Nonostante la posizione ufficiale cinese di neutralità, l’opinione pubblica sui social media cinesi sembra tifare per Trump. Secondo osservatori cinesi, Trump sarebbe più prevedibile e gestibile per Pechino rispetto a un’amministrazione guidata dai Democratici: sebbene più aggressivo nel breve termine con tariffe e dazi, si concentrerebbe sulla reindustrializzazione degli Stati Uniti, limitando l’interferenza in Asia e rendendo le sue politiche più compatibili con le ambizioni globali cinesi.
Ma se, invece che finire di scatenare la terza guerra mondiale, l’Occidente decidesse di ritirarsi? Di fronte alla debacle ucraina, al fallimento della guerra economica e commerciale contro la Cina e alla manifesta incapacità di tirare un ragno dal buco dal caos in Medio Oriente, negli ultimi mesi, sulle principali testate specializzate di politica internazionale d’oltreoceano, si sono andati moltiplicando gli appelli a un ridimensionamento complessivo delle ambizioni egemoniche dell’imperialismo a guida USA; e non mi riferisco alle fantasie erotiche sul fantomatico isolazionismo di Trump: per un impero globale come gli USA, che vive del furto sistematico di una parte consistente della ricchezza prodotta nel resto del mondo, l’isolazionismo – banalmente – non è un’opzione. No: mi riferisco a una lunga serie di riflessioni che partono dall’assunto che (volenti o nolenti) l’ordine globale, in qualche misura, è già multipolare e le mire egemoniche degli USA risulterebbero ormai sostanzialmente velleitarie: sostanzialmente, si avanza l’ipotesi che sia arrivata l’ora di operare una qualche forma di ritirata ordinata e si cerca di stabilirne fini e modalità; le riflessioni più comuni si limitano, di solito, a ipotizzare la ritirata da qualche fronte per concentrarsi maggiormente su quelli ritenuti più urgenti e vitali. Altre cercano di stabilire le condizioni minime necessarie affinché una ritirata ordinata non si tramuti in un vera e propria disfatta; ma mai nessuno si era spinto a ridisegnare, in modo così ampio ed esaustivo, le coordinate di un nuovo ipotetico ruolo degli USA e dei suoi alleati nel nuovo ordine multipolare come questo articolo pubblicato lunedì scorso su Foreign policy. Congelamento del fronte ucraino e fine all’espansionismo della NATO per permettere a una piccola (ma stabile) Europa di contrattare serenamente le condizioni della pace con il vicino russo, fine del sostegno incondizionato a Israele e definitiva ritirata degli USA dal Medio Oriente; e, soprattutto, stop a ogni tentativo di costruire una coalizione anti-cinese nel Pacifico: insomma, decisamente pane per i nostri denti. Ma prima di addentrarci nei dettagli di questo coraggioso piano, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci di non dover dichiarare anche noi la nostra ritirata e continuare, invece, la nostra battaglia quotidiana contro la propaganda e la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social – da YouTube a Spotify, da X a Telegram, passando per Rumble – e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impiegherà il Corriere della serva a mettere anche Foreign policy nella blacklist delle testate a libro paga del Cremlino, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a interrogarci sulle possibilità concrete che abbiamo ancora per evitare di venire spazzati tutti via da un armageddon nucleare.
Peter Slezkine è il direttore del Monterey Trialogue, un’importante (e rara) iniziativa promossa dal prestigioso Middlebury College di Monterey che promuove il dialogo tra esperti di geopolitica, sicurezza e sviluppo sostenibile di Stati Uniti, Russia e Cina; collaboratore della East China Normal University di Shanghai, il giovane, intraprendente e intellettualmente indipendente professor Slezkine – anche attraverso il suo podcast settimanale – è uno dei pochissimi intellettuali statunitensi rimasti che continua a lavorare quotidianamente per mantenere aperto un canale di comunicazione con l’intellighenzia dei due giganti eurasiatici ai quali il suo Paese ha dichiarato guerra e a proporre soluzioni concrete potenzialmente in grado di invertire, fuori tempo massimo, il cammino intrapreso verso un conflitto generalizzato che potrebbe essere l’ultimo della storia umana. Nel corso degli anni, Slezkine ha cercato di decostruire la narrazione che cerca di spacciare le ambizioni egemoniche degli Stati Uniti come uno scontro di civiltà tra mondo libero e potenze revisioniste autoritarie, e due giorni fa, dalle pagine di Foreign policy, è tornato alla carica con una bella iniezione di lucidità e di pragmatismo: Il caso del grande Occidente si intitola l’articolo; “Washington” sottolinea Slezkine nel sottotitolo “dovrebbe abbandonare l’universalismo liberale e lavorare con l’impero che già possiede”. Slezkine ricorda come a Washington, quando si parla di politica internazionale e di geopolitica, vi siano oggi – sostanzialmente – due scuole di pensiero prevalenti : “La prima” spiega “è l’ortodossia consolidata dell’internazionalismo liberale, che immagina il regno universale della democrazia e dei diritti umani come lo stato finale naturale della storia”. Insomma: gli eredi fuori tempo massimo di Fukuyama e di quella che, probabilmente, potremmo definire la profezia che ha portato più sfiga nella storia dell’umanità, la barzelletta della fine della storia (roba che, in confronto, Piero Fassino – tutto sommato – ci piglia); secondo questa scuola, sottolinea Slezkine, esiste un ordine liberale internazionale più o meno idilliaco che, però, oggi viene minacciato da sanguinari dittatori plurimorti e satrapi di ogni genere che agiscono in maniera irrazionale e che – se solo gli USA e i suoi fedeli alleati seguissero il consiglio dei Giuliano Ferrara e dei Federico Rampini di tutto il mondo e ritrovassero il perduto orgoglio sulla loro intrinseca superiorità morale – sono inesorabilmente destinati ad andare a sbattere contro un muro. Insomma: nonostante la storia sia definitivamente finita nel 1991, Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, molto banalmente, non se ne sarebbero accorte e ora si tratterebbe, banalmente, di fargli qualche ripetizione con ogni mezzo necessario. “La seconda posizione” continua Slezkine, invece “è una posizione di moderazione sempre più influente, avanzata da una coalizione eclettica di neorealisti accademici, anti-imperialisti progressisti e isolazionisti repubblicani”: secondo questa posizione, sostanzialmente, gli USA dovrebbero eleggere a nuovo padre fondatore il nostro guru Antonio Razzi e farsi un po’ gli stracazzi loro limitandosi, magari, a esercitare la loro influenza su quelle poche aree “che ritengono veramente strategicamente vitali per l’interesse nazionale”; un’opzione che, sicuramente, ci suona decisamente meglio. Peccato, sottolinea Slezkine, sia una fantasia: “L’obiettivo di raggiungere l’universalismo liberale” sottolinea “è tanto irrealistico quanto l’aspettativa che gli Stati Uniti possano tagliare i mille legami che li legano alla rete di alleati e partner che hanno costruito oltre i propri confini”, che è esattamente la cosa che andiamo ripetendo continuamente almeno dall’inizio dell’operazione militare speciale russa in Ucraina; anche se, molto probabilmente, guardandola da un punto di vista piuttosto diverso da quello adottato da Slezkine, sperare in una svolta isolazionista degli USA – infatti – è del tutto velleitario, a prescindere dalle volontà. Il sistema di dominio globale instaurato dall’imperialismo a guida USA, per le oligarchie che detengono il vero potere non è un optional, ma l’unica possibilità concreta che hanno di riprodursi come classe: senza il saccheggio sistematico di buona parte della ricchezza del pianeta garantito dalla dittatura del dollaro e dal monopolio USA sul sistema monetario e finanziario globale, verrebbe meno il carburante che alimenta il più grande fenomeno di concentrazione capitalistica della storia dell’umanità e, quindi, anche il potere economico materiale che permette a una ristrettissima aristocrazia finanziaria di imporre il suo volere sul resto della società, che è il motivo per il quale abbiamo sempre sostenuto che la guerra totale contro le potenze emergenti (che, appunto, mettono in discussione la dittatura del dollaro e il monopolio USA sul sistema monetario e finanziario USA) non solo è inevitabile, ma è già iniziata ed è anche irreversibile; a meno, appunto, di una vera e propria rivoluzione sociale negli USA che metta fine al dominio di questa aristocrazia finanziaria – che, duole dirlo, al momento non sembra all’ordine del giorno. Slezkine, però, indica una possibile terza via; e avendo fondato tutto il suo lavoro sul dialogo franco e onesto con esponenti del mondo sia russo che cinese, viene da pensare che non sia una convinzione solo sua: sostanzialmente, al posto dell’illusione di poter perpetrare un dominio globale (reso palesemente impossibile dall’emergere di un nuovo ordine multipolare) o di fantasticare su altrettanto illusori ripiegamenti isolazionistici, Slezkine propone una via di mezzo dove gli USA mantengono una proiezione imperiale, ma con un impero che, invece che coprire l’intero globo terracqueo, è limitato alla “Pax Americana realmente esistente”. Insomma: a quello che, sommariamente, definiamo l’Occidente collettivo o, come lo chiama Slezkine, il “grande Occidente”. Il nucleo centrale di questo “grande Occidente” consisterebbe, ovviamente, nell’anglosfera; il secondo tassello consisterebbe nell’emisfero occidentale nel suo insieme (e, quindi, tutte le Americhe) e il terzo, ovviamente, nell’Europa nella sua versione attuale che, dopo il crollo del muro e dell’Unione Sovietica, ha inglobato anche buona parte di quella orientale. Oltre a questi tre assi fondamentali, “gli Stati Uniti mantengono una raccolta piuttosto casuale di alleati e partner acquisiti dopo la seconda guerra mondiale” – da Israele alle Filippine, passando per il Giappone e la Corea del Sud: “Oltre a questi legami bilaterali e regionali” continua Slezkine “gli Stati Uniti mantengono una vasta rete di basi militari, una posizione centrale nel sistema economico mondiale e una notevole infrastruttura di soft power che comprende l’industria dell’intrattenimento, multinazionali, università e organizzazioni non governative”. Slezkine sottolinea come la costruzione di questo imponente blocco imperiale – che lui definisce, giustamente, “complesso egemonico” – fu sostanzialmente completata nei primi anni ‘50, ma già allora, invece che riconoscerlo come sistema autonomo e unitario in tutta la sua estensione – ma anche con i suoi limiti -, gli USA preferirono estendere le loro ambizioni e rivendicare una leadership di un molto più ampio (e più difficilmente identificabile) mondo libero, vale a dire – banalmente – tutto il mondo, a parte i Paesi espressamente comunisti. Insomma: o con me o contro di me. Purtroppo però, sottolinea Slezkine, “La logica della leadership del mondo libero ha portato a una politica strategicamente insostenibile di contenimento globale” che ha nutrito “un’intolleranza irrazionale a ogni forma di non allineamento” e la dipendenza dall’individuazione continua di “una minaccia esistenziale esterna come unica forza in grado di far coesistere l’eterogeneo mondo libero”; ed ecco così che quando, dopo l’illusoria parentesi della fine della storia seguita al crollo dell’universo sovietico, sono tornate ad affermarsi potenze estranee all’ordine liberale globale, il riflesso condizionato non poteva che essere quello dell’escalation verso un conflitto diretto. Al contrario, Washington – sostiene Slezkine – “dovrebbe riconoscere che è improbabile che la sfera guidata dagli Stati Uniti cresca molto oltre il suo ambito attuale e che non vi è alcuna ragionevole prospettiva che diventi mai un ordine globale” e, invece di perseguire improbabili ambizioni di rinnovata egemonia globale, dovrebbe concentrarsi nell’elaborazione di una strategia realistica che permette agli USA di “massimizzare i suoi asset e le sue opportunità” nell’ambito del “grande Occidente”. A questo punto, pezzo per pezzo, Slezkine propone le sue ricette: per l’anglosfera, sostiene, il problema non si pone; per l’emisfero occidentale, suggerisce, si tratterebbe – in soldoni – di puntare alla “rinascita delle migliori tradizioni del panamericanismo e della politica di buon vicinato dell’amministrazione Franklin D. Roosevelt”. “Il recente afflusso di investimenti cinesi”, sottolinea, non sarebbe la prova della vulnerabilità latinoamericana e, quindi, della necessità di tornare alle logiche più aggressive dell’imperialismo yankee, ma – molto banalmente – “il prodotto della cessione del campo da parte di Washington”: “Gli investimenti economici e l’attenzione diplomatica diretti all’America Latina sono attualmente al minimo indispensabile, mentre il controllo dei danni assorbe risorse considerevoli. Washington”, sostiene Slezkine. dovrebbe semplicemente lavorare pragmaticamente per “cercare di invertire questo rapporto”; “L’Europa” poi, continua Slezkine, sta vedendo inevitabilmente diminuire il suo peso relativo nel mondo, ma non c’è niente di drammatico, sottolinea. Un’“Europa chiaramente delimitata” può comunque ambire ad essere stabile e relativamente forte e contribuire alla stabilità e alla forza complessiva del “grande Occidente”: “I decisori politici statunitensi dovrebbero riconoscere l’Ue e la NATO per quello che sono: istituzioni regionali finite, non elementi costitutivi di un ordine liberale potenzialmente universale”; per farlo, sostiene Slezkine, dovremmo mettere da parte la retorica sull’“autonomia strategica”, dal momento che “le prospettive che gli europei concordino su un efficace accordo di sicurezza collettiva restano scarse”. La soluzione allora sarebbe, molto semplicemente, trattarla come la provincia dell’impero che è, ma senza umiliarla; al contrario, garantendone la relativa stabilità e prosperità mantenendola sotto “l’ombrello di sicurezza degli USA”: “Come parte di un accordo in Ucraina, gli Stati Uniti dovrebbero finalmente chiudere la porta aperta della NATO” continua Slezkine e “Una volta tracciata una linea duratura tra la Russia e il blocco guidato dagli Stati Uniti, le due parti potrebbero lentamente progredire verso una nuova distensione”. In Asia dovrebbero continuare ad alimentare l’integrazione con gli alleati esistenti, “ma cessare gli sforzi per costruire una coalizione anti-Cina”: “Un’Asia unita sotto la guida degli Stati Uniti” sottolinea infatti Slezkine “è una proposta improbabile” e, più in generale, “il rigoroso contenimento della Cina non dovrebbe essere una priorità degli Stati Uniti”; “Gli internazionalisti liberali sentono il bisogno di confrontarsi con Pechino perché l’esistenza di un’autocrazia influente e imponente è incompatibile con la loro visione. Ma se i decisori politici statunitensi abbandonassero l’obiettivo di un ordine liberale universale, allora l’accresciuta attività della Cina sulla scena mondiale non porrebbe necessariamente un problema importante”. Alla luce di questa nuova prospettiva, gli USA dovrebbero anche piantarla con il tentativo di arruolare l’Europa nella loro battaglia esistenziale contro Pechino: alcune misure circoscritte, come i controlli strategici sulle esportazioni per ridurre il rischio economico e “mantenere il potere relativo del grande Occidente” possono essere prese in considerazione, “ma le misure che per rallentare l’ascesa della Cina indeboliscono l’Europa, andrebbero evitate”. Per quanto riguarda il Medio Oriente, poi, Slezkine sottolinea come “Gli sforzi di Washington per creare un sistema di alleanze sono tutti falliti, così come gli interventi militari diretti in nome della promozione della democrazia”: gli USA, allora, dovrebbero “riconsiderare la politica di sostegno totale e incondizionato a Israele”; il punto è che, sottolinea Slezkine, Israele è “un frammento isolato del grande Occidente” che, però, si trova interamente al di là dei confini del grande Occidente stesso, e cioè in un’area dove gli USA realisticamente non sono in grado di estendere la loro influenza e che, realisticamente, dovrebbero rassegnarsi ad abbandonare completando “il loro ritiro”, un ritiro che Slezkine auspica anche da tutte le “basi militari che rischiano di trascinare gli Stati Uniti in un conflitto indesiderato attraverso la pressione politica per vendicarsi in caso di vittime americane” e anche da tutti i fronti dove l’universo delle ONG a libro paga di Washington “cercano di promuovere il cambiamento politico al di fuori del grande Occidente”. “I tentativi attivi di diffondere sistemi politici liberali oltre i limiti dell’ordine guidato dagli Stati Uniti”, sottolinea Slezkine, sono velleitari e non fanno che aumentare le probabilità di creare caos e conflitti difficilmente governabili; piuttosto, insiste Slezkine, “gli Stati Uniti dovrebbero aumentare notevolmente la loro portata diplomatica verso il resto del mondo, non per fare pressione sui Paesi affinché si schierino da una parte o dall’altra, ma per incontrarli alle loro condizioni, alla ricerca di opportunità e soluzioni reciprocamente vantaggiose alle sfide comuni”. Ovviamente, rimane il problema della dittatura del dollaro e del monopolio USA sul sistema monetario e finanziario globale: secondo Slezkine, gli USA – necessariamente – dovrebbero ovviamente tentare di “mantenere il predominio del dollaro”, ma, nel farlo, dovrebbero “usare il proprio potere passivamente piuttosto che attivamente”; “ La militarizzazione del dollaro da parte di Washington” sottolinea Slezkine “non ha portato i cambiamenti desiderati a Mosca o Teheran” e, al contempo, “ha suscitato ansia sul sistema economico globale nelle capitali di tutto il mondo”. Gli USA, allora, dovrebbero fare qualche passo indietro e “ripristinare la fiducia nel dollaro come riserva di valore” restituendogli, perlomeno, una qualche apparenza di neutralità; d’altronde, aggiungo io, nel corso dell’ultimo summit dei BRICS di Kazan, una parte consistente dei Paesi del Sud globale (con nostro sommo dispiacere) hanno dimostrato chiaramente di non aspettare altro: il consenso unitario e il senso di urgenza necessari per avviare concretamente la difficile costruzione di un sistema finanziario e monetario alternativo fondato sull’uso di diverse valute sovrane in grado, finalmente, di emanciparsi dalla dipendenza da una valuta di riserva globale, sembra ancora molto lontano. Insistere con la militarizzazione arbitraria del dollaro, però, mano a mano che le conseguenze diventano sempre più evidenti e insostenibili, potrebbe (alla fine) imporre la svolta necessaria; un piccolo arretramento, guidato – appunto – dalla consapevolezza che ambire a una totale egemonia globale è velleitario, potrebbe invece essere sufficiente per perpetrare il dominio del dollaro (che, per gli USA è una condizione esistenziale almeno per qualche altro decennio). Che, riassumendo, è un po’ lo spirito in generale di questa lunga e densa riflessione di Slezkine – che, pur trovandoci ovviamente in radicale disaccordo da tanti punti di vista, ha sicuramente il merito, in mezzo a tanta becera propaganda – tanto analfoliberale quanto analfosovranista -, di partire da un’analisi un minimo più realistica dei rapporti di forza reali; una piccola, ma significativa ritirata ordinata che, a partire dal riconoscimento – da un lato – dell’esistenza di un ordine globale già oggi (nei fatti) multipolare ma, dall’altro, anche degli innumerevoli punti di forza che ancora oggi fanno del grande Occidente a guida USA il principale blocco del pianeta, offrirebbe alle nostre classi dirigenti la possibilità di elaborare strategie diverse dall’ineluttabilità dell’escalation bellica su scala globale. Un piccolo spiraglio di ottimismo che – mi viene da pensare – non è casuale arrivi da uno dei pochi intellettuali USA che continua a confrontarsi quotidianamente con studiosi russi e cinesi; trattandosi di uno studioso che – per quanto equilibrato, lucido e anche indipendente – potremmo comunque definire liberale, le variabili che mancano all’appello sono tante, a partire dai conflitti di classe intrinseci al modello economico e sociale del “grande Occidente” che, inevitabilmente, spingono anche la politica internazionale in una direzione piuttosto che in un’altra. Ciononostante, anche l’idea che serpeggia nel mondo del dissenso che il modo migliore per risolvere queste tensioni strutturali sia una bella guerra mondiale termonucleare sola igiene del mondo (se non, addirittura, riporre ogni speranza – come si dice spesso – nell’arrivo di un meteorite), tutto sommato non so quanto sia convincente e progressiva; ben venga quindi chi, pur rimanendo saldamente ancorato a una prospettiva comunque (seppur moderatamente) neo-coloniale, propone soluzioni concrete per evitare l’armageddon. Per il resto, più che di mettersi a citare Marinetti (nonostante i trascorsi non proprio felicissimi), si tratta anche di fare quello sporco, lunghissimo, faticosissimo e noiosissimo lavoro di ricostruzione di una soggettività autenticamente popolare che la guerra allo strapotere delle oligarchie sia in grado di portarla avanti quotidianamente difendendo la scuola, la sanità, i diritti del lavoro, quel poco che ci rimane di democrazia e anche quella gretinata che è il pianeta che siamo costretti a condividere. E, per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un vero e proprio media che, invece che agli oligarchi e agli avventurieri, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Negli ultimi anni, Russia e Corea del Nord hanno portato avanti una politica di avvicinamento piuttosto sostenuta che si è concretizzata in visite di Stato, firma di patti di mutua difesa e sostegno militare da parte della Nord Corea alla Russia in cambio, secondo alcuni osservatori, di un aumento delle forniture di petrolio da Mosca a Pyongyang. Più recentemente, abbiamo avuto segnali della presenza di soldati nord coreani nella regione russa di Kursk a combattere contro soldati ucraini. Ma cosa si pensa in Cina di questo riavvicinamento? Ufficialmente, non traspare molto e sembra che tutto vada nella direzione dell’ordinaria amministrazione, ma ci sono segnali che il riavvicinamento russo-nord coreano non vada necessariamente negli interessi di Pechino. Ne parliamo in questo video!
