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Tag: occidente

Brogli in Moldavia? Maia Sandu vince grazie all’ estero – ft. Stefano Orsi

In Moldavia il voto dall’estero ribalta le elezioni e porta al trionfo Maia Sandu contro Alexandr Stoianoglo, l’ex procuratore generale considerato filorusso perché appoggiato dal partito socialista. Una vittoria attesa, così come era atteso il ribaltone: Stoianoglo ne esce sconfitto nonostante il vantaggio di voti in tutte le regioni moldave. L’esito è stato immediatamente applaudito dai leader occidentali – a cominciare da Macron – che non si risparmiano una frecciata sui presunti brogli russi. Tuttavia i fatti, per quello che sono, mostrano un Paese spaccato a metà dalle profonde ingerenze esterne (palesi nel caso dell’Occidente) che lo hanno posto su un percorso del tutto identico a quello dell’Ucraina. Ne parliamo con Stefano Orsi.

Emmanuel Todd – Ecco come gli USA spiano e ricattano le nostre classi dirigenti

Il più importante intellettuale francese, Emmanuel Todd, ci ha  rilasciato un’intervista in esclusiva per parlare del suo ultimo libro pubblicato in Italia da Fazi editore La sconfitta dell’Occidente. A partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, ci ha detto Todd, gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo e, da allora, l’obiettivo principale è stato quello di rafforzare il controllo sugli alleati: dall’Europa occidentale al Giappone, passando per la Corea del Sud e Taiwan. Dopo anni di tentato disaccoppiamento dall’economia cinese, infatti, gli USA importano ormai più dagli alleati vassalli che non dalla Cina e, ancor più che per i beni materiali, per i capitali che sostengono la loro finanza via paradisi fiscali. La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende quindi tutta dal controllo dei propri vassalli ed è per questo che, dal punto di vista statunitense, la guerra in Ucraina deve continuare, per aumentare il controllo politico sull’Europa occidentale e continuare a spolpare le nostre economie. La pace alle condizioni imposte dai russi invece, sostiene Todd, significherebbe una tale caduta di prestigio per gli USA che accelererebbe il declino del dollaro e, quindi, della loro capacità di vivere del lavoro complessivo del resto pianeta. Tutto questo ci porta ad affermare che, in questo momento, a mancare non sono le buone intenzioni, ma proprio le condizioni strutturali della pace. O, se preferite, le condizioni strutturali per evitare la terza guerra mondiale. Detto ciò, per quanto possa sembrare paradossale, nulla è ancora deciso perché esiste una grande incognita… e quell’incognita siamo noi.

Perché il vertice BRICS di Kazan è l’ultima speranza che abbiamo per evitare la terza guerra mondiale

Ottoliner buongiorno e benvenuti a questo nuovo appuntamento delle cronache di fine impero; come molti di voi sapranno, nonostante il silenzio assordante del circo mediatico domani a Kazan avrà inizio quello che, con ogni probabilità, è l’evento di politica internazionale più importante dell’anno: il sedicesimo summit annuale dei BRICS (ormai ufficialmente BRICS+), probabilmente il più importante dalla loro fondazione nel 2009, subito dopo lo scoppio della grande crisi finanziaria causata dagli USA e pagata da tutto il resto del mondo. L’Occidente collettivo, infatti, che è ostaggio di una ristrettissima oligarchia finanziaria che deve il suo dominio all’imperialismo finanziario USA e alla dittatura globale del dollaro, ha già dichiarato la guerra totale al resto del mondo per ostacolare l’ineluttabile transizione a un nuovo ordine multipolare; e, dopo aver subito una clamorosa sconfitta nella prima battaglia sul fronte ucraino, è impegnato a sostenere la deflagrazione definitiva di un secondo fronte in Medio Oriente per salvare la faccia, destabilizzare il pianeta e ostacolare così, appunto, la crescita economia e industriale dei presunti avversari. Di fronte alle evidenti difficoltà del blocco occidentale, in molti (ovviamente intendo tra gli antimperialisti che, comunque, alle nostre latitudini sono una piccola minoranza, per quanto sempre più consistente), presi dall’entusiasmo, tifano per una resa dei conti definitiva che metta fine per sempre all’imperialismo a guida USA attraverso le armi e – sempre presi dall’entusiasmo – sono spinti a farsi un’immagine dei BRICS+ come di un blocco di Paesi coeso, pronto a guidare questa distruzione – via missili ipersonici – del Grande Satana. Purtroppo (o per fortuna) rischiano di rimanere delusi: ammesso e non concesso che alcuni dei BRICS+ auspichino davvero la resa dei conti definitiva via armi contro il dominio dell’Occidente collettivo, quello che possiamo dire con un discreto margine di certezza è che, di sicuro, non è una posizione condivisa e nemmeno maggioritaria; al contrario delle facilonerie massimaliste o delle puttanate sugli opposti imperialismi, le classi dirigenti dei Paesi BRICS+ non hanno niente a che vedere coi deliri fascistoidi sulla guerra sola igiene del mondo di marinettiana memoria, che è invece un patrimonio culturale che appartiene interamente ai battaglioni Azov e ai coloni israeliani. I Paesi BRICS+ vogliono la pace e la stabilità per continuare a intraprendere i loro rispettivi percorsi di crescita e riscatto nazionale: alcuni con un occhio di riguardo, in particolare, verso le loro classi popolari come la Cina, guidata dal più grande e organizzato partito comunista della storia; altri con un occhio di riguardo, in particolare, per le loro élite economiche e politiche come l’India e gli Emirati Arabi Uniti. Il punto è che, al contrario dei piddini e delle fazioni più radicali della sinistra ZTL, sanno benissimo (perché lo sperimentano sulla propria pelle in modo plateale da decenni) che l’architettura finanziaria internazionale esistente è stata costruita in modo dettagliato e certosino proprio per ostacolarne la crescita e per permettere a tutto l’Occidente – e, in particolare, agli USA e alle sue oligarchie – di appropriarsi del grosso della ricchezza del pianeta anche a costo di ostacolarne la crescita complessiva. L’obiettivo dei BRICS+, quindi, è quello di mettere insieme tutti i Paesi che – proprio a causa dell’architettura finanziaria globale attuale – vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza e delle loro prospettive di crescita, nel tentativo di costruire in modo collaborativo nuove istituzioni che permettano di emanciparsi dall’unipolarismo USA e dalla dittatura del dollaro.
E non è ancora finita, perché – ovviamente – questo processo, per l’imperialismo USA e per le sue oligarchie, rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale al pari dei missili a medio raggio con testate atomiche in Ucraina per la Russia; e contro le minacce esistenziali, le grandi potenze – piaccia o non piaccia – reagiscono con ogni mezzo necessario, compreso il ricorso all’atomica, che è proprio quello che i BRICS+ vorrebbero in ogni modo evitare. Inoltre, sebbene il sistema finanziario attuale impedisca il pieno sviluppo delle economie nazionali, cionondimeno ha garantito ad alcune fazioni delle élite del Sud globale di partecipare, col ruolo di gregari, alla grande rapina globale impedendogli – sì – l’accesso alla stanza dei bottoni (che è prerogativa esclusiva delle oligarchie diretta emanazione di Washington e di Wall Street), ma comunque assicurandogli guadagni imponenti; il risultato che segue al combinato disposto di questi due elementi rischia (un’altra volta) di deludere così non solo chi spera che i BRICS+ dichiarino la guerra guerreggiata all’imperialismo USA, ma anche quelli che sperano che almeno gli dichiarino una vera e propria guerra economica. Fortunatamente, però, noi – che siamo moderati e pacifisti – ci accontentiamo di molto meno, e chi s’accontenta gode; e io, personalmente, nel leggere il documento ufficiale del ministero delle finanze e della Banca Centrale della Federazione russa, che mette nero su bianco la proposta concreta di riforma del sistema finanziario globale che sarà discussa durante il summit, ho goduto come un riccio. Il documento, infatti, è una prova da manuale di realismo politico e di concretezza: invece di porsi obiettivi roboanti spendibili in conferenza stampa (ma, sostanzialmente, velleitari), si pone obiettivi realistici in grado di trovare un ampio consenso non solo all’interno delle élite più filo-occidentali degli stessi BRICS+, ma – addirittura – in una parte consistente di élite occidentali vere e proprie, ma che, ciononostante, gradualmente, ma inesorabilmente, svuotano dall’interno l’imperialismo finanziario USA e la dittatura del dollaro. Ovviamente, come tutti i piani frutto della realpolitik, il punto starà nel valutare concretamente, passo dopo passo, come questo piano procede in mezzo alla complicata dialettica che metterà in moto; per questo, noi di Ottolina Tv insieme agli amici Giacomo Gabellini col suo canale Il Contesto, Davide Martinotti col suo canale Dazibao e Stefano Orsi con il suo canale personale, abbiamo deciso di unire le forze e, nei prossimi giorni – da martedì a giovedì, dalle 18 alle 20 -, trasmettere in contemporanea a reti unificate su tutti e tre i nostri canali due ore di approfondimento su quello che emergerà dal summit, nel tentativo di uscire dalle rappresentazioni macchiettistiche e propagandistiche tanto dell’informazione mainstream quanto della cosiddetta controinformazione che vive più di slogan e wishful thinking che di analisi rigorose.
Prima di addentrarci in questa tre giorni, però, come Ottolina Tv, insieme a Gabriele Germani e ad Alessandro Bartoloni Saint Omer, abbiamo voluto fare una piccola introduzione for dummies che dia gli strumenti di base per poter giudicare in modo indipendente, ma informato, quello che avverrà nei prossimi giorni. E’ con estremo piacere, quindi, che vi presento questa piccola introduzione in 3 capitoli ai BRICS+ e allo storico summit di Kazan 2024.

