ufficiale dell’ONU, perlomeno: il processo avviato dall’OCSE – dice Guterres – non risolve “un malcontento ampio e radicato nei confronti di trattati fiscali che non danno poteri sufficienti agli stati ospitanti nei confronti delle multinazionali” e quindi è necessario creare “meccanismi di cooperazione fiscale internazionali pienamente inclusivi ed efficaci”.

G77 a Cuba

Con il via libera della direzione generale dell’ONU, a questo punto, i paesi africani presentano il loro piano agli altri paesi in via di sviluppo durante l’assemblea del G77 che si è tenuta a settembre all’Avana, raccogliendo un sostegno sostanzialmente unanime. Ed ecco così che si arriva alla storica risoluzione presentata all’ONU giovedì scorso: per la prima volta, tutto quello che è fuori dal giardino ordinato del Nord globale si schiera come un sol uomo per chiedere la fine del furto sistematico di ricchezza operato da una manciata di oligarchi a danno di tutta la popolazione mondiale. Come ricorda in un tweet il Tax Justice Network “I paesi che ieri hanno votato contro la riforma fiscale delle Nazioni Unite consentono il 75% degli abusi fiscali globali. Questi paesi rappresentano solo il 15% della popolazione mondiale. I paesi che hanno votato a favore della riforma rappresentano l’80%”.11 Ma attenzione: non è una guerra dei popoli del sud del mondo contro i popoli del nord. E’ una guerra di tutti i popoli, tanto del sud quanto del nord, contro le oligarchie: impedendo ai capitali di essere sottratti al fisco per finire nei paradisi fiscali, i paesi del Sud globale impediscono alle oligarchie di fare soldi senza mai investire il becco di un quattrino nell’economia reale, senza mai correre il rischio di perdere il loro potere politico e, anzi, rafforzandolo.
Come sosteniamo da sempre, la battaglia del Sud del mondo, guidata dai paesi che sono riusciti ad affermare con forza la sovranità dei propri stati a discapito dell’impero e dei suoi complici locali, è l’avanguardia della battaglia globale del 99% contro l’1%; altro che la barzelletta degli analfoliberali e dei fintosovranisti sui cinesi che ci rubano il lavoro. Per non passare alla storia come dei collaborazionisti qualunque che si sono sacrificati in nome degli interessi dei propri stessi carnefici, è arrivato il momento di alzare la testa e di cominciare davvero a partecipare alla battaglia dalla parte giusta della storia, a partire proprio da questa battaglia epocale per un quadro fiscale globale che favorisca il lavoro invece della rendita. Il voto storico di giovedì all’ONU, infatti, è solo un inizio: la risoluzione infatti prevede che nei prossimi mesi, a New York, si riunisca per ben 15 giorni lavorativi complessivi un comitato intergovernativo nominato ad hoc e incaricato di buttare giù una bozza di cornice per la cooperazione fiscale internazionale, da sottomettere poi alla prossima assemblea generale dell’ONU che si terrà nel settembre del 2024. Le lobby delle oligarchie sono già al lavoro e fanno di tutto per tenere il dibattito lontano dai riflettori: su questo voto storico, nella stampa italiana – per quello che abbiamo potuto vedere – non c’è traccia. Lavorare nell’ombra, con valigette cariche di dollari, per remare contro la storia: impediamoglielo, mobilitiamoci e, soprattutto, diamo vita a un vero e proprio media che dichiari guerra all’omertà della propaganda a libro paga delle oligarchie e dia voce agli interessi concreti del 99%.
Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Hillary Clinton

1 https://taxjustice-net.translate.goog/press/un-adopts-plans-for-historic-tax-reform/?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it
2 https://www.ft.com/content/5a7353e8-6aec-4896-b6e5-fa88033c399a
3 https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N23/220/39/PDF/N2322039.pdf?OpenElement
4 https://twitter.com/TaxJusticeNet/status/1727304638603665626
5 https://www.ft.com/content/39ddedad-8faa-4e38-b95c-35cd47028056
6 https://tinyurl.com/yb7sfwpm
7 https://www.ft.com/content/b21cfde0-8940-45db-b3e3-3e9807d7b957
8 https://www.ft.com/content/fed78c75-1da8-4a1a-8cfc-219e99fe246c
9 https://www.ft.com/content/552052ab-8650-44b3-a4d2-6affca339132
10 https://www.ft.com/content/552052ab-8650-44b3-a4d2-6affca339132
11 https://twitter.com/TaxJusticeNet/status/1727716449576198287

CHI METTERA’ FINE AL GENOCIDIO? Come i BRICS stanno rimpiazzando l’Occidente e ricostruendo l’ONU

L’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi non si arresta e travolge tutti i paesi del mondo, anche quelli con le classi dirigenti più ciniche che però, in un modo o nell’altro, all’opinione pubblica qualcosa sono comunque costrette a concedere. A parte negli USA e in qualche paese vassallo del Nord globale che si conferma così – al netto di una montagna di retorica – la parte in assoluto meno democratica del pianeta, completamente in balia degli interessi egoistici di una manciata di oligarchi. Il problema, però, è che questo manipolo di paesi in mano a un manipolo di oligarchi è, ancora oggi, in grado di ostacolare le Nazioni Unite, e così tiene per le palle l’intera comunità internazionale. O forse sarebbe meglio dire teneva: se per l’ostruzionismo dell’asse del male le Nazioni Unite non sono in grado di muovere un dito neanche di fronte a un genocidio del genere, vorrà dire che la comunità internazionale, a un certo punto, proverà a dotarsi di strumenti alternativi. Certo, sarà un percorso lungo e tortuoso che – però – ieri ha subito un’accelerazione di portata storica: per la prima volta in quasi 15 anni di vita, ieri i BRICS si sono riuniti per una conferenza di emergenza interamente dedicata a una questione internazionale imprevista. Non era mai successo prima, nemmeno quando i membri erano soltanto 5; oggi sono 11, ma di fronte alla carneficina hanno parlato con una voce sola: “La posizione dei membri BRICS è unanime” commenta il Global Times e “si sono impegnati a promuovere un cessate il fuoco a Gaza e prevenire l’escalation della violenza, presentando progetti di legge e organizzando riunioni nel quadro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”. “Alcuni altri paesi occidentali” continua il Global Times “non hanno la volontà e il coraggio di difendere la giustizia, creando così un vuoto nel sistema di governance globale. I paesi BRICS, che rappresentano i paesi dei mercati emergenti e quelli in via di sviluppo, si sono fatti avanti per colmare il vuoto”.
Che sotto le macerie di Gaza, oltre ai corpi martoriati dei bambini arabi, stiano rimanendo sepolte anche le ultime speranze di dominio globale incontrastato degli USA?
UNO: immediato cessate il fuoco;
DUE: corridoi umanitari per la popolazione di Gaza;
TRE: intervenire per impedire che il conflitto si allarghi;
QUATTRO: convocare una conferenza di pace per riportare al centro dell’agenda politica internazionale la soluzione dei due Stati.

Xi Jinping

Il piano in quattro punti proposto ieri da Xi Jinping nella prima riunione straordinaria dei BRICS a 11 per mettere fine al genocidio in corso a Gaza non è solo giusto ma è anche l’unica soluzione possibile, e che infatti è condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale che, da ormai oltre un mese e mezzo, riempie strade e piazze di tutto il pianeta un giorno sì e l’altro pure per testimoniare la sua indignazione obbligando tutti i governi – anche quelli meno democratici – a provare almeno di dare l’impressione di lavorare in quella direzione. A partire dal sostegno alle risoluzioni ONU di condanna alle azioni criminali dell’entità sionista. Ma, come sottolinea sempre il Global Times, “il conflitto israelo-palestinese è uno specchio che riflette molte cose. A causa dell’opposizione di alcuni paesi per lo più occidentali” continua l’articolo “il Consiglio di sicurezza dell’ONU non è stato in grado di intraprendere azioni concrete”: un immobilismo che le opinioni pubbliche di tutto il mondo, e in particolare dei paesi a maggioranza islamica, non hanno nessuna intenzione di assecondare.
Fortunatamente, però, oggi esiste un’alternativa concreta alle vecchie istituzioni multilaterali: “I BRICS” sottolinea il Global Times “stanno diventando un simbolo e un’entità che sostiene la giustizia internazionale, e maggiore sarà l’influenza che avranno sulla scena internazionale, meglio sarà per la pace e la tranquillità del mondo”. Ed ecco così che gli USA si ritrovano in un bel cul de sac e il sostegno incondizionato alla ferocia sionista – giustificato dal ruolo strategico che Israele ricopre nei piani imperiali a stelle e strisce – comincia a presentare il conto. Per contrastare la crescita dell’influenza di quelli che considera i suoi avversari strategici – a partire da Russia e Cina – gli USA, infatti, stanno provando a corteggiare in ogni modo possibile i paesi del Sud Globale; l’esempio più eclatante si è avuto probabilmente nell’area del Sahel dove, di fronte all’ondata di colpi di stato patriottici che ha travolto paesi come il Mali, il Burkina Faso e il Niger, invece di accodarsi alla retorica bellicista e neocolonialista francese, gli USA hanno mantenuto un tono tutto sommato più conciliante e hanno cercato di tenere aperto il dialogo per non perdere totalmente la loro influenza. Qualcosa di simile è avvenuto anche proprio in Medio Oriente dove, di fronte all’intensificarsi delle relazioni con Russia e Cina – ad esempio – da parte dell’Arabia Saudita, hanno deciso di usare molte più carote che bastoni. Il bagno di sangue avviato da Israele dopo il diluvio di Al-Aqsa, e il sostegno incondizionato al genocidio che gli USA sono stati sostanzialmente obbligati a garantire, sta facendo rapidamente tabula rasa di tutti questi sforzi e sta accelerando in maniera clamorosa il processo di allineamento dei paesi del Sud globale agli interessi strategici proprio di Cina e Russia, a partire dal rafforzamento dei BRICS: “Dato che gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a convincere Israele a concedere un cessate il fuoco a Gaza” sottolinea il Global Times “il mondo arabo e i paesi in via di sviluppo mostrano crescente disappunto nei suoi confronti e ripongono ormai maggiori speranze proprio nei BRICS, una piattaforma che amplifica la voce dei paesi in via di sviluppo sugli affari mondiali”.
Ora qui è il caso di sottolineare una cosa che dovrebbe essere scontata, ma evidentemente non lo è: come per il processo di dedollarizzazione o anche – rimanendo più vicini alla questione israelo-palestinese – la questione del rafforzamento dell’asse della resistenza non si tratta di una soluzione magica; gli equilibri regionali, e ancora di più quelli globali, non si rigirano come un calzino dalla sera alla mattina. I BRICS al momento, e per molto tempo ancora, non sono assolutamente in grado di esprimersi con una voce unica così forte e perentoria da risolvere come per incanto la carneficina che ci troviamo di fronte, come non sono in grado di abolire l’egemonia del dollaro o come l’asse della resistenza non è in grado di sconfiggere militarmente Israele. Si tratta di tendenze storiche: processi lunghi, tortuosi e macchinosi, dall’esito sostanzialmente imprevedibile e che non sono in grado di soddisfare la sete di scoop continui tipica dell’era dell’iper – informazione. L’idea che cambiamenti di questa portata possano avvenire nel tempo di un tiktok è un frutto del dominio del pensiero magico, che mal si concilia col tentativo di capire come sta cambiando il sistema mondo a livello strutturale profondo, ma “anche se uno o due vertici singoli potrebbero non essere sufficienti per risolvere direttamente il conflitto” sottolinea giustamente il Global Times dove, da bravi cinesi, sono molti più avvezzi a usare il materialismo dialettico di quanto non siano gli attivisti esagitati dell’Occidente “la presenza collettiva e le rivendicazioni coerenti dei paesi in via di sviluppo saranno utili per trovare una tabella di marcia per la pace israelo-palestinese, la promozione della pace e la realizzazione di una coesistenza pacifica”. “Attraverso il meccanismo dei BRICS” continua il Global Times “l’aspetto collettivo del Sud del mondo acquisisce tutta la sua importanza, e sebbene non risolva necessariamente il conflitto, l’unità dei paesi in via di sviluppo è un svolta di portata storica” che è stata riconosciuta anche dall’ONU: al vertice dei BRICS, infatti, ha partecipato anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres “che” sottolinea il Global Times “rappresenta le aspettative che la comunità internazionale nutre affinché i BRICS svolgano un ruolo sempre più decisivo nell’affrontare i dossier più scottanti”.
Gli unici che fanno di tutto per non accorgersene, tanto per cambiare, sono i nostri media mainstream di ogni colore politico; la notizia compare solo in un trafilettino in fondo a pagina 9 del Corriere che manco parla di BRICS, ma solo di Xi e del suo appello per convocare una conferenza di pace. Di fronte al Mondo Nuovo che avanza, le cariatidi prezzolate di quello vecchio hanno deciso di adottare la tattica vincente dei bambini delle materne che sperano che, chiudendo gli occhi, i mostri che li perseguitano scompariranno per sempre (che, comunque, è sempre meglio della tattica adottata da Sallusti). Qui in ballo non c’è lo storico vertice dei BRICS, ma un altro avvenimento storico che va esattamente nella stessa identica direzione: è il ritorno di Putin, dopo quasi due anni di assenza, a un incontro del G20 – seppure virtuale; un segno palese di quanto, dopo un anno e mezzo di pensiero magico – che consiste nell’idea che hanno le élite politiche e i media che uno scenario improbabile si possa realizzare semplicemente invocandolo ripetutamente contro ogni evidenza – sia arrivata l’ora di cominciare a fare i conti con la realtà, come – a malincuore – è costretta ad ammettere addirittura la Reuters (che non è esattamente la Pravda): “L’Occidente e l’Ucraina hanno ripetutamente promesso di sconfiggere la Russia nella guerra e di espellere le forze russe, ma il fallimento della controffensiva ucraina nel raggiungere un qualsiasi obiettivo concreto ha sollevato preoccupazioni in Occidente riguardo a questa strategia”. Che – fatta la tara del tasso spropositato di propaganda dei media occidentali – in soldoni equivale a dire che l’Occidente finalmente ha preso atto di aver perso la guerra.
Come riassumeva questo evento Sallusti ieri su Il Giornale? “Perché il ritorno di Putin fra i grandi è una vittoria NATO”. Giuro, eh? (spetta che vi faccio vedere l’originale, sennò mi dite che sono del PD e che polemizzo in modo strumentale contro la destra che è vicina al popolo).