Il plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino ha davvero fatto fare la pace a Xi e Modi? In questo, che si annuncia inevitabilmente come il secolo asiatico, i rapporti bilaterali tra Cina e India sono – almeno nel lungo termine – probabilmente, in assoluto, i più importanti, il gigantesco elefante dentro la stanza che tanto la propaganda atlantista e suprematista quanto il grosso del cosiddetto mondo del dissenso fanno finta di non vedere; e le rare volte che vanno oltre questa rimozione appaiono piuttosto spaesati. Non dovrebbe sorprendere: di fronte a un problema talmente vasto e articolato da apparire sostanzialmente irrisolvibile, la rimozione rimane spesso l’unico escamotage psicologico per non uscire pazzi; accade col rischio di escalation nucleare, come con la crisi climatica. I rapporti tra Cina e India non fanno eccezione; il punto è che se l’ordine globale è stato messo completamente a soqquadro dall’ascesa economica cinese e si sta dimostrando del tutto incapace di assorbire 1,4 miliardi di persone che, in 40 anni, sono passati da vivere di agricoltura di sussistenza ad avere livelli di consumi comparabili con quelli del golden billion dell’Occidente collettivo, immaginare che il popolo indiano possa ambire a raggiungere standard di vita dignitosi rischia di essere platealmente velleitario. Per permettere anche all’India di intraprendere un suo percorso verso una qualche forma di prosperità collettiva, è inevitabile prevedere delle trasformazioni radicali del modello di sviluppo esistente e, quindi, anche del sistema monetario e finanziario globale e del modello di relazioni internazionali che gli fanno da cornice, ma siccome – come affermava Fisher – “È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”, di fronte a questo elefante nella stanza si preferisce girare lo sguardo e buttarla in caciara; e una volta che si è persa la capacità di valutare il contesto generale, anche l’analisi dei singoli episodi diventa, sostanzialmente, infattibile. Ed ecco, così, che quando a Kazan la settimana scorsa si è tenuto uno storico bilaterale tra Xi e Modi che, grazie alla sapiente mediazione di Putin, dopo 5 anni di congelamento dei rapporti ha ufficialmente riavviato le normali relazioni diplomatiche tra i due colossi asiatici, la nostra propaganda s’è riscoperta totalmente priva delle parole e delle categorie necessarie per comprendere la portata dell’evento, le sue cause e le sue conseguenze e ha preferito continuare a concentrarsi sul gossip.
Con questo pippone a 6 mani, insieme a Clara e Gabriele abbiamo cercato di ricostruire alcuni degli elementi principali che permettono di contestualizzare questo evento storico e di seguire gli sviluppi futuri del rapporto che, con ogni probabilità, più caratterizzerà il prossimo secolo; ma, prima di procedere, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi al servizio della banalizzazione che la propaganda opera nei confronti delle grandi sfide dell’umanità e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un direttore di un qualsiasi media mainstream a convincere i suoi giornalisti che l’annoso problema dei parcheggi in doppia fila per le strade della Capitale deve avere la priorità rispetto ai rapporti tra Cina e India, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a provare a capire qualcosa del mondo reale che, fuori dalle conventicole dei pennivendoli, continua a procedere come un caterpillar, incurante dei loro editoriali. Partiamo da lontano, con una delle imperdibili Fiabe del Germani.
Gabriele Piccolo approfondimento storico di uno dei rapporti più complicati di sempre: la storia dei rapporti tra Cina e India. Non bastasse il fatto che si è appena conclusa la settimana dei BRICS e che parliamo di due civiltà millenarie complicatissime e poliedriche, ho deciso di imbarcarmi in un ripassone storico per capire di che stiamo parlando, perché non possiamo capire la storia di questo quadrante di mondo senza prima capire i pregressi recenti: anche in Asia orientale, infatti, il colonialismo ha lasciato tracce indelebili, persino negli attori post-coloniali odierni. Questo è anche il caso dei rapporti tra i due giganti che andremo ad approfondire in questo caso. Avete presente quei video che vedete ogni tanto su YouTube di gente che si prende letteralmente a mazzate ad alta quota, per cui ogni volta pensate di avere un po’ le allucinazioni e un po’ di assistere al prossimo sport estremo con cui milioni di hipsters europei ci ammorberanno il feed di Instagram? Ecco, state tranquilli: nulla di instagrammabile; si tratta del fastidioso e lunghetto contenzioso di confine tra Pechino e Nuova Delhi. Il problema ha radici ben profonde e affonda addirittura al secolo precedente, quando Regno Unito e Russia si contendevano l’Asia Centrale (eh sì: se c’è una crisi nei tempi odierni, state pur sicuri che gli inglesi hanno qualcosa a che vederci); l’India era la perla dell’impero di Londra, grazie alla quale poté avviare la sua accumulazione di ricchezza, e la tutela delle vie – marittime e di terra – all’India era priorità per il Regno Unito. Dalla metà dell’Ottocento Londra sviluppò, così, una sorta di paranoia russofoba fomentata dai tentativi dei vari zar di avere uno sbocco ai mari caldi: avendo a disposizione le terre e le risorse russe tramite comode ferrovie collegate ai mari caldi, chi avrebbe più avuto bisogno dell’Inghilterra? pensavano i saggi analisti della corona di sua maestà a Buckingham Palace. Iniziò quindi quello che, con linguaggio poetico, abbiamo chiamato Il Grande Gioco, cioè la rivalità tra Russia e Regno Unito nei territori dell’Asia Centrale, motivo per cui l’Afghanistan diventò una sorta di Stato cuscinetto tra i possedimenti di Londra e Mosca. E indovinate un po’ chi si trovò in mezzo a questo giochino geopolitico dei tempi antichi? Proprio il confine tra India, Tibet e Cina. Non entreremo qui nel merito della questione tibetana, per carità di Dio: basti qui dire che Lhasa e Pechino hanno una dinamica interna plurisecolare e che serve qualcosa di più che aver letto un libro di Richard Gere o aver visto Sette anni in Tibet per esprimersi al riguardo; quindi, per comodità, ci limiteremo a dire che il confine tra India e Tibet è poi la linea di confine tra India e Cina e che al momento della colonizzazione britannica, pur disponendo il Tibet di una larga autonomia, era comunque soggetto all’amministrazione cinese (seppur assenteista e spesso contestata dai locali). Sul Tibet si concentrarono le ambizioni e – più che altro – le paranoie inglesi che, temendo un imminente arrivo russo, decisero di chiedere continue correzioni di confine; questa continua estensione dei confini, anche oltre il reale confine storico e geografico dell’India, portò a una serie di linee di confine diplomatiche (perlopiù fittizie) che gli stessi inglesi, dopo la Rivoluzione russa, lasciarono cadere nel dimenticatoio. Ma, come si suol dire, rotte le uova, la frittata è fatta, cari ottoliner; e di tante cose, il colonialismo è proprio una stronzata (permettetemi di dirlo) con conseguenze nefaste e pluridecennali, spesso e volentieri. Così rimasero, tra India e Cina, una serie di confini contesi che dopo la seconda guerra mondiale, cacciati finalmente inglesi e giapponesi dai rispettivi Paesi, arrivarono in eredità agli Stati post-coloniali; così l’area settentrionale, al confine triplo tra Pakistan e India (altro enorme casino dell’eredità coloniale britannica) diventò teatro di ciclici scontri, e altrettanto accadde sul confine indiano nord-orientale, grossomodo sopra l’odierno Bangladesh che, all’epoca, era però parte del Pakistan. Il primo conflitto si ebbe sul finire del 1962: i combattimenti furono dalla Cina all’area orientale del Kashmir e morirono circa 2000 uomini, per concludersi con una piccola vittoria cinese; i belligeranti accettarono quella che rimase come la Linea di Controllo Effettivo, il confine di fatto tra Pechino e Nuova Delhi lungo l’Himalaya. La Cina ottenne avanzamenti nella parte occidentale del Ladakh, mentre non ci furono grandi cambiamenti nel segmento più orientale nel Sikkim e nell’Arunachal Pradesh, l’area forse più preziosa in termini economici e geopolitici: in questa zona, un accordo per delimitare in chiave convenzionale il confine, seppur formalmente provvisoria per ambo le parti, è giunto solo negli anni novanta. L’11 settembre del 1967 altri scontri si verificarono lungo i confini e, così, anche nelle settimane a seguire. Negli anni a seguire, la Cina avviò la sua politica di apertura economica e diplomatica al mondo: quando la Cina, nel 1978, sotto Deng Xiaoping introdusse le riforme per il socialismo di mercato, contava un PIL all’incirca pari a quello indiano; a distanza di meno di cinquanta anni non possiamo non notare i diversissimi sviluppi dei due percorsi. Nel 1981, il pragmatismo cinese spinse Pechino a chiedere una completa normalizzazione dei rapporti lasciando temporaneamente sospesa la questione dei confini, punto che Nuova Delhi accettò di buon grado; anche nel 1987 si verificarono altri scontri lungo i confini orientali sino-indiani e, dopo alcuni scontri, entrambi i governi decisero di gestire le future crisi diminuendo i contingenti militari e stabilendo delle clausole militari a cui, nel tempo, si cumulò il non utilizzo in questi ambienti delle armi da fuoco (da cui le famose mazzate di cui sopra): per non far degenerare un conflitto armato tra potenze nucleari, indiani e cinesi hanno letteralmente deciso di prendersi a mazzate in testa. Ma se l’area del Ladakh era spopolata e così poco rilevante, all’India che importava che la Cina la prendesse? Per cominciare, parliamo di enormi catene montuose con enormi ghiacciai e fonti di fiumi, risorsa non proprio secondaria; ma, al di là di questo, proprio il controllo di questa regione permise alla Cina di avere un confine diretto con il Pakistan, suo migliore amico nella regione ormai da decenni; pensate oggi, con il corridoio sino-pakistano inserito nella nuova via della seta, quanto si è rivelato importante questo lembo di terra di confine. Quando parliamo di aree contese, poco importanti è sempre relativo e ciò che oggi non è rilevante può rivelarsi fondamentale tra qualche decennio. Intanto il Sikkim, la regione che separa il Nepal dal Buthan – anch’essa contesa a inizio millennio – è stata dichiarata come non più un problema tra India e Cina da Wen Jiabao nel 2005; nonostante i due Paesi siano entrambi membri dei BRICS e collaborino a livello internazionale su più livelli e siano ottimi partner commerciali, hanno avuto più volte incidenti di confine nel 2014, 2015 e 2017. Nel 2020, in una schermaglia di confine, pare siano morti oltre venti soldati e quaranta cinesi, ma i dati sono molto discussi, dato il peso politico che la stampa occidentale può decidere di attribuire e strumentalizzare per questi episodi. Oggi Cina e India sono due giganti in piena ascesa e mentre la Repubblica Popolare punta a proporsi come attore di pacificazione e collaborazione, Modi sembra invece voler sfruttare ogni occasione offerta dal nuovo multipolarismo cavalcando i buoni rapporti con l’Occidente senza trascurare il tradizionale ruolo indiano nei Paesi emergenti; non ultima provocazione, l’adesione dell’India al QUAD nel 2017, l’alleanza indo-pacifica con Giappone, Australia e Stati Uniti dalla chiara funzione anti-cinese. Un parziale calo delle tensioni si è proprio verificato nei giorni passati quando il 21 ottobre, esattamente il giorno prima che si aprisse il vertice dei BRICS di Kazan, India e Cina hanno annunciato un nuovo accordo bilaterale sui confini che prevede l’arretramento reciproco degli eserciti e un pattugliamento concordato.
Giuliano In questo contesto di competizione strategica, con l’imperialismo a guida USA che ha tutto l’interesse a soffiare sul fuoco, le dispute territoriali al confine tra India e Cina sono il classico esempio di uno dei tanti fronti possibili dove finiscono per scaricarsi tensioni sistemiche di ben altra portata, naturalmente e inesorabilmente alla ricerca di qualche valvola di sfogo; per affrontarle, allora, c’è bisogno di allargare lo sguardo e di costruire una vera e propria nuova modalità di affrontare le relazioni internazionali e le controversie che, inevitabilmente, emergono continuamente. E l’istituzione che, al netto di tutte le contraddizioni che abbiamo sottolineato millemila volte nei giorni scorsi, si sta affermando (in assoluto) come la più promettente da questo punto di vista, è proprio quella dei BRICS+, come ci racconta la nostra Clara.
Clara Gli atlantisti, come al solito, hanno preso in maniera molto matura la nascita ed il consolidamento del blocco di economie emergenti costituito dalle loro ex colonie e, anziché tentare un dialogo o un’opportunità di crescita economica e della democrazia, hanno costituito (grazie ad un esercito di fedeli intellettuali e think tank) il Club degli scettici dei BRICS attraverso cui le tentano tutte per gettare discredito sul gruppo: l’asse Pechino-Mosca è un’alleanza forzata e mal digerita tra nemici naturali, Putin e Xi Jinping non sono veri best friends foreva, il gruppo BRICS non può funzionare poiché accozzaglia di Paesi unlike minded addirittura in conflitto fra loro, come Cina ed India; anche questa volta, i nostri amici dovranno aver fatto una bella scorta di Maalox dopo il vertice di Kazan. I BRICS sono come l’universo: in continua espansione; altri 13 Stati hanno preso il biglietto per la prossima adesione al gruppo (tra questi Turchia, Cuba e Bolivia). Non solum, sed etiam: anziché esplodere per le controversie interne, il blocco risolve i problemi; non come il signor Wolf, ma con la diplomazia e l’intermediazione degli stessi membri i BRICS diventano il consesso internazionale per affrontare e risolvere i conflitti (anche militari) tra nazioni, oltre che potenziare gli interessi in comune con l’approccio multilaterale. A Kazan, il presidente russo Vladimir Putin ha ospitato un incontro bilaterale cruciale tra il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro indiano Narendra Modi: i rapporti fra i due leader si erano raffreddati a causa delle gravi tensioni sul confine dell’Himalaya, sfociate nel 2020 negli scontri mortali della valle del Galwan; da allora, le due nazioni hanno vissuto costanti attriti lungo la Linea di Controllo Effettivo (LAC), una linea di demarcazione di quasi 3.500 km che separa il territorio controllato da Pechino da quello sotto controllo indiano. A Kazan si compie il disgelo fra Pechino e Nuova Delhi: l’incontro ha siglato l’accordo approvato lunedì tra India e Cina sul pattugliamento e il disimpegno lungo la Linea di Controllo Effettivo nel Ladakh orientale; i nuovi patti mirano a rilanciare i rapporti diplomatici e garantire la pace, in prospettiva di un mondo multipolare. Incontro di grande significato, commenta con diplomatica soddisfazione Pechino: il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Lin Jian ha dichiarato che Xi e Modi “Hanno raggiunto importanti intese comuni sul miglioramento e lo sviluppo delle relazioni Cina-India e hanno tracciato la rotta per riportare le relazioni bilaterali sulla strada di uno sviluppo costante”. La Cina è pronta a collaborare con l’India per considerare e gestire le relazioni bilaterali da una prospettiva strategica e a lungo termine; la Cina è pronta a intensificare la comunicazione e la cooperazione, a rafforzare la fiducia reciproca strategica, a gestire adeguatamente le divergenze e a riportare le relazioni bilaterali sulla strada dello sviluppo costante il prima possibile. L’accordo è stato immediatamente implementato: venerdì è iniziato il ritiro delle truppe schierate una di fronte all’altra in due punti della frontiera nella regione indiana del Ladakh; il processo si concluderà entro fine mese, hanno riferito a Reuters le autorità indiane e i pattugliamenti riprenderanno come prima dello stallo. E’ stata tracciata la via diplomatica per la risoluzione della disputa sui confini attraverso il meccanismo dei rappresentati speciali, guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Ajit Doval dell’India e dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi; questi passi sono la condizione chiesta dall’India per la normalizzazione dei rapporti fra i due giganti asiatici, fortemente compromessi dallo stallo: in seguito agli scontri sulla Linea di Controllo Effettivo, Nuova Delhi aveva imposto restrizioni agli scambi, aumentando il controllo sugli investimenti cinesi nel Paese. Inoltre sono state bloccate diverse app mobili cinesi popolari, tra cui TikTok, e i voli passeggeri diretti per la Cina; nonostante ciò, la Cina è il principale Paese di importazione dell’India: dal 2020 ad oggi il volume delle importazioni indiane dalla Cina è quasi triplicato. In un recente video, il nostro amico Dazibao spiega che solo nel periodo del secondo e terzo trimestre di quest’anno fiscale, il volume delle importazioni cinesi è di 56.29 miliardi di dollari, secondo il ministero del Commercio indiano; in particolare, i dati del commercio fra i due Paesi suggeriscono una forte dipendenza dell’industria indiana dalle produzioni cinesi con alto valore aggiunto, come la componentistica: nel 2023 la Cina ha rappresentato circa un terzo delle importazioni indiane di elettronica, macchinari e prodotti chimico-farmaceutici. La quota di importazioni dalla Cina raggiunge il picco di due terzi per le componenti ad alta tecnologia, come dispositivi a semiconduttore: più l’India aumenta la sua produzione di elettronica, rinnovabili e farmaceutica, più aumenta la sua dipendenza dalla Cina. Dall’altro lato, l’India è diventato un partner irrinunciabile per Pechino, necessario per aggirare il derisking (dazi e sanzioni imposte dalla Casa Bianca); entrambe le potenze hanno dunque interesse a normalizzare i rapporti per velocizzare (ancor di più) gli scambi e i flussi di investimenti necessari a rafforzare le rispettive industrie interne. Le parti dell’accordo non sono state rese note, ma sono state emanate direttive per rilanciare i vari meccanismi di dialogo bilaterale attraverso colloqui tra i funzionari del ministero degli Esteri a vari livelli, per rafforzare la comunicazione e la cooperazione e accrescere la fiducia reciproca strategica; nelle prossime settimane e mesi si svolgeranno una serie di visite ad alto livello per migliorare le relazioni su tutti i fronti. Con il patto di Kazan si conclude una lunga situazione di stallo e si apre una nuova pagina delle relazioni tra Pechino e Nuova Delhi: la ratio sta nella priorità assegnata alla strategia e al lungo periodo rispetto alle questioni regionali nella gestione dei rapporti tra i due Paesi; Xi e Modi “hanno concordato di vedere e gestire le relazioni Cina-India da un punto di vista strategico e da una prospettiva a lungo termine, per impedire che specifici disaccordi influenzino la relazione complessiva e contribuire a mantenere la pace e la prosperità regionali e globali e a far progredire la molteplicità nel mondo” recita il comunicato cinese. “Relazioni bilaterali stabili, prevedibili e amichevoli tra Cina e India avranno un impatto positivo sulla pace e sulla prosperità regionali e globali. Contribuiranno inoltre ad un’Asia multipolare e ad un mondo multipolare” affermano Xi e Modi, secondo il comunicato indiano: Cina e India hanno capito che è necessario abbandonare la competizione regionale e cooperare per competere a livello globale; la costruzione di un mondo multipolare e la democratizzazione delle relazioni internazionali valgono più di una striscia di terra sull’Himalaya. La Russia ha avuto un ruolo di pacificatore, offrendo il luogo dove si è svolto il primo incontro ufficiale tra Xi Jinping e Narendra Modi; Mosca si propone come naturale intermediario strategico – forte del suo rapporto profondo e privilegiato con l’India e dell’amicizia sconfinata e strategica con Pechino – sullo sfondo di un comune obiettivo: la costruzione di un mondo multipolare. Si avvale della sua leva energetica (in quanto fornitore di gas di entrambi i Paesi) e del dialogo trilaterale all’interno di organismi come lo SCO, per mantenere un complesso equilibro, nella consapevolezza che la stabilità della regione e la cooperazione tra Cina e India sono cruciali non solo per gli interessi russi, ma – soprattutto – per l’assetto geopolitico globale. La città multiculturale di Kazan, ponte di civiltà, è il simbolo del nuovo equilibrio, un nuovo equilibrio che non ha bisogno dell’apporto occidentale, un equilibrio fatto di Stati che si sono emancipati da quelle potenze che tracciavano i confini delle loro ex colonie a tavolino: è il simbolo dello spostamento ad Est del centro di gravità del mondo.