Gabriele
Buongiorno a tutti, Ottoliner: oggi, con l’avvicinarsi dell’evento dell’anno – il vertice dei BRICS a Kazan – vi presentiamo un pippone speciale; corale, direi. I BRICS nascono nel giugno del 2009 come un gruppo informale di area economica e politica tra quattro paesi: Brasile, Russia, India e Cina; a questi, dal 14 aprile del 2011, si è aggiunto il Sudafrica, passando da BRIC a BRICS, dove la esse è la lettera iniziale del paese africano; questi rappresentano oggi oltre il 40% della popolazione mondiale e il 25% del PIL globale. Il loro obiettivo principale? Creare un’alternativa concreta al sistema dominato dagli Stati Uniti d’America e dalle potenze occidentali, spesso visto come ingiusto e dannoso per molte nazioni in via di sviluppo. A differenza delle vecchie istituzioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, che hanno spesso imposto condizioni gravose ai paesi più poveri, i BRICS promuovono una cooperazione basata sul rispetto reciproco: hanno creato nel 2014 una propria banca, la New Development Bank, che finanzia progetti di sviluppo nei paesi emergenti senza le tipiche ingerenze politiche. Non parliamo solo di economia: i BRICS vogliono costruire un sistema internazionale più giusto. L’aspetto più affascinante dei BRICS è la loro visione di un mondo multipolare: in passato, gli Stati Uniti si sono spesso comportati come poliziotti del mondo intervenendo in ogni angolo del pianeta per difendere i propri interessi; ma i BRICS puntano a un ordine mondiale dove non esiste una sola superpotenza, ma tante nazioni che collaborano, ognuna con la propria voce e priorità.
Nel corso degli anni, sempre più Stati hanno cominciato a guardare ai BRICS con rinnovato interesse; ad esempio, il primo gennaio del 2024 hanno aderito altri cinque paesi: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Arabia Saudita e Iran. Altri hanno presentato domanda di adesione negli ultimi mesi: questa estate hanno provveduto l’Azerbaigian (un fedele alleato occidentale), la Turchia, secondo esercito della NATO, ma anche Cuba, il Venezuela, il Nicaragua e la Palestina (con le dovute complicanze dovute alla guerra e all’occupazione israeliana). Da segnalare, al primo gennaio 2024, anche la non adesione al blocco dell’Argentina, dove il presidente Milei ha annullato l’ingresso del Paese al gruppo in poche settimane: ricordiamo che questa scelta arriva dopo alcune dichiarazioni (tanto roboanti quanto impossibili) in campagna elettorale sul “non commerciare con paesi comunisti” in cui includeva Cina e Brasile, membri BRICS e maggiori partner commerciali di Buenos Aires. Anche altri Stati si stanno avvicinando ai BRICS formalizzando richiesta di adesione o dando segnali di interessamento attraverso la partecipazione dei propri ministri degli esteri agli incontri del gruppo; tra gli altri Kazakistan, Venezuela, Nigeria, Indonesia, Thailandia e persino il vicino di casa per eccellenza di sua maestà la Casa Bianca: il Messico. Anche il Bangladesh, in passato, ha mostrato interesse per il gruppo, aderendo alla Nuova Banca di Sviluppo assieme all’Uruguay.
Vediamo quindi sul mappamondo una mappa fatta di tanti Paesi coinvolti, a vario titolo e grado di interesse, nel progetto e persino una serie di dinamiche interne a questo blocco: mentre la Cina, la Russia e l’Iran sembrano costruire un blocco più contrapposto all’Occidente, dal carattere euro-asiatico e con un maggior ruolo politico del pubblico, la parte IBSA del gruppo (India, Brasile e Sud Africa) sembra più collegata al circuito finanziario e commerciale occidentale. I BRICS si delineano come i giganti della nuova era, l’era multipolare fatta di tanti vettori multifattoriali; i giganti della nuova era multipolare dove le alleanze, le convergenze e gli attriti si fanno e si disfano con estrema rapidità e sono determinati da una serie infinita di fattori.

Giuliano
Così il nostro Gabriele riassume l’essenza degli Stati nazionali che si sono coalizzati nei BRICS+; ma perché mai questa cosa dovrebbe accendere l’entusiasmo nel cuore ferito di un sincero democratico e di chi sta dalla parte dei diritti violati degli oppressi? Molti di questi Paesi non sono – essi stessi – caratterizzati da logiche di sopraffazione, di sfruttamento e di mancanza di democrazia? Spesso addirittura più violente di quelle alle quali assistiamo nei Paesi del mondo occidentale che tanto disprezzate? Sono questi, legittimamente, i dubbi più frequenti tra chi – venendo da una tradizione più o meno progressista, democratica (se non addirittura socialista e comunista) – si confronta con le nostre analisi e i nostri contenuti; ma rischiano di essere dubbi un po’ del cazzo: il punto è che il trionfo dell’ideologia (se non addirittura dell’antropologia) neo-liberale ha svuotato queste grandi famiglie politiche dell’Occidente sviluppato di ogni capacità di analisi strutturale della realtà lasciando spazio al gossip, alle narrazioni e al moralismo. La realtà, quindi, non è più una complicata sequenza di cause ed effetti con delle gerarchie (più o meno) precise, ma un insieme indistinto di fatti scollegati tra loro ai quali applicare il proprio giudizio morale che, ovviamente, come tutto il resto, non è frutto di storia e rapporti materiali, ma astratto e atemporale. Assoluto. Dopo 75 anni di apartheid la resistenza palestinese opta per un’operazione eclatante di ferocia inaudita? Eh, ma non si fa! Dopo 20 anni di offensiva espansionista della NATO la Federazione russa reagisce con una drammatica operazione militare? Oh mio dio, contessa! Sono avvivati i bavbavi! Dopo aver constatato il fallimento del panarabismo laico e socialista, il movimento anti-coloniale dell’Asia occidentale ripiega sull’Islam come mezzo per far risorgere la lotta di liberazione? Oh my god! Questa non è davvero la nostra resistenza! Movimenti popolari del Sud globale, nati con le migliori intenzioni, invece si trasformano, per impotenza, in ancelle dell’imperialismo a guida USA? Eh, ma son ragazzi. Vanno capiti. Loro sì che rispettano i diritti delle donne (o, almeno, di quelle che non muoiono sotto le bombe degli alleati).
Il punto è che il mondo è fatto, anche se non esclusivamente, di rapporti materiali e oggi il rapporto materiale al quale tutti gli altri sono subordinati si chiama – o, almeno, così è come lo definiamo noi – superimperialismo e, cioè, la fase matura dell’imperialismo finanziario incentrato su Washington e su Wall Street che impone vincoli, limiti e ostacoli a tutto il resto del pianeta; e l’aspetto fondamentale di questo sistema è l’unipolarismo USA e, cioè, la capacità degli USA di imporre (grazie alle istituzioni finanziarie globali e al dominio militare) gli interessi delle sue oligarchie al di sopra di tutto. Ma nonostante questo sistema abbia imposto negli ultimi 50 anni un prezzo insostenibile sul 99% dell’umanità, la capacità di opporvisi – in particolare da parte delle masse popolari dell’Occidente collettivo – è stata sostanzialmente pari a zero; anche nei rari momenti di reale mobilitazione di massa come, ad esempio, durante l’entusiasmante parentesi del movimento dei movimenti o, ancora, con l’opposizione globale all’invasione criminale dell’Iraq e, di nuovo, con il possente movimento nato in seguito alla grande crisi finanziaria del 2008, le oligarchie statunitensi non solo hanno continuato a fare beatamente cosa stracazzo gli pareva, ma – anzi – hanno colto l’occasione per accelerare il passo della loro colossale rapina. E i Paesi del Sud del mondo che hanno tentato di ribellarsi – dal Venezuela all’Iran – hanno costretto le loro popolazioni a subire conseguenze disastrose; il motivo è molto semplice: non esisteva un’alternativa. Il superimperialismo aveva prosciugato alla fonte il fiume carsico che alimentava i conflitti e li nutriva al punto da poter ambire a cambiare concretamente i rapporti di forza materiali; l’affermazione di un organismo multilaterale dei Paesi del Sud globale costretti a pagare il conto degli USA, come quello dei BRICS+, rappresenta oggettivamente un potenziale gigantesco fattore di progresso principalmente per questo motivo: mette fine alla lunga era del There is no alternative, come ci racconta il nostro buon Alessandro.