“Certamente” ammette Sallusti “si tratta di un passo che rompe l’isolamento assoluto con l’occidente in cui Putin si trova da ormai due anni” e “già mi vedo”continua “i filo-putiniani nostrani alzare i calici al rientro dello zar sulla scena e spacciarla per la sconfitta della politica occidentale filo-Ucraina, quando invece” – ecco lo scooppone del Nosferatu de noantri – “è l’esatto opposto”. Sallusti ammette che “è ormai evidente che questa guerra non la vincerà in senso tecnico nessuno dei due contendenti” ma, con un virtuosismo da guinness dei primati, eccolo rovesciare sul tavolo un poker d’assi di arrampicamento sugli specchi: secondo Sallusti, infatti, questo pareggio altro non è che una sconfitta russa, che ha fatto “un tale macello umano e politico da impedire in futuro qualsiasi possibilità di annettersi l’Ucraina neppure in caso di resa del nemico”. “Non è poco” sottolinea, “anzi, è già di per se una vittoria”. Chi s’accontenta gode, come dice il detto. Giusto qualche mese fa, la guerra non poteva finire se non con la riconquista non solo di tutti i territori persi fino ad oggi, ma anche della Crimea e, con il crollo economico della Russia, la fine politica di Putin e magari anche il suo arresto e la condanna per crimini di guerra; obiettivi talmente vitali da giustificare una recessione in tutto il Nord globale, una crisi umanitaria nel cuore dell’Europa e il sacrificio di decine e decine di migliaia di giovani vite ucraine spinte a suicidarsi al fronte in nome di promesse totalmente campate in aria.

Vladimir Putin e Yasser Arafat

Tutto cancellato; era uno scherzo, ma l’unico a ridere – alla fine – è Putin: gli ultimi dati economici pubblicati dalla Russia sanciscono il fallimento totale delle sanzioni suicide imposte dagli USA e che hanno avuto come unico risultato la devastazione definitiva dell’economia dell’eurozona, e ora Putin torna da vincitore al tavolo dei grandi, dettando le sue condizioni e quelle del Sud globale. “Ormai la situazione nell’economia globale” ha spiegato Putin ai colleghi del G20 “richiede decisioni collettive raggiunte attraverso il consenso e che riflettano l’opinione della stragrande maggioranza della comunità internazionale, sia dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo”. “Nuovi potenti centri dello sviluppo economico globale stanno emergendo e si stanno rafforzando” ha continuato Putin: “una parte significativa degli investimenti, del commercio e del consumo globale si stanno spostando verso l’Asia, l’Africa e l’America Latina, dove vive il grosso della popolazione mondiale”.
Dall’Ucraina a Gaza, il colpo di coda del Nord globale, che sperava di invertire il suo declino a suon di bombe, sta miseramente fallendo; l’incognita rimane ancora capire quante vite siamo ancora disposti a sacrificare in nome della difesa di un’egemonia che è ormai completamente antistorica e contraria agli interessi della comunità umana dal futuro condiviso. Contro il ribaltamento della realtà e le arrampicate sugli specchi dei propagandisti dell’impero, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Alessandro Sallusti

[LIVE OTTOVOLANTE] Sarà riuscito Xi Dada a far capire a Sleepy Joe che si stanno suicidando?

Live del 16/11/2023 ore 21 – La visita di Xi a San Francisco, come prevedibile, non ha partorito niente di particolarmente succulento e -allo stesso tempo – è stata epocale. In questa chiacchierata proviamo a spiegare perché con Lorenzo Battisti, Giambattista Cadoppi, Alberto Gabriele e Francesco Maringiò.

Interviste Ottoline, Pino Arlacchi: declino USA, nuovo ordine multipolare e il suicidio dell’Europa

La qualità umana e intellettuale del personale politico del partito unico della guerra e degli affari che da almeno tre decenni nell’Occidente collettivo porta avanti l’agenda della controrivoluzione neoliberista guidata da Washington è di una mediocrità disarmante. E le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Mozzata. Tra queste, un posto d’onore spetta senza nessun dubbio a Giuseppe Arlacchi, meglio noto come Pino: un rarissimo esempio di civil servant senza macchia, in grado nell’arco di oltre quarant’anni di rappresentare fin nel cuore delle massime istituzioni dell’ordine liberale in declino il punto di vista del 99%. Non dovrebbe sorprendere: Arlacchi infatti è il degno erede del migliore dei maestri, il nostro caro e intramontabile Giovanni Arrighi. Fu infatti proprio Arrighi a volerlo al suo fianco appena ventiseienne all’Università della Calabria, da dove insieme lanciarono una delle esperienze più entusiasmanti di indagine sociologica a tutto tondo della storia dell’accademia italiana. È la ricerca che nel 1980 portò alla pubblicazione di “Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo”. Un testo monumentale che riuscì a portare le lande desolate del meridione più arretrato all’attenzione della grande accademia internazionale, a partire dal leggendario Eric Hobsbawm, che ne promosse la traduzione presso la prestigiosa Cambridge University Press. Non era una divagazione esotica. Sulla falsa riga dell’insegnamento di Arrighi, piuttosto, era il risultato di un approccio sistemico al capitalismo che superava la vulgata propagandistica secondo la quale la persistenza di aree arretrate sarebbe da attribuire appunto all’incompleto sviluppo capitalistico, ma al contrario, vedeva nel rapporto dialettico tra capitalismo avanzato e sottosviluppo il motore stesso del capitalismo reale Un approccio che Arlacchi avrebbe continuato a sviluppare in mille direzioni diverse negli oltre 40 anni successivi, mettendolo sempre nella condizione di svelare la falsità congenita della narrazione liberaloide e suprematista. È per questo che quando ho incrociato Pino pochi giorni fa a Samarcanda, mi è subito sembrato il luogo più naturale dove incontrarlo. Si stava svolgendo il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona. Un raro tentativo da parte dell’Italia migliore di continuare a tessere reti e relazioni con il nuovo mondo che avanza, mentre il resto del paese marcia deciso a suon di suprematismo misto a subordinazione verso l’autodistruzione. La chiacchierata che ne è scaturita, è probabilmente la migliore intervista che come Ottolina abbiamo mai portato a casa e che abbiamo ritagliato in fretta e furia per tenervi compagnia oggi.
Un’intervista dove Arlacchi ripercorre con una lucidità disarmante gli snodi cruciali del percorso analitico che come OttolinaTV proviamo a portare avanti da sempre: dal declino dell’impero militare USA, alle contraddizioni dell’impero finanziario fondato sugli interessi egoistici di una ristretta oligarchia totalitaria per passare all’ascesa di un nuovo ordine multipolare fondato sugli interessi comuni di stati sovrani che hanno adottato sistemi economici di carattere sviluppista e finire con il suicidio volontario degli alleati/vassalli degli USA. Buona visione.

Pino Arlacchi: “Il sistema americano è basato su due grandi gambe il militarismo e la finanza. Il militare si è rivelato un clamoroso fallimento. Hanno perso quasi tutte le guerre che hanno fatto negli ultimi quarant’anni, quindi non fanno più paura a nessuno. Queste cifre sul complesso militare industriale si fanno paura in termini che chiunque pensa a che cosa si potrebbe fare in alternativa con quelle cifre. Ma poi sul piano militare, dove? Che hanno vinto è anche politico, militare. È stato un fallimento totale. Dal Vietnam in poi, in Iraq hanno fatto una guerra contro Saddam Hussein. Perderemmo armi di distruzione di massa che non aveva. E per installare un governo filo iraniano in Afghanistan ci sono i talebani più forti di vent’anni fa in Siria, hanno scatenato una guerra civile contro Assad e Assad è più forte di prima.