Giuliano Lo spostamento ad Est del centro di gravità del mondo, sottolinea giustamente Clara; che, in buona parte, significa soprattutto una cosa: il fatto che la Cina si è andata affermando come l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta, una rivoluzione macroscopica dei rapporti di forza globali che agisce a livello di struttura profonda e, alla resa dei conti, è impermeabile all’impatto della propaganda che si riempie la bocca di formulette magiche poco realistiche – dal decoupling al friend-shoring. Uno scollamento tra narrazione e realtà che l’India ha imparato a conoscere a sue spese; mentre Washington provava a convincere i Paesi non allineati – e alla continua ricerca di una strada per perseguire il loro interesse nazionale – che chi si allontanava da Pechino sarebbe stato premiato con un’ondata enorme di capitali occidentali che l’avrebbero trasformato in una nuova Cina, nella realtà, infatti, accadeva sistematicamente il contrario: i Paesi in via di sviluppo che hanno visto crescere di più gli investimenti diretti proveniente dall’Occidente collettivo (e, in particolare, dagli USA), infatti, sono in realtà proprio quelli che hanno accelerato di più l’integrazione economica con Pechino, dal Marocco alla Malesia, passando per il Messico e il Vietnam. Il motivo è molto semplice: essendo, appunto, la Cina l’unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta, l’unico modo per essere davvero competitivi nei mercati globali è integrarsi il più possibile con la catena del valore cinese. Il caso del Marocco è, probabilmente, uno dei più emblematici: prima è diventato una delle principali destinazioni degli investimenti esteri diretti cinesi, che l’hanno eletta a capitale del Mediterraneo dell’industria legata alla transizione ecologica con una lunga serie di investimenti destinati alla produzione di batterie; compreso l’ultimo – gigantesco – da quasi 20 miliardi di dollari, annunciato dalla Huayou Cobalt che dovrebbe portare alla produzione addirittura di 50.000 tonnellate l’anno di materiali catodici, sufficienti per alimentare fino a 500 mila veicoli elettrici. L’interesse cinese, poi, si è portato dietro anche i capitali occidentali, a partire proprio da quelli USA: il Marocco, infatti, nel 2023 è stato il Paese in via di sviluppo che ha registrato la maggior crescita in assoluto di investimenti diretti statunitensi che hanno raggiunto la cifra esorbitante di 34 miliardi, in gran parte destinati a progetti greenfield; quindi di costruzione da zero di nuovi impianti produttivi, ovviamente quasi tutti nel settore delle energie rinnovabili e degli autoveicoli elettrici, una traiettoria diametralmente opposta a quella che, invece, ha vissuto l’India. A partire dalla prima ondata protezionistica inaugurata da Trump – che, tra l’altro, era legato a Modi da ottimi rapporti personali – l’India è cominciata ad emergere nella propaganda come la regina della cosiddetta alt-Asia e, cioè, la parte di continente che avrebbe attratto i capitali USA in fuga dalla Cina a seguito dei dictat politici del decoupling e del friend-shoring; e inizialmente, effettivamente, i capitali sono arrivati: dai 42 miliardi di investimenti diretti esteri del 2018, al record di quasi 85 miliardi nel 2021. Dopodiché, però, la crescita s’è arrestata e, negli ultimi due anni, si è registrata una contrazione che ha riportato sotto quota 70 miliardi; ma non solo, perché, nel frattempo, è cambiata anche la natura di questi 70 miliardi che, invece che servire a costruire nuovi impianti produttivi, sono stati destinati sempre di più a scalare la proprietà dei gruppi già esistenti e, invece che nel settore manifatturiero, si sono concentrati prevalentemente in quello finanziario (dalle banche, alle assicurazioni, ai servizi di telecomunicazione). Il motivo è semplice: proprio a partire dall’incidente di Galwan tra Cina e India del giugno 2020, l’India ha sostanzialmente bloccato gli investimenti diretti cinesi. Insomma: al contrario del Marocco, ha scelto di separarsi sempre di più dalle catene del valore cinesi; il risultato è che ha perso competitività ed è diventata enormemente meno promettente e attrattiva anche per i capitali occidentali che, più che alla propaganda di Washington, mirano – molto banalmente – a fare quattrini. Per l’India s’è trattato di una fregatura al quadrato perché, nel frattempo, ha pure aumentato le importazioni dirette dalla Cina; insomma: svincolarsi dalla superpotenza manifatturiera si è rivelato impossibile, ma almeno prima questa relazione veniva sfruttata anche per avviare un po’ di industrializzazione. Ora si riduce, banalmente, a comprare prodotti finiti. Con questa riappacificazione l’India tenta, così, di invertire la rotta e di recuperare il tempo perso, ma la cosa che sorprende ancora di più è che la Cina, invece che tenere la barra dritta e fare leva sulle difficoltà del vicino, pur di riappacificarsi sembra essere quella che ha fatto le concessioni maggiori: come si spiega? In realtà, per capirlo basta abbandonare la logica predatoria e aggressiva tipica dell’imperialismo a guida USA e adottare il punto di vista della diplomazia cinese e della centralità che vi riveste la sfera economica e commerciale rispetto a quella finanziaria e militare: tornando a lavorare in direzione di una maggiore integrazione economica con l’India, infatti, la Cina lega il destino economico del vicino al suo; e che questo contribuisca ad accelerare anche lo sviluppo di un Paese che, visto con la nostra ottica, non può che essere considerato (nel lungo periodo) un competitor, agli occhi dei cinesi non sembra rappresentare un pericolo. Per capire come sia possibile, basta capire la profonda differenza che corre tra le finalità cinesi e quelle dell’imperialismo statunitense: fine ultimo dell’imperialismo statunitense, infatti, è garantire a una ristrettissima oligarchia la capacità di rapinare il grosso della ricchezza prodotta da tutti gli altri; il fine ultimo del Partito Comunista Cinese, al contrario, è garantire la maggior prosperità generale possibile attraverso la liberazione delle forze produttive. E se per rapinare è fondamentale mantenere gli altri a un livello di subordinazione tale da non riuscire a opporsi alla rapina, per garantire la liberazione delle forze produttive e la prosperità generale la strada maestra è quella della cooperazione e dello sviluppo; ovviamente, il tutto, a condizione che questa cooperazione (e lo sviluppo che permette di accelerare) non venga poi utilizzato come arma contro il tuo, di sviluppo. E la Cina è convinta che il modo per proteggersi da questi risvolti indesiderati sia, appunto, legare il più possibile la sorte economica dei diversi Paesi tra loro senza eccedere nell’ottimismo e, quindi, procedendo contemporaneamente ad armarsi a sufficienza per garantire la propria sicurezza. Se l’India, rigidamente classista e in preda agli interessi delle sue oligarchie, riuscirà a tenere fede a questa nuova modalità di concepire i rapporti economici (e, quindi, anche diplomatici e di sicurezza) è tutto da vedere; quello che conta, però, è che nel frattempo, a differenza di Washington e della propaganda atlantista, la smetta di vivere in un mondo immaginario parallelo e scenda a compromessi con la realtà concreta che procede, inesorabilmente, verso un nuovo ordine multipolare e, grazie alla Cina, verso un sistema di collaborazioni economiche – per quanto imperfetto e pieno di contraddizioni – sicuramente meno conflittuale e meno avverso alla crescita e allo sviluppo di quello a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie USA, un nuovo sistema che – duole dirlo – non saranno gli organi di propaganda delle oligarchie e i media mainstream ad aiutarci a capire. Per farlo, serve un media indipendente, ma di parte, che guardi il mondo dal punto di vista degli interessi concreti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Oggi per il consueto appuntamento del sabato i nostri Alberto Fazolo e Gabriele Germani ci parlano di ciò che accaduto nel mondo. Si parte dal vertice dei BRICS a Kazan, proseguiamo con le elezioni in Moldavia e Georgia, poi la serie di accordi bilaterali siglati negli ultimi giorni. Ci spostiamo infine in Palestina e Turchia, cercando di capire la trama dietro gli attentati ad Ankara.
Il presidente cinese Xi Jinping ha incontrato mercoledì il primo ministro indiano Narendra Modi a margine del 16° vertice dei BRICS. È il primo incontro bilaterale tra i due leader dal 2019, quando si sono incontrati nella città di Chennai, nell’India meridionale, al secondo vertice informale India-Cina.
Dopo 3 giorni di ottimismo è arrivata, inesorabile, l’ora della delusione: il summit dei BRICS+ di Kazan ha rappresentato oggettivamente, da tanti punti di vista, un’occasione straordinaria per dimostrare in modo plateale che il mondo è molto più complesso e articolato della rappresentazione da bimbiminkia che ne fa la propaganda mainstream; e che l’era dove bastava che un analfoliberale qualsiasi puntasse il dito contro un avversario a caso sullo scacchiere globale per decretarne l’isolamento e la disfatta è ormai passata per sempre: Putin ha avuto l’occasione di dimostrare che la famosa comunità internazionale va ben oltre i confini del Golden Billion, il miliardo dorato delle ex potenze coloniali, e che alla barzelletta del rule-based international order – l’ordine globale fondato su regole che (te guarda un po’ il caso) beneficiano sempre e solo il blocco imperialista a guida USA e obbligano il resto del mondo a pagare il conto – non ci crede più nessuno. Purtroppo, però, le buone notizie finiscono qui: in mezzo a mille aspetti secondari da infarcire con un po’ di inconcludente retorica a costo zero, la vera grande partita in ballo, infatti, consisteva nel dare un’accelerazione consistente al processo di dedollarizzazione già in atto; per capire esattamente come questa accelerazione sarebbe dovuta avvenire, il ministero delle finanze e la Banca Centrale della Federazione russa avevano elaborato un lungo rapporto che elencava, punto per punto, la roadmap che avrebbe permesso di affiancare alle istituzioni incentrate sul dollaro (che monopolizzano oggi il sistema monetario e finanziario globale) nuove istituzioni multilaterali che avrebbero permesso di ufficializzare, in tempi anche piuttosto rapidi, la fine di quel monopolio stesso. Un rapporto che noi, dal profondo della nostra essenza moderata, compatibilista, gradualista e democristiana, avevamo descritto come un vero e proprio capolavoro di realismo politico. Evidentemente, però, gli altri membri dei BRICS+ non la pensano allo stesso modo; e, così, la risoluzione finale del summit di Kazan sul tema della dedollarizzazione e delle proposte avanzate dal report non fa mezzo passo avanti. Ma prima di cercare di capire insieme nel dettaglio perché e per come e che conseguenze potrebbe avere questa apparente battuta d’arresto, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per aiutarci (anche oggi) a combattere anche noi un altro monopolio: quello della propaganda mainstream e degli algoritmi al suo servizio e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non impieghino le petromonarchie del Golfo a tornare con la coda tra le gambe a inginocchiarsi a Washington, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a dare il nostro piccolo contributo verso l’unica vera via di uscita realistica da questa spirale di guerra e distruzione in cui siamo precipitati, una vera riscossa multipopolare.
L’idea è sempre quella di continuare nel tentativo di riformare le istituzioni esistenti, soprattutto dal momento che – formalmente – hanno già fatto loro il multilateralismo; solo che poi sono state svuotate da rapporti di forza talmente iniqui da trasformarle spesso nel loro esatto opposto. Come, ad esempio, le Nazioni Unite, per le quali la dichiarazione sottolinea “l’urgente necessità di raggiungere una rappresentanza geografica equa e inclusiva nella composizione del personale del Segretariato delle Nazioni Unite” che non è una richiesta esotica, ma – appunto – esattamente quello che formalmente dovrebbe già essere attuato: garantire una rappresentanza geografica equa, infatti, è proprio uno dei principi fondamentali in base al quale andrebbe selezionato il personale del segretariato delle Nazioni Unite. Il segretariato dell’ONU rappresenta il cuore amministrativo e operativo dell’organizzazione ed è responsabile della gestione quotidiana e del coordinamento di tutte le attività: dalla diplomazia alle missioni umanitarie, dal peacekeeping allo sviluppo sostenibile; è composto da numerosi dipartimenti ed uffici, a partire dall’ufficio del Segretario generale dove siedono tutti i vari vice segretari generali e una serie di altri alti funzionari che sovrintendono aree specifiche, per passare al Dipartimento per gli affari politici e il consolidamento della pace, quello per le operazioni di peackeeping, quello degli affari economici e sociali, quello per gli affari umanitari, quello incaricato del supporto operativo a tutte le operazioni sul campo dell’ONU e, ancora, il dipartimento per la sicurezza, quello per il disarmo, quello per gli affari giuridici. In tutto, un centinaio di persone – tra sottosegretari generali e vice sottosegretari generali – che quasi per metà provengono o dagli Stati Uniti o dall’Europa occidentale, nonostante rappresentino appena il 10% della popolazione globale; i BRICS+, ancora una volta, non perorano la causa esclusivamente dei Paesi aderenti, ma – piuttosto – attraverso i Paesi aderenti, cercando di costruire una massa critica sufficiente per dare voce alle esigenze in generale del Sud globale: “Chiediamo di garantire una partecipazione maggiore e più significativa delle economie emergenti e dei Paesi meno sviluppati, in particolare in Africa, America Latina e nei Caraibi, nei processi e nelle strutture decisionali globali e di renderli più in sintonia con le realtà contemporanee”. Dei simpatici benefattori? Non esattamente; il punto è che una profonda riforma in senso multipolare delle istituzioni multilaterali già esistenti, avvantaggerebbe in generale tutti i Paesi (a parte la potenza egemone), a partire proprio dai Paesi più marginalizzati e, quindi, anche i BRICS+: perché mai essere egoista quando un po’ altruismo, alla fine del giro, comunque favorisce i tuoi interessi? I BRICS hanno – almeno teoricamente – una potenzialità dirompente proprio perché i loro interessi sono allineati con gli interessi della maggior parte del pianeta in questo nuovo contesto che, nel mondo reale, è già (almeno parzialmente) multipolare de facto; ed ecco, così, che le riforme richieste alle Nazioni Unite non si limitano alla provenienza geografica dei sottosegretari e dei vice sottosegretari: come sottolineato dal presidente etiope durante l’incontro ufficiale di ieri mattina, la riforma delle Nazioni Unite dovrebbe riguardare anche la composizione del Consiglio di sicurezza “al fine” – si legge nella dichiarazione finale – “di renderlo più democratico, rappresentativo, efficace ed efficiente e di aumentare la rappresentanza dei Paesi in via di sviluppo tra i membri del Consiglio in modo che possa rispondere adeguatamente alle sfide globali prevalenti e supportare le legittime aspirazioni dei Paesi emergenti e in via di sviluppo di Africa, Asia e America Latina”. D’altronde, non sono certo rivendicazioni nuove: la dichiarazione stessa fa riferimento al Consenso di Ezulwini, un documento adottato dall’Unione africana (ormai poco meno di 20 anni fa) dove, appunto, si chiedeva espressamente un posto per un Paese africano al fianco dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza; averglielo concesso prima avrebbe potuto salvare centinaia di migliaia di vite. Un posto tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, infatti, garantisce il diritto di veto, un diritto di veto che, ad esempio, gli africani – con ogni probabilità – avrebbero esercitato nel caso della risoluzione che autorizzava un intervento a fine umanitario in Libia, che poi (ovviamente) le forze imperialiste hanno interpretato come gli pareva e hanno strumentalizzato per compiere la loro ennesima guerra di aggressione criminale che ha ridotto l’allora Paese più ricco del continente nero in un cumulo di macerie e di faide tribali. Un’altra istituzione multilaterale che contraddice platealmente i principi fondamentali del suo mandato e che i BRICS+ all’unanimità vogliono tentare di riformare in profondità è l’Organizzazione mondiale del commercio: la risoluzione adottata a Kazan, infatti, “accoglie con favore i risultati della 13esima conferenza ministeriale” che si è tenuta dal 26 febbraio al 2 marzo scorso ad Abu Dhabi; in quell’ambito – che, ricordiamo, è il massimo organo decisionale del WTO – i membri si erano impegnati a portare a termine la riforma del sistema delle controversie entro la fine del 2024. Chi segue questo canale ne ha già sentito parlare millemila volte perché si tratta dell’ennesimo, plateale esempio della prepotenza senza limiti dell’imperialismo USA e del suo uso del tutto illegittimo e strumentale di ogni istituzione multilaterale possibile immaginabile. Un breve riassunto: quando due o più membri del WTO pensano che un altro membro abbia adottato qualche decisione contraria alle regole, lo vanno a dire alla mamma e all’avvocato; il primo step sono dei negoziati bilaterali che possono durare al massimo 60 giorni, durante i quali il WTO fa semplicemente da facilitatore e offre un minimo di supporto tecnico. Nel caso le consultazioni non portino a un accordo, una della parti può richiedere la creazione di un panel indipendente di esperti, che ha dai 6 ai 9 mesi per formulare un rapporto; a quel punto, se una delle parti coinvolte non è soddisfatta delle conclusioni del panel – e, ovviamente, almeno una delle due parti non lo è sostanzialmente mai – si può presentare un ricorso al famigerato organo d’appello che, a quel punto, ha 90 giorni per esprimersi e la sua decisione è vincolante: peccato che a un certo punto, però, gli USA abbiano deciso che l’organo di appello non dovesse più essere messo in condizioni di operare; per potersi esprimere, infatti, l’organo di appello ha bisogno di essere composto almeno da 3 giudici, ma dal 2017 gli USA hanno impedito che venissero nominati nuovi giudici. Dal 2019 i giudici in carica sono diventati meno di 3 e da 5 anni l’organo di appello, semplicemente, non c’è: il motivo per il quale, ovviamente, gli USA nel 2017 hanno deciso di impedire a tutto il sistema di funzionare è che l’appena eletto Donald Trump aveva deciso di dichiarare una guerra commerciale ed economica contro la Cina e non voleva arbitri in mezzo ai coglioni, per quanto storicamente molto vicini agli interessi USA; da allora, gli USA hanno introdotto una serie infinita di misure completamente contrarie alle regole del commercio internazionale, come sistematicamente certificato anche dai panel di esperti chiamati ad esprimersi, ma senza mai pagare dazio. Le prime sono state le tariffe sull’acciaio e l’alluminio introdotte nel 2018, che non sono state criticate soltanto dalla Cina, ma anche dall’Unione europea e dal Canada; in quel caso Trump il cazzaro aveva provato a tirare in ballo addirittura la sicurezza nazionale. Il panel di esperti, dopo una lunghissima indagine, ha detto che erano tutte fregnacce e le tariffe sono rimaste; anzi, solo in parte. L’amministrazione Biden, infatti, le ha ritirate per l’Unione europea e il Giappone, ma le ha tenute in piedi per la Cina, che è un altro esempio di cosa intendiamo quando diciamo che Trump, per quanto sia un pluricriminale guerrafondaio imperialista della peggior specie, paradossalmente potrebbe essere meglio di Biden o della Harris: litigando con tutti, compresi i supposti alleati, contribuirebbe infatti all’isolamento degli USA e quindi ad accelerare l’autodistruzione di questo vero e proprio cancro del pianeta. Visto che questo primo, plateale caso di violazione delle regole commerciali era passato liscio, allora, Trump c’ha preso gusto e, un pezzetto alla volta, ha introdotto dazi completamente ingiustificati su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi; la Cina, allora, un’altra volta si è rivolta a un panel di esperti che, ovviamente, le hanno dato ragione su tutta la linea, ma – altrettanto ovviamente – senza che questo comportasse assolutamente niente. La Cina a quel punto, sostanzialmente, pur sapendo benissimo che nell’ambito del WTO non era più possibile ottenere nemmeno la minima sembianza di giustizia, ha puntato a rivolgersi più che altro alle opinioni pubbliche occidentali nella speranza che violazioni così