Alessandro
There is alternative! In tanti, in questi anni, si erano disperati, sicuri che per tutta la loro vita non avrebbero mai sentito queste parole, sicuri che la globalizzazione finanziaria americana sarebbe stato il destino inemendabile del pianeta e che il capitalismo oligarchico su base mondiale, dopo la sconfitta del comunismo storico, era rimasto senza alternative credibili. E invece no: There is alternative; è questa la buona novella che Ottolina Tv è venuta a portare a intere generazioni di socialisti e anti-capitalisti cresciuti a pane, rassegnazione e Mark Fisher (il quale, detto tra parentesi, oggi scriverebbe tutto un altro libro). Il lavoro da fare è ancora lungo: a causa di decenni (per non dire millenni) di suprematismo culturale che ha riguardato più o meno tutte le culture politiche e che non riusciamo a scrollarci di dosso, facciamo molta fatica ad accettare che gli attuali processi rivoluzionari e di emancipazione non nascano all’interno della cultura occidentale, ma da paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America. Ma come!? Il fronte più avanzato della lotta al capitalismo predatorio e all’imperialismo armato americano è guidato da Xi Jinping? Ma non dovevano guidarlo Carola Rackete e Nicola Fratoianni? Ma dopo aver subito passivi 40 anni di neoliberismo, invece che stare con il ditino alzato a rimproverare quello e quell’altro movimento di resistenza nazionale di non essere abbastanza raffinato e illuminato, dovremmo osservare, rispettare e, soprattutto, imparare non solo come oggi, nel 2024, si fa resistenza alla finanziarizzazione e all’imperialismo, ma soprattutto come si vince. Sì, perché è questa la seconda buona novella che abbiamo il dovere di diffondere nelle disilluse, depresse e sempre più povere popolazioni europee e, cioè, che l’alternativa non solo esiste e lotta insieme a noi, ma sta anche vincendo. E nello sconcerto dei Rampini e dei Vittorio Emanuele Parsi di tutto il mondo, il gruppo di Paesi che si ritroverà a Kazan questa settimana non lo farà per scambiarsi nuove ricette sul come cucinare bambini, ma per continuare a forgiare il mondo nuovo: è questo il punto di partenza fondamentale per capire tutto quello che sta avvenendo oggi nel mondo, dalla nostra crisi economica – a partire dai 3 fronti principali della guerra.
E allora veniamo a noi, a noi abitanti – un tempo sazi e opulenti – delle provincie occidentali dell’Impero; inutile dire che una classe dirigente capace (o anche solo veramente intenzionata) di fare gli interessi delle nazioni europee e della loro alleanza, in questi ultimi 30 anni si sarebbe comportata in maniera diametralmente opposta a come ha fatto: avrebbe preso atto dell’emergere di nuove potenze mondiali che avrebbe spostato l’asse economico e politico del mondo e avrebbe fatto leva su queste potenze per emanciparsi gradualmente dall’occupante americano, riconquistando – passo dopo passo – la sovranità perduta ormai 80 anni fa. In fondo, è nel naturale interesse del nostro Paese e del nostro continente avere ottimi rapporti politici e commerciali con tutte le grandi potenze – dalla Russia alla Cina, dall’India agli Stati Uniti -, nonché condizione indispensabile per essere, a nostra volta, un polo politico che conta e non le colonie di qualcun altro, sacrificabili all’occorrenza. In verità, ancora oggi (esercitandoci ancora in un po’ di dolce wishful thinking) un Paese come l’Italia avrebbe tutte le caratteristiche e le carte in regola per cominciare questo processo e per farsi promotrice degli interessi europei nel mondo, sviluppando progetti di cooperazione economica, finanziaria e culturale win-win con il Sud globale; e già da domani potrebbe decidere di rientrare nelle Vie della Seta, entrare nel capitale azionario e attingere nuovi fondi di investimento nella banca principale dei BRICS (la celebre New Development Bank, che sarà protagonista del percorso di dedollarizzazione), aumentare l’export della manifattura italiana nel Sud globale, farsi promotrice degli interessi italiani ed europei nell’area del Sahel (dove non siamo mal visti come i francesi), porsi come Paese mediatore in Medio Oriente e in Ucraina etc etc etc. Insomma: le cose che qualunque italiano medio troverebbe assolutamente naturali e razionali e che (proprio per questo) non vengono fatte, avendo una classe dirigente collaborazionista molto più determinata ad eseguire gli ordini di Washington che non a pensare all’interesse nazionale e continentale. Ma tant’è; illuderci che la riscossa possa arrivare dall’alto sarebbe un peccato mortale. Solo il 99%, in solidarietà con le lotte per la sovranità nazionale dei Paesi del mondo e con il loro tentativo di sbarazzarsi delle loro oligarchie predatorie, potrà riprendere in mano il proprio destino e dimostrare che il famoso tramonto dell’Europa, di cui tanti pseudo intellettuali si riempiono la bocca, è pura letteratura fantasy. Per rendere tutto questo possibile e per tornare anche noi a vincere, abbiamo però bisogno di un media non controllato dalle oligarchie politiche collaborazioniste e dalle loro aziende; un media che racconti il mondo per come è e non per come gli analfoliberali vorrebbero che fosse; un media schierato dalla parte dell’Italia, dell’Europa, dei BRICS e del 99%, contro ogni imperialismo e predazione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal (e chi non aderisce è Paolo Flores d’Arcais).