In Libia hanno mandato in totale rovina un Paese con la complicità degli europei, dall’altra Libia, un Paese che all’Italia importa molto. E ora c’è un po di stabilità in Libia, ma il Paese è distrutto e tutti si chiedono per quale ragione hanno buttato giù Gheddafi. Quindi il potere finanziario resta la loro principale risorsa. Loro controllano i mercati finanziari in un modo eccezionale, ma dobbiamo tener conto che nel mondo grande c’è già una potenza non finanziaria, ma una potenza dell’economia reale, una potenza industriale commerciale alternativa agli Stati Uniti, più forte degli Stati Uniti in termini di potere di acquisto che è la Cina. E io direi, oltre che la Cina, l’intera Asia, l’intero Estremo Oriente è più o meno il modello economico e la Cina non è un’eccezione. Il cosiddetto Developmental state, cioè uno Stato che è il regista dei mercati e il regista dell’economia, che stabilisce le direzioni dell’economia, che fa gli investimenti che le singole imprese non possono fare e che usa i risparmi della popolazione per finanziare lo sviluppo. Questo sistema è sempre più forte dal punto di vista economico. E quindi il problema di come mantenere questo dominio sul mondo anche sul piano finanziario è il principale problema che loro hanno. Perché molta di questa ricchezza va a finire. Indebitamento: c’è un limite alla quantità di dollari che si possono stampare? È solo questione di tempo, perché il simbolo del loro potere, e cioè il dollaro, comincia a scricchiolare. Tutti dicono sì, però il dollaro, chissà quanti decenni ancora può durare, è sempre la moneta e la valuta di riferimento di tutti gli scambi e così via. È vero. Il dubbio può durare ancora un po’. Però quando la sterlina, che era il predecessore del dollaro come moneta di riferimento, ha cominciato a declinare con l’Impero Inglese la sostituzione dalla sterlina al dollaro è stata rapidissima, non più neanche dieci anni. Ora i cinesi non vogliono fare questo. La strategia dei cinesi non è quella di sostituire il renminbi al dollaro. Lo hanno detto in cento modi: se lo avessero voluto l’avrebbero fatto perché bastava farsi pagare tutte le loro importazioni, esportazioni in renminbi e il gioco era fatto. Non lo fanno perché non hanno intenzione di fare questo, in quanto impelagarsi adesso nel sistema finanziario internazionale che è governato da Wall Street e degli americani per loro significa autodistruggersi. Loro preferiscono un sistema a più voci, più valute. La Banca Centrale Cinese ha fatto una proposta già dieci anni fa cinque valute con un paniere di valute che sostituisce il dollaro, in cui c’è anche la loro valuta. La posizione, la loro diffidenza nei confronti della finanza è totale. La chiusura del mercato finanziario cinese alla finanza internazionale fa parte di una strategia precisa la finanza in Cina deve essere mantenuta al servizio dell’economia e non viceversa. Mentre negli Stati Uniti e in Europa è la finanza a governare l’economia, perfino le grandi imprese industriali si sono finanziarizzazione. Una fabbrica di automobili, la Fiat, i guadagni non li fa sulle automobili, li fa sui prestiti. È una finanziaria che ha stravolto le cose, non porta sviluppo, non porta occupazione, non porta crescita delle risorse neanche tecnologiche. Perché sono soldi che si accumulano sui soldi senza in realtà avere nessun effetto reale, mentre sono tassi di profitto molto alti perché dominano il sistema finanziario. Profitti del 10/20% sono la norma del sistema industriale di grandi imprese. Così vi è un profitto del 2% o del 3% è già una grande cosa. E chiaro che con queste differenze nei tassi di profitto, tutta l’attenzione dei mercati e degli investitori si sposta dal lato finanziario, ma è già avvenuto della storia del mondo.
Questa è la quinta fase di sostituzione ai vertici dell’Occidente, della potenza dominante. Ed è nata sempre così, dice Braudel, che quando c’è la fine del dominio della finanza è il segno che l’autunno è arrivato. L’Olanda è partita come una potenza manifatturiera commerciale e poi è diventata una potenza finanziaria per poi cedere il passo all’Inghilterra, che è partita con l’officina del mondo nell’800 e si è poi trasformata in un centro finanziario mondiale. Agli Stati Uniti sta accadendo la stessa cosa. Partiti come potenza industriale fino grossomodo agli anni ’70, finché non è partita l’ondata neoliberista e neo finanziaria, gli Stati Uniti stanno percorrendo lo stesso percorso. Ora c’è la Cina che parte da sé, che segue questa progressione storica. Per inciso, comunque, siamo stati noi italiani i primi. Tra iI ‘300 e iI ‘500, le città-stato italiane erano così. Erano le potenze commerciali trasformatisi poi con la Firenze dei Medici e con la Genova dei finanzieri, i genovesi di potenza finanziaria. Abbiamo iniziato noi questo ciclo che che a quanto pare è ferreo. Siccome c’è una dimensione spaziale in questo ciclo, non è detto che con il dominio globale del pianeta degli Stati Uniti questa ascesa della Cina segua il modello americano. Il più grande errore che si può fare quando si affronta il problema della Cina è di pensare che loro seguano il modello americano. Sono in un certo senso l’opposto. Non è vero e quindi non è affatto detto che ci sarà un mondo a guida cinese. È molto più probabile già nei fatti. Un mondo multipolare in cui la Cina è uno dei grandi player di un mondo diventato più giusto e più e più democratico.”

Marrucci: “E con questo torniamo un po’ all’inizio del discorso. Quindi non è soltanto la corsa a sostituire il vecchio egemone con un nuovo egemone, ma è anche la possibilità, per lo meno lo spiraglio che si apre di un ordine più democratico. Insomma, dove non ci sia un unico egemone. E però, appunto, quello che dicevamo all’inizio, questo percorso qua che appunto noi dipinge noi per primi, come Ottolina dipinge sempre come una grande speranza, una cosa da sostenere in tutti i modi. Poi si arriva che scoppiano tre guerre. Per ora siamo a due.”

Arlacchi: “Un paradosso, ma la storia va avanti anche quando va avanti con paradossi. Quindi gli Stati Uniti sanno di declinare. Sanno che sono nel declino: quello che cercano di fare è di rallentare questo declino. Il problema è che un declino cruento o no, perché la tentazione dell’élite americana di usare lo strumento militare è molto grande. L’altro strumento che è costretto a finanziare con le sanzioni lo stanno usando abusando al massimo. E anche lì sono arrivati praticamente al limite. Ma il punto interrogativo è lo strumento militare, in questo caso un’élite davvero alla frutta può anche tentare di usarlo in modo ancora più forte che in passato, anche se appena ho detto prima che hanno sempre perso militarmente. Ma ora sono convinti di no e ripetono sempre la stessa politica, la stessa strategia fallimentare e a meno che non si affermi negli Stati Uniti una linea di politica estera più pacifica, più loro la chiamano isolazionista, isolazionisti che vivono in Trump. Pensano che i guai dell’America sono cominciati ogni volta che ha cercato di andare fuori in cerca di nemici. E che l’America dovrebbe concentrarsi sulla sua grande forza di una potenza continentale e non immischiarsi in guerre e in alleanze militari esterne. Perché la politica americana dalla seconda guerra mondiale in poi è stata quella di creare alleanze militari con la Nato. Ma ci sono anche altre che obbligano i contraenti del contratto a sostenersi l’un l’altro nel caso di attacco. Questo significa che nel caso della Georgia, quando la Georgia attaccò la Russia, questo significa che gli Stati Uniti avrebbero dovuto intervenire a difesa della Georgia per perdere contro la Russia, rischiando la guerra nucleare. Quindi la politica cinese non è questa. Loro non fanno alleanze militari? Assolutamente no. Fanno una forte alleanza di fatto con la Russia che loro non vogliono trasformare in un’alleanza militare. Proprio per questa ragione, per mantenere una flessibilità dei rapporti in un mondo multipolare che giova a tutti, consente nei Brics di avere posizioni molto diverse. l’India Posizioni diverse dalla Cina sono anzi dei competitori piuttosto accesi del continente, ma non vuol dire che ci sia una guerra all’interno. Significa soltanto che c’è una articolazione di rapporti, che significa che ogni Paese va per la sua strada. E non è affatto detto che qualunque scontro conflitto debba trasformarsi in una guerra. Anche perché nei Brics il sistema economico è lo stesso. Se guardiamo la struttura economica: Cina, India, Russia, Sudafrica e Brasile condividono lo stesso sistema.
C’è uno Stato che dirige, che pianifica, che governa l’economia e la porta a crescere in maniera straordinaria.”

Marrucci: “E questo certo è perché il problema è che il capitalismo finanziario usato, non l’obiettivo, non è la crescita. L’obiettivo è la.”

Arlacchi: “Concentrazione della ricchezza nel famoso 1% esatto. Questo è un fattore di instabilità, è un fattore di disagio sociale immenso che penso proprio che comincerà a manifestarsi presto.”

Marrucci: “Infatti poi c’è il punto dell’instabilità. Appunto parlavi di spinte negli Stati Uniti, a cambiare in qualche modo paradigma. Ma è una cosa fattibile. Cioè esistono rapporti di forza concreti dentro la società, per cui quella in cui si trova gli Stati Uniti non sono un vicolo cieco e hanno una possibilità di uscita più o meno turbolenta quanto ti pare, però comunque pacifico.”

Arlacchi: “Dipende da quanto si approfondirà la crisi. Fino a che punto arriverà la crisi, Quindi può succedere di tutto perché loro stanno camminando molto velocemente lungo la china. Sono nella fase terminale del loro dominio. Quindi tutto dipende da quanto la velocità di questa e questa discesa.”

Marrucci: “E per quello l’ultima cosa per quello che riguarda noi alleati che più che alleati ormai mi sembra si possa dire vassalli contro i propri interessi con una pura agenda imposta da fuori. Qual è la nostra soglia di sopportazione e perché è così alta?”

Arlacchi: “Bella domanda questa. Noi avevamo l’Europa e l’Europa, era l’idea di fondo per la creazione di un nuovo Occidente non americano. Questa idea ha avuto una grande popolarità negli anni 70 e 80 e poi è stata messa da parte. Noi abbiamo creato l’euro per questa ragione l’euro, con tutti i disastri che ha fatto per la popolazione dei paesi dell’Europa del Sud, essendo nient’altro che un marchio svalutato, però era stato creato proprio per essere un’alternativa al dollaro.Per un po ha funzionato finché è arrivato ad avere il 30% degli scambi internazionali. Poi però gli americani hanno tirato il freno a mano, tirato il freno e hanno detto agli europei Guardate che sei d’accordo, ma non vuoi. Dovevate essere complementari al dollaro, non alternativi al dollaro.E poi l’intera architettura dell’Unione europea. Io sono stato in Parlamento europeo e so di che cosa parlo. Non può funzionare, non può funzionare perché le sue basi sono un tentativo di creare gli Stati Uniti d’Europa. Questa è l’idea l’Europa che diventa un sistema federale, un governo federale come gli Stati Uniti. Questa idea non funziona, non può funzionare. Uno. Non siamo più nei tempi delle grandi federazioni. Due l’Europa è fatta di Stati che hanno, ma lavoro possono benissimo condividere spazi comuni, coordinarsi e così via, senza avere bisogno di un governo comune. Tanto è vero che gran parte delle politiche europee nei diversi Paesi sono le stesse. Non c’è bisogno di creare questo potere sovranazionale, questa burocrazia che poi può compiere degli errori terribili che è condizionabile molto di più che i governi dei singoli Paesi. Quindi proprio bisogna ripensare le basi del discorso dell’Europa. “

Marrucci: “Cioè, paradossalmente, per ritrovare un pochino di autonomia strategica europea bisognerebbe investire sulla sovranità degli Stati che non su una struttura sovranazionale.”

Arlacchi: “Noi abbiamo creato istituzioni assurde dal punto di vista europeo. La Corte europea dei diritti dell’uomo è l’esempio più scandaloso. Le sentenze di questa Corte non valgono la carta su cui sono scritte paesi europei hanno un sistema di garanzie dei diritti dei cittadini molto forte, che sono i più avanzati del mondo. Che bisogno c’era di creare che l’ha creata? Soros? È stato Soros che ha creato questa istituzione che è paradossale il 40% dei suoi membri non ha soldi, non sono giudici, non sono neanche avvocati. Sono ex attivisti di Soros che sono stati presentati dai vari paesi dell’Europa orientale dove lui è forte e sono arrivati alla Corte che fa delle sentenze abnormi molto spesso contro l’Italia.