palesi avrebbero sollevato qualche critica; gli avevano detto che laddove c’è la libertà di stampa funziona così: ci sono le critiche, la pressione dell’opinione pubblica. Macché: ormai l’egemonia suprematista aveva già fatto il suo corso e anche se qualcuno provava a muovere delle critiche, non c’erano più orecchie pronte ad ascoltare; anzi, la narrazione comune è che ad adottare pratiche commerciali scorrette siano in realtà, paradossalmente, gli stessi cinesi, al punto che ormai anche in Europa è partita la gara a chi c’ha il dazio più grosso e, ovviamente, tutti giustificati dal fatto che è la Cina ad essere scorretta. Di fronte a questa vera e propria ennesima barzelletta offerta dall’Occidente in declino, ovviamente la tentazione è quella di farsene un’altra di organizzazione del commercio, riservata soltanto ai Paesi che dimostrano un qualche senso del pudore; e invece no: i BRICS+ continuano imperterriti a insistere sulla via del dialogo, nella speranza che – prima o poi – qualche sano di mente in Occidente salti fuori e si possa evitare le nostre istituzioni di doverle tirar giù con i missili. D’altronde, come sottolinea la risoluzione adottata a Kazan, tutto sommato la diatriba del WTO è solo uno dei tanti aspetti, a tratti surreali, della guerra economica totale che l’Occidente ha deciso di dichiarare al resto del pianeta: i BRICS si dicono infatti “profondamente preoccupati per l’effetto dirompente che le misure coercitive unilaterali illecite, a partire dalle sanzioni unilaterali illegali, stanno avendo sull’economia mondiale, sul commercio internazionale e sul raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Tali misure” insistono “minano la Carta delle Nazioni Unite, il sistema commerciale multilaterale e gli accordi sullo sviluppo sostenibile e sull’ambiente. Hanno inoltre un impatto negativo sulla crescita economica, sull’energia, sulla salute e sulla sicurezza alimentare, esacerbando la povertà e le sfide ambientali”. Insomma: sono veri e propri atti di guerra che, magari, occupano un po’ meno spazio sulle pagine della propaganda suprematista dell’Occidente collettivo, ma spesso fanno altrettante vittime. Ed è probabilmente proprio perché i BRICS sono pienamente consapevoli della violenza concreta di queste misure e della spregiudicatezza con la quale ormai l’Occidente (e, in particolare, gli USA) vi ricorre in maniera sistematica che sembrano provare, in ogni modo, a convincerli di fare finalmente le riforme che è possibile fare rimanendo nell’ambito delle istituzioni neo-coloniali di Bretton Wood e del Washington Consensus (anche se ormai palesemente inadeguate alle esigenze): perché è piuttosto chiaro che le nostre classi dirigenti al traino di Washington sono ormai composte, sostanzialmente, da un mix di rincoglioniti e di pazzi criminali che, pur di continuare a negare il fatto che la realtà e la storia sono andati diversamente da quanto auspicavano, sono pronti non solo a commettere ogni sorta di atrocità nei confronti degli altri, ma, come un terzo reich qualsiasi, di condannarsi loro stessi all’autodistruzione. Da questo punto di vista, la risoluzione di Kazan restituisce un quadro piuttosto semplificato della dicotomia in ballo: non è tanto questione di Sud globale vs Nord, o di mondo multipolare vs unipolarismo a guida USA; sembra, molto più banalmente, la contrapposizione tra il raziocinio e un minimo di senso di realtà e il delirio da demenza senile. Nella risoluzione i BRICS, poi, ovviamente tornano sulla riforma dell’FMI, (che tralasciamo perché l’abbiamo affrontata in dettaglio nei giorni scorsi), ma, insomma, il succo è sempre quello: da una parte ci sono quelli che le regole e i principi fondamentali li hanno scritti e che, fino a che dietro una facciata di imparzialità gli facevano comodo, erano pronti a difenderli con le armi, e che oggi (che il mondo è cambiato) pretendono di stravolgere tutto e che nessuno abbia da ridire; dall’altra quelli che, molto banalmente, hanno preso atto del fatto che il mondo è cambiato, che le regole del vecchio mondo non sono adeguate e ciononostante, per quieto vivere, si accontenterebbero anche di un compromesso al ribasso basato proprio su quelle vecchie regole e che provano a far capire al vecchio egemone che, se rifiuta anche quel compromesso, non hanno altra alternativa che farsene una ragione e costruire tra di loro un universo parallelo adeguato ai tempi correnti. Peccato che poi mi sono svegliato… Carissimi Ottoliner, vi devo chiedere umilmente scusa: evidentemente il mio era un sogno; moderato, democristiano, gradualista, ma comunque un sogno. Negli ultimi giorni, infatti, mi sono sperticato in lodi di ogni tipo nei confronti del rapporto che ministero delle finanze e Banca Centrale della Federazione russa avevano presentato come base di lavoro da discutere a Kazan sul tema cruciale della riforma del sistema finanziario e monetario internazionale: un documento intriso di realismo dove, invece di annunciare chissà quali rivoluzioni improbabili, ci si limitava a disegnare le tappe fondamentali di una roadmap che mi era sembrata un vero e proprio capolavoro strategico; per un’analisi dettagliata del documento vi rimando a questo pippone e a questo. Ma, giusto per intenderci, la mia valutazione era che il documento – un po’ come aveva già fatto la Repubblica Popolare di Cina a suo tempo con il programma di riforma e apertura sotto la sapiente regia di un colosso del realismo politico come Deng Xiaoping – offriva una lunga serie di concessioni succulente non solo alle borghesie del Sud globale, ma addirittura anche ad alcune fazioni delle borghesie occidentali stesse e nel frattempo, però, poneva le basi affinché nel medio-lungo termine i rapporti di forza, strutturalmente, cambiassero in modo sostanziale; in quel caso, il processo da avviare per cambiare strutturalmente i rapporti di forza tra un ex colonia come la Cina e il centro dell’impero era lo sviluppo industriale che avrebbe portato all’indipendenza tecnologica e, per farlo, servivano i capitali, il know how e i mercati di sbocco dei Paesi sviluppati. Ora che, dopo 40 anni abbondanti di aperture e riforme, lo sviluppo industriale ha portato realmente a un buon livello di indipendenza tecnologica e che, dal punto di vista della produzione, i rapporti di forza non sono stati semplicemente modificati, ma ribaltati, col Nord globale che dipende dal Sud (a partire dalla Cina, unica vera superpotenza manifatturiera del pianeta) sostanzialmente per tutto, il processo da avviare per modificare ulteriormente i rapporti di forza complessivi tra ex colonie e colonialisti è la dedollarizzazione, che dovrebbe portare all’indipendenza finanziaria del Sud globale e, attraverso l’indipendenza finanziaria, all’indipendenza strategica tout court. La buona notizia è che, come nel caso dello sviluppo industriale cinese, è in corso una chiara tendenza storica che punta in modo spontaneo alla dedollarizzazione; come hanno sottolineato ieri mattina a Kazan nel corso dell’assemblea plenaria di BRICS+ sia Dilma Roussef che Vladimir Putin, la scelta (più o meno obbligata) da parte degli USA di weaponizzare – e, cioè, di trasformare in una vera e propria arma – il dollaro, ne mina di per se alle fondamenta lo status di valuta di riserva globale: “Dilma Roussef ha affermato che il dollaro è stato trasformato in un’arma” ha dichiarato Putin “e questo è assolutamente vero, e lo vediamo chiaramente. Credo che si sia trattato di un gigantesco errore, dal momento che il dollaro è ancora lo strumento fondamentale della finanza globale, e il suo utilizzo come strumento politico mina la fiducia sul suo ruolo come valuta di riserva globale. Non siamo noi ad aver causato questo fenomeno, non siamo noi che rigettiamo l’uso del dollaro, o che combattiamo il dollaro, ma se molto banalmente sono loro a impedirci di utilizzarlo, cosa dovremmo fare? Necessariamente dobbiamo cercare altre alternative, che è esattamente quello che stiamo facendo”. Ma proprio come nel caso dello sviluppo industriale cinese, pensare che – di per se – questo movimento spontaneo sfoci spontaneamente in un cambio dei rapporti di forza a favore di un nuovo ordine globale più equo, pacifico e democratico potrebbe rivelarsi puro e semplice wishful thinking. Nel caso dello sviluppo industriale cinese, alimentato dai capitali del centro imperiale e dei suoi vassalli, non è che questo ha portato automaticamente e spontaneamente a una sempre maggiore indipendenza tecnologica della Cina, anzi: di default, succede esattamente il contrario; basta vedere cosa è successo a molti altri Paesi che sono stati a lungo meta di delocalizzazioni da parte del capitale occidentale e che poi, dopo una prima fase di sviluppo (anche tumultuoso), si sono sistematicamente ritrovati imprigionati in quella che viene definita la middle-income trap, la trappola del reddito medio. Quello che è avvenuto in quei casi è che mentre gli investimenti esteri garantivano, appunto, una prima fase di industrializzazione e di sviluppo, nel frattempo non avveniva nessun trasferimento di know how, anzi: il grosso dei profitti, infatti, tornava verso il centro imperiale che li utilizzava (almeno in parte) per finanziare ricerca e sviluppo e, quindi, aumentare – invece che diminuire – il gap tecnologico tra centro e periferia; ed ecco, così, che la dipendenza tecnologica, invece che diminuire, aumentava. Se in Cina l’esito è stato diametralmente opposto non è stato certo grazie alle dinamiche spontanee del capitale, ma solo ed esclusivamente grazie a un’attenta pianificazione e all’utilizzo del monopolio della forza da parte dello Stato guidato dal Partito Comunista, che ha imposto una direzione opposta a quella naturale che avrebbe preso uno sviluppo capitalistico lasciato a se stesso; come chi ci segue sa benissimo, infatti, la Cina ha imposto una formula ben precisa per gli investimenti esteri nel suo Paese che ha previsto a lungo l’obbligo di creare joint venture tra aziende private straniere e aziende (perlopiù statali) cinesi, con le aziende cinesi che dovevano detenere perlomeno il 51% del capitale azionario: in questo modo, da un lato la maggioranza dei profitti rimaneva in casa per essere reinvestita, dall’altro si garantiva il passaggio totale del know how dal centro alla periferia. Fino a un ribaltamento totale dei rapporti di forza: la periferia, infatti, acquisiva tutto il know how del centro, ma grazie al reinvestimento dei capitali nell’economia reale (invece che nelle bolle speculative) e grazie al fatto che, nel frattempo, il centro – con la deindustrializzazione – si svuotava gradualmente di tutta una serie di competenze, ne aggiungeva continuamente altro sviluppato internamente, fino a superare il maestro – che è quello che sostanzialmente spiega com’è possibile che, un bel giorno, ci siamo svegliati con la Cina che è in grado di produrre auto a meno della metà di quanto non costi produrle nelle economie sviluppate. Ma come ha fatto la Cina a convincere il grande capitale del centro a suicidarsi? Semplice: gli ha garantito la possibilità di fare una quantità di quattrini senza precedenti; per farlo, è arrivata addirittura a imporre alla sua classe lavoratrice una cura da cavallo di ultra-liberismo. A lungo, infatti, i salari cinesi sono stati tenuti a bada con una crescita sistematicamente di molto inferiore rispetto all’aumento della produttività e, se qualcuno aveva da ridire, ecco che scendeva in campo la capacità di esercitare il monopolio della forza che solo uno Stato autoritario può garantire. Insomma: nella lotta di classe che s’è inevitabilmente scatenata a seguito del piano di riforme e apertura, lo Stato, guidato saldamente dal Partito Comunista, si è apparentemente schierato a lungo dalla parte del capitale fino a che non è stato chiaro che il tutto seguiva una pianificazione precisa di lungo termine che, alla fine, sarebbe sfociata in una epocale vittoria della lunga lotta anti-coloniale di liberazione nazionale; se negli ultimi giorni ci siamo esaltati così tanto di fronte alla proposta di riforma del sistema monetario e finanziario internazionale elaborata dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale della Federazione russa è proprio perché, sostanzialmente, ci avevamo visto un’applicazione di quello stesso schema al processo di dedollarizzazione. Come abbiamo già discusso ampiamente, il rapporto sulla riforma del sistema monetario e finanziario globale elaborato dai russi è talmente moderato da evitare – addirittura – di parlare apertamente di riforme: miglioramenti, li definisce, ed è interamente, totalmente intriso di logica liberista. Il messaggio sostanzialmente è che la realtà economica del pianeta, in gran parte proprio a causa dell’ascesa cinese, è completamente cambiata e il sistema monetario e finanziario globale costruito sul vecchio mondo (e ancora in vigore) impedisce di cogliere le opportunità di valorizzazione del capitale; e quindi è inefficiente e, alla lunga, anche insostenibile. Noi, come BRICS, siamo in grado di garantire un’apertura alla libera circolazione dei capitali dei nostri Paesi membri, il che può rappresentare un’occasione straordinaria per il capitale internazionale – sia delle oligarchie gregarie del Sud globale che anche di un pezzo consistente di quelle del centro imperiale – per fare una montagna di quattrini e per farli in modo sostenibile; oggi, infatti, continuate a fare una marea di quattrini grazie ai mercati finanziari USA, ma è un’illusione: la bolla speculativa dei mercati finanziari USA è destinata, inesorabilmente, ad esplodere, e fino a che non costruiamo alternative concrete al monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie globali dollarocentriche, il flusso dei capitali internazionali è destinato comunque a continuare a seguire questo percorso, anche se (sempre più ovviamente) porta dritti a sbattere contro un muro. Proprio come il piano di riforma e apertura di Deng, insomma, si trattava di un colossale ramoscello di ulivo offerto al grande capitale internazionale: “Noi aspiriamo alla cooperazione” ha sottolineato ancora ieri Putin, “ma allo stesso tempo dobbiamo comprendere che più a lungo ci ostiniamo a vivere sotto il tetto di qualcun altro, e sulle piattaforme di qualcun altro, più tempo impiegheremo per portare a termine la transizione verso un nuovo sistema economico finanziario più equo, e più turbolenze saremo costretti ad affrontare, comprese quelle a cui assistiamo oggi in Medio Oriente”. Nel nostro infinito ottimismo, questa impostazione a noi era sembrata – appunto – un raffinato compromesso dettato dalla realpolitik impossibile da non accogliere a braccia aperte; il problema che ci eravamo posti, semmai, era se anche i BRICS erano davvero in grado, una volta fatte tutte queste concessioni al liberismo e al capitalismo internazionale, di mantenere la barra dritta come è avvenuto in Cina: a differenza della Cina infatti, dove il monopolio del potere da parte di forze realmente rappresentative dell’interesse nazionale generale è stato raggiunto con enormi sacrifici in seguito al consolidamento di una grande guerra di liberazione nazionale e popolare, i BRICS – e, a maggior ragione, i BRICS nella loro configurazione allargata attuale – sono guidati da blocchi sociali dove a fare la parte del leone sono spesso borghesie compradore o, comunque, forme ibride di Stati nazionali soggetti al dominio delle oligarchie locali; se in Cina a tenere la barra dritta nel mare in tempesta dell’apertura ai mercati e alle logiche dell’accumulazione capitalistica c’ha pensato (a fatica) il Partito Comunista, nei BRICS+ chi ci penserà? Al Sisi? Le dinastie che guidano le petromonarchie? La stessa Russia di Putin, nonostante gli enormi passi avanti fatti, è un Paese dove l’influenza delle oligarchie non può certo essere minimizzata; per non parlare del Brasile di Lula, continuamente costretto a mediare con una potentissima classe di grandi latifondisti reazionari fino al midollo e legati a doppio filo al centro imperiale. Idem con patate per l’India di Modi: come dice il nostro amico Federico Drago, “Per passare al denghismo, serve aver avuto prima un Mao, e questi non ce l’hanno avuto”; ciononostante, fare leva sull’avidità del capitale per rompere il monopolio del dollaro è un compromesso accettabile che pone strutturalmente le basi per un nuovo sistema monetario e finanziario globale più equo e democratico. E, quindi, è di per se un fattore di emancipazione e di progresso che vale il rischio che comporta aprirsi maggiormente alla libera circolazione dei capitali. Purtroppo, però, evidentemente non è bastato: nonostante si trattasse palesemente di offrire un ramoscello di ulivo al capitale occidentale (e non di minacciarlo con un Kinzhal), la proposta di mediazione avanzata dalla Federazione russa col sostegno della Cina – e, a quanto pare, anche del Brasile – non è stata colta; a parte gli interventi di Putin, di Xi e di Lula, alla plenaria di ieri (con, a mio avviso, una palese irritazione e insofferenza da parte del leader russo) gli altri rappresentanti dei BRICS+ non solo non si sono espressi in modo chiaro, ma non sembravano proprio aver colto nemmeno il proposito. Uno spaesamento che poi, inevitabilmente, s’è tradotto anche nella risoluzione finale, dove i vari aspetti del processo che dovrebbe portare alla dedollarizzazione sono appena accennati, come se si trattasse di insignificanti dichiarazioni d’intenti destinate a rimanere sulla carta; per una missione così mastodontica, decisamente troppo poco e decisamente troppo poco per rappresentare quel deterrente che auspicavamo giusto lunedì scorso, quando abbiamo deciso di intitolare il nostro lungo pippone a 6 mani Perché il vertice BRICS di Kazan è l’ultima speranza che abbiamo per evitare la terzaguerra mondiale. Il nocciolo è, appunto, quello sottolineato dal rapporto e anche da Putin durante la plenaria: se non riformiamo profondamente il sistema monetario e finanziario globale, le contraddizioni strutturali che la rapina sistematica del pianeta – operata dagli USA (via monopolio del dollaro) che hanno portato alla guerra mondiale a pezzi a cui stiamo assistendo da ormai quasi 3 anni – non possono che sfociare in una guerra mondiale vera e propria; purtroppo, anche a questo giro, non possiamo che constatare come Stati nazionali che non hanno vissuto una vera rivoluzione democratica e popolare che ha consegnato il monopolio del potere politico a un soggetto realmente rappresentativo degli interessi nazionali generali, ma sono rimasti ostaggio dell’egoismo ottuso delle proprie borghesie compradore, non abbiano proprio non tanto semplicemente la volontà, ma proprio gli strumenti, anche teorici, per evitare la discesa agli inferi. E che, per quanto utopistico e velleitario possa apparire, realisticamente solo una grande riscossa multipopolare può salvare il pianeta. Per quanto marginale e ininfluente possa apparire (e oggettivamente è), noi non possiamo che continuare a provare a fare la nostra piccola, microscopica parte e, per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce al 99% e di una comunità in grado di sostenerlo. Aiutaci a costruirli! Partecipa alle iniziative di Multipopolare in programma: vieni a conoscerci sabato prossimo a Pisa o a Bergamo e domenica a Novara; e, poi, aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
“Nel 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama, un funzionario di medio livello del Dipartimento di Stato americano rispondeva affermativamente alla domanda formulata da lui stesso nel saggio La fine della storia?”: “Complice lo sgretolamento repentino del campo socialista, la pubblicazione gli valse subito un’enorme” (e immeritata) “fama internazionale, tanto che, qualche anno dopo, quello slogan divenne il tormentone su cui si fondava la politica estera degli Stati Uniti e dell’Occidente collettivo, nutrendo la loro ambizione a esercitare un’egemonia mondiale assoluta fondata sul dominio dei settori militare, economico, energetico e socio-culturale”; “In quella fase, all’inizio degli anni ’90, i membri del G7, nato a metà degli anni ‘70 dall’unione delle principali nazioni industrializzate del mondo, avevano effettivamente raggiunto un dominio straordinario”. “Nonostante ospitassero meno del 14% della popolazione mondiale, rappresentavano più di tre quarti del PIL mondiale in termini nominali, e anche più della metà del PIL mondiale calcolato a parità del potere d’acquisto (PPA)”. A 30 e passa anni di distanza, mentre a Kazan si celebra il sedicesimo summit annuale dei BRICS (oggi BRICS+), com’è invecchiata la più famosa profezia del mondo contemporaneo?