Giuliano
“Illuderci che la riscossa possa arrivare dall’alto” sottolinea Alessandro “sarebbe un peccato mortale”: è quello che intendiamo quando parliamo di riscossa multipopolare e, cioè, un mix tra multipolare e popolare; la transizione verso un nuovo ordine multipolare è la dinamica principale della fase storica che stiamo attraversando e rappresenta una gigantesca opportunità che, per essere colta, deve essere riempita di contenuti dal ritorno del protagonismo delle masse popolari, sia nel Sud che nel Nord del pianeta. In cosa consista la proposta concreta che, dopo 16 lunghi anni di vita, i BRICS+ metteranno sul tavolo – a partire da domani – proprio per dare una base materiale tangibile a questa transizione a un nuovo ordine multipolare (soprattutto dal punto di vista finanziario) lo approfondiremo meglio in un altro pippone ad hoc domani; oggi qui, per chiudere questo lungo video, ci limitiamo ad elencare gli aspetti fondamentali che il rapporto preparato dal ministero delle finanze e dalla Banca Centrale russa ha elencato come principali distorsioni del sistema unipolare fondato sulla dittatura del dollaro, in cui siamo ancora immersi, e a fare un paio di valutazioni sul significato politico generale di questo tipo di lettura. Il primo aspetto da sottolineare è che l’intero rapporto, ancor prima degli aspetti di iniquità dell’architettura finanziaria globale attuale, punta in realtà a sottolineare le sue disfunzionalità e la sua sostanziale insostenibilità dal punto di vista proprio dell’accumulazione capitalistica: il rapporto, infatti, sottolinea come la quota degli scambi commerciali tra economie emergenti rispetto al totale globale è passata dal 10% di 30 anni fa al 26% attuale, ed è previsto che raggiunga il 32% entro il 2032

e, cioè, appena 5 punti in meno rispetto allo scambio commerciale tra economie sviluppate; ciononostante, si continua in tutti i modi a cercare di tenere in vita il ricorso al dollaro come valuta standard per il commercio internazionale e questo ostacola in modo spropositato gli investimenti transfrontalieri tra i Paesi in via di sviluppo. Nonostante il ruolo di primissimo piano raggiunto nel commercio globale, infatti, solo l’11% degli investimenti globali sono investimenti che le economie emergenti fanno in altre economie emergenti; il grosso, invece, continua ad essere drenato dalle economie più sviluppate e ovviamente, in particolare, verso i mercati finanziari USA che, invece che contribuire alla crescita della produzione di ricchezza globale, la affossano: questo, però, il rapporto (volutamente) non lo dice. L’obiettivo non è fare la morale alle élite economiche del Sud globale che impoveriscono i loro Paesi per fare fortuna a Wall Street, ma sottolineare come – nonostante, così, facciano un sacco di soldi – alla fine questo meccanismo non è sostenibile; e ci sono, invece, altre possibilità molto più sostenibili di fare altrettanti soldi senza continuare a impoverire il Sud del mondo a vantaggio del Nord.
Quello che infatti, invece, il rapporto sottolinea in modo molto accurato è che molti dei loro soldi che abbandonano il Sud globale per cercare remunerazioni migliori, in realtà, alla fine sono costretti ad accontentarsi dei titoli del tesoro statunitense che negli ultimi 10 anni – in media – hanno avuto remunerazioni più basse addirittura dell’inflazione; e quindi, invece che arricchirli, li hanno impoveriti, mentre a casa c’erano migliaia e migliaia di opportunità di fare soldi attraverso l’economia reale che, però, non venivano sfruttate perché mancavano capitali adeguati. La distorsione attuale, ovviamente – sottolinea il rapporto – è dovuta al monopolio del dollaro e degli USA sulle istituzioni finanziarie globali, che a lungo è stato accettato supinamente perché si pensava che il mercato globale, per funzionare, avesse necessariamente bisogno di una valuta di riserva globale e che questa (ovviamente) non potesse che essere quella della potenza egemone; ma secondo il rapporto questa necessità oggi non esiste più: “La ricerca universale di una valuta mondiale è stata una conseguenza dell’asimmetria informativa globale, che era uno stato naturale per gli operatori commerciali che non avevano mezzi efficaci per comunicare tra loro su scala mondiale in tempo reale. Pertanto, fare affidamento su un unico mezzo di scambio accettato universalmente era il modo più sicuro e prevedibile di condurre affari”. Ora però, continua il rapporto, “l’asimmetria informativa è quasi scomparsa: i partecipanti sono in grado di elaborare in modo efficace i prezzi di ogni merce in ogni valuta in tempo reale” e quindi “la necessità di una moneta mondiale sta scomparendo”. Come si articola la proposta concreta per sostituire un sistema incentrato su un’unica valuta – universalmente riconosciuta come la valuta di riserva globale – con un nuovo sistema multipolare anche dal punto di vista valutario, lo approfondiremo domani; quello che qui volevo sottolineare, prima di salutarci, è come il rapporto, mentre sottolinea come gli squilibri attuali sono destinati a mettere definitivamente a repentaglio la stabilità finanziaria globale, dall’altra fa di tutto per rassicurare le oligarchie globali che con la transizione a un ordine multipolare, anche dal punto di vista valutario le occasioni per arricchirsi non solo non diminuirebbero, ma (paradossalmente) potrebbero anche aumentare: secondo il rapporto, infatti, alcuni Paesi (e, ovviamente, il riferimento qui, in particolare, è alla Cina) oggi pongono degli ostacoli alla libera circolazione dei capitali – e quindi alle opportunità di valorizzazione del capitale – proprio perché oggi aprirsi alla libera circolazione dei capitali significa assecondare questa gigantesco drenaggio di risorse da parte di una parte del mondo contro un’altra. Se, invece, si creasse un’architettura finanziaria che non si va a sostituire a quella attuale, ma ad aggiungere, rompendo questa condizione di monopolio, i Paesi come la Cina sarebbero incentivati a liberalizzare di più il loro mercato dei capitali perché non sarebbe di per se un suicidio, o un regalo; ma non solo: a questo punto, liberalizzare i mercati per i Paesi più restii diventerebbe una necessità, perché se vogliono che le loro valute diventino valute utilizzate negli scambi internazionali, hanno bisogno di garantirne la stabilità e la stabilità la si garantisce, appunto, liberalizzando, che sostanzialmente significa dare garanzie che il governo non può manipolare l’andamento della valuta a suo piacere, a seconda dei suoi obiettivi di politica economica.
La liberalizzazione del mercato dei capitali delle grandi economie emergenti – e, in particolare, della Cina – è da sempre il sogno del grande capitale internazionale: quando leggete tutte quelle puttanate su Xi Jinping autocrate che ha impresso un’ulteriore svolta totalitaria al Paese alla quale abboccano, immancabilmente, anche le fazioni più sinistrate dell’analfoliberalismo, in realtà è la finanza occidentale che si lamenta perché Xi, invece di aprirsi all’assalto dei capitali stranieri, ha aumentato il livello di controllo sovrano sui flussi finanziari; e la promessa di una maggiore liberalizzazione dei flussi di capitali non è l’unico ramoscello d’ulivo che la feroce federazione russa porge alle oligarchie occidentali. Buona parte del rapporto, infatti, è dedicata a promuovere le gigantesche opportunità di guadagno che si aprirebbero per i capitali di tutto il mondo in termini di partnership pubblico-privato grazie a un sistema finanziario più democratico: è esattamente il meccanismo del derisking finanziario che abbiamo denunciato milioni di volte, lo Stato sovrano che si mette a disposizione dell’accumulazione capitalistica garantendo, grazie all’utilizzo spregiudicato del monopolio della forza entro i suoi confini nazionali, una remunerazione adeguata dei capitali, in particolare – udite udite – per quanto riguarda proprio gli enormi investimenti necessari per portare avanti la transizione ecologica, che i funzionari di Putin definiscono – senza se e senza ma – esistenziale. Insomma: per rimanere al linguaggio forbito che gli amici dell’alt right hanno contribuito a far diventare senso comune nel mondo del dissenso de noantri, Putin è diventato gretino e servo di Karl Schwab e di Larry Fink (e, giudizio personale, ha fatto anche parecchio, ma parecchio bene). Frequentare zio Xi, evidentemente, gli ha fatto bene: la Cina, infatti, da Paese del terzo mondo, nell’arco di 40 anni è diventata l’unica vera superpotenza manifatturiera del globo esattamente facendo fare un sacco di soldi ai più spregiudicati tra gli ultra-ricchi statunitensi. E non solo: ha fatto leva sul fatto che il capitale (come insegnava quel barbuto di Treviri) non è particolarmente lungimirante; è guidato dall’ingordigia e dalla voracità, e quando si tratta di pianificare è abbastanza scarsino. La Cina, così, l’ha attirato come il miele garantendogli la possibilità di fare una quantità di quattrini spropositata, solo che, mentre li faceva arricchire, invece che diventare sempre più simile e dipendente dall’Occidente (come avevano previsto le oligarchie occidentali), sfruttava quei capitali per seguire una sua via sovrana allo sviluppo e diventare sempre più indipendente. Insomma: una volta tanto, a usare la cara vecchia strategia del divide et impera non era il centro imperiale, ma una ex colonia che lottava per portare a termine la sua guerra di liberazione nazionale.
Ecco: l’impressione chiara che si ha leggendo il lungo rapporto del ministero delle finanze e della Banca Centrale della Federazione russa è che abbiano imparato la lezione; ora – sia chiaro – tra il dire e il fare c’è di mezzo e il e questa partita non è complessa: di più. Ma se siamo i primi a sottolineare sempre che la terza guerra mondiale è già scoppiata e che le guerre mondiali finiscono solo quando qualcuno perde, bene: se c’è ancora una remota ipotesi che ci si possa fermare prima che sia troppo tardi forse sta proprio qui; o meglio qui, in questo documento, insieme ai Kinzhal in Ucraina, alla supremazia navale cinese a Taiwan e ai missili balistici iraniani. Il segnale che le potenze emergenti del Sud globale hanno inviato manu militari dai tre fronti, infatti, è che la guerra convenzionale l’imperialismo a guida USA non la può vincere; ciononostante, anche se non la puoi vincere, quando la guerra rimane l’unica possibilità che hai per non soccombere, quella rimane la via. A meno che, appunto, alle tue oligarchie non venga offerto un ramoscello d’ulivo così consistente da convincerle che tutto sommato, nel medio termine, anche durante questa fantomatica transizione a un nuovo ordine multipolare occasioni per continuare a fare una quantità spropositata di quattrini non mancano, anzi! Poi domani si vedrà, tanto le oligarchie – nonostante i tappeti rossi che gli stende la propaganda – qualche limite cognitivo ce l’hanno eccome, proprio come classe sociale; e a pensare a domani fanno abbastanza fatica, come insegna il caso cinese. Ad aiutarle a non capire una seganiente delle conseguenze delle loro azioni – va ammesso – dà un bel contributo anche l’informazione mainstream, ormai interamente trasformata in propaganda autoreferenziale, come sempre accade quando gli imperi volgono verso il declino; un lusso che, però, noi non ci possiamo permettere perché questa gigantesca trasformazione rappresenta senz’altro un’occasione. Ma le occasioni vanno anche sapute sfruttare e, per sfruttarle, abbiamo bisogno di organizzarci; e, per organizzarci, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che guardi il mondo dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Anime belle contro il 7 ottobre – Come la propaganda criminalizza la resistenza