Sempre contro la Russia e contro i più deboli del sistema. Quindi il vantaggio qual è stato? Nel mondo contiamo molto di meno di quanto contavano i singoli Stati europei. Questo ha detto Prodi interessa i singoli europei. Nel mentre il Medio Oriente sullo Scacchiere contavano quel poco che contavano molto di più 20 o 30 anni fa. E quanto contano adesso? Quindi nessun risultato politico, nessun risultato economico.”
Questa intervista è il primo di una serie di contenuti che vi proporremo nei prossimi giorni a partire dal lavoro che abbiamo svolto durante il XVI Forum Economico Eurasiatico di Verona che si è tenuto a Samarcanda gli scorsi 2 e 3 Novembre. È stata in assoluto la prima trasferta di OttolinaTV. Siamo convinti sia stata una scelta azzeccata e che speriamo soddisfi anche le vostre aspettative su quale dovrebbe essere il lavoro che deve svolgere un media che si propone di dare voce al 99% in questa complicata fase di transizione dell’ordine globale dall’unipolarismo USA al fantomatico nuovo ordine multipolare. Il forum infatti non era un meeting di forze antimperialiste. Il focus non era il multipolarismo per come vorremmo che fosse. Era il multipolarismo per come sarà, anzi, per come in buona parte già è a prescindere dalla nostra volontà. È il nuovo mondo che avanza, con tutte le sue opportunità, ma anche con tutte le sue contraddizioni. Per osservarlo e provare a capirlo, la vecchia propaganda suprematista dell’occidente collettivo serve a poco.
Serve un vero e proprio nuovo media, in grado di dare voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)
E chi non aderisce è Maurizio Sambuca Molinari.

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Christine Lagarde

[LIVE MONDOCINA] La controffensiva palestinese vista da Pechino

Diretta streaming del 09/10/2023 ore 13.30 – Contro il logorio della vita moderna, all’ora di pranzo fai un break con OttolinaTv!
Cerca di capire insieme a noi che intenzioni ha l’unica grande potenza responsabile del pianeta per evitare che la democrazia israeliana democraticamente provi a sterminare definitivamente i palestinesi.
Con noi oggi due graditissime new entry che da oggi in poi faranno parte della famiglia di MondoCina: Michele Gelato e Alessandro D’Angelo da Shenzhen. Altri due zuzzurelloni che hanno preso alla lettera il classico invito degli analfoliberali (“si vi piace la Cina, perchè non ci andate a vivere?”) assieme al sempre presente Davide Martinotti di Dazibao.

Canada vs India: le accuse all’india e il doppio standard dell’occidente

India accusata di omicidio di un cittadino canadese in Canada

Ci sono due motivi per cui il Canada è sotto i riflettori mondiali nell’ultima settimana, uno abbastanza imabarazzante e l’altro abbastanza interessante.

Il motivo imbarazzante è che, in occasione della visita di Zelensky, al Parlamento canadese è stato reso omaggio ad un ex SS ucraino, definendolo un eroe ucraino che ha combattuto contro i russi per l’indipendenza dell’Ucraina e che ancora oggi, ultranovantenne, si batte per la verità. Insomma, che Putin menta quando dice che in Ucraina c’è il nazismo, il Canada ha scelto di farcelo spiegare proprio da un eroico ex-SS ucraino applaudito in mondo visione da Zelensky, un’operazione davvero brillante, se lo scopo era quello di fare un favore a Putin. Tanto che dopo pochi giorni il Presidente dell’istituzione Canadese ha dovuto scusarsi con le varie comunità ebraiche che hanno protestato ricordando come la divisione delle SS in cui l’eroe ha prestato volontariamente servizio è stata una unità militare i cui crimini contro l’umanità sono ben documentati.

Ma c’è un secondo motivo per cui si parla di Canada, cioè il fatto che il Primo Ministro canadese Trudeau ha accusato l’India di essere dietro all’omicidio di un cittadino canadese. L’India ha respinto le accuse è tra i due paesi è in corso una tensione diplomatica, fatta di reciproche espulsioni di funzionari.

La vittima dell’omicidio è il leader separatista Sikh Nijjar, residente in Canada e con cittadinanza canadese. Un membro della folta diaspora Sikh sparpagliata in vari paesi del mondo, tra cui anche l’Italia, ma specialmente in Canada. Il movimento separatista Sikh chiede all’India la formazione di uno Stato autonomo almeno dal 1947, dai tempi della Partizione dell’India, decisa dall’Impero britannico, che divise la colonia dell’india britannica in due stati separati, India e Pakistan: una separazione che portò ad enormi tensioni, che si tradussero in oltre un milione di morti e la regione del Grande Panjaab, centro geografico della cultura Sikh, si trova proprio in mezzo a questa divisione.

Da allora le tensioni tra il governo indiano e il separatismo Sick non si sono mai placate, e l’ultimo episodio, secondo l’accusa canadese, appare particolarmente grave: il 18 giugno di quest’anno due uomini hanno sparato e colpito a morte Nijjar all’esterno di un centro religioso Sikh in un sobborgo di Vancouver e seconodo Trudeau dietro a questo omicidio ci sarebbe l’agenzia di intelligence indiana e il governo indiano.

Insomma, proprio mentre, sempre a Giugno, un confuso Biden con la mano sul cuore mentre suonavano l’inno indiano accoglieva Modi sottolineando l’alleanza basata sui valori tra India e Stati Uniti, contemporaneamente l’India, secondo il Canada, aveva appena ordinato l’esecuzione extraterritoriale di un cittadino canadese in territorio canadese. La notizia a prima vista è simile a tante altre: da Putin che avvelena le persone a Bin Salman che le squarta, ma a differenza delle altre volte, in questo caso, la condanna verso l’India è molto più cauta e per il momento non è ancora apparso nessun titolo di giornale con su scritto “Modi spara alle persone”; diciamo che della questione si è parlato molto poco, nella politica estera abbiamo sentito parlare molto di più di questioni che al confronto paiono minori. Pensiamo ad esempio all’allontanamento di Hu Jintao durante l’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese, interessante per carità, ma niente in confronto ad una accusa di omicidio extraterritoriale.

Su “il foglio” il leader separatista sick ucciso viene liquidato come “un killer prezzolato e trafficante di droga ricercato dall’Interpol”, e certo, questo è ciò che sostiene l’India che in questi termini ha fatto emettere l’avviso dall’interpol. Ma “il foglio” dimentica di dire che Nijjar ha risposto a queste accuse in una lettera al Primo Ministro canadese nel 2016, in cui ha affermato che le accuse del governo indiano erano “fabbricate, infondate, fittizie e politicamente motivate” e la polizia canadese aveva detenuto brevemente Nijjar per un interrogatorio nell’aprile 2018 per poi rilasciarlo dopo neanche ventiquattr’ore senza formulare alcuna accusa. Insomma, diciamo che Nijjar non è che vivesse in fuga e braccato dall’interpol, ma anzi, la sua vita in canda era pubblica e sotto i riflettori per varie attività legate all’indipendentismo Sick. Ma allo stesso modo non dimentichiamoci che il separatismo Sick non è certo estraneo ad episodi di violenza e anche molto gravi, ad esempio [IMG9] nel 1985 un gruppo di estremisti Sikh ha fatto esplodere con una bomba il Volo Air India 182, uccidendo 329 persone, in risposta all’operazione Blue Star, un’operazione militare lanciata da Indira Gandhi l’anno prima, nel 1984 e nella regione del Panjaab, dove si stima che tra i cinque e i dieci mila civili siano rimasti uccisi nel corso delle operazioni. Allo stesso modo la stessa Indira Gandhi sarà vittima della vendetta dei Sick, con un omicidio che provocò gravi disordini in tutto il Paese e particolarmente nella capitale, dove migliaia di cittadini sikh vennero uccisi per ritorsione, nella sostanziale indifferenza delle forze dell’ordine.

Insomma, vicende estremamente delicate in un Paese in cui religione e identità culturale si legano a fenomeni di scontri sociali particolarmente cruenti e dove l’eredità post coloniale ha contribuito ad esacerbare queste questioni. In un contesto intricato come questo è interessante vedere giornali come il foglio che diventano portavoce acritici della voce ufficiale di un paese del sud del mondo. Ma non illudiamoci, non è che son diventati multipolaristi e se invece che l’India ad essere accusata di omicidio extraterritoriae nel territorio di una democrazia occidentale fosse stata la Cina, beh non avremmo certo visto questa prona adesione de “il foglio” al punto di vista del Governo accusato.

Ma d’altra parte a preoccupare “il foglio”, come scrive, è “Il rischio che anche per America, Australia e Regno Unito, si apra una fase critica nei rapporti con Canada e India, in un’escalation diplomatica che potrebbe minare l’unità dell’occidente nell’Indo-Pacifico”, una unità che serve, per l’appunto, a contenere la Cina… cioè, non è che adesso vi mettete lì a litigare per gli omicidi extraterritoriali, il foglio invita alla calma.

Insomma della vicenda non se ne è parlato molto, una lodevole eccezione qui su youtube è rappresentata da Braking Italy, che certo ne ha parlato con quello che è il suo stile, e le sue riflessioni, che non condivido particolarmente, ma quantomeno ne ha parlato, soprattutto non condivido che nell’elenco dei Paesi che hanno compiuto omicidi extraterritoriali ha inserito la Russia e l’Arabia Saudita ma si è dimenticato di inserirne uno abbastanza grandicello nella questione, cioè gli Stati Uniti. Pensiamo ad esempio all’omicidio del generale iraniano Soleimani, ordinato da Donald Trump e definito illegale dalla relatrice speciale ONU sui diritti umani; o pensiamo a cosa è accaduto in Afghanistan il 29 agosto 2021, dopo l’annuncio del ritiro delle truppe statunitensi, quando un drone americano ha falcidiato una intera famiglia afghana, uccidendo dieci civili tra cui sette bambini. Secondo l’intelligence statunitense, che aveva seguito per ore una Toyota bianca prima di sparargli contro uno di quegli ordigni che perforano le lamiere e le persone, secondo loro in quella macchina vi erano terroristi che trasportavano bombe, un’operazione dell’ISIS-K, la stessa organizzazione coinvolta in un attacco di tre giorni prima all’aeroporto di Kabul, dove erano morti anche tredici soldati statunitensi. Biden aveva promesso una dura e pronta risposta, ma la risposta è stata quella di massacrare Ezmarai Ahmadi e la sua famiglia e lui per di più era un operatore umanitario e cooperante con la statunitense Nutrition and Education International, una organizzazione che si occupa di distribuire aiuti umanitari in Afghanistan. Lavorava per gli Stati Uniti insomma, e come successive indagini hanno rivelato, la macchina non trasportava bombe, ma taniche d’acqua, tanto che il Pentagono ha dovuto ammettere l’errore, definito “spiacevole ma onesto” dall’ispettore generale del Pentagono, che ha anche specificato che nessun militare statunitense sarebbe stato punito per quell’errore, perché era appunto un errore onesto. Come ha commentato il fondatore e Presidente di Nutrition & Education International “Questa decisione è scioccante. Come possono i nostri militari togliere ingiustamente la vita di 10 preziose persone e non ritenere nessuno responsabile in alcun modo?”. Risposta, perché è un errore onesto!