Ancora nel 2002 – 10 anni dopo le non esattamente profetiche affermazioni di Fukuyama – Brasile, Russia, India e Cina, nonostante contassero il 42% della popolazione globale, raggiungevano a malapena l’8% del PIL mondiale denominato in dollari e il 18,5 se calcolato a parità di potere d’acquisto; qualche anno dopo, questi Paesi davano vita ai BRIC e quando, nel 2012, si era arrivati a festeggiare i 20 anni della fine della storia propagandata da Fukuyama, le cose erano cominciate a cambiare drasticamente: il PIL nominale dei 4 – insieme al quinto arrivato, il Sudafrica – nel frattempo era quintuplicato e aveva rappresentava ormai il 20% del PIL globale. Nel frattempo, la quota rappresentata dai Paesi del G7 nell’arco di 10 anni era passata dal 73% al 55, un gap che era (ovviamente) ancora più ristretto in termini di PIL calcolato a parità di potere d’acquisto, con i Paesi del G7 che ormai pesavano meno del 40% del PIL globale e i BRICS che si avvicinavano a grandi passi al 30. Dieci anni dopo, questo gap si era ridotto ormai a pochi spiccioli e con l’ingresso di nuovi membri – che verrà definitivamente ufficializzato in questi giorni a Kazan – ecco che avviene addirittura il famigerato sorpasso; ma nonostante il PIL calcolato a parità di potere d’acquisto dia una misura sicuramente più corretta dei rapporti di forza tra i due gruppi di Paesi per quel che riguarda la capacità produttiva, in realtà si tratta ancora di una sottostima macroscopica: la composizione del PIL dei due blocchi, infatti, è piuttosto diversa, con il settore dei servizi che pesa per poco più del 60% in media per i Paesi BRICS e, invece, per quasi il 75% per i Paesi del G7. E in questo 75% c’è una quantità infinita di fuffa che, invece che creare ricchezza, la distrugge: dalle bolle speculative che rappresentano il vero cuore pulsante dell’accumulazione capitalistica ai tempi del superimperialismo USA, agli interessi che popolazioni indebitate fino al collo sono costrette a corrispondere alle nuove oligarchie parassitarie. Per fortuna, però, che c’è un altro parametro che può aiutarci a farci un’idea un po’ più precisa della rivoluzione copernicana che è avvenuta negli ultimi 30 anni in termini di rapporti di forza tra le cosiddette economie sviluppate e quelle emergenti: il consumo energetico. Come ricorda il rapporto Valdai di ottobre 2024, infatti, nel 1992 i Paesi del G7 rappresentavano oltre il 50% del consumo primario di energia globale, il 57% del consumo globale di petrolio, oltre il 50% del consumo di gas e poco meno del 60% della potenze generata: “Nel 1992” si legge nel rapporto “i Paesi del G7 (compresa l’attuale Unione europea) consumavano 174,5 exajoule”, vale a dire 174,5 milioni di miliardi di joule che allora, appunto, rappresentavano “oltre metà della domanda globale”; ma 30 anni dopo questa domanda, mentre la domanda globale era aumentata del 73%, era aumentata appena dell’11%, il che significa che la quota globale, da oltre il 50, era scesa a poco più del 30%. I Paesi BRICS, invece, nel 1992 rappresentavano insieme una domanda di appena 95,3 exajoules, corrispondente al 27% della domanda globale e poco più della metà del G7, ma nell’arco di 30 anni quella domanda è aumentata di ben 190 exajoules, portando i Paesi BRICS a un consumo complessivo di addirittura 276 exajoules, corrispondente al 45% della domanda globale: “In altre parole” si legge nel rapporto “i ruoli del primo mondo e dei leader del mondo in via di sviluppo si è completamente invertito”. Ovviamente, però, se invece che del consumo complessivo parliamo di quello pro capite, il discorso cambia radicalmente: nel 2022 il consumo di energia medio pro capite all’interno dei Paesi BRICS aveva raggiunto quota 76.6 gigajoules, che è sì il doppio del 1992, ma ancora abbondantemente meno di quanto registrato nei Paesi del G7 nonostante qui, nell’arco di 30 anni, sia diminuito di poco meno del 25%; nei rimanenti 150 Paesi, in media, il consumo medio pro capite invece è di appena 40 gigajoules e, cioè, poco più della metà che nei BRICS e 5 volte inferiore alla media del mondo libero, democratico e ambientalmente consapevole, un consumo che negli ultimi 30 anni non è aumentato di una virgola: “Nonostante tutta la retorica proveniente dai G7, che parlano del contrasto alla povertà energetica del Sud del mondo come una delle principali priorità ormai da decenni” sottolinea il rapporto “alla prova dei fatti, non hanno fatto assolutamente niente per risolvere questa faccenda”. E all’interno dei Paesi del G7 la responsabilità di questa ennesima prova di ipocrisia non è certo distribuita equamente: mentre negli USA la produzione industriale pesa per appena il 18% del PIL, in Giappone e Germania questo contributo è pari al 28 e oltre il 30%, rispettivamente; ergo, dovrebbero consumare decisamente più energia. E invece ne consumano meno della metà: poco meno di 300 gigajoules pro capite gli USA e meno di 150 sia Giappone che Germania, una sperequazione che, nel tempo, si è andata solo acuendo. Se, infatti, negli ultimi 30 anni la Germania ha investito piuttosto massicciamente ed ha ridotto il consumo pro capite di quasi il 20%, gli USA non l’hanno ridotto nemmeno del 10: l’arroganza dell’impero e la presunzione di avere in esclusiva il diritto divino di distruggere il pianeta dove viviamo tutti. Nel complesso, comunque, grazie alla deindustralizzazione nei Paesi del G7, negli ultimi 30 anni – dove più, dove meno – il consumo di energia pro capite è diminuito; i BRICS, invece – ad eccezione della Federazione russa – altrettanto ovviamente l’hanno aumentato (e di parecchio): in particolare – sempre ovviamente – la Cina, dove il consumo pro capite è quadruplicato e ora ha raggiunto quello di molti Paesi europei (e per fortuna, direi). Anche se a molti suprematisti più o meno democratici e liberali non piace, negli ultimi 30 anni, infatti, questi Paesi sono definitivamente usciti dal giogo neo-coloniale, hanno vissuto una portentosa fase di sviluppo e hanno ovviamente tutto il diritto di contribuire alla distruzione del pianeta tanto quanto un cittadino statunitense qualsiasi (più tutti gli arretrati). Fortunatamente, però – nonostante, ribadisco, abbiano tutto il diritto di emettere tutta la CO2 che vogliono per i prossimi due secoli – in realtà si stanno comportando da veri signori: “Le economie dei BRICS” ricorda infatti il rapporto del Valdai Club “in termini di miglioramento della loro efficienza energetica, sono riuscite a surclassare il G7”; per ogni 1000 dollari di PIL prodotto, infatti, i Paesi BRICS in media nel 1992 consumavano 14,5 gigajoules. Oggi ne consumano 10: sono 4,4 gigajoules in meno, mentre nei Paesi del G7 il miglioramento è stato di pochissimo superiore ai 3 gigajoules – e questo, ribadiamolo, mentre nei BRICS cresceva a dismisura la produzione industriale al contrario che nei Paesi del G7, dove diminuiva drasticamente; erano relativamente più efficienti i Paesi BRICS mentre producevano acciaio e lavatrici di quanto non lo fossimo noi a fare vacanze sostenibili nei distretti biologici e a vendere pizze ai grani antichi. E – udite udite – quelli che hanno migliorato in assoluto di più la loro efficienza energetica sono proprio quegli assetati di sangue dei russi, che “hanno migliorato di un fattore sette l’impatto nell’arco di 30 anni” e che, nel 2022, per produrre 1000 dollari di PIL impiegavano 4,8 gigajoules contro i 5,9 dell’avanzatissimo e verdissimo Canada. Ma per quanto lodevoli, per lo meno rispetto a quanto fatto dai Paesi del mondo libero e democratico allo stesso stadio di sviluppo – e, in particolare, nel caso degli USA a quanto viene fatto ancora oggi – gli sforzi per migliorare l’efficienza energetica non sono certo in grado di risolvere di per se il problema di come alimentare l’ulteriore crescita necessaria per terminare di colmare il gap tra mondo BRICS e G7 in termini di consumo pro capite; una crescita che, al momento, è alimentata ancora principalmente a carbone: ancora oggi, infatti, il carbone ha un ruolo di primissimo piano nel mix energetico globale, dove pesa per oltre il 26% (che, visto che è la fonte di energia in assoluto più inquinante, si traduce in un bel contributo del 40% abbondante alle emissioni climalteranti globali). E il grosso del carbone che viene ancora bruciato nel mondo viene bruciato in Cina e poi, a seguire, in India, che insieme pesano per circa il 60% del consumo di carbone globale: la parte del leone la fa la Cina che, da sola, consuma più carbone di tutto il resto del mondo messo assieme – che però, in realtà, non ha moltissimo da insegnare; mentre la Cina, infatti, abbatteva di 15 punti percentuali il contributo del carbone al suo mix energetico complessivo, gli Stati Uniti si fermavano a meno di 10 punti, nonostante negli USA ormai si produca piuttosto pochino e l’utilizzo del carbone (che notoriamente non serve per fare il pieno alla macchina) serva principalmente per alimentare l’industria pesante. Tant’è che i Paesi del G7 che, invece ,continuano ad avere un settore manifatturiero importante, hanno fatto molto peggio: nel civilissimo e avanzatissimo Giappone, ad esempio, il carbone pesa esattamente quanto 10 anni fa; discorso diverso invece per la Germania che, nonostante abbia ancora un’industria pesante di tutto rispetto, dal 2013 al 2021 era riuscita ad abbattere il peso del carbone di oltre 8 punti percentuali. Peccato, però, che poi abbia accettato di farsi sabotare il Nord Stream e sia tornata bruciare lignite come se non ci fosse un domani, e quel virtuoso processo di emancipazione dalla fonte più inquinante del pianeta si sia arrestato in nome della russofobia che la verdissima Annalena Baerbock, evidentemente, deve aver ereditato dal nonno, fervente nazista; perlomeno, comunque, la Germania ha continuato a investire sul serio in rinnovabili, che oggi pesano per oltre il 20% del mix energetico complessivo, cosa che invece non si può dire per il Paese leader del mondo libero e democratico e per la sua amministrazione democratica amica dei diritti umani e dell’ambiente. Nonostante l’incetta di capitali di tutto il mondo che renderebbero piuttosto semplice avviare una transizione ecologica on steroids in brevissimo tempo, negli USA infatti le rinnovabili pesano ancora oggi per meno del 10%; nella Cina arretrata e indifferente alle sorti del pianeta siamo abbondantemente sopra il 15: d’altronde, negli USA i capitali che sono stati rastrellati in quantità senza precedenti da tutto il resto del pianeta negli ultimi 4-5 anni servono solo in piccola parte a fare investimenti concreti (che per le oligarchie parassitarie è un lavoro troppo faticoso), ma – molto banalmente – servono per gonfiare la bolla speculativa dei mercati finanziari trainata, in particolare, dai giganti tecnologici che, invece che contribuire alla transizione, contribuiscono sempre di più con i loro data center a consumare energia in quantità spropositate. In Cina, invece, dove con la guerra economica dichiarata da Washington, di capitali internazionali – soprattutto provenienti dal mondo libero, democratico e green – ne arrivano pochini e si devono arrangiare un po’ da soli, nel 2023 è stata installata più nuova capacità produttiva da rinnovabili che nel resto del mondo messo assieme, e più solare di quanto gli USA abbiano installato da quando esiste l’energia solare. Quello che non producono da carbone, quindi, gli USA lo producono sostanzialmente tutto da altre fonti fossili, che pesano per oltre il 75% del mix energetico complessivo: parliamo, ovviamente, di petrolio e di gas che – tutto sommato – non è che siano poi così migliori del carbone, soprattutto da quando la Cina ha investito alcune decine di miliardi per aumentare l’efficienza e ridurre le emissioni di almeno le sue centrali a carbone più grandi e moderne, soprattutto tenendo conto del fatto che le fonti fossili utilizzate negli USA derivano per lo più dal fracking che, oltre ad essere enormemente energivoro di per se, ha anche la simpatica caratteristica di comportare perdite imponenti di gas metano che si sparge in modo libero e democratico nell’atmosfera; e il gas metano, soprattutto a breve termine, è un gas serra oltre 80 volte più potente della semplice CO2. Il punto, comunque, è che al netto della retorica, lo sviluppo economico e industriale ancora oggi è alimentato da fonti fossili e non si vede una via d’uscita: come ci ricorda il nostro sempre puntualissimo Demostenes Floros, lo scorso agosto gli USA hanno registrato il loro record assoluto di produzione petrolifera con 13 milioni e 400 mila barili al giorno e hanno ormai raggiunto una sostanziale indipendenza energetica che, però, non si estende al blocco dei cosiddetti alleati, anzi! Per quanto riguarda il petrolio, nel loro insieme i Paesi del G7 producono circa un terzo del loro fabbisogno complessivo; i Paesi BRICS, al contrario, con l’allargamento dei BRICS+ possono contare su un surplus di circa 5 milioni di barili al giorno. Discorso simile per il gas: i Paesi del G7 consumano più gas di quanto siano in grado di produrne, ma – soprattutto – di quanto saranno in grado di produrne nel futuro, dal momento che le riserve sono appena meno di un settimo quelle certificate in casa BRICS. Insomma: al netto della catastrofe ambientale (della quale da entrambi i lati sembra non fregare assolutamente una minchia a nessuno), i BRICS+ hanno tutta la benzina che serve per alimentare all’infinito la loro crescita economica, mentre i G7 possono accompagnare solo. Peccato, però, che non sia così semplice, perché nel mercato globale delle fossili la disponibilità delle materie prime è solo un pezzo di un puzzle decisamente più complesso; intanto perché, ovviamente, le materie prime vanno non solo lavorate e raffinate (e fino a lì ci si può anche arrivare), ma anche trasportate e distribuite – e lì già le cose si complicano: basti pensare agli investimenti necessari per i gasdotti, che le economie sviluppate effettuano da decenni mentre i Paesi BRICS+ sono ancora poco più che dei neonati. Ancora nel 2022, nonostante l’attentato terroristico al Nord Stream, i Paesi del G7 hanno importato via gasdotti 433 miliardi di metri cubi di gas; i BRICS+ hanno superato a malapena i 100, un gap che diventa ancora più evidente quando parliamo di infrastrutture per il gas naturale liquefatto, dove gli USA dominano incontrastati insieme a un alleato come l’Australia, anche se braccati da un Paese molto più amico del Sud globale come il Qatar. Ma a spostare i rapporto di forza in modo ancora più chiaro a favore dei Paesi sviluppati è un altro aspetto fondamentale: tutta la struttura finanziaria che va di pari passo col commercio delle commodities. Ed ecco, così, che torniamo al vero cuore pulsante del superimperialismo USA: la dittatura globale del dollaro e lo strapotere che Washington esercita sul sistema finanziario e monetario globale; fino ad oggi, questi due aspetti – sostenuti, alla bisogna, anche da qualche bel bombardamento a tappeto che il mondo libero e democratico ha il dovere morale di distribuire un po’ a destra e manca – hanno permesso all’Occidente collettivo a guida USA di fare leva sulle divisioni altrui e di continuare a garantirsi la cabina di regia del mercato globale delle più essenziali e strategiche di tutte le materie prime. Fino a quando, senza rendersi conto che i rapporti di forza ormai stavano rapidamente cambiando, non ha fatto il passo più lungo della gamba: con le sanzioni contro il Cremlino che hanno accompagnato la guerra per procura in Ucraina, gli USA hanno determinato, nell’arco di un anno, l’aumento di 18 volte del petrolio che l’India ha importato dalla Russia e di un altro 30% di quello importato (sempre, ovviamente, dalla Russia) dalla Cina; una vera e propria rivoluzione copernicana che, necessariamente, ha comportato anche un cambiamento nelle infrastrutture finanziarie che accompagnano il mercato del petrolio, a partire dall’uso del dollaro che, fino ad allora, era fuori discussione. Da lì in poi, per la prima volta da 80 anni, gigantesche quantità di petrolio nel mondo vengono comprate e vendute utilizzando valute diverse dal dollaro e, nell’arco di pochi mesi, sono state create tutte quelle infrastrutture alternative che fino ad allora i colossi dei BRICS avevano evitato di costruire per non stuzzicare troppo Washington. Una rivoluzione talmente profonda che ha portato all’impensabile: per 50 anni, Arabia Saudita e USA hanno sottoscritto un accordo che imponeva l’utilizzo in esclusiva del dollaro per la vendita del petrolio, ma quando quest’anno il trattato è scaduto, Riad ha deciso di non rinnovarlo proprio mentre lanciava un progetto pilota con Pechino che prevedeva il pagamento del petrolio in renminbi; ora, sottolinea il rapporto del Valdai Club, “i BRICS devono procedere a istituzionalizzare e introdurre soluzioni a livello di sistema per creare un quadro regolatorio resiliente per il commercio delle risorse energetiche”, un quadro che “deve essere immune da sanzioni unilaterali o da altri passi ostili da parte del governo degli Stati Uniti e dei suoi satelliti del mondo sviluppato”. Riusciranno i BRICS, riuniti in queste ore a Kazan, ad approfittare di questa opportunità storica che gli USA gli hanno offerto su un piatto d’argento? Per scoprirlo, vi toccherà spegnere la Tv e accendere Ottolina, il primo media che, invece che agli interessi dei padroni del mondo che fanno la spola tra Washington e Wall Street, da voce al 99% e, che per farlo, ha bisogno del tuo sostegno, soprattutto da quando gli algoritmi sono entrati ufficialmente in guerra contro la libertà di espressione e demonetizzano sistematicamente qualsiasi contenuto che non sia completamente appiattito sulla propaganda di regime. Basta aderire alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Trentadue Paesi, mille delegati e ventiquattro capi di Stato: quello che di sicuro va in scena oggi a Kazan, nel silenzio dei nostri media, è il funerale in grande stile del sogno distopico della fine della storia e dell’eterno trionfo dell’unipolarismo neo-liberale guidato da Washington; ma riusciranno anche a celebrare il battesimo di un nuovo ordine più equo, democratico e inclusivo? Come ampiamente previsto e annunciato, il 16esimo summit dei BRICS+ che ha inizio oggi nella splendida capitale multiculturale e multietnica del Tatarstan e che corona l’anno di presidenza russa della più importante istituzione multilaterale del Sud globale, è probabilmente – in assoluto – il più ambizioso e importante dalla sua nascita, nel 2009. La scelta scellerata di Washington di sdoganare definitivamente l’utilizzo del dominio del dollaro e del monopolio che esercita sulle istituzioni finanziarie globali come arma di distruzione di massa contro chiunque osi rifiutarsi di sottomettersi completamente all’agenda dell’impero, potrebbe aver impresso un’accelerazione senza precedenti al piano più ambizioso e complicato delle economie emergenti: creare un’alternativa concreta e tangibile al sistema finanziario e monetario internazionale vigente. Quello su cui i 9 capi di Stato dei Paesi membri (e gli altri 23 Paesi presenti a titolo di osservatori) saranno chiamati a confrontarsi in questi giorni non è banalmente una qualche fumosa dichiarazione di principio, ma una roadmap concreta e dettagliata per costruire, passo dopo passo, le infrastrutture materiali e immateriali necessarie a svuotare dall’interno la rendita di posizione monopolistica della quale hanno goduto fino ad oggi gli Stati Uniti, a vantaggio delle sue oligarchie – e, in posizione subordinata, di tutte le altre oligarchie del pianeta complici della grande rapina – e a scapito degli interessi nazionali di tutti gli altri Paesi del pianeta e della loro sovranità e indipendenza, compresi quelli che degli Stati Uniti si considerano (inspiegabilmente) amici e alleati quando, come hanno reso palese questi ultimi tre anni di guerre economiche e guerre vere per procura, non sono altro che sudditi e vassalli. Questa roadmap è descritta nei suoi lineamenti fondamentali da questo lungo rapporto pubblicato la settimana scorsa e curato dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale della Federazione russa, un documento che mira a “rafforzare il multilateralismo per uno sviluppo globale più equo e per la sicurezza”: una diagnosi lucida e impietosa delle distorsioni che il monopolio del dollaro e di Washington impongono all’intera economia globale, seguito da un elenco dettagliato delle cose che i BRICS si impegnano a fare concretamente per creare delle alternative tangibili sul piano dei pagamenti internazionali, della circolazione dei capitali, del finanziamento allo sviluppo e dei meccanismi che garantiscono la stabilità finanziaria globale; un documento che, insieme al summit, è destinato a rappresentare, negli anni a venire, una pietra miliare di questa turbolenta fase di cambiamenti “mai visti in un secolo”, come sottolinea sempre Xi Jinping. E’ per questo che a partire da oggi, per i prossimi 3 giorni, noi di Ottolina Tv insieme al Contesto di Giacomo Gabellini, a Dazibao di Davide Martinotti, a Stefano Orsi e a Francesco Maringiò abbiamo deciso di dedicare a questo evento storico due ore di diretta al giorno trasmessa a reti unificate su tutti i nostri canali per provare a dare quella copertura che i media mainstream sono troppo occupati per dare (e – tutto sommato – vedendo il livello di competenza e di onestà intellettuale, forse è anche meglio così). Ma ora, prima di addentrarci nelle 50 pagine del rapporto che descrive il piano dei BRICS per mettere fine alla dittatura del dollaro, vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi, che sono talmente al servizio dell’imperialismo finanziario USA che ieri c’hanno pure demonetizzato il video, nonostante – a questo giro – non si citasse mai né il Libano, né Gaza e non ci fosse nessunissima scena di violenza: ormai per poter ambire a trasformare la creazione di contenuti per le piattaforme social in un mestiere retribuito, bisogna obbligatoriamente ridursi a parlare dello stesso niente che trovate sulle pagine dei giornali o nei programmi di Fabio Fazio; per questo, a maggior ragione, se ancora non lo avete fatto, oltre a invitarvi a iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social e di attivare tutte le notifiche, vi ricordiamo anche che il modo migliore per sostenerci e garantire la nostra indipendenza e la nostra capacità di sottrarci alla mannaia della censura rimane quello di seguirci direttamente dal nostro sito. A voi costa meno fatica di quanta non ne serva al dipartimento del tesoro USA per emettere un nuovo pacchetto di sanzioni contro un Paese a caso, ma per noi fa davvero la differenza e forse un pochino, nel suo piccolissimissimo, anche al disastrato mondo dell’informazione italiana in generale.