Il 7 ottobre ha tirato fuori il peggio dalla propaganda imperialista occidentale, di destra e di sinistra: da una parte i giornali di destra che invocavano, senza troppi giri di parole, alla strage e al genocidio per punire per sempre quella manica di selvaggi islamici e nemici dell’Occidente che avevano osato ribellarsi; dall’altra, i giornali dei benpensanti e delle anime belle tipo Corriere e Repubblica che, dopo avere assistito in silenzio per decenni alla graduale estinzione del popolo palestinese e al loro confinamento nella grande riserva di Gaza, adesso si indignavano per il modo con cui la resistenza decideva di combattere la propria guerra di liberazione nazionale. Ad esempio, che i palestinesi fossero costretti a combattere con armi rudimentali come kalashnikov e coltelli per il semplice fatto che loro i carri armati e le super-tecnologiche armi occidentali non ce le hanno, era la riprova – agli occhi di tutti i Rampini e Paolo Mieli del mondo – dell’inferiorità morale e umana dei palestinesi: ma dai, i coltelli… Solo dei terroristi ucciderebbero in modo così crudele, ma vuoi mettere con l’eleganza e il bon ton di un bel missile di ultima generazione lanciato comodamente dalla postazione di comando? Davvero vi serve dell’altro per capire la differenza tra i terroristi e l’unica democrazia del Medio Oriente? Per non parlare poi delle fake news rilanciate in coro e senza alcuna verifica sui fantasmagorici neonati abusati, teste decapitate e sevizie medievali che quei subumani dei palestinesi avrebbero commesso nei kibbutz. In fondo, come dubitarne? Lo diceva addirittura l’esercito israeliano! Nessuno ha ancora mai chiesto scusa per quelle comprovate puttanate: servivano solo per delegittimare moralmente il popolo palestinese per poter meglio vendere alla nostra opinione pubblica il successivo sterminio.
Insomma: come sottolinea Giuliano nel video che vi riproponiamo, la reazione della pubblica opinione italiana al 7 ottobre è stata la riprova che la controrivoluzione neoliberista non si è limitata a renderci tutti più poveri e meno liberi, ma ha anche imposto una gigantesca involuzione culturale e anche antropologica; memori della nostra resistenza, infatti, per 70 e passa anni l’idea comune di ogni democratico antifascista (anche il più moderato) è stata che la responsabilità delle rappresaglie dei popoli occupati e dei mezzi – anche terroristici – con cui questi combattono la loro lotta di liberazione, non possono mai essere attribuiti a loro. I resistenti conducono una guerriglia con tutti i mezzi a loro disposizione, compresi i più cruenti, e le razzie che inevitabilmente provocano sono conseguenze inevitabili che non ne mettono in discussione la legittimità morale e politica; a pensarla diversamente, fino a poco tempo fa, era solo la marmaglia fascistoide che oggi, evidentemente, è diventata egemone. Viviamo in una realtà così radicalmente separata da non avere proprio gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, è l’unica opzione veramente razionale per chi vive in determinate condizioni. Insomma: in un contesto come questo, il minimo che potevamo fare noi abitanti dell’Occidente – i cui governi hanno finanziato direttamente Israele fornendogli tutti i mezzi necessari per portare avanti le sue politiche di invasione e apartheid – era non stare con il ditino alzato a dire a chi sacrifica la vita per la liberazione del proprio popolo in che modo dovrebbe difendersi e resistere. Nel nostro piccolo, stiamo facendo di tutto per abbattere, una volta per sempre, questa egemonia culturale immorale e collaborazionista che, pur di legittimare l’imperialismo americano e dei suoi vassalli nel mondo, tenta di vendere come giustificata l’oppressione e criminale la resistenza. Una battaglia che possiamo combattere insieme: iscriviti ai nostri canali, comincia a seguirci direttamente dal nostro sito (dove siamo maggiormente protetti dalla censura degli algoritmi) e aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