Secondo alcuni oltre che un essere onesto questo errore è anche una esecuzione extraterritoriale in un Stato dal quale avevano già annunciato il disimpegno e il ritiro delle truppe: a che titolo fai piovere la morte dal cielo in uno stato estero nel quale il Governo che sostenevi si era già dissolto come la neve da settimane? Come commenta il “New York Times”: in due decenni di guerra l’esercito americano ha ucciso in raid mirati migliaia di civili per sbaglio in Iraq, Afghanistan, Siria e Somalia, e “mentre l’esercito di tanto in tanto si assume la responsabilità di questi attacchi, raramente ritiene responsabili persone specifiche”. Braking italy nel suo video sottolinea come l’occidente non debba permettere all’India o ad altri Stati di intervenire extra territorialmente con esecuzioni, e sono perfettamente d’accordo, ma aggiungerei pure che tutto sommato l’occidente potrebbe provare anche ad impedire all’occidente stesso di intervenire extra territorialmente con esecuzioni, come dice Confucio dare il buon esempio è il primo passo per una leadership di successo. Ma non solo l’occidente non riesce ad impedire all’occidente di farle queste cose, ma al momento non è neppure in grado di formulare una condanna forte e compatta verso l’India. La reazione ufficiale degli Stati Uniti alle accuse canadesi contro Modi è stata abbastanza tiepida, limitandosi a dichiarare che si aspettano che il governo indiano collabori con il Canada per indagare sul possibile coinvolgimento di agenti di Nuova Delhi nell’omicidio.

Bin Salman per l’omicidio Khash oggi era stato definito da Biden un Paria internazionale, salvo poi più recentemente andare a stingergli la mano in varie occasioni: l’ultima al G20 di settembre che c’è stato proprio in India. Oppure pensiamo agli avvelenamenti di Putin, con Biden che nel 2021 aveva definito Putin un assassino ancor prima della guerra in Ucraina, mentre in questo caso ci si muove con molta più cautela, in quello che a prima vista sembra un perfetto esempio dei doppi standard, i due pesi e due misure dell’Occidente.

Ma in realtà qui la questione potrebbe essere molto più intricata, se non altro perché, come ha rivelato il New York Times: “le agenzie di spionaggio americane hanno fornito informazioni al Canada dopo l’uccisione del leader separatista sikh nell’area di Vancouver”. Come riporta il giornale, all’indomani dell’omicidio, le agenzie di intelligence statunitensi avrebbero offerto alle loro controparti canadesi informazioni chiave che hanno aiutato il Canada a concludere che il governo indiano era stato coinvolto. Mentre il Segretario di Stato Antony J. Blinken ha invitato l’India a collaborare con l’indagine canadese, i funzionari americani hanno ampiamente cercato di evitare di innescare qualsiasi reazione diplomatica da parte dell’India. Ma, commenta il New York Times: “la rivelazione del coinvolgimento dell’intelligence americana rischia di intrappolare Washington nella battaglia diplomatica tra Canada e India in un momento in cui è desiderosa di avvicinarsi a Nuova Delhi”.

Insomma, pubblicamente gli Stati Uniti fanno da pompiere, ma segretamente avrebbero fatto da incendiari, non solo fornendo al Canada informazioni che hanno aiutato a incastrare l’India ma oltre a questo funzionari di intelligence hanno spifferato di averlo fatto al New York Times.

Uno scontro tra apparati che non passa certo inosservato, con la presidenza che va in una direzione e i servizi che vanno nella direzione opposta.

Da questa vicenda si possono trarre almeno due conclusioni: primo, il mantra della “guerra tra democrazie e autocrazie” che sentiamo ripetere così spesso come chiave di lettura per qualsiasi cosa è quanto mai insufficiente per comprendere il mondo di oggi. Non solo la nostra definizione di democrazia sta molto stretta a uno stato come l’India, ma oltre a questo mi pare ormai chiaro che l’idea che esistano due blocchi contrapposti, le democrazie di stampo occidentale da una parte e le autocrazie dall’altra, è una idea insufficiente, e che cade continuamente in contraddizione con se stessa. Ad esempio: perché l’Italia deve uscire dalla Via della Seta? Perché la Cina è una autocrazia, scrive Mario Platero su Repubblica: “la Via della Seta è diventata insostenibile nel momento in cui l’autocrazia cinese ha deciso di schierarsi con la Russia e contro l’Ucraina e contro l’Europa”. A Mario Platero il fatto che nella Via della Seta cinese ci sia pure l’Ucraina, e che non ha nessuna intenzione di uscirne, è un dettaglio che a lui non lo sfiora nemmeno, ed è strano, perché se dobbiamo uscire dalla Via della Seta perché la Cina si è schierata contro l’Ucraina, non sarebbe forse normale che la prima a volerne uscire dovrebbe essere proprio l’Ucraina stessa?

E non lo sfiora neppure il fatto che, annunciando al G20 il ritiro dalla via della Seta, l’Italia abbia annunciato contemporaneamente il suo ingresso nel corridoio Medio Orientale che unsice India, Arabia Saudita ed Europa, e consideriamo che non solo l’Arabia Saudita non è una democrazia ma una monarchia ereditaria, ma oltre a questo Cina, India e Arabia Saudita condividono la stessa posizione nei confronti della guerra in Ucraina.

Perciò, se la tesi è che per solidarietà con l’Ucraina dobbiamo uscire da una iniziativa in cui c’è pure l’Ucraina, o che per contrastare le autocrazie dobbiamo stringere legami con la monarchia saudita e gli Emirati Arabi, chiamarla ipocrisia o doppio standard è pure un eufemismo.

La seconda considerazione è che, come dicono alcuni osservatori, la leadership statunitense è spaccata al suo interno. Secondo Andrew Korybko negli usa “oggigiorno ci sono due fazioni ferocemente concorrenti, i liberal-globalisti e i loro rivali relativamente più pragmatici. I primi sono ideologi ossessionati dall’imporre i loro valori a tutti gli altri, mentre i secondi vogliono che l’America si adatti al multipolarismo ponendo gli interessi nazionali al di sopra di tutto il resto”.

Nel contesto delle relazioni India-Stati Uniti, i liberal-globalisti vorrebbero continuare a fare pressione sull’India affinché si adatti alle richieste di condanna e sanzione contro la Russia, creando tensione nei legami indo-statunitensi anche a scapito dei loro comuni interessi nel contenere la Cina, mentre i pragmatici vorrebbero dare priorità all’obiettivo geopolitico del contenimento della Cina. “Il viaggio del primo ministro Narendra Modi negli Stati Uniti a giugno ha dimostrato che i pragmatici hanno vinto in questo dibattito, ma ora è noto, col senno di poi, che i liberal-globalisti si sanno muovendo per sabotare i loro legami”, conclude Korybko, riferendosi alla fuga di notizie da parte di fonti dell’inteligence sul coinvolgimento degli Stati Uniti delle indagini canadesi contro l’India.

E se gli Stati Uniti condannassero l’India come hanno condannato altri Paesi per azioni del tutto simili, sarebbe un grosso problema per gli Stati Uniti stessi, hanno un bisogno strategico dell’India. Ma se la leadership statunitense davvero pensa che ci sia una condivisione di valori tra India e Stati Uniti allora anche questo può diventare un problema: non solo in termini di valori, tradizioni e situazione politica sono Paesi con differenze abbastanza evidenti, ma anche in termini di posizione internazionale. Di relazione con la Russia, totalmente diversa la relazione che l’India ha con la Russia rispetto alla relazione tra Russia e occidente; ma anche nel rapporto con la Cina, per quanto l’India abbia un rapporto conflittuale con la Cina, per l’India la Cina rappresenta comunque il più grande attore economico a livello regionale, quindi un vettore di crescita dell’area asiatica, un’area nella quale l’India è inserita.

Insomma, per gli Stati Uniti l’india è un banco di prova relativamente nuovo, se non altro perché ha aspetti inediti l’importanza che l’India ha assunto negli ultimi anni, e sarà interessante vedere come gli USA si muoveranno, e non a caso Kissinger nell’intervista per i suoi 100 anni con il suo cinismo da uomo che nel mondo ha fatto di tutto, consigliava agli Stati Uniti di smetterla di fare gli idealisti nel loro rapporto proprio con l’India e di mantenere il pragmatismo.

Se volete approfondire la questione tra India e Canada, oltre che l’intensificarsi delle politiche anti corruzione in Cina,il cosiddetto cerchio di Xi come lo chiamano i media cinesi, una immagine che il presidente cinese aveva tratto dal viaggio in occidente, un romanzo della letteratura classica cinese, quello che ha scimmiotto come personaggio, il prototipo di Goku di Dragon Ball, insomma se volete approfondire queste questioni, ne ho parlato nella newsletter, un contenuto riservato a chi ci sostiene su tipeee, almeno un euro al mese per riceverla per email tre volte a settimana, almeno 5€ per poter accedere all’archivio delle vecchie newsletter, oppure potete sostenerci su gofoundme.

Auto elettrica: come l’Europa vuole fregare i quattrini dei consumatori per regalarli agli oligarchi

I mercati globali sono stati inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi da enormi sussidi statali”. Quando il 13 settembre ho sentito la nostra Ursulona (von der Leyen, ndr) pronunciare queste parole, mi sono subito fiondato alla ricerca di una di queste fantomatiche macchine elettriche cinesi supereconomiche che  avrebbero drammaticamente “invaso i mercati globali”

Contrario allo sfruttamento del lavoro geriatrico, anche per la mia audi a4 del 2002 è decisamente arrivata l’ora del meritato pensionamento. Quale migliore occasione di una nuova auto che non solo è cinese, ma pure elettrica, e pure supereconomica? Ma quando mi sono trovato davanti al listino prezzi, tutto l’entusiasmo iniziale è stato, diciamo così, leggermente ridimensionato. Ovviamente, visto che l’avrei dovuta pagare con i quattrini di chi generosamente sostiene questo strambo canale, sono partito dal modello base: BYD Dolphin, si chiama.

L’auto elettrica più economica sul mercato, avevo sentito dire. Con in più la garanzia di un marchio che vede come primo azionista niente popo’ di meno che la Berkshire Hathaway del signor Warren Buffet. uno che di investimenti, così a occhio, al netto di tutto, ci capisce.

Peccato però che in realtà costi quanto un SUV: a partire da 30.790 euro, riporta “quattroruote”. Ci sono rimasto male…Quando è stata lanciata in Cina, ricordo, il singolo punto su cui si era concentrata tutta la campagna pubblicitaria, era che sarebbe stata la prima auto elettrica della BYD a stare sotto la soglia dei centomila yuan. più o meno, tredici mila euro. Nel frattempo è un po’ aumentata, effettivamente e il prezzo di partenza nei listini cinesi oggi è di 116 mila yuan. 15 mila euro.

E non è un caso isolato. la versione elettrica della MG ZS, secondo “quattroruote”, in Italia parte dalla modifica cifra di 34.500 euro. in Cina, secondo bloomberg, da 15.600 euro

Non è questione soltanto di marchi cinesi.