BCBPI (Brics Cross-Border Payment Initiative), tradotto: iniziativa per i pagamenti transfrontalieri dei BRICS; è questo l’acronimo che descrive il sistema per le transazioni commerciali internazionali elaborato nell’arco degli ultimi 12 mesi dai Paesi BRICS sotto la presidenza annuale della Federazione russa e che verrà discusso, a partire da oggi, a Kazan nell’ambito del sedicesimo summit annuale della più importante organizzazione multilaterale del Sud globale. L’obiettivo, ovviamente, è quello di emanciparsi dal ricorso (più o meno obbligato) al dollaro come valuta di riferimento per i pagamenti internazionali, obiettivo reso sempre più urgente dal fatto che negli USA approfittare di questo “esorbitante privilegio” monopolistico per danneggiare economicamente qualsiasi avversario è diventato un vero e proprio sport nazionale, con almeno un terzo del pianeta al momento sottoposto a sanzioni unilaterali illegali e illegittime, a partire soprattutto dal 60% dei Paesi a reddito basso e medio-basso. Per emanciparsi da questo opprimente monopolio, uno degli aspetti più urgenti consiste nel costruire un’alternativa concreta allo SWIFT, il sistema di messaggistica che oggi gode di una posizione di monopolio nell’ambito delle transazioni interbancarie internazionali e che, essendo totalmente in mano alla finanza USA, viene utilizzato per minacciare e colpire i Paesi che non si adeguano ai dictat di Washington; ma la parte più complicata poi – ovviamente – è costruire un network di operatori sufficientemente ampio che questo sistema alternativo – e la possibilità di utilizzarlo per fare pagamenti transfrontalieri in diverse valute – lo renda operativo concretamente. Questo, sottolinea il rapporto, può avvenire in molti modi diversi, non necessariamente in contrapposizione tra loro: il primo è appunto, banalmente, creare un network internazionale di banche commerciali che sostengano la possibilità di effettuare i pagamenti transfrontalieri in diverse valute locali; il secondo è mettere in connessione tra loro direttamente le Banche Centrali, che farebbero da terminale a reti domestiche di banche commerciali. Ma l’opzione che viene più a lungo analizzata, in realtà, è un’altra: il ricorso a una piattaforma DLT, che sta per Distributed Ledger Techonology, e che è un modo un po’ più generico e astratto per definire – in soldoni – una blockchain. Al centro della proposta dei BRICS ci sono le CBDC, le valute digitali che però – al contrario dell’utopia ultra-liberista del mondo delle criptovalute – sono emesse dalle Banche Centrali: quindi non uno strumento per togliere agli Stati nazionali quel poco di sovranità che ancora riescono ad esercitare attraverso le politiche monetarie a favore del capitale privato, ma – al contrario – uno strumento per permettere agli Stati sovrani di esercitarne di più, appunto, creando un’alternativa al monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie del Washington Consensus; una trasformazione decisamente ambiziosa che, per essere realmente implementata, nella migliore delle ipotesi impiegherà svariati anni, ma per la quale – sottolineano i BRICS – non siamo all’anno zero. Da alcuni anni, infatti, procedono le sperimentazioni di un progetto pilota che si chiama mBridge che, oltre alla Banca Centrale cinese, quella tailandese e l’autorità monetaria di Hong Kong, coinvolge anche la Banca Centrale degli Emirati Arabi Uniti che, con Dubai, si sta ritagliando un posto al sole come piazza finanziaria di primissimo ordine per tutto il Sud globale. Durante la sperimentazione (che va avanti ormai da 3 anni) sono state processate in tutto 164 transazioni per un valore complessivo di 22 milioni di dollari e, a fine 2023, il sistema ha raggiunto la fase di Minimum Viable Products, che significa che le funzioni di base sono state ottimizzate e che ora si tratta di allargarne la portata e il numero di soggetti coinvolti. Intanto nel 2023, per la prima volta, la Cina ha visto lo yuan superare il dollaro come valuta utilizzata per i suoi scambi commerciali transfrontalieri; Russia e Cina hanno dichiarato di aver condotto i loro commerci bilaterali utilizzando 90 volte su 100 valute locali, e progetti ufficiali per tentare di ampliare l’utilizzo delle valute locali sono stati avviati in Africa, in America Latina, ma – soprattutto – negli ASEAN, che è una delle aree economicamente più dinamiche del pianeta. E che il monopolio del dollaro come valuta per le transazioni commerciali internazionali non sia più quello di una volta è dimostrato palesemente da come la Federazione russa, dopo 10 anni di sanzioni e 3 di sanzioni on steroids, non sembra esattamente sull’orlo del collasso. Ma rompere il monopolio del dollaro e delle istituzioni finanziarie che regolano le transazioni monetarie internazionali è solo la cima dell’iceberg: la proposta che il ministero delle finanze e della Banca Centrale russa hanno messo sul tavolo, infatti, mira a intervenire anche nel settore degli investimenti che, tradotto, significa nei flussi di capitali che, fino ad oggi, hanno permesso all’imperialismo finanziario USA di sottrarre risorse gigantesche a tutto il resto del pianeta per alimentare la sua bolla speculativa, a discapito dell’economia reale. L’imperialismo finanziario USA si fonda sulle istituzioni del Washington Consensus, che sono state create e delineate nei loro aspetti fondamentali quando ancora gran parte del Sud globale era colonizzato: si tratta quindi, a tutti gli effetti, di istituzioni coloniali il cui obiettivo è, appunto, perpetrare il rapporto di subordinazione tra Nord e Sud globale anche dopo che i Paesi in questione hanno conquistato formalmente l’indipendenza; basti pensare che gli Stati Uniti sono l’unico Paese che ha potere di veto in entrambe le istituzioni principali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) e che, come ricorda Ben Norton, “esiste un accordo tacito per cui ogni presidente della Banca Mondiale è un cittadino statunitense e ogni direttore generale del FMI è europeo. Finora, questo schema è continuato, anche se l’economia globale è cambiata in modo molto significativo”. Stessa questione per le quote che determinano il peso specifico dei singoli Paesi all’interno dell’FMI: a parità di potere d’acquisto, infatti, le economie dei BRICS hanno da tempo superato quelle dei Paesi del G7; ciononostante, nell’ambito dell’FMI i Paesi BRICS hanno appena il 13,5% delle quote con diritto di voto; i G7 il 41,3%, uno squilibrio talmente evidente che anche i Paesi sviluppati hanno fatto finta di essere pronti ad accettare qualche cambiamento. Peccato che, per due volte di fila, si sia risolto in un clamoroso buco nell’acqua: nel 2020, dopo mesi di dibattito, si decise che era meglio rinviare la revisione delle quote; 3 anni dopo, nel 2023, le quote vennero effettivamente riviste, ma solo per essere aumentate in generale, senza toccare minimamente i pesi relativi. Riformare l’FMI e dare più voce in capitolo ai Paesi emergenti, invece, è una questione vitale e, per capire quanto, bisogna fare un bel passo indietro. 1944, Bretton Woods; come tutti saprete benissimo, sul tavolo c’erano due proposte: da un lato quella che faceva capo al buon vecchio John Maynard Keynes e, cioè – come ricorda lo stesso sito del Fondo Monetario Internazionale – l’istituzione di “una banca globale, denominata International Clearing Union o ICU, che avrebbe emesso la propria valuta, denominata bancor, basata sul valore di 30 materie prime rappresentative, tra cui l’oro, convertibili con valute nazionali a tassi fissi”. L’altra, invece, era di prendere il dollaro, fissare una quantità di oro che ne definisse il valore (che, nello specifico, venne stabilita in 35 dollari per oncia) e nominare ufficialmente il dollaro, invece che una valuta internazionale creata ad hoc, valuta di riserva globale: questo significa che ogni altra valuta viene scambiata a un tasso fisso con il dollaro. La differenza è gigantesca: nel sistema proposto da Keynes, infatti, erano previsti incentivi specifici che spingevano i Paesi che avevano un surplus commerciale – e che, quindi, esportavano più di quanto non importassero – a introdurre correttivi per ri-bilanciare la bilancia dei pagamenti e quindi, gradualmente, diminuire il gap tra Paesi più e meno sviluppati industrialmente. Nell’altro caso, invece, i Paesi economicamente più forti avevano tutto l’interesse ad accumulare quante più riserve in dollari possibili; e quindi l’incentivo era, quello stesso gap, ad aumentarlo sempre di più: per dirla in altri termini, da un lato si introduceva uno strumento di governance globale che mettesse un argine alle distorsioni intrinseche all’accumulazione capitalistica (che spinge a dare sempre di più a chi ha già di più e sempre di meno a chi ha già di meno) mentre, dall’altro, queste stesse distorsioni venivano accelerate e amplificate. Insomma: lo strumento perfetto per perpetuare le gerarchie tra Paesi colonizzatori e Paesi colonizzati anche dopo la fine ufficiale del colonialismo e la prova provata che l’essere umano, stringi stringi, non capisce un cazzo; l’incentivo a fare a chi c’ha il surplus commerciale più grosso, infatti, era stata la causa principale che nei trent’anni precedenti aveva portato non a una guerra mondiale, ma addirittura a due, anche se – tutto sommato – possono essere considerati due capitoli di una sola, separata da un bell’intermezzo che aveva permesso l’affermarsi del nazifascismo come prodotto d’eccellenza dei “veri valori fondamentali dell’Europa e dell’Occidente”. Ciononostante l’ipotesi di Keynes venne scartata con sufficienza e la dittatura del dollaro divenne la colonna portante del sistema finanziario globale. Eppure, visti con gli occhi di oggi, potremmo senza dubbio ricordare gli anni successivi a Bretton Woods come i bei tempi andati: anche allora, infatti, gli USA si erano dotati di uno strumento di dominio globale che imponeva al resto del mondo di finanziare il deficit statunitense, ma – perlomeno – l’entità di questo debito che si andava accumulando e che gravava sulle spalle dell’intero pianeta era limitata dall’ancoraggio del dollaro all’oro, che limitava la libertà di stampare dollari a piacere; limite che, come chi segue Ottolina sa fin troppo bene, è definitivamente saltato, a partire dal 1971, con la fine della convertibilità del dollaro in oro introdotta dall’amministrazione Nixon, l’atto fondativo del sistema superimperialistico in cui siamo immersi oggi. Da allora, non solo gli USA fanno pagare il loro deficit al resto del mondo, ma questo stesso deficit non ha sostanzialmente limiti e viene finanziato con il rastrellamento di tutti i capitali che servirebbero al resto del mondo per svilupparsi da parte degli USA – che assumono, così, il ruolo di rapinatore a mano armata dell’intera economia globale. Ora, se le potenze emergenti volessero ricalcare le orme della superpotenza USA, ovviamente dovrebbero aspirare a imporre le loro valute come nuove valute di riserva globale corrispondenti ai nuovi rapporti di forza economici e produttivi che si sono andati delineando; in particolare la Cina, ovviamente, che si è affermata come la vera unica superpotenza manifatturiera globale (esattamente come gli Stati Uniti alla vigilia di Bretton Woods), che è quello che sembrano auspicare anche tanti appartenenti all’area cosiddetta del dissenso: la sostituzione del dollaro con lo yuan. Fortunatamente, però, la Cina e gli altri Paesi BRICS sembrano essere molto più ispirati dalle intuizioni del buon vecchio Keynes che non dalla volontà di potenza fine a se stessa dell’impero USA; ed ecco, così, che invece di scatenare una guerra per chi sarà la prossima potenza egemone che, come gli USA negli ultimi 80 anni, riuscirà a far pagare le sue bollette al resto del pianeta, si sono messi in testa proprio di riformare dalle fondamenta l’architettura finanziaria globale proprio per permettere una nuova governance globale, in grado di mitigare le distorsioni intrinseche dell’accumulazione capitalistica e garantire un futuro (più o meno) pacifico e di sviluppo per tutti. E, con una bella dose di realismo politico, propongono di farlo a partire da quello che già c’è. Di fronte alle palesi distorsioni di un sistema fondato sull’unipolarismo valutario del dollaro, infatti, lo stesso Fondo Monetario Internazionale, nonostante sia diretta emanazione dell’imperialismo USA, ha provato a introdurre dei correttivi che vanno proprio nella direzione auspicata dal buon vecchio Keynes: si chiamano diritti speciali di prelievo e sono, appunto, un tipo di valuta di riserva internazionale creata e gestita proprio dall’FMI; il valore dei diritti speciali di prelievo si fonda su un paniere di valute che, al momento, include il dollaro, l’euro, la sterlina, lo yen giapponese e, dal 2016, anche lo yuan cinese. A emetterla è, appunto, l’FMI stesso che poi l’assegna ai vari Paesi membri a seconda della quota di partecipazione al fondo stesso; i singoli Paesi, così, hanno una valuta universalmente riconosciuta e stabile diversa dal dollaro per rimpinguare le proprie riserve. C’è solo un piccolissimissimo problema: rappresentando i diritti speciali di prelievo – in qualche misura – quello che gli USA avevano già scongiurato con ogni mezzo necessario a Bretton Woods, e comandando gli USA a bacchetta nell’FMI, sono stati introdotti scientemente tutti i paletti necessari per impedire che diventasse qualcosa di veramente significativo. Primo punto: quattro delle cinque valute del paniere sono valute di ex potenze coloniali, con gli USA che sono gli unici veramente sovrani e gli altri che fanno da vassalli e adottano politiche monetarie sempre in linea con la FED e gli interessi USA, come – ad esempio – è avvenuto a partire dal 2022, quando all’unisono hanno scelto tutti di aumentare rapidamente i tassi di interesse con la scusa di combattere l’inflazione, anche se il grosso dell’inflazione (come abbiamo dimostrato n-mila volte) era dovuta a fattori che con le politiche monetarie non c’incastravano niente; a partire dalla greedflation e, cioè, l’inflazione imposta dalle aziende che hanno posizioni di mercato oligopolistiche (se non addirittura proprio monopolistiche), il che significa che il prezzo lo fissano loro e non c’è concorrenza in grado di fargli cambiare idea. Se le Banche Centrali che emettono i quattro quinti delle valute del paniere decidono all’unisono di aumentare i tassi di interesse, questo significa che le valute di tutti gli altri Paesi si indeboliscono e, quindi, rimborsare un eventuale debito denominato in diritti speciali di prelievo diventa più costoso, Ovviamente, siccome siamo in un mondo libero e democratico, ogni Paese, in realtà, ha sempre la possibilità di scegliere – e, in questo caso, può scegliere molto liberamente di aumentare anche lui i tassi di interesse per contrastare l’indebolimento della sua valuta; peccato che questo comporti causare una recessione o, comunque, una botta decisiva alla crescita economica, ovviamente imposta da altri. E questo è solo il primo dei problemi. Il secondo è che i diritti speciali di prelievo non vengono utilizzati nell’economia reale: non ci puoi comprare il petrolio o le banane o i microchip; per comprarci qualcosa, li devi convertire in una valuta. Ma nessuno obbliga nessuno ad accettare diritti speciali di prelievo in cambio della sua valuta: si può fare soltanto a seguito di accordi bilaterali consensuali, i famosi VTA (Voluntary Trading Arrangements); ergo, rischi di avere, tra le tue riserve, valuta che poi non puoi usare per fare quello che ti serve quando ti serve. Il messaggio dei BRICS, allora, è molto chiaro: se volete che la nostra ascesa economica avvenga comunque all’interno di queste istituzioni, dovete darci il potere di voto che ci spetta e la possibilità di utilizzare il potere di voto che ci spetta per risolvere tutti i problemi che oggi affliggono i diritti speciali di prelievo per trasformali, finalmente, in una valuta di riserva internazionale realmente utile; altrimenti, vorrà dire che ce ne facciamo un’altra da noi. L’eventuale “mancato riequilibrio delle azioni con diritto di voto causerebbe un danno significativo e irreparabile alla credibilità del FMI come istituzione” si legge nel rapporto, e costringerebbe i Paesi emergenti a “sviluppare una struttura alternativa la cui funzionalità le consentirebbe di svolgere il compito originariamente previsto dal FMI” a partire, appunto, dai diritti speciali di prelievo per i quali “bisogna aumentare la convertibilità nelle diverse valute, andando oltre il meccanismo dei Voluntary Trading Arrangements”, promuoverne “l’utilizzo nel commercio internazionale, per fissare il prezzo delle commodities, e come unità di conto” ed “emettere più asset finanziari denominati in diritti speciali di prelievo come veicoli per gli investimenti”. Intanto si sono portati avanti aumentando a dismisura le riserve direttamente in oro che, così, è passato da poco più di 1.600 dollari l’oncia di inizio 2022 agli oltre 2.700 dollari l’oncia attuali, cosa che farà sicuramente molto felici – ad esempio – gli amici del Burkina Faso che, recentemente, hanno annunciato l’intenzione di nazionalizzare le loro miniere d’oro. Ma non solo: i due principali Paesi produttori di oro al mondo, infatti, sono – pensate un po’ – Cina e Russia, entrambi con una produzione all’incirca doppia rispetto a quella degli Stati Uniti e 60 volte superiore a quella della Svezia, che il principale produttore europeo di oro. Aumentare le riserve in oro, quindi, per i BRICS è un ottima opportunità e un ottimo affare, ma è un pannicello caldo: l’oro infatti, per fare un esempio, rappresenta appena il 4 – 5% al massimo delle riserve estere cinesi; il 65 – 70% è composto da valuta estera e il 20 – 25% da titoli di Stato esteri – e tra questi, ovviamente, a fare (di gran lunga) la parte del leone sono i dollari e i titoli del tesoro USA. L’obiettivo, quindi, è aumentare la quota di valuta estera e di titoli del tesoro in valuta locale emessi da Paesi emergenti; peccato sia più semplice da dire che da fare: nonostante la crescente solidità economica dei Paesi emergenti, infatti, il mercato internazionale dei titoli di Stato emessi in valute locali è ancora sostanzialmente inesistente anche per un colosso come la Cina, nonostante garantisca rendimenti reali tre volte superiori a quelli garantiti dai titoli del tesoro USA. Il problema è che stabilità e livello di internazionalizzazione di una valuta e capacità di allocare sul mercato titoli di Stato emessi nella propria valuta locale sono, ovviamente, due aspetti intimamente legati tra loro: un’ampia diffusione di titoli di Stato emessi in valuta locale è un elemento essenziale per rendere stabile la propria valuta, e avere una valuta stabile è essenziale per riuscire a vendere titoli di Stato in quella valuta senza pagare una cifra spropositata di interessi; la sfida dei BRICS consiste – appunto – nell’unire le forze per riuscire a spezzare questa spirale perversa. Ad oggi infatti – sottolinea il rapporto – i Paesi emergenti, nonostante abbiano triplicato lo scambio commerciale tra loro, quando si tratta di investire continuano a portare il grosso dei loro capitali verso le economie più sviluppate e in particolare, ovviamente, verso i mercati finanziari USA e verso i titoli di Stato USA (nonostante abbiano spesso un rendimento inferiore all’inflazione): questo, da un lato, nell’immediato impedisce a quegli stessi capitali di cogliere le opportunità migliori che ci sono nel mercato (magari proprio dietro casa loro) e, dall’altro, impedisce appunto di cominciare a mettere le basi affinché gradualmente, in prospettiva, questo vero e proprio furto di risorse da parte delle economie più sviluppate a danno dei Paesi emergenti un bel giorno termini o, almeno, si affievolisca. Gli elementi che ostacolano l’emancipazione