La Meloni riceve Larry Fink (BlackRock) a Roma e gli svende l’Italia

Nei giorni in cui l’Iran e l’asse della resistenza mandavano un messaggio chiaro e forte all’imperialismo di tutto il mondo, anche l’Italia – e, in particolare, con il suo eroico presidente del consiglio Giorgia Meloni – non ha voluto essere da meno: da poco rientrata da New York dopo aver ritirato l’infame premio di miglior atlantista dell’anno, Giorgia la collaborazionista ha infatti ricevuto a palazzo Chigi Larry Fink, il presidente e amministratore delegato di BlackRock. Il messaggio è stato chiaro: oligarchi di tutto il mondo, unitevi! E fate dell’Italia quello che volete. Nel corso del colloquio, la madre cristiana e Fink hanno infatti discusso dei possibili investimenti del fondo finanziario americano nell’ambito dello sviluppo di data center e nelle infrastrutture energetiche di supporto; e il presidente dell’amministrazione coloniale ha inoltre prospettato al fondo di investimento americano l’opportunità di investire in Autostrade e in altri settori di natura strategica. Ma i due punti principali dell’incontro sono stati la possibilità di creare strumenti finanziari specifici da parte di BlackRock nell’ambito del famoso Piano Mattei e la definizione di prestiti obbligazionari per la ricostruzione dell’Ucraina, concepiti da BlackRock e garantiti politicamente dall’Italia; Blackrock che, ricordiamolo, gestisce un patrimonio di 10 mila miliardi di dollari (il valore del PIL di Germania e Giappone messi insieme) ed è tra i primi azionisti di gran parte delle grandi aziende occidentali, Italia inclusa. Negli ultimi giorni, Giuliano vi aveva raccontato della scalata di UniCredit a Commerzbank proprio grazie alla collaborazione del fondo di investimento e del suo ingresso con una quota del 3% in Leonardo, la principale industria degli armamenti italiana; in fatto di infrastrutture, strategiche o quasi, è bene ricordare che un altro grosso attore statunitense, il fondo KKR, ha recentemente comprato la rete fissa di Telecom Italia per 22 miliardi di euro. Il quadro d’insieme è, insomma, quello che vi abbiamo delineato negli scorsi giorni: siamo di fronte, cioè, al distopico piano di svendita definitiva e totale di quel poco di sovranità economica che c’è rimasta da parte dell’attuale governo di amministrazione coloniale, in cambio di mancette economiche e marchette elettorali. Non solo: i monopoli finanziari Usa hanno oggi l’occasione, grazie alla crisi economica tedesca causata dalla guerra in Ucraina, di porre fine all’anomalia mercantilistica della Germania, unica roccaforte di economia produttiva rimasta in tutto l’Occidente collettivo; e l’idea degli Stati Uniti e delle sue oligarchie, come avevamo approfondito in questa puntata, è proprio quella di sfruttare l’Italia come testa di ponte per sferrare l’attacco definitivo al capitalismo produttivo tedesco, inglobandolo definitivamente ed eventualmente riconvertendolo a scopi bellici qualora il conflitto con il Sud globale si scaldasse ancora. Si tratta, insomma, dell’attacco americano all’ultimo residuo di autonomia economica rimasta nel nostro continente e il nostro Paese, tradendo ogni forma di interesse comune europeo, ha deciso di svolgere il ruolo del traditore e del Giuda.