Come riporta sempre bloomberg infatti, l’auto elettrica più economica attualmente sul mercato in realtà sembrerebbe essere la versione elettrica della Dacia Spring, che in Italia partirebbe da 21.450 euro. Anche lei però, nonostante sia del gruppo Renault, viene prodotta nella provincia dell’Hubei, in Cina, dove è stata ribattezzata Nano Box, e il prezzo di partenza è inferiore, udite udite, agli ottomilacinquecento euro. Ma com’è mai possibile che lo stesso identico oggetto in Cina costi meno della metà che in Europa? E sopratutto, listini alla mano, Ursula sette cervelli von der Leyen, esattamente, questa fantomatica invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche, da dove se l’è tirata fuori? Anche lei come il suo bestie sleepy Joe ha degli amichetti immaginari che gli suggeriscono cose?

Da quando Henry Ford s’è inventato quel meraviglioso bussolone a pedali che era la model-t, l’industria automobilistica si è affermata come il singolo settore più importante dell’intera industria globale. Oggi l’industria automobilistica europea è sottoposta a un attacco concentrico devastante e la nostra impresentabile classe dirigente, non sa che pesci prendere. “Le nostre industrie più sviluppate adorano la competizione”, ha affermato la Von der Leyen durante la seduta del parlamento europeo del 13 settembre scorso, all’inizio di un intervento che rischia di passare alla storia come uno degli esempi più eclatanti di quanto ormai le elite europee vivano in un mondo immaginario tutto loro. “Loro sanno che la competizione fa bene agli affari”, ha continuato ursulona, “e che crea e protegge i posti di lavoro qui in europa”.

Non fa una piega.

Secondo ursulona, le nostre aziende la concorrenza non si limitano a subirla, attrezzandosi come possono per tentare di sopravvivergli, ma proprio la amano. Se te vai dagli azionisti di un’azienda qualsiasi e gli dici di prenotarsi alla caritas perchè a breve li distruggerai mettendo sul mercato un prodotto simile o migliore del loro, ma a metà del prezzo, loro proprio danno fondo a tutte le bottiglie di crystal rimaste in cantina, invitano le migliori escort della loro agenda e ti improvvisano una festa di buon auspicio come non ne hai mai viste.

È proprio per amore della concorrenza, infatti, che le nostre aziende investono più in lobbying che in ricerca e sviluppo. Ed è sempre per amore della concorrenza che nel tempo, con la complicità delle istituzioni, hanno creato un mercato così aperto e concorrenziale, che quando un paio di anni fa è cominciata ad arrivare la spinta inflazionistica, sostanzialmente in tutti i settori si sono formati cartelli più o meno organizzati che non solo hanno potuto serenamente scaricare all’unisono tutto quell’aumento dei costi sui consumatori, senza rimetterci un centesimo, ma ci hanno pure ricaricato sopra e pure parecchio, con il paradosso che mentre tutta l’economia andava a scatafascio e il potere d’acquisto di chi lavora precipitava, i loro profitti decuplicavano.

Più amore per la concorrenza di così…

Ogni tanto però, sottolinea la Von Der Leyen, arriva qualche bricconcello che che sul nostro amore incondizionato per la libera concorrenza ci specula un po’. Troppo spesso”, ha affermato la nostra ursulona, “le nostre aziende sono escluse dai mercati esteri o sono vittime di pratiche predatorie e spesso devono vedersela con concorrenti che beneficiano di ingenti sussidi statali”.

Finalmente! dopo due anni che gli USA non solo ci hanno costretti a infilarci in una guerra per procura in Ucraina contro la Russia che per noi è economicamente  suicida, ma hanno pure rincarato la dose rispolverando un protezionismo economico ultra-aggressivo che ci sta scippando da sotto il culo ogni investimento possibile immaginabile a suon di incentivi multimiliardari alle aziende, finalmente ci siamo decisi a rialzare la testa.

Brava Ursula, era l’ora!

Perchè ovviamente parlavi degli USA, no? Voglio dire, a sto giro l’hanno fatta davvero grossa. Per trent’anni in nome della libera concorrenza e dell’apertura dei mercati non hanno fatto altro che architettare colpi di stato, cambi di regime, devastanti crisi del debito e veri e propri stermini di massa e ora che si sono accorti che la libera concorrenza e l’apertura dei mercati alla lunga li condanna a un’inesorabile declino dal giorno alla notte si sono rimangiati tutto e sono tornati al caro vecchio protezionismo e agli aiuti di stato. Il tutto a nostro discapito. Prima o poi era inevitabile che qualcuno gliene cantasse quattro…macché.

Per mettere fine alla mia breve illusione, è bastato aspettare la frase successiva: non abbiamo dimenticato”, ha tuonato infatti ursulona, “come le pratiche commerciali sleali della Cina hanno influenzato il nostro settore fotovoltaico. Molte giovani imprese sono state espulse da concorrenti cinesi fortemente sovvenzionati”. Ma te guarda, ed io che credevo che si chiamasse, molto banalmente, politica industriale. La Cina infatti si è limitata a fare esattamente la stessa cosa che hanno sempre fatto tutte le potenze industriali quando hanno deciso che la crescita di un determinato settore fosse strategica per l’insieme dell’economia. Attraverso investimenti pubblici hanno creato le condizioni affinché il capitale privato si indirizzasse verso un determinato settore e attraverso altre regole ad hoc, hanno impedito che si sperdesse in settori ritenuti secondari se non addirittura controproducenti. In questo modo, il settore privilegiato ha raggiunto un livello tecnologico e una scala tale da abbattere in maniera drastica i costi e trovarsi così nelle condizioni di sbaragliare la concorrenza, almeno laddove la libertà della concorrenza veniva garantita. Non esiste nell’intera storia del capitalismo settore industriale di una certa consistenza che non si sia sviluppato così. Basti pensare appunto, all’industria automobilistica europea, le cui esigenze hanno dettato per decenni la politica industriale di tutti i principali Paesi del continente, che si sono prodigati in aiuti e sgravi di ogni genere, hanno fatto guerre coloniali e neocoloniali per assicurare l’accesso alle materie prime e con i soldi pubblici hanno costruito le infrastrutture necessarie affinché le auto che venivano prodotte servissero concretamente a qualcosa. L’idea che le aziende private si inventano un prodotto e si affermano sul mercato vincendo contro la concorrenza, senza il sostegno degli Stati, non è semplicemente distorta, è proprio pura fantasia.

Un mondo immaginario.

Tramite “giganteschi sussidi dello stato” ad esempio è nata e cresciuta la Silicon Valley, con i suoi colossi che poi hanno colonizzato digitalmente tutti quei Paesi che non avevano messo sul piatto una politica industriale altrettanto ambiziosa per il settore delle piattaforme tecnologiche. Ovviamente lo stesso è successo con la tecnologia per la produzione di energia da fonti rinnovabili, dove a imporsi invece sono stati appunto i cinesi. Con la differenza che l’abbattimento vertiginoso dei costi per produrre energia da fonti rinnovabili, cara Ursula, a quanto mi risulta, sei la prima a sostenere che sia cosa buona e giusta. Mentre su quanto sia davvero positivo il ruolo che svolge per la collettività l’oligopolio di google, facebook e microsoft, se non ricordo male, anche l’Unione Europea stessa ha sollevato qualche lieve perplessità. Ma se c’è un aspetto che caratterizza sempre le classi dirigenti di una civiltà in declino, è la coazione a ripetere sempre gli stessi errori. Ed ecco così che oggi il focus si sposta su un altro settore, chiacchieratissimo: i veicoli elettrici.

Un settore cruciale per l’economia pulita”, come lo definisce la stessa ursulona, “con un enorme potenziale in Europa”. Che però, teme la nostra ursulona, rischia di rimanere inespresso. Sarà mica per colpa delle case automobilistiche che non ci hanno investito il becco di un quattrino, dal momento che erano troppo occupate a intascarsi i dividendi e andarli a investire nelle bolle speculative negli USA?

No, macchè…sarà allora mica colpa degli Stati che a causa delle loro politiche neocoloniali stanno sul cazzo a tutto il resto del mondo e non sono riusciti a costruirsi una filiera stabile ed efficiente per reperire le materie prime in modo sicuro e sostenibile?

No, ma figurati…sarà allora forse mica perché i governi in preda al misticismo dell’austerità non hanno fatto i compiti a casa in termini di ricerca di base e di costruzione delle infrastrutture necessarie per rendere quel prodotto realmente utilizzabile, a partire banalmente dalle colonnine per la ricarica?

Ma no, ma cosa ti viene in mente mai…e allora vedrai il problema che ha in mente Ursula non può che essere quello che dicevamo all’inizio: il ritorno del protezionismo negli USA, e la politica aggressiva di incentivi che decreta la morte del libero mercato e spinge le nostre aziende a salutare con l’altra manina il vecchio continenti e andare a cercare fortuna in America.

Macchè, manco questo…e di chi sarà mai allora la colpa?

Ma dei cinesi ovviamente!

Secondo la Ursula infatti, il potenziale delle nostre aziende è messo a rischio dal fatto che “i mercati adesso sono inondati da auto elettriche cinesi ultraeconomiche, con prezzi mantenuti artificialmente bassi grazie a enormi sussidi statali”. È lo stesso identico ragionamento distorto fatto per il fotovoltaico, ma con un aggravante in più parecchio grossina, sinceramente. e imbarazzante. Nel caso dei pannelli fotovoltaici infatti, per lo meno, il dato di base è verissimo: quelli cinesi, a parità di caratteristiche, costavano parecchio ma parecchio meno e si sono divorati il resto del mercato.

Per le auto elettriche, invece, molto banalmente, come dice il nostro amico David Puente: No! le auto elettriche cinesi in Europa non costano meno dei concorrenti. Non è solo questione di contesto mancante, che è la formula che usa David Puente per segnalare a caso come inattendibili tutte le notizie che molto semplicemente non gli piacciono: è proprio una bufala; palese; evidente.

Come vi abbiamo raccontato all’inizio di questo pippone infatti, è assolutamente vero che le auto elettriche cinesi costano enormemente meno di quelle della concorrenza. Questo, come per i pannelli, è il frutto di una politica industriale di lungo periodo, che nel corso degli ultimi dieci anni ha permesso di creare in Cina un ecosistema produttivo che non ha neanche lontanamente pari nel resto del pianeta e anche di generosi incentivi Statali che continuano ad essere concessi sia a chi le macchine le produce, sia a chi le compra, a partire dall’esenzione almeno fino al 2025 dall’IVA. Ma questo appunto, riguarda la Cina e solo la Cina. In Europa, come d’altronde in tutto il resto del mondo, le auto elettriche cinesi costano in media circa il doppio che in patria, e quindi molto banalmente non c’è nessunissima “invasione di auto elettriche cinesi ultraeconomiche”, che ammazzano il mercato a causa di intollerabili incentivi Statali. Ma d’altronde, siamo nell’era della post verità e queste semplici considerazioni basate sui numeri, evidentemente, lasciano il tempo che trovano.

Quello che conta è la narrazione.

Ed ecco così che ursulona continua imperterrita per la sua strada, e da assunti completamente inventati, trae inevitabilmente conclusioni decisamente pericolose: questo sta distorcendo il nostro mercato”, tuona, “e quindi oggi sono qua per annunciare che la commissione aprirà una indagine anti-sussidi sui veicoli elettrici cinesi”.

Grande ursula, questo si che è parlare chiaro! La sala del Parlamento Europeo è tutta uno scrosciare di applausi. Ormai funziona così: più grossa è la puttanata, più grossa è la hola.