da questa spirale perversa sono numerosi e i BRICS si propongono di affrontarli tutti: uno, molto banale (ma decisamente importante), è che ad oggi anche quando un Paese emergente vuole investire in un altro Paese emergente, in realtà passa sempre da uno dei principali hub finanziari globali – e cioè, fondamentalmente, da Londra o da New York. Raggiungere un altro Paese emergente quindi, sottolinea il rapporto, è un lungo viaggio in due tappe, spesso costose, al quale naturalmente si preferisce ancora troppo spesso il semplice viaggio diretto: una volta che sono arrivato a Londra e New York, chi me lo fa fare di partire per un altro viaggio? La compravendita di titoli finanziari di ogni genere, infatti, avviene in quelli che vengono definiti Central Securities Depositories, come sono i nostri Euroclear e Clearstream, rispettivamente in Belgio e Lussemburgo; la proposta è quello di crearne uno ad hoc dei BRICS, denominato BRICS Clear System. Ovviamente, strappare quote di mercato a istituzioni più consolidate non è una passeggiata, ma c’è un incentivo che potrebbe accelerare il processo: a differenza dei Clear System che oggi dominano la compravendita dei titoli finanziari su scala globale e che, sempre più spesso, abbiamo visto essere utilizzati dagli USA e dai loro vassalli per congelare arbitrariamente i fondi dei Paesi che si azzardano a non obbedire ai loro dictat, il BRICS Clear System opererebbe sulla base di un regolamento condiviso che potrebbe essere cambiato esclusivamente con un voto di tutti all’unanimità; quello che è potenzialmente ancora più importante è che questo BRICS Clear System non si dovrebbe limitare a funzionare da piazza alternativa per lo scambio di prodotti già esistenti, ma dovrebbe promuoverne altri, a partire da hub finanziari su tutti e 3 i continenti coperti da membri dei BRICS che siano in grado di raccogliere capitali da altri Paesi BRICS – e, più in generale, da Paesi emergenti – per impiegarli nello sviluppo di infrastrutture strategiche e per finanziare i campioni nazionali che oggi, come abbiamo spiegato qualche tempo fa, sono costretti a pagare interessi più alti rispetto ai competitor occidentali, anche se sono aziende enormemente più efficienti, solide e produttive. Un altro aspetto che influisce è il monopolio delle agenzie di rating statunitensi, ma “Un’approfondita ricerca in questo campo” sottolinea il rapporto “mostra che esiste una costante distorsione del rating che favorisce i Paesi sviluppati e sfavorisce i mercati emergenti, a partire dalla valutazione proprio dei titoli di stato sovrani”; questo bias neocoloniale contro i Paesi emergenti nel loro complesso, a cascata poi influenza anche le singole aziende di quei Paesi perché, appunto, anche in caso di aziende con “fondamentali finanziari solidi”, “i rating sovrani del Paese dove operano influenzano anche il loro rating come aziende”, al punto che “un abbassamento del rating del credito delle obbligazioni sovrane” comporta automaticamente “un declassamento di tutti gli altri strumenti del debito di quel Paese” e comporta, quindi, un costo del denaro per le aziende che ne compromette la competitività – cosa che, ad esempio, noi italiani conosciamo benissimo rispetto alla Germania, che ha utilizzato pro domo sua questo stesso identico principio per farci concorrenza sleale e cannibalizzare il nostro sistema produttivo per 30 anni. La proposta dei BRICS, quindi, è rafforzare il coordinamento tra le agenzie di rating già presenti nei Paesi aderenti – dalla cinese Dagong alla russa ACRA, passando per l’indiana Care Ratings – standardizzando i parametri e adeguandoli alle specificità delle economie emergenti più deboli finanziariamente, ma decisamente più promettenti per quanto riguarda la capacità di creare ricchezza attraverso l’economia reale. Creare enti di valutazione del credito alternativi a quelli del Nord globale è essenziale, in particolare, per favorire la crescita di investimenti tra Paesi BRICS in un settore in particolare, che nell’area del dissenso sta creando un po’ di confusione: la transizione ecologica, che i BRICS definiscono – udite udite – addirittura esistenziale: “Il tema del cambiamento climatico” sottolinea il rapporto “ha assunto il posto che spetta di diritto in cima all’agenda internazionale”; e il problema non è tanto che non esiste nessun cambiamento climatico di radice antropica, quanto – appunto, ad esempio – che “le esigenze dei Paesi in via di sviluppo saranno tra le 10 e le 20 volte superiori ai flussi finanziari disponibili” e che questo è, in buona parte, da attribuire alle “carenze causate dall’attuale stato del sistema monetario e finanziario mondiale”. Insomma: incredibile ma vero, anche per la Federazione russa e gli altri BRICS il problema non sono gli ecologisti e i gretini, ma la grande finanza internazionale a guida USA, compresa quella legata al business delle fonti fossili che, da decenni, foraggia a suon di centinaia e centinaia di milioni la peggior propaganda antiscientifica e negazionista. Per favorire l’arrivo di capitali in grado di accelerare la transizione nei Paesi in via di sviluppo, i BRICS si pongono, prima di tutto, l’obiettivo di rompere il sostanziale monopolio che una singola società di rating s’è conquistata nel mercato della valutazione dell’impatto ambientale, sociale e di governance degli investimenti e, quindi, dirottare un po’ dove gli pare la gigantesca mole di capitali che oggi cercano di darsi una piccola spruzzatina di verde: si chiama MSCI e, da sola, copre il 60% del mercato. E, ovviamente, ha come principali azionisti BlackRock, Vanguard e State Street; ne avevamo parlato, in passato, in questo video qua, dove ricordavamo alcuni degli esempi più eclatanti di valutazioni di sostenibilità dati alla cazzo di cane: da JP Morgan, che è la più grande banca privata e la più grande finanziatrice del fossile al mondo, ad addirittura Mc Donald’s. Insomma: l’unico criterio che MSCI sembra adottare davvero è quello che siano grandi gruppi fortemente partecipati dai suoi azionisti di riferimento; attraverso la creazione di agenzie di valutazione indipendenti dell’impatto ambientale, sociale e di governance dei singoli strumenti finanziari, i BRICS si propongono di creare uno strumento più trasparente, basato su una definizione condivisa dei parametri e degli obiettivi e che sia utile per combattere il greenwashing e far arrivare i capitali laddove servono sul serio, tenendo conto anche delle specificità dei percorsi di ogni singolo Paese e, quindi, restituendo un’idea realistica e pragmatica degli obiettivi di sostenibilità che i singoli Paesi possono davvero perseguire senza cadere in rovina per fare contenti gli elettori di Annalena Baerbock e dei suoi amici eco-imperialisti. Vista la portata della sfida della transizione ecologica, però, avere enti di valutazione indipendenti più trasparenti e razionali di sicuro non basta; serve anche mobilitare investimenti pubblici in grado, poi, di sfruttare la finanza privata come moltiplicatore: ed ecco qui che entra in gioco un altro tassello fondamentale della proposta dei BRICS, la New Development Bank, la banca di sviluppo multilaterale dei BRICS. La proposta sul tavolo è prima di tutto, banalmente, di aumentare considerevolmente la sua dotazione finanziaria e, per aumentarla, la proposta è quella di dotarla di quello che viene definito DIA, il BRICS Digital Investment Asset, cioè un asset digitale supportato, a sua volta, da asset fisici messi a disposizione dai singoli Paesi BRICS. Insomma: riassumendo il tutto, emanciparsi da un’architettura finanziaria costruita e consolidata nell’arco di decenni è un’operazione titanica; e chi fa annunci roboanti è un ciarlatano alla ricerca di seguaci in modalità setta e di like. Ciononostante, la parte economicamente più dinamica del pianeta – nonostante le millemila diversità – sembra essersi definitivamente coalizzata perlomeno su un aspetto, che è centrale: l’unipolarismo USA e la dittatura del dollaro non sono solo sistemi di dominio iniqui e ingiusti, ma sono anche – molto banalmente – arretrati e disfunzionali, storicamente inadeguati rispetto a un mondo che è già enormemente cambiato. E quando a chiedere il conto non è l’opinione di qualche avanguardia più o meno illuminata, ma la storia, te ti puoi inventare tutti i voli pindarici e i castelli in aria che ti pare, ma alla fine soccombi, che è il motivo per il quale, ormai, la propaganda suprematista – sia quella analfoliberale che quella analfosovranista – se vista con un po’ di distacco, non fa manco più incazzare: fa semplicemente ridere. Per orientarci nel nuovo mondo che cambia abbiamo bisogno di un media indipendente, ma di parte, che dia voce al 99%, compreso quello che vive nel Sud globale. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Ottoliner buongiorno e benvenuti a questo nuovo appuntamento delle cronache di fine impero; come molti di voi sapranno, nonostante il silenzio assordante del circo mediatico domani a Kazan avrà inizio quello che, con ogni probabilità, è l’evento di politica internazionale più importante dell’anno: il sedicesimo summit annuale dei BRICS (ormai ufficialmente BRICS+), probabilmente il più importante dalla loro fondazione nel 2009, subito dopo lo scoppio della grande crisi finanziaria causata dagli USA e pagata da tutto il resto del mondo. L’Occidente collettivo, infatti, che è ostaggio di una ristrettissima oligarchia finanziaria che deve il suo dominio all’imperialismo finanziario USA e alla dittatura globale del dollaro, ha già dichiarato la guerra totale al resto del mondo per ostacolare l’ineluttabile transizione a un nuovo ordine multipolare; e, dopo aver subito una clamorosa sconfitta nella prima battaglia sul fronte ucraino, è impegnato a sostenere la deflagrazione definitiva di un secondo fronte in Medio Oriente per salvare la faccia, destabilizzare il pianeta e ostacolare così, appunto, la crescita economia e industriale dei presunti avversari. Di fronte alle evidenti difficoltà del blocco occidentale, in molti (ovviamente intendo tra gli antimperialisti che, comunque, alle nostre latitudini sono una piccola minoranza, per quanto sempre più consistente), presi dall’entusiasmo, tifano per una resa dei conti definitiva che metta fine per sempre all’imperialismo a guida USA attraverso le armi e – sempre presi dall’entusiasmo – sono spinti a farsi un’immagine dei BRICS+ come di un blocco di Paesi coeso, pronto a guidare questa distruzione – via missili ipersonici – del Grande Satana. Purtroppo (o per fortuna) rischiano di rimanere delusi: ammesso e non concesso che alcuni dei BRICS+ auspichino davvero la resa dei conti definitiva via armi contro il dominio dell’Occidente collettivo, quello che possiamo dire con un discreto margine di certezza è che, di sicuro, non è una posizione condivisa e nemmeno maggioritaria; al contrario delle facilonerie massimaliste o delle puttanate sugli opposti imperialismi, le classi dirigenti dei Paesi BRICS+ non hanno niente a che vedere coi deliri fascistoidi sulla guerrasola igiene del mondo di marinettiana memoria, che è invece un patrimonio culturale che appartiene interamente ai battaglioni Azov e ai coloni israeliani. I Paesi BRICS+ vogliono la pace e la stabilità per continuare a intraprendere i loro rispettivi percorsi di crescita e riscatto nazionale: alcuni con un occhio di riguardo, in particolare, verso le loro classi popolari come la Cina, guidata dal più grande e organizzato partito comunista della storia; altri con un occhio di riguardo, in particolare, per le loro élite economiche e politiche come l’India e gli Emirati Arabi Uniti. Il punto è che, al contrario dei piddini e delle fazioni più radicali della sinistra ZTL, sanno benissimo (perché lo sperimentano sulla propria pelle in modo plateale da decenni) che l’architettura finanziaria internazionale esistente è stata costruita in modo dettagliato e certosino proprio per ostacolarne la crescita e per permettere a tutto l’Occidente – e, in particolare, agli USA e alle sue oligarchie – di appropriarsi del grosso della ricchezza del pianeta anche a costo di ostacolarne la crescita complessiva. L’obiettivo dei BRICS+, quindi, è quello di mettere insieme tutti i Paesi che – proprio a causa dell’architettura finanziaria globale attuale – vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza e delle loro prospettive di crescita, nel tentativo di costruire in modo collaborativo nuove istituzioni che permettano di emanciparsi dall’unipolarismo USA e dalla dittatura del dollaro. E non è ancora finita, perché – ovviamente – questo processo, per l’imperialismo USA e per le sue oligarchie, rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale al pari dei missili a medio raggio con testate atomiche in Ucraina per la Russia; e contro le minacce esistenziali, le grandi potenze – piaccia o non piaccia – reagiscono con ogni mezzo necessario, compreso il ricorso all’atomica, che è proprio quello che i BRICS+ vorrebbero in ogni modo evitare. Inoltre, sebbene il sistema finanziario attuale impedisca il pieno sviluppo delle economie nazionali, cionondimeno ha garantito ad alcune fazioni delle élite del Sud globale di partecipare, col ruolo di gregari, alla grande rapina globale impedendogli – sì – l’accesso alla stanza dei bottoni (che è prerogativa esclusiva delle oligarchie diretta emanazione di Washington e di Wall Street), ma comunque assicurandogli guadagni imponenti; il risultato che segue al combinato disposto di questi due elementi rischia (un’altra volta) di deludere così non solo chi spera che i BRICS+ dichiarino la guerra guerreggiata all’imperialismo USA, ma anche quelli che sperano che almeno gli dichiarino una vera e propria guerra economica. Fortunatamente, però, noi – che siamo moderati e pacifisti – ci accontentiamo di molto meno, e chi s’accontenta gode; e io, personalmente, nel leggere il documento ufficiale del ministero delle finanze e della Banca Centrale della Federazione russa, che mette nero su bianco la proposta concreta di riforma del sistema finanziario globale che sarà discussa durante il summit, ho goduto come un riccio. Il documento, infatti, è una prova da manuale di realismo politico e di concretezza: invece di porsi obiettivi roboanti spendibili in conferenza stampa (ma, sostanzialmente, velleitari), si pone obiettivi realistici in grado di trovare un ampio consenso non solo all’interno delle élite più filo-occidentali degli stessi BRICS+, ma – addirittura – in una parte consistente di élite occidentali vere e proprie, ma che, ciononostante, gradualmente, ma inesorabilmente, svuotano dall’interno l’imperialismo finanziario USA e la dittatura del dollaro. Ovviamente, come tutti i piani frutto della realpolitik, il punto starà nel valutare concretamente, passo dopo passo, come questo piano procede in mezzo alla complicata dialettica che metterà in moto; per questo, noi di Ottolina Tv insieme agli amici Giacomo Gabellini col suo canale Il Contesto, Davide Martinotti col suo canale Dazibao e Stefano Orsi con il suo canale personale, abbiamo deciso di unire le forze e, nei prossimi giorni – da martedì a giovedì, dalle 18 alle 20 -, trasmettere in contemporanea a reti unificate su tutti e tre i nostri canali due ore di approfondimento su quello che emergerà dal summit, nel tentativo di uscire dalle rappresentazioni macchiettistiche e propagandistiche tanto dell’informazione mainstream quanto della cosiddetta controinformazione che vive più di slogan e wishful thinking che di analisi rigorose. Prima di addentrarci in questa tre giorni, però, come Ottolina Tv, insieme a Gabriele Germani e ad Alessandro Bartoloni Saint Omer, abbiamo voluto fare una piccola introduzione for dummies che dia gli strumenti di base per poter giudicare in modo indipendente, ma informato, quello che avverrà nei prossimi giorni. E’ con estremo piacere, quindi, che vi presento questa piccola introduzione in 3 capitoli ai BRICS+ e allo storico summit di Kazan 2024.
Gabriele Buongiorno a tutti, Ottoliner: oggi, con l’avvicinarsi dell’evento dell’anno – il vertice dei BRICS a Kazan – vi presentiamo un pippone speciale; corale, direi. I BRICS nascono nel giugno del 2009 come un gruppo informale di area economica e politica tra quattro paesi: Brasile, Russia, India e Cina; a questi, dal 14 aprile del 2011, si è aggiunto il Sudafrica, passando da BRIC a BRICS, dove la esse è la lettera iniziale del paese africano; questi rappresentano oggi oltre il 40% della popolazione mondiale e il 25% del PIL globale. Il loro obiettivo principale? Creare un’alternativa concreta al sistema dominato dagli Stati Uniti d’America e dalle potenze occidentali, spesso visto come ingiusto e dannoso per molte nazioni in via di sviluppo. A differenza delle vecchie istituzioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, che hanno spesso imposto condizioni gravose ai paesi più poveri, i BRICS promuovono una cooperazione basata sul rispetto reciproco: hanno creato nel 2014 una propria banca, la New Development Bank, che finanzia progetti di sviluppo nei paesi emergenti senza le tipiche ingerenze politiche. Non parliamo solo di economia: i BRICS vogliono costruire un sistema internazionale più giusto. L’aspetto più affascinante dei BRICS è la loro visione di un mondo multipolare: in passato, gli Stati Uniti si sono spesso comportati come poliziotti del mondo intervenendo in ogni angolo del pianeta per difendere i propri interessi; ma i BRICS puntano a un ordine mondiale dove non esiste una sola superpotenza, ma tante nazioni che collaborano, ognuna con la propria voce e priorità. Nel corso degli anni, sempre più Stati hanno cominciato a guardare ai BRICS con rinnovato interesse; ad esempio, il primo gennaio del 2024 hanno aderito altri cinque paesi: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Arabia Saudita e Iran. Altri hanno presentato domanda di adesione negli ultimi mesi: questa estate hanno provveduto l’Azerbaigian (un fedele alleato occidentale), la Turchia, secondo esercito della NATO, ma anche Cuba, il Venezuela, il Nicaragua e la Palestina (con le dovute complicanze dovute alla guerra e all’occupazione israeliana). Da segnalare, al primo gennaio 2024, anche la non adesione al blocco dell’Argentina, dove il presidente Milei ha annullato l’ingresso del Paese al gruppo in poche settimane: ricordiamo che questa scelta arriva dopo alcune dichiarazioni (tanto roboanti quanto impossibili) in campagna elettorale sul “non commerciare con paesi comunisti” in cui includeva Cina e Brasile, membri BRICS e maggiori partner commerciali di Buenos Aires. Anche altri Stati si stanno avvicinando ai BRICS formalizzando richiesta di adesione o dando segnali di interessamento attraverso la partecipazione dei propri ministri degli esteri agli incontri del gruppo; tra gli altri Kazakistan, Venezuela, Nigeria, Indonesia, Thailandia e persino il vicino di casa per eccellenza di sua maestà laCasa Bianca: il Messico. Anche il Bangladesh, in passato, ha mostrato interesse per il gruppo, aderendo alla Nuova Banca di Sviluppo assieme all’Uruguay. Vediamo quindi sul mappamondo una mappa fatta di tanti Paesi coinvolti, a vario titolo e grado di interesse, nel progetto e persino una serie di dinamiche interne a questo blocco: mentre la Cina, la Russia e l’Iran sembrano costruire un blocco più contrapposto all’Occidente, dal carattere euro-asiatico e con un maggior ruolo politico del pubblico, la parte IBSA del gruppo (India, Brasile e Sud Africa) sembra più collegata al circuito finanziario e commerciale occidentale. I BRICS si delineano come i giganti della nuova era, l’era multipolare fatta di tanti vettori multifattoriali; i giganti della nuova era multipolare dove le alleanze, le convergenze e gli attriti si fanno e si disfano con estrema rapidità e sono determinati da una serie infinita di fattori.