Guerre, crisi climatiche e pandemiche, oligarchie globali, neocolonialismo; oggi, però, volevamo fare un passo ancora più indietro, in modo da osservare tutti questi fenomeni in una prospettiva ancora più globale e strutturale: lo facciamo attraverso l’ultimo Rapporto sulle diseguaglianze economiche dell’organizzazione internazionale OXFAM, dedicato a individuare le cause strutturali delle diseguaglianze economiche e di potere all’interno dei Paesi sviluppati, ma anche sul piano globale e internazionale. Concentrazione della ricchezza, neoliberismo, oligarchie finanziarie, capitalismo della guerra: i ricercatori di OXFAM, in uno studio che potrebbe tranquillamente essere firmato da un Marrucci o uno Xi Jinping qualunque, sostengono quello che è ormai sotto gli occhi di tutti e che solo da cavallo di Troia della propaganda capitalista e suprematista riescono ancora a nascondere e mistificare agli occhi di milioni di occidentali e, cioè, che la causa fondamentale dei problemi locali e globali che l’umanità è oggi costretta ad affrontare in termini di sottosviluppo, guerre, cambiamento climatico ed emergenze sanitarie è data dalla concentrazione di sempre più sconfinate ricchezze nelle mani di sempre meno individui occidentali, nordamericani in particolare. “Sebbene alcuni abbiano attribuito la colpa di questa situazione di stallo esclusivamente alle crescenti tensioni geopolitiche tra Paesi potenti” si legge nel rapporto “tale impostazione è incompleta. La ragione principale del fallimento della cooperazione internazionale è piuttosto l’estrema disuguaglianza economica. Oggi, l’1% più ricco del mondo possiede più ricchezza del 95% dell’umanità”; questa concentrazione della ricchezza porta, come primo risultato, una concentrazione tale di potere che il rapporto non si fa alcun problema a deridere tutti gli Jacoboni del mondo che cercano di farci credere che viviamo ancora in società democratiche: “L’immensa concentrazione di ricchezza” si legge “guidata in modo significativo dall’aumento del potere monopolistico delle imprese, ha permesso alle grandi aziende e agli ultra-ricchi che ne esercitano il controllo di utilizzare le loro vaste risorse per plasmare le regole globali a loro favore, spesso a spese di tutti gli altri. Questo nesso tra estrema disuguaglianza di ricchezza, potere delle imprese e influenza politica spinge verso un’oligarchia globale, in cui gli individui ultra-ricchi – spesso autorizzati dai Paesi più ricchi – esercitano un’influenza sproporzionata sulle decisioni politiche”. In questo contesto, come vedremo meglio nel dettaglio in questa puntata, parlare di democrazia non ha semplicemente più alcun tipo di senso e lo smantellamento dello stato sociale, il neocolonialismo, la guerra globale e la svendita della nostra comunità nazionale, portata avanti dalla collaborazionista madre cristiana, non sono che il risultato di questi fenomeni strutturali di fondo individuati da questo preziosissimo rapporto. Ma prima di iniziare, se volete che la nostra opera di controinformazione vada avanti e sopravviva a demonetizzazioni, censure e dittature degli algoritmi presenti nelle attuali democrazie rampiniane e jacoboniane, allora iscriviti a tutti i nostri canali e metti mi piace a questo video.
“La ragione principale del fallimento della cooperazione internazionale” si legge nel rapporto dell’OXFAM “è l’estrema disuguaglianza economica. Oggi, l’1% più ricco del mondo possiede più ricchezza del 95% dell’umanità” e “L’immensa concentrazione di ricchezza, guidata in modo significativo dall’aumento del potere monopolistico delle imprese, ha permesso alle grandi aziende e agli ultra-ricchi che ne esercitano il controllo di utilizzare le loro vaste risorse per plasmare le regole globali a loro favore, spesso a spese di tutti gli altri. Questo nesso tra estrema disuguaglianza di ricchezza e potere delle imprese e capacità di influenza politica spinge verso un’oligarchia globale, in cui gli ultra-ricchi – spesso autorizzati dai Paesi più ricchi – esercitano un’influenza sproporzionata sulle decisioni politiche”. Bisognava leggerlo tutto questo incipit del rapporto dell’OXFAM del 2024 sulle diseguaglianze sociali, dal titolo Il multilateralismo nell’era dell’oligarchia globale; come le diseguaglianze estreme minano la cooperazione sociale: le oligarchie del Nord globale – come sostengono da quasi 200 anni quei pericolosi dei socialisti e critici del capitalismo – sono la più grande minaccia alla pace e cooperazione internazionale, con l’aggravante, però, che oggi esistono le bombe nucleari e sfide come l’ambiente o pandemie globali che possono essere risolte solo ed unicamente sul piano internazionale. Mai come oggi, insomma, le oligarchie occidentali rappresentano il maggiore dei pericoli per tutta la razza umana: un vero e proprio cancro sociale che abbiamo tutti più o meno il dovere di fare la nostra parte per debellarlo. E a suscitare un po’ di speranza nei ricercatori dell’OXFAM – noti antisemiti, vetero comunisti e amici delle dittature – non possono che essere naturalmente i paesi del Sud globale: “Solo le recenti iniziative in gran parte guidate dal Sud globale, possono invertire il movimento verso l’oligarchia globale sostituendo la divisione con la solidarietà. Tutti i Paesi dovrebbero avere interesse ad eliminare le concentrazioni estreme di ricchezza che determinano la disuguaglianza politica. Un ordine multilaterale più giusto – in cui i ricchi paghino la loro giusta quota, la salute pubblica sia prioritaria rispetto al profitto e i Paesi possano investire nei diritti umani – alla fine giova a tutti”.
Ma andiamo con ordine e, prima di tutto, vediamo qualche qualche numero e dato riportato nel rapporto; secondo l’economista Gabriel Zucman, scrivono gli autori, la ricchezza è diventata sempre più concentrata a partire dagli anni ’80, quando le fortune dei miliardari sono cresciute più velocemente dell’economia globale nel suo complesso: “Nel 1987, lo 0,0001% delle famiglie più ricche aveva una ricchezza combinata equivalente al 3% del PIL mondiale. Le fortune di queste circa 3.000 famiglie ultra-ricche – valutate collettivamente 14.000 miliardi di dollari – ammontano oggi al 13% del PIL mondiale, con un aumento di oltre quattro volte. Allo stesso tempo, gran parte del mondo rimane impantanato nella povertà. Nel 2023, circa il 46% della popolazione mondiale – oltre tre miliardi di persone – vivrà al di sotto della soglia di povertà globale di 6,85 dollari al giorno”. Il risultato è che un numero sempre più ristretto di aziende hanno letteralmente il monopolio su settori fondamentali come, ad esempio, nel settore farmaceutico, agricolo e tecnologico: sessanta aziende farmaceutiche si sono fuse in appena dieci grandi società tra il 1995 e il 2015; due aziende controllano il 40% del mercato globale delle sementi e quasi la metà della pubblicità digitale va nelle tasche di appena tre aziende. E ancora: a livello globale, l’ 1% più ricco possiede quasi il 43% di tutte le attività finanziarie; “Tuttavia” nota giustamente l’OXFAM “gli ultra-ricchi sono spesso più che semplici beneficiari passivi del potere aziendale, e sono sempre più in grado di influenzare il modo in cui tale potere viene esercitato. Negli Stati Uniti, l’ 0,1% delle famiglie più ricche (quelle con un patrimonio netto superiore a 46 milioni di dollari) possiede quasi un quarto di tutte le azioni societarie e le quote dei fondi comuni, mentre la metà inferiore possiede solo l’1%. I miliardari sono o il principale azionista o amministratori delegati di circa un terzo delle 50 aziende pubbliche più grandi del mondo”. “Più in generale” concludono poi gli autori in vero stile ottoliner “i cambiamenti neoliberali nella governance delle imprese – spinte dagli ultra ricchi per proteggere i valori dei loro portafogli – hanno portato al fatto che oggi possiamo dire che le società agiscono per conto dei più ricchi della società”.
Il legame tra la concentrazione della ricchezza e la concentrazione del potere aziendale contribuisce a far sì che la disuguaglianza di ricchezza si trasformi in disuguaglianza politica: gli ultra-ricchi e le potenti aziende su cui esercitano il controllo sono in grado di usare le loro vaste risorse per fare pressione sui governi – anche attraverso lobbying, donazioni politiche, sfide legali, influenza attraverso i media e minacce di trattenere gli investimenti – per attuare politiche neoliberiste, tra cui la riduzione delle tasse per loro stessi, l’indebolimento delle tutele del lavoro e la privatizzazione dei servizi pubblici. Gli ultra-ricchi spendono anche somme ingenti a titolo individuale per influenzare politici, spesso spingendo per una riduzione delle tasse o per altre politiche che aumentino il valore dei loro beni, comprese le loro partecipazioni sovradimensionate in azioni societarie: “Un’analisi di OXFAM sulle 182 maggiori società pubbliche statunitensi ha rilevato che nel 2022 hanno speso complessivamente 746 milioni di dollari in attività di lobbying, con una media di 4,1 milioni di dollari per azienda. Gli studi hanno rilevato che il lobbismo aziendale può generare ritorni finanziari di gran lunga superiori all’importo speso. OXFAM ha rilevato che, dal 2008 al 2014, per ogni dollaro che le 50 maggiori aziende pubbliche statunitensi hanno speso in attività di lobbying, hanno ricevuto 130 dollari in agevolazioni fiscali e più di 4.000 dollari in prestiti federali, garanzie sui prestiti e salvataggi”. Le politiche neoliberali abbracciate dalle potenti aziende e dagli ultra-ricchi, riflette poi l’OXFAM, non solo hanno aumentato la disuguaglianze economiche, ma hanno anche eroso il senso civico e critico della società occidentali, nonché le istituzioni democratiche che erano proprio nate per controllare il loro potere politico: “La forza dei sindacati è diminuita in quasi tutti i Paesi negli ultimi decenni, e le aziende continuano a lavorare per ridurre ulteriormente i diritti dei lavoratori”. Lo stesso Stato nazionale, nato storicamente anch’esso proprio con la funzione evitare i soprusi e lo sfruttamento dei più forti nella società, è stato – proprio per questo motivo – indebolito: “In diversi Paesi i servizi pubblici essenziali per ridurre le disuguaglianze sono stati sottoposti ad austerità o posti sotto il controllo delle imprese attraverso la privatizzazione”.
La crisi della pace e del multilateralismo poi, a cui stiamo sempre di più assistendo, non è certo una novità, ricordano gli autori; da sempre le nazioni ricche, grazie agli individui ultra-ricchi e alle società da loro controllate che traggono vantaggio e perpetuano l’estrema disuguaglianza, ostacolano gli sforzi internazionali per la creazione società più eque, sforzi oggi guidati dai paesi del Sud del mondo: “Iniziative come la Nuova economia internazionale (NIEO) che miravano a rimodellare il commercio internazionale e i sistemi monetari per colmare il crescente divario tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, sono stati soppiantati da un regime di sviluppo neoliberale che pone il profitto privato al di sopra delle necessità sociali. Per tutti gli anni 80’ e 90’, le istituzioni internazionali sono state cruciali nell’instaurare – e spesso nell’imporre – una forma di globalizzazione neoliberale in vari Paesi del Sud globale, fornendo guadagni spropositati a una classe ultra-ricca che manteneva quel paese in uno stato di sottosviluppo”. Oltre a plasmare direttamente le politiche dei propri Paesi, gli oligarchi occidentali usano la loro influenza per plasmare le regole globali in base al loro interesse, spesso a spese dei Paesi a basso e medio reddito; a questo punto l’OXFAM fornisce tre esempi di come l’interconnessione tra estrema disuguaglianza di ricchezza, potere aziendale e influenza politica comprometta la democrazia interna e la cooperazione internazionale anche su questioni cruciali come, ad esempio, lo sfruttamento del pianeta: “Non solo gli ultra-ricchi guidano in modo sproporzionato le emissioni (le emissioni di CO2 del top 1% superano quelle dei due terzi più poveri del mondo, ovvero cinque miliardi di persone), ma sono anche investiti in modo sproporzionato nelle aziende che causano il collasso climatico. Gli investimenti dei miliardari nelle industrie inquinanti sono doppi rispetto alla media dello S&P 500”. Le multinazionali (e i loro ricchissimi proprietari) lavorano incessantemente tutti i giorni per mantenere i propri privilegi ostacolando gli sforzi urgentemente necessari per ridurre le emissioni; lo squilibrio di potere è visibile anche nei negoziati annuali sul clima: “Durante i colloqui sul clima della COP26 nel 2021, ricorda il rapporto, erano presenti oltre 500 lobbisti dei combustibili fossili, più delle delegazioni combinate di otto Paesi – tra cui Pakistan, Bangladesh, Filippine e Mozambico – che sono state gravemente colpiti dal cambiamento climatico. Dei 34 miliardari delegati alla COP28, almeno un quarto ha fatto fortuna grazie a industrie altamente inquinanti come quella petrolchimica, mineraria e della produzione di carne”.
Altro esempio riguarda il sistema fiscale: le oligarchie, come prevedibile, hanno dato forma a un sistema fiscale che favorisce i ricchi a spese degli altri utilizzando meccanismi complessi e schiere di avvocati per pagare il meno possibile e privando, così, i governi di risorse fondamentali; inoltre, decenni di pressioni e lobby hanno creato una corsa al ribasso con una concorrenza distruttiva tra i Paesi per gli investimenti, che ha portato a una riduzione delle imposte su società e individui facoltosi in tutto il mondo. “Questa dinamica intrappola i Paesi in un dilemma del prigioniero, in cui gli ultra-ricchi e le multinazionali sono i carcerieri. La cooperazione internazionale può permettere ai Paesi di liberarsi, ma gli interessi delle multinazionali lavorano per impedire qualsiasi forma di cooperazione che rappresenti una minaccia per i loro interessi”; a causa del calo delle aliquote fiscali individuali e dell’uso aggressivo di strategie di elusione fiscale, gli individui ultra-ricchi hanno spesso aliquote fiscali effettive basse e il sistema attuale consente agli ultra-ricchi non solo di aumentare le loro fortune, ma anche di perpetuarle: le tasse di successione sono diminuite in tutti i Paesi ricchi e quasi la metà dei miliardari del mondo vive in Paesi che non prevedono tasse di successione sulla ricchezza trasmessa ai discendenti diretti. “Questi tagli fiscali regressivi sono stati giustificati da promesse di crescita economica e di posti di lavoro, ma una recente analisi di 50 anni di tagli in 18 Paesi ha rilevato che queste promesse non si sono mai concretizzate. Anzi, l’unico impatto è stato l’aumento delle disuguaglianze”; per non parlare dell’uso aggressivo dei paradisi fiscali – molti dei quali sono stati costruiti da banchieri, avvocati e consulenti del Nord per consentire ai coloni britannici e francesi nei Caraibi e in Africa di proteggere le loro ricchezze dalla decolonizzazione – insieme ad altre strategie di elusione fiscale utile sottrarre risorse necessarie alle economie della classi popolari di tutto il mondo.
Altro esempio fatto da OXFAM è quello relativo alle multinazionali del farmaco: le grandi multinazionali del farmaco hanno esercitato, ad esempio, un’intensa attività di lobbying per plasmare la legge internazionale sulla proprietà intellettuale, assicurandosi che questa andasse a beneficio dei loro azionisti piuttosto che dell’interesse pubblico; concedendo diritti di monopolio alle aziende farmaceutiche, le regole internazionali sulla proprietà intellettuale hanno permesso alle aziende di aumentare i loro profitti limitando la fornitura di farmaci potenzialmente salvavita e resistendo agli sforzi per trasferire la tecnologia ad altre aziende ed altri paesi. “Come la pandemia di Covid-19 ha mostrato in modo vivido” scrivono i ricercatori di OXFAM “questo potere ha conseguenze globali, minando la salute pubblica sia nei Paesi ricchi che in quelli a basso reddito. Le aziende del farmaco hanno esercitato pressioni per bloccare le proposte di rinuncia alle protezioni della proprietà intellettuale durante la pandemia di Covid-19, e continuano a opporsi alle iniziative multilaterali che mirano ad aumentare la fornitura di vaccini e trattamenti per le future pandemie”; a livello globale, le grandi aziende farmaceutiche hanno plasmato il regime internazionale di proprietà intellettuale a vantaggio dei loro azionisti, preservando la capacità di raccogliere profitti enormi da farmaci salvavita. Prima della metà degli anni Novanta, i Paesi potevano stabilire le proprie regole in materia di brevetti, alcune delle quali limitavano la capacità delle multinazionali del farmaco di ottenere diritti di produzione in regime di monopolio: “Le multinazionali farmaceutiche hanno esercitato pressioni per cambiare questa situazione e sono state la forza trainante dell’Accordo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio sugli aspetti della proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPS) del 1995, che ha istituito un sistema globale per la gestione dei brevetti che di fatto imponeva a tutti i Paesi di adottare leggi sui brevetti favorevoli alle imprese”. Questo regime di proprietà intellettuale aumenta i costi e limita l’accesso ai farmaci sia nei Paesi a basso che ad alto reddito, ma i suoi impatti negativi sono avvertiti più duramente dai Paesi del Sud globale, che sopportano il peso del cosiddetto razionamento artificiale in cui le aziende farmaceutiche mantengono alti i costi dei farmaci – e quindi i profitti – limitando la produzione di farmaci generici e, contemporaneamente, non investendo nella loro ricerca e sviluppo. Anche durante il Covid, le multinazionali del farmaco hanno cercato di massimizzare i profitti degli azionisti opponendosi alle deroghe ai diritti di monopolio concesse loro dai TRIPS: “Solo nel 2021, le grandi aziende farmaceutiche e i gruppi di pressione hanno speso 15 milioni di euro in attività di lobbying nell’Ue e oltre 360 milioni di dollari negli Stati Uniti. Secondo un rapporto di Politico e del Bureau of Investigative Journalism, le multinazionali hanno persino minacciato di ritirare gli investimenti da Paesi – tra cui l’Indonesia e il Belgio – se avessero appoggiato sforzi di deroga”. L’apartheid vaccinale durante la pandemia di Covid-19 chiarisce che la preparazione alle pandemie è un bene pubblico globale: tutti, compresi i Paesi ricchi, traggono beneficio dalla disponibilità diffusa di vaccini, trattamenti e diagnostici, ma le multinazionali farmaceutiche hanno interesse, invece, a trattarli come beni scarsi; solo nel 2021, la vendita dei vaccini Covid-19 ha generato 50 miliardi di dollari di profitto netto per i sette maggiori produttori. Quell’anno, Pfizer ha versato 8,7 miliardi di dollari in dividendi agli azionisti; questi enormi profitti – sovvenzionati con denaro pubblico e guidati da diritti di brevetto in regime di monopolio – non sono altro che benefici per gli ultra-ricchi: “La pandemia ha creato almeno 40 nuovi miliardari, che hanno accumulato fortune grazie alla loro proprietà di aziende coinvolte nello sviluppo di vaccini, test, dispositivi di protezione personale e trattamenti per la Covid-19”. Per proteggere questi profitti spropositati in caso di future pandemie, le multinazionali del farmaco” conclude il rapporto “stanno esercitando pressioni per influenzare i negoziati sul trattato dell’OMS sulle pandemie, opponendosi a misure che renderebbero più accessibili i vaccini e i trattamenti; in particolare, si sono opposte alle proposte del Sud globale di condividere in modo più equo le terapie, incluse quelle sviluppate con i dati sugli agenti patogeni forniti dagli stessi Paesi del Sud globale”.
Insomma: gli esempi potrebbero continuare e OXFAM si sofferma anche su quella che chiama debitocrazia, ossia il meccanismo attraverso cui le oligarchie costringono – attraverso l’aumento del debito pubblico degli Stati nazionali – a tagli sociali e privatizzazioni utili ai loro interessi, ma di questo abbiamo già parlato tante volte. Quello che è sicuro, è che se anche voi fate la vostra parte e continuate a sostenerci condividendo i nostri video, iscrivendovi ai nostri canali e aderendo alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal, vi promettiamo che l’unica informazione che sentirete non è quella dei media al servizio di queste oligarchie.