L’indagine anti sussidi, dovrebbe fornire la legittimazione per introdurre dazi più sostanziosi rispetto alla tassa del 10% sulle auto importate che è già oggi in vigore. L’Unione Europea infatti ci tiene molto a continuare a recitare la parte di quella che rispetta le regole e si rifiuta di alzare i dazi senza giustificazione come ad esempio hanno fatto gli USA, dove ora sono addirittura al 27.5%. Quindi, prima di procedere, vuole far finta di avere una pezza d’appoggio. Peccato però che come sottolinea addirittura Politico, che certo non può essere accusato di avere simpatie filocinesi, “per avviare un’indagine antidumping deve prima verificare che l’oggetto della sua indagine sia effettivamente venduto in Europa a un prezzo inferiore a quello applicato nel paese di origine. E guardando i prezzi sarà piuttosto difficile sostenere questa tesi”. Ma allora, perché mettere in piedi tutta questa ennesima clamorosa buffonata? Sempre secondo Politico, sarebbe tutta farina del sacco dei francesi, che temono per la tenuta dei loro campioni nazionali. In tutta sincerità, ne hanno ben donde. Non so chi di voi ha mai avuto un auto francese: io ho avuto una scenic per qualche anno, ormai una ventina di anni fa. Da allora ho deciso che piuttosto che un auto francese, vado più volentieri a piedi. I tedeschi invece, sottolinea sempre Politico, ma anche Bloomberg, in realtà vedrebbero questa buffonata di cattivo occhio. Loro le auto le sanno fare davvero e non sono troppo preoccupati dalla concorrenza cinese. Mentre sono preoccupatissimi dall’idea che queste buffonate possano far incazzare i cinesi, e spingerli a reagire restringendo la libertà di manovra che i marchi tedeschi hanno sul loro mercato, che è quello che li tiene in piedi. A questo giro, sostiene bloomberg, i cinesi per reagire, molto onestamente, avrebbero motivi in abbondanza. Infatti, ancora non abbiamo risposto alla semplice domanda da cui era partito tutto questo pippone infinito: come minchia è possibile che le auto elettriche cinesi in Europa costino più del doppio che in patria?

Un bel po’ di ottoliner si sono scervellati per tutto il week end alla ricerca di una risposta più o meno plausibile, ma senza grossi risultati. Solo lo stupore di constatare come nessuno, e intendo proprio NESSUNO sui nostri media si sia posto questa domanda fino ad oggi. Sulla stampa internazionale, invece, qualche considerazione si trova.

Mettiamole in fila.

Ai prezzi cinesi, tanto per iniziare, ci vanno sicuramente aggiunti i costi di logistica, che possono arrivare a pesare anche per il 15%; poi c’è la tassa sulle importazioni, che persa per un altro 10%; poi c’è il fatto che nei listini cinesi, visto che fino al 2025 sulle auto elettriche è stata abbattuta, non c’è l’IVA, che pesa per un altro bel 22%; poi c’è il fatto che i marchi cinesi da noi non hanno una rete di distribuzione strutturata, e anche questo produce sovra costi notevoli.

Metti tutto assieme e un bel 50/60% del sovra costo eccolo spiegato. A questo però dobbiamo togliere qualcosa, perché di solito, ovviamente, quando vuoi affacciarti su un nuovo mercato, sopratutto se è un mercato ostile per motivi ideologici e culturali come lo è quello europeo nei confronti del made in china, dovresti essere disposto a sopportare un periodo di margini piuttosto risicati, e questo dovrebbe portare a diminuire un po’ la percentuale di sovra costo spiegabile. Invece qui il rincaro è del 100% o oltre. Da dove arrivi quel 50% abbondante in più, nessuno lo sa spiegare e tendenzialmente, manco c’hanno provato.

A parte Bloomberg, di sfuggita, quasi per sbaglio. Bloomberg infatti, con nonchalance, ribadisce quanto sia strambo che la von der Layen affermi che “il mondo è inondato di auto cinesi a basso costo quando, almeno finora, le case automobilistiche cinesi hanno generalmente evitato di vendere veicoli elettrici a prezzi molto bassi in Europa, forse”, conclude, proprio per timore “di questo tipo di ritorsioni”

T’è capi’?

Lo dice una delle più importanti testate delle oligarchie finanziarie occidentali eh, mica il global times. Quella gigantesca parte di costo aggiuntivo delle auto elettriche cinesi che non siamo riusciti in nessun modo a giustificare, non sarebbe altro che una politica deliberata delle case automobilistiche stesse, con ogni probabilità su indicazioni del Governo, per evitare di mettere troppa pressione sulla decotta industria automobilistica europea e giustificare così l’intervento a gamba tesa delle istituzioni che sono per il libero mercato solo quando fa guadagnare quattrini agli oligarchi che li tengono artificialmente al governo. Se qualcuno di voi ha intenzione di comprarsi una Dolphin, quando staccherà l’assegno, se lo ricordi: dei trentamila euri che sta sganciando, almeno sette sono dovuti alla compagna von der Layen e a chi le permette di avere il ruolo che ha.

Già questo grida vendetta, ma è solo l’inizio.

Il prezzo delle auto elettriche in Cina, infatti, ci dimostra in modo incontrovertibile che si possono produrre auto elettriche a prezzi addirittura inferiori all’endotermico. Come ricorda l’analista del mercato automobilistico indiano Vijay Govindaraju infatti, mentre “negli USA le auto elettriche costano in media il 27% in più di quelle a benzina, e in europa addirittura il 43, in Cina costano la bellezza del 33% in meno”. Chiudersi ai prodotti cinesi quindi ha una sola motivazione: permettere ai nostri colossi automobilistici di continuare a non investire una lira per raggiungere la scala e l’efficienza dell’industria cinese, mentre nel frattempo si costringono i consumatori a comprare le loro inefficienti e costosissime auto. L’ennesima rapina condotta dalle istituzioni per arricchire l’1% ai danni del 99% e che offre così anche una graditissima sponda al complottismo dei negazionisti climatici. Pur partendo da un assunto completamente sbagliato e cioè la negazione della matrice antropica di almeno una parte consistente del surriscaldamento globale, arrivano a conclusioni paradossalmente più lucide delle nostre tanto istruite élite politiche: per le oligarchie occidentali, la transazione ecologica non è altro che l’ennesima scusa per fregarci un’altra gigantesca montagna di quattrini. Con la complicità delle istituzioni e senza manco avvicinarci lontanamente agli obiettivi climatici. Come sempre, i fintoprogressisti immaginari, sono i migliori amici della peggio destra reazionaria: una vera e propria partnership di ferro, nei secoli dei secoli.

Per combatterla, abbiamo bisogno di un media che non si inventi storielle, ma che guardi il mondo dal punto di vista del 99%, aiutaci a costruirlo:

aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe ( https://gofund.me/c17aa5e6 ) e su PayPal ( https://shorturl.at/knrCU )

e chi non aderisce è Ursula von der Leyen








L’intelligenza artificiale è un’arma di distruzione di massa: e gli USA si rifiutano di regolarla

Ma quante storie con questa intelligenza artificiale, è solo una tecnologia.

Giusto, è solo una tecnologia: come la bomba atomica, il sarin, o anche l’ingegneria genetica, o l’energia prodotta da fonti fossili.

Sono solo tecnologie, che sarà mai…

Lo sviluppo industriale e scientifico degli ultimi due secoli ha comportato benefici straordinari, ma non sono gratis. Grazie proprio a questo incredibile sviluppo oggi infatti l’essere umano e le forme specifiche di organizzazione politica, sociale ed economica di cui si è dotato, ha il potere di distruggere definitivamente, se non proprio l’intero pianeta che ci ospita, di sicuro una fetta consistente della vita che lo anima, a partire in particolare dalla nostra stessa specie. Come dice l’uomo ragno, “da un grande potere, derivano grandi responsabilità”.

Saremo abbastanza adulti e consapevoli da potercele accollare?

A giudicare dal fanatismo ideologico nel quale ci hanno catapultato cinquant’anni di controrivoluzione neoliberista, sembrerebbe proprio di no. Ai piani bassi, la profonda trasformazione antropologica imposta dalla controrivoluzione ha fatto si che la nostra capacità di lettura dei fenomeni e dei processi che condizionano la nostra vita venisse sistematicamente compromessa dal pervadere di una inscalfibile superstizione di massa: le cose si aggiusteranno da sole, grazie alla mano invisibile del mercato.

O comunque, anche se non si aggiusteranno, ha ragione TINA, la nostra amica immaginaria collettiva, che ci insegna che There Is No Alternative. Tocca farsi il segno del dollaro, al posto di quello della croce e avere fede nell’intervento salvifico di un entità immaginaria. Ai piani alti invece, dove in realtà che un’alternativa c’è sempre: lo sanno benissimo e invece che sulla leggenda della mano invisibile,preferiscono concentrarsi sulla realtà concretissima di chi detiene il potere e per farci cosa, semplicemente del destino dell’umanità e della vita tutta, non hanno tempo di occuparsene. Sono troppo presi ad accumulare quanta più ricchezza e quanto più potere nel minor tempo possibile e le conseguenze, per quanto devastanti, vengono catalogate semplicemente sotto la voce “effetti collaterali”.

L’intelligenza artificiale non fa eccezione.

Senza entrare nei dettagli di un dibattito tecnico che di scientifico mi sembra abbia pochino, da qualunque punto di vista la si guardi, sul tema esistono sostanzialmente due opzioni:

1 – L’intelligenza artificiale è un bel giochino, va bene, ma è solo una tecnologia tra le tante, con un impatto limitato. Quindi anche i rischi che comporta sono limitati. e quindi anche basta con tutto questo hype ingiustificato.

2 – L’intelligenza artificiale comporta una vera e propria rivoluzione tecnologica, in grado di modificare in profondità sostanzialmente tutto quello che facciamo e come lo facciamo. In tal caso, come la giri la giri, comporta anche rischi enormi. sostanzialmente, incalcolabili.

Noi, molto onestamente, non siamo minimamente in grado di dirvi quale delle due opzioni sia quella giusta. Possiamo però fare una semplicissima deduzione logica: se quella giusta è l’opzione numero 2, siamo letteralmente nella merda.

Voi, in tutta sincerità, ve la sentite di accollarvi il rischio?

18 luglio 2023, New York, sede delle Nazioni Unite.

Dopo lunghe ed estenuanti trattative, per la prima volta in assoluto il Consiglio di Sicurezza si riunisce per affrontare un tema avvertito da più parti come sempre più urgente: i rischi legati all’intelligenza artificiale applicata ai sistemi d’arma. A promuovere l’incontro, la Cina: da 18 mesi. La prima volta che i funzionari cinesi avevano provato a portare il tema alle nazioni unite infatti era il dicembre 2021. Il Ministero degli Esteri aveva da poco pubblicato un documento ufficiale per la “regolazione della applicazioni militari dell’intelligenza artificiale”: dal momento che la pace e lo sviluppo nel mondo si trovano ad affrontare sfide dalle molteplici sfaccettature”, si legge nel documento, “i diversi paesi dovrebbero elaborare una visione sulla sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile, e cercare il consenso sulla regolamentazione delle applicazioni militari dell’IA attraverso il dialogo e la cooperazione e stabilire un regime di governance efficace, al fine di prevenire danni gravi o addirittura disastri causati dalle applicazioni militari dell’Iintelligenza artificiale”. Soltanto una governance comune globale e cooperativa, sostengono i cinesi, può aiutarci a “prevenire e gestire i potenziali rischi, promuovere la fiducia reciproca tra i paesi e prevenire così una nuova pericolosissima corsa agli armamenti”. Il rischio, in particolare, riguarda eventuali sistemi di risposta automatica.