Giuliano Così il nostro Gabriele riassume l’essenza degli Stati nazionali che si sono coalizzati nei BRICS+; ma perché mai questa cosa dovrebbe accendere l’entusiasmo nel cuore ferito di un sincero democratico e di chi sta dalla parte dei diritti violati degli oppressi? Molti di questi Paesi non sono – essi stessi – caratterizzati da logiche di sopraffazione, di sfruttamento e di mancanza di democrazia? Spesso addirittura più violente di quelle alle quali assistiamo nei Paesi del mondo occidentale che tanto disprezzate? Sono questi, legittimamente, i dubbi più frequenti tra chi – venendo da una tradizione più o meno progressista, democratica (se non addirittura socialista e comunista) – si confronta con le nostre analisi e i nostri contenuti; ma rischiano di essere dubbi un po’ del cazzo: il punto è che il trionfo dell’ideologia (se non addirittura dell’antropologia) neo-liberale ha svuotato queste grandi famiglie politichedell’Occidente sviluppato di ogni capacità di analisi strutturale della realtà lasciando spazio al gossip, alle narrazioni e al moralismo. La realtà, quindi, non è più una complicata sequenza di cause ed effetti con delle gerarchie (più o meno) precise, ma un insieme indistinto di fatti scollegati tra loro ai quali applicare il proprio giudizio morale che, ovviamente, come tutto il resto, non è frutto di storia e rapporti materiali, ma astratto e atemporale. Assoluto. Dopo 75 anni di apartheid la resistenza palestinese opta per un’operazione eclatante di ferocia inaudita? Eh, ma non si fa! Dopo 20 anni di offensiva espansionista della NATO la Federazione russa reagisce con una drammatica operazione militare? Oh mio dio, contessa! Sono avvivati i bavbavi! Dopo aver constatato il fallimento del panarabismo laico e socialista, il movimento anti-coloniale dell’Asia occidentale ripiega sull’Islam come mezzo per far risorgere la lotta di liberazione? Oh my god! Questa non è davvero la nostra resistenza! Movimenti popolari del Sud globale, nati con le migliori intenzioni, invece si trasformano, per impotenza, in ancelle dell’imperialismo a guida USA? Eh, ma son ragazzi. Vanno capiti. Loro sì che rispettano i diritti delle donne (o, almeno, di quelle che non muoiono sotto le bombe degli alleati). Il punto è che il mondo è fatto, anche se non esclusivamente, di rapporti materiali e oggi il rapporto materiale al quale tutti gli altri sono subordinati si chiama – o, almeno, così è come lo definiamo noi – superimperialismo e, cioè, la fase matura dell’imperialismo finanziario incentrato su Washington e su Wall Street che impone vincoli, limiti e ostacoli a tutto il resto del pianeta; e l’aspetto fondamentale di questo sistema è l’unipolarismo USA e, cioè, la capacità degli USA di imporre (grazie alle istituzioni finanziarie globali e al dominio militare) gli interessi delle sue oligarchie al di sopra di tutto. Ma nonostante questo sistema abbia imposto negli ultimi 50 anni un prezzo insostenibile sul 99% dell’umanità, la capacità di opporvisi – in particolare da parte delle masse popolari dell’Occidente collettivo – è stata sostanzialmente pari a zero; anche nei rari momenti di reale mobilitazione di massa come, ad esempio, durante l’entusiasmante parentesi del movimento dei movimenti o, ancora, con l’opposizione globale all’invasione criminale dell’Iraq e, di nuovo, con il possente movimento nato in seguito alla grande crisi finanziaria del 2008, le oligarchie statunitensi non solo hanno continuato a fare beatamente cosa stracazzo gli pareva, ma – anzi – hanno colto l’occasione per accelerare il passo della loro colossale rapina. E i Paesi del Sud del mondo che hanno tentato di ribellarsi – dal Venezuela all’Iran – hanno costretto le loro popolazioni a subire conseguenze disastrose; il motivo è molto semplice: non esisteva un’alternativa. Il superimperialismo aveva prosciugato alla fonte il fiume carsico che alimentava i conflitti e li nutriva al punto da poter ambire a cambiare concretamente i rapporti di forza materiali; l’affermazione di un organismo multilaterale dei Paesi del Sud globale costretti a pagare il conto degli USA, come quello dei BRICS+, rappresenta oggettivamente un potenziale gigantesco fattore di progresso principalmente per questo motivo: mette fine alla lunga era del There is no alternative, come ci racconta il nostro buon Alessandro.
Alessandro There is alternative! In tanti, in questi anni, si erano disperati, sicuri che per tutta la loro vita non avrebbero mai sentito queste parole, sicuri che la globalizzazione finanziaria americana sarebbe stato il destino inemendabile del pianeta e che il capitalismo oligarchico su base mondiale, dopo la sconfitta del comunismo storico, era rimasto senza alternative credibili. E invece no: There is alternative; è questa la buona novella che Ottolina Tv è venuta a portare a intere generazioni di socialisti e anti-capitalisti cresciuti a pane, rassegnazione e Mark Fisher (il quale, detto tra parentesi, oggi scriverebbe tutto un altro libro). Il lavoro da fare è ancora lungo: a causa di decenni (per non dire millenni) di suprematismo culturale che ha riguardato più o meno tutte le culture politiche e che non riusciamo a scrollarci di dosso, facciamo molta fatica ad accettare che gli attuali processi rivoluzionari e di emancipazione non nascano all’interno della cultura occidentale, ma da paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America. Ma come!? Il fronte più avanzato della lotta al capitalismo predatorio e all’imperialismo armato americano è guidato da Xi Jinping? Ma non dovevano guidarlo Carola Rackete e Nicola Fratoianni? Ma dopo aver subito passivi 40 anni di neoliberismo, invece che stare con il ditino alzato a rimproverare quello e quell’altro movimento di resistenza nazionale di non essere abbastanza raffinato e illuminato, dovremmo osservare, rispettare e, soprattutto, imparare non solo come oggi, nel 2024, si fa resistenza alla finanziarizzazione e all’imperialismo, ma soprattutto come si vince. Sì, perché è questa la seconda buona novella che abbiamo il dovere di diffondere nelle disilluse, depresse e sempre più povere popolazioni europee e, cioè, che l’alternativa non solo esiste e lotta insieme a noi, ma sta anche vincendo. E nello sconcerto dei Rampini e dei Vittorio Emanuele Parsi di tutto il mondo, il gruppo di Paesi che si ritroverà a Kazan questa settimana non lo farà per scambiarsi nuove ricette sul come cucinare bambini, ma per continuare a forgiare il mondo nuovo: è questo il punto di partenza fondamentale per capire tutto quello che sta avvenendo oggi nel mondo, dalla nostra crisi economica – a partire dai 3 fronti principali della guerra. E allora veniamo a noi, a noi abitanti – un tempo sazi e opulenti – delle provincie occidentali dell’Impero; inutile dire che una classe dirigente capace (o anche solo veramente intenzionata) di fare gli interessi delle nazioni europee e della loro alleanza, in questi ultimi 30 anni si sarebbe comportata in maniera diametralmente opposta a come ha fatto: avrebbe preso atto dell’emergere di nuove potenze mondiali che avrebbe spostato l’asse economico e politico del mondo e avrebbe fatto leva su queste potenze per emanciparsi gradualmente dall’occupante americano, riconquistando – passo dopo passo – la sovranità perduta ormai 80 anni fa. In fondo, è nel naturale interesse del nostro Paese e del nostro continente avere ottimi rapporti politici e commerciali con tutte le grandi potenze – dalla Russia alla Cina, dall’India agli Stati Uniti -, nonché condizione indispensabile per essere, a nostra volta, un polo politico che conta e non le colonie di qualcun altro, sacrificabili all’occorrenza. In verità, ancora oggi (esercitandoci ancora in un po’ di dolce wishful thinking) un Paese come l’Italia avrebbe tutte le caratteristiche e le carte in regola per cominciare questo processo e per farsi promotrice degli interessi europei nel mondo, sviluppando progetti di cooperazione economica, finanziaria e culturale win-win con il Sud globale; e già da domani potrebbe decidere di rientrare nelle Vie della Seta, entrare nel capitale azionario e attingere nuovi fondi di investimento nella banca principale dei BRICS (la celebre New Development Bank, che sarà protagonista del percorso di dedollarizzazione), aumentare l’export della manifattura italiana nel Sud globale, farsi promotrice degli interessi italiani ed europei nell’area del Sahel (dove non siamo mal visti come i francesi), porsi come Paese mediatore in Medio Oriente e in Ucraina etc etc etc. Insomma: le cose che qualunque italiano medio troverebbe assolutamente naturali e razionali e che (proprio per questo) non vengono fatte, avendo una classe dirigente collaborazionista molto più determinata ad eseguire gli ordini di Washington che non a pensare all’interesse nazionale e continentale. Ma tant’è; illuderci che la riscossa possa arrivare dall’alto sarebbe un peccato mortale. Solo il 99%, in solidarietà con le lotte per la sovranità nazionale dei Paesi del mondo e con il loro tentativo di sbarazzarsi delle loro oligarchie predatorie, potrà riprendere in mano il proprio destino e dimostrare che il famoso tramonto dell’Europa, di cui tanti pseudo intellettuali si riempiono la bocca, è pura letteratura fantasy. Per rendere tutto questo possibile e per tornare anche noi a vincere, abbiamo però bisogno di un media non controllato dalle oligarchie politiche collaborazioniste e dalle loro aziende; un media che racconti il mondo per come è e non per come gli analfoliberali vorrebbero che fosse; un media schierato dalla parte dell’Italia, dell’Europa, dei BRICS e del 99%, contro ogni imperialismo e predazione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal (e chi non aderisce è Paolo Flores d’Arcais).
Giuliano “Illuderci che la riscossa possa arrivare dall’alto” sottolinea Alessandro “sarebbe un peccato mortale”: è quello che intendiamo quando parliamo di riscossa multipopolare e, cioè, un mix tra multipolare e popolare; la transizione verso un nuovo ordine multipolare è la dinamica principale della fase storica che stiamo attraversando e rappresenta una gigantesca opportunità che, per essere colta, deve essere riempita di contenuti dal ritorno del protagonismo delle masse popolari, sia nel Sud che nel Nord del pianeta. In cosa consista la proposta concreta che, dopo 16 lunghi anni di vita, i BRICS+ metteranno sul tavolo – a partire da domani – proprio per dare una base materiale tangibile a questa transizione a un nuovo ordine multipolare (soprattutto dal punto di vista finanziario) lo approfondiremo meglio in un altro pippone ad hoc domani; oggi qui, per chiudere questo lungo video, ci limitiamo ad elencare gli aspetti fondamentali che il rapporto preparato dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale russa ha elencato come principali distorsioni del sistema unipolare fondato sulla dittatura del dollaro, in cui siamo ancora immersi, e a fare un paio di valutazioni sul significato politico generale di questo tipo di lettura. Il primo aspetto da sottolineare è che l’intero rapporto, ancor prima degli aspetti di iniquità dell’architettura finanziaria globale attuale, punta in realtà a sottolineare le sue disfunzionalità e la sua sostanziale insostenibilità dal punto di vista proprio dell’accumulazione capitalistica: il rapporto, infatti, sottolinea come la quota degli scambi commerciali tra economie emergenti rispetto al totale globale è passata dal 10% di 30 anni fa al 26% attuale, ed è previsto che raggiunga il 32% entro il 2032
e, cioè, appena 5 punti in meno rispetto allo scambio commerciale tra economie sviluppate; ciononostante, si continua in tutti i modi a cercare di tenere in vita il ricorso al dollaro come valuta standard per il commercio internazionale e questo ostacola in modo spropositato gli investimenti transfrontalieri tra i Paesi in via di sviluppo. Nonostante il ruolo di primissimo piano raggiunto nel commercio globale, infatti, solo l’11% degli investimenti globali sono investimenti che le economie emergenti fanno in altre economie emergenti; il grosso, invece, continua ad essere drenato dalle economie più sviluppate e ovviamente, in particolare, verso i mercati finanziari USA che, invece che contribuire alla crescita della produzione di ricchezza globale, la affossano: questo, però, il rapporto (volutamente) non lo dice. L’obiettivo non è fare la morale alle élite economiche del Sud globale che impoveriscono i loro Paesi per fare fortuna a Wall Street, ma sottolineare come – nonostante, così, facciano un sacco di soldi – alla fine questo meccanismo non è sostenibile; e ci sono, invece, altre possibilità molto più sostenibili di fare altrettanti soldi senza continuare a impoverire il Sud del mondo a vantaggio del Nord. Quello che infatti, invece, il rapporto sottolinea in modo molto accurato è che molti dei loro soldi che abbandonano il Sud globale per cercare remunerazioni migliori, in realtà, alla fine sono costretti ad accontentarsi dei titoli del tesoro statunitense che negli ultimi 10 anni – in media – hanno avuto remunerazioni più basse addirittura dell’inflazione; e quindi, invece che arricchirli, li hanno impoveriti, mentre a casa c’erano migliaia e migliaia di opportunità di fare soldi attraverso l’economia reale che, però, non venivano sfruttate perché mancavano capitali adeguati. La distorsione attuale, ovviamente – sottolinea il rapporto – è dovuta al monopolio del dollaro e degli USA sulle istituzioni finanziarie globali, che a lungo è stato accettato supinamente perché si pensava che il mercato globale, per funzionare, avesse necessariamente bisogno di una valuta di riserva globale e che questa (ovviamente) non potesse che essere quella della potenza egemone; ma secondo il rapporto questa necessità oggi non esiste più: “La ricerca universale di una valuta mondiale è stata una conseguenza dell’asimmetria informativa globale, che era uno stato naturale per gli operatori commerciali che non avevano mezzi efficaci per comunicare tra loro su scala mondiale in tempo reale. Pertanto, fare affidamento su un unico mezzo di scambio accettato universalmente era il modo più sicuro e prevedibile di condurre affari”. Ora però, continua il rapporto, “l’asimmetria informativa è quasi scomparsa: i partecipanti sono in grado di elaborare in modo efficace i prezzi di ogni merce in ogni valuta in tempo reale” e quindi “la necessità di una moneta mondiale sta scomparendo”. Come si articola la proposta concreta per sostituire un sistema incentrato su un’unica valuta – universalmente riconosciuta come la valuta di riserva globale – con un nuovo sistema multipolare anche dal punto di vista valutario, lo approfondiremo domani; quello che qui volevo sottolineare, prima di salutarci, è come il rapporto, mentre sottolinea come gli squilibri attuali sono destinati a mettere definitivamente a repentaglio la stabilità finanziaria globale, dall’altra fa di tutto per rassicurare le oligarchie globali che con la transizione a un ordine multipolare, anche dal punto di vista valutario le occasioni per arricchirsi non solo non diminuirebbero, ma (paradossalmente) potrebbero anche aumentare: secondo il rapporto, infatti, alcuni Paesi (e, ovviamente, il riferimento qui, in particolare, è alla Cina) oggi pongono degli ostacoli alla libera circolazione dei capitali – e quindi alle opportunità di valorizzazione del capitale – proprio perché oggi aprirsi alla libera circolazione dei capitali significa assecondare questa gigantesco drenaggio di risorse da parte di una parte del mondo contro un’altra. Se, invece, si creasse un’architettura finanziaria che non si va a sostituire a quella attuale, ma ad aggiungere, rompendo questa condizione di monopolio, i Paesi come la Cina sarebbero incentivati a liberalizzare di più il loro mercato dei capitali perché non sarebbe di per se un suicidio, o un regalo; ma non solo: a questo punto, liberalizzare i mercati per i Paesi più restii diventerebbe una necessità, perché se vogliono che le loro valute diventino valute utilizzate negli scambi internazionali, hanno bisogno di garantirne la stabilità e la stabilità la si garantisce, appunto, liberalizzando, che sostanzialmente significa dare garanzie che il governo non può manipolare l’andamento della valuta a suo piacere, a seconda dei suoi obiettivi di politica economica. La liberalizzazione del mercato dei capitali delle grandi economie emergenti – e, in particolare, della Cina – è da sempre il sogno del grande capitale internazionale: quando leggete tutte quelle puttanate su Xi Jinping autocrate che ha impresso un’ulteriore svolta totalitaria al Paese alla quale abboccano, immancabilmente, anche le fazioni più sinistrate dell’analfoliberalismo, in realtà è la finanza occidentale che si lamenta perché Xi, invece di aprirsi all’assalto dei capitali stranieri, ha aumentato il livello di controllo sovrano sui flussi finanziari; e la promessa di una maggiore liberalizzazione dei flussi di capitali non è l’unico ramoscello d’ulivo che la feroce federazione russa porge alle oligarchie occidentali. Buona parte del rapporto, infatti, è dedicata a promuovere le gigantesche opportunità di guadagno che si aprirebbero per i capitali di tutto il mondo in termini di partnership pubblico-privato grazie a un sistema finanziario più democratico: è esattamente il meccanismo del derisking finanziario che abbiamo denunciato milioni di volte, lo Stato sovrano che si mette a disposizione dell’accumulazione capitalistica garantendo, grazie all’utilizzo spregiudicato del monopolio della forza entro i suoi confini nazionali, una remunerazione adeguata dei capitali, in particolare – udite udite – per quanto riguarda proprio gli enormi investimenti necessari per portare avanti la transizione ecologica, che i funzionari di Putin definiscono – senza se e senza ma – esistenziale. Insomma: per rimanere al linguaggio forbito che gli amici dell’alt right hanno contribuito a far diventare senso comune nel mondo del dissenso de noantri, Putin è diventato gretino e servo di Karl Schwab e di Larry Fink (e, giudizio personale, ha fatto anche parecchio, ma parecchio bene). Frequentare zio Xi, evidentemente, gli ha fatto bene: la Cina, infatti, da Paese del terzo mondo, nell’arco di 40 anni è diventata l’unica vera superpotenza manifatturiera del globo esattamente facendo fare un sacco di soldi ai più spregiudicati tra gli ultra-ricchi statunitensi. E non solo: ha fatto leva sul fatto che il capitale (come insegnava quel barbuto di Treviri) non è particolarmente lungimirante; è guidato dall’ingordigia e dalla voracità, e quando si tratta di pianificare è abbastanza scarsino. La Cina, così, l’ha attirato come il miele garantendogli la possibilità di fare una quantità di quattrini spropositata, solo che, mentre li faceva arricchire, invece che diventare sempre più simile e dipendente dall’Occidente (come avevano previsto le oligarchie occidentali), sfruttava quei capitali per seguire una sua via sovrana allo sviluppo e diventare sempre più indipendente. Insomma: una volta tanto, a usare la cara vecchia strategia del divide et impera non era il centro imperiale, ma una ex colonia che lottava per portare a termine la sua guerra di liberazione nazionale. Ecco: l’impressione chiara che si ha leggendo il lungo rapporto del ministero delle finanze e della Banca Centrale della Federazione russa è che abbiano imparato la lezione; ora – sia chiaro – tra il dire e il fare c’è di mezzo e il e questa partita non è complessa: di più. Ma se siamo i primi a sottolineare sempre che la terza guerra mondiale è già scoppiata e che le guerre mondiali finiscono solo quando qualcuno perde, bene: se c’è ancora una remota ipotesi che ci si possa fermare prima che sia troppo tardi forse sta proprio qui; o meglio qui, in questo documento, insieme ai Kinzhal in Ucraina, alla supremazia navale cinese a Taiwan e ai missili balistici iraniani. Il segnale che le potenze emergenti del Sud globale hanno inviato manu militari dai tre fronti, infatti, è che la guerra convenzionale l’imperialismo a guida USA non la può vincere; ciononostante, anche se non la puoi vincere, quando la guerra rimane l’unica possibilità che hai per non soccombere, quella rimane la via. A meno che, appunto, alle tue oligarchie non venga offerto un ramoscello d’ulivo così consistente da convincerle che tutto sommato, nel medio termine, anche durante questa fantomatica transizione a un nuovo ordine multipolare occasioni per continuare a fare una quantità spropositata di quattrini non mancano, anzi! Poi domani si vedrà, tanto le oligarchie – nonostante i tappeti rossi che gli stende la propaganda – qualche limite cognitivo ce l’hanno eccome, proprio come classe sociale; e a pensare a domani fanno abbastanza fatica, come insegna il caso cinese. Ad aiutarle a non capire una seganiente delle conseguenze delle loro azioni – va ammesso – dà un bel contributo anche l’informazione mainstream, ormai interamente trasformata in propaganda autoreferenziale, come sempre accade quando gli imperi volgono verso il declino; un lusso che, però, noi non ci possiamo permettere perché questa gigantesca trasformazione rappresenta senz’altro un’occasione. Ma le occasioni vanno anche sapute sfruttare e, per sfruttarle, abbiamo bisogno di organizzarci; e, per organizzarci, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che guardi il mondo dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Analisi militare del fronte principale della terza guerra mondiale a pezzi: il fronte del Pacifico. Questa settimana è andata in scena una vasta esercitazione militare di Pechino che ha simulato un blocco navale e un isolamento dell’isola indipendentista. L’analista militare Davide Montingelli ci ha mostrato con le sue mappe e grafiche quali sono le forze in campo e quali strategie la Cina potrebbe adottare per costringere Taiwan alla resa. Quando scoppierà definitivamente la guerra anche su quel fronte? E fino a che punto gli Stati Uniti sono disposti a spingersi pur di non perdere il punto più avanzato del proprio imperialismo nel Pacifico?
I recenti cambiamenti di governo in Afghanistan, Maldive e Nepal hanno eroso in modo significativo l’influenza dell’India nella sua stessa regione e, a questo, si è aggiunto il tumulto in Bangladesh, le elezioni in Sri Lanka e alcune notizie in riferimento al Pakistan. Questo effetto domino è iniziato nel 2021 ed è proseguito negli ultimi 3 anni. Ultimamente alcune voci parlano nella possibilità che il Pakistan avrebbe concesso alla Cina una base militare navale nel porto di Gwadar. Ne parliamo in questo video!