Non è un problema del tutto inedito

Sistemi di allarme preventivo automatizzati infatti sono sempre esistiti. Come il celebre Oko, il sofisticato sistema di allerta precoce sviluppato a partire dai primi anni ‘70 e che ha rischiato di catapultarci in un conflitto nucleare, per sbaglio. Era il settembre del 1983: l’Oko segnala il lancio di una batteria di ben cinque missili intercontinentali. Il protocollo prevedeva di riportare l’allerta immediatamente ai piani alti della catena di comando, ma secondo la dottrina della “distruzione reciproca assicurata”, la risposta sarebbe dovuta essere un contrattacco nucleare immediato obbligatorio contro gli USA. Fortunatamente però quel giorno il compito di trasmettere le allerte del sistema era toccato al colonnello Stanislav Petrov. Sin da subito, Petrov pensò a un errore: era convinto che in caso di primo attacco nucleare gli USA avrebbero lanciato contemporaneamente centinaia di missili nel tentativo di annientare la capacità controffensiva sovietica, quindi decise di non riportare l’allarme ai superiori, ed ebbe ragione.

Nessun missile intercontinentale toccò mai il suolo sovietico. Petrov aveva evitato la guerra nucleare. Ma nessuno gli disse grazie, anzi…

Premiarlo, infatti, avrebbe comportato riconoscere ufficialmente le carenze del sistema. Poco dopo, fu costretto a ritirarsi in pensione prima del tempo per un esaurimento nervoso. Il timore espresso dai cinesi, appunto, è che si vada verso una situazione dove non ci sarà più un Petrov a salvarci dall’estinzione, e che quindi è urgente mettere dei paletti condivisi.

Ad aumentare a dismisura i rischi di incidente, infatti, è l’inizio dell’era dei missili ipersonici, che con la loro velocità fino a dodici volte superiore a quella del suono, accorciano in maniera drastica il tempo utile per consentire un eventuale intervento umano. Una minaccia esistenziale, la cui risoluzione non può più essere rinviata. È essenziale garantire il controllo umano per tutti i sistemi d’arma abilitati all’intelligenza artificiale”, ha affermato di fronte al consiglio di sicurezza l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite, sottolineando che “questo controllo deve essere sufficiente, efficace e responsabile”

Ma la partita militare è solo una parte del problema

Se davvero l’intelligenza artificiale è questa rivoluzione epocale di cui tutti parlano, il suo potenziale distruttivo necessariamente va ben oltre il campo di battaglia e il problema di una governance “globale, cooperativa e sostenibile” riguarda necessariamente anche ben altri ambiti. Ed è proprio per rispondere a questa esigenza che nel luglio scorso a Nishan, nella provincia orientale dello Shandong, i cinesi hanno invitato tutti gli stati del pianeta, a prescindere dal loro orientamente politico, a partecipare alla World Internet Conference. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri”, avrebbe dichiarato il vice direttore del dipartimento per il controllo delle armi del Ministero degli Esteri, “hanno pari diritti di partecipare alla governance globale dell’IA”.

Il Nord Globale, però, ha risposto picche. Non si sono manco presentati: erano occupati a organizzare un altro simposio, tutto loro. Si dovrebbe tenere il prossimo novembre nel Regno Unito. Ma i cinesi, come d’altronde una lunga serie di altri Paesi ritenuti dall’Occidente globale dei pariah, non sono stati invitati.

Una follia, che ha spinto addirittura i ricercatori dell’occidentalissimo e liberalissimo Oxford Internet Institute a scrivere una lettera aperta di protesta al Financial Times: perchè escludere la Cina dal summit sull’intelligenza artificiale sarebbe un errore”, si intitola. Ribadisce quello che dovrebbe essere ovvio, ma che in questo clima avvelenato da guerra ibrida globale, evidentemente, non lo è più: primo”, scrivono, “i rischi posti dai sistemi di intelligenza artificiale trascendono i confini nazionali. senza il coinvolgimento della Cina, qualsiasi accordo internazionale teso a contrastarli sarebbe del tutto futile. Prendiamo ad esempio l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per lo sviluppo di armi chimiche. Se un accordo sulle migliori pratiche per prevenire ciò escludesse la Cina, gli altri paesi potrebbero semplicemente utilizzare i sistemi di intelligenza artificiale cinesi per questo tipo di scopi dannosi”. “Secondo”, continuano, “qualsiasi accordo internazionale, se verrà percepito come un vantaggio per la Cina, nopn potrà che essere respinto, in particolare negli Stati Uniti. Fino ad oggi, infatti, gli sforzi esistenti per introdurre una regolamentazione sono stati vanificati dai timori di perdere una “corsa agli armamenti dell’intelligenza artificiale” a favore della Cina. Avere la Cina al tavolo riduce questo rischio, poiché sarà vincolata dallo stesso accordo”. Per finire, “In terzo luogo, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno in gran parte ritardato la regolamentazione dell’intelligenza artificiale, la Cina è stata proattiva. Di fatto è l’unico paese a promulgare regolamenti specificamente mirati all’intelligenza artificiale generativa. Questa esperienza normativa sarebbe preziosa per indirizzare una politica ben progettata al vertice sull’intelligenza artificiale del Regno Unito”.


L’esclusione della Cina non è l’unico aspetto del summit a sdubbiare la comunità accademica. Secondo Wendy Hall dell’Università di Southampton, riporta sempre il Financial Times, il problema principale è costituito dal fatto che “i consigli proverranno principalmente dalle grandi aziende tecnologiche stesse”.

““È giusto”, si chiede la Hall, “che le persone che traggono profitto da questa rivoluzione siano le stesse che progettano la sua regolamentazione?”. Ed ecco così svelata la vera natura del conflitto insanabile tra come intende la governance dell’intelligenza artificiale la Cina, e come la intendono i paesi del Nord Globale. Come ricorda sempre un ricercatore di quella temibile cellula dell’internazionale bolscevica che è l’Oxford Internet Institute, in un articolo pubblicato ieri su Asia Times: “il 15 agosto 2023, in Cina è entrata in vigore una nuova legge per la regolazione dell’intelligenza artificiale generativa. è solo l’ultimo di una lunga serie di sforzi mirati a governare diversi aspetti dell’intelligenza artificiale, ed è la prima legge al mondo specificatamente rivolta all’intelligenza artificiale generativa”. La legge introduce alcune restrizioni importanti per le società che offrono questo genere di servizi, in particolare in relazione alla natura dei dati utilizzati per addestrare gli algoritmi. Sin dalla fine del 2020, la Cina ha intrapreso una lunga battaglia contro il consolidamento di un oligopolio da parte dei grandi gruppi tecnologici, rafforzando l’azione della sua agenzia antitrust, e sopratutto ponendo limiti chiari allo sfruttamento dei dati personali a fini commerciali. Un approccio molto simile a quello adottato dall’Unione Europea a partire dall’introduzione del GDPR. Con la differenza che queste restrizioni all’Europa non sono costate niente, visto che non ha sue proprie aziende competitive nel settore. La Cina invece, nonostante la guerra tecnologica ingaggiata nei suoi confronti dagli USA, ha deciso di porre alcuni paletti precisi allo strapotere delle principali aziende tecnologiche, in nome della tutela dei diritti degli utenti. Come ricorda anche l’Economist: “Un modo in cui le aziende cinesi di intelligenza artificiale potrebbero essere frenate è limitando i dati personali resi disponibili per addestrare i loro modelli di intelligenza artificiale”.

L’economist ricorda come “Il partito gestisce lo stato di sorveglianza di massa più sofisticato del mondo, e fino a poco tempo fa, anche le aziende tecnologiche cinesi erano in grado di sfruttare i dati personali. Ma quest’era sembra ormai essere definitivamente tramontata. Ora le aziende che vogliono utilizzare determinati tipi di dati personali devono ottenere prima il consenso. E L’anno scorso la CAC ha multato Didi Global, una società di ride-sharing, per l’equivalente di 1,2 miliardi di dollari per aver raccolto e gestito illegalmente i dati degli utenti”. Ora, con questa ultima legge sull’intelligenza artificiale, conclude l’economist, “le aziende sarebbero responsabili della tutela delle informazioni personali degli utenti”. Esattamente il contrario, in soldoni, di quanto avvenuto negli USA, dove con la scusa del laissez-faire, semplicemente si è deciso di dare carta bianca ai giganti tecnologici a spese dei diritti degli utenti con la sola finalità di avvantaggiare la concentrazione del potere nelle mani appunto di un oligopolio adeguatamente foraggiato in grado di vincere la competizione contro i gruppi cinesi e anche procedere indisturbato alla colonizzazione digitale del vecchio continente. Ma come sottolinea sempre lo stesso articolo su Asia Times, “Un approccio normativo più rigido, potrebbe rivelarsi economicamente impegnativo nel breve termine, ma sarà essenziale per mitigare i danni agli individui, e anche per mantenere la stabilità sociale”.

Insomma, come abbiamo sottolineato svariate volte già in passato, paradossalmente, l’approccio cinese, teso a governare questo processo con regole trasparenti a tutela di consumatori ed utenti, sembra essere molto più vicino a quello europeo di quanto non lo sia invece il far west immaginario di Washington. Una differenza, quella dell’approccio europeo rispetto a quello a stelle e strisce, sottolineata sempre dall’Oxford Internet Institute in un lungo paper di ormai 2 anni fa, dove si sottolineava che mentre “dal punto di vista della governance dell’intelligenza artificiale, l’approccio europeo è eticamente più corretto”, dal momento che “Mette in primo piano la protezione dei diritti dei cittadini delineando il valore guida di un’intelligenza artificiale affidabile incentrata sull’uomo. Il laissez-faire intrapreso dagli Stati Uniti è eticamente decisamente più discutibile, dal momento che ha affidato gran parte della governance dell’AI nelle mani degli attori privati, lasciando ampio margine alle imprese per mettere i propri interessi davanti a quelli dei cittadini”. “Ciò nonostante”, scrive l’economist, “l’idea che la Cina possa fungere da guida per quanto riguarda l’etica dell’intelligenza artificiale dovrebbe terrorizzare i governi occidentali”.

Capito come ragionano?

La Cina procede cautamente per tutelare i cittadini proprio come vorrebbe fare l’Unione Europea, però il nostro alleato anche in questa partita devono per forza essere gli USA, anche se stanno combinando un disastro, perché alla fine i cinesi rimangono comunque sempre cinesi…

Decidere su aspetti fondamentali per la nostra sicurezza in base al razzismo, insomma: benvenuti nel 2023.

Cosa mai potrebbe andare storto?

L’umanità si trova di fronte a sfide epocali che potrebbero metterne a rischio la stessa sopravvivenza, ma la principale potenza del globo è ostaggio di un manipolo di oligarchi pronti a consegnarci mani e piedi al più distopico dei futuri possibili pur di non cedere nemmeno un pezzettino della spaventosa concentrazione di ricchezza e di potere che hanno accumulato sulla nostra pelle.

Sarebbe arrivata l’ora di mandarli anche un po’ a fare in culo

Per farlo, abbiamo bisogno di un media che dia voce al 99%: aiutaci a costruirlo

aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe (https://www.gofundme.com/f/un-media-per-dare-voce-al-99-per-cento) e su PayPal ( https://shorturl.at/knrCU )

e chi non aderisce è Bill Gates

  • 1
  • 2