E chi non aderisce è Giorgia Meloni

Ucraina, Libano, Cina: l’incredibile fenomeno editoriale che racconta la sconfitta dell’Occidente

“Perché l’Occidente non accetta la propria sconfitta?”; eh, già: perché? A porsi la domanda nella prefazione della sua ultima fatica, La sconfitta dell’Occidente, è Emmanuel Todd, uno degli intellettuali francesi più originali e controversi degli ultimi decenni; celebre per aver previsto l’implosione dell’universo sovietico nel suo Il crollo finale del 1976 – come, d’altronde, di essersi completamente illuso sul crollo dell’impero USA e la rinascita europea nel suo Dopo l’Impero del 2003 – Todd ha l’innegabile pregio di porsi le domande fondamentali e di avere il coraggio di proporre delle risposte che, anche quando non sono del tutto condivisibili, danno un contributo fondamentale al dibattito. E lo fa da vero ottoliner: “La pace alle condizioni imposte dai russi” scrive infatti Todd “significherebbe una caduta di prestigio per gli Stati Uniti, il che significherebbe la fine dell’era americana nel mondo, il declino del dollaro, e quindi della capacità statunitense di vivere del lavoro complessivo del pianeta”, un lusso che gli USA, oggettivamente, non si possono concedere; secondo Todd, infatti, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008 “Gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo” e da allora “l’obiettivo principale è stato quello di rafforzare il controllo sugli alleati: dall’Europa occidentale al Giappone, passando per la Corea del Sud e Taiwan”. Dopo anni di tentato disaccoppiamento dall’economia cinese, infatti, gli USA importano ormai più dagli alleati vassalli che non dalla Cina e, ancor più che per i beni materiali, per i capitali che sostengono la finanza USA via paradisi fiscali, tutti rigorosamente sotto giurisdizione statunitense o, al limite, britannica. Ecco, così, che “La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende dal controllo dei propri vassalli”: “dal punto di vista statunitense quindi, la guerra deve continuare non per salvare la democrazia ucraina, ma per mantenere il controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente”. Ma prima di addentrarci nei meandri di quest’opera, vi ricordo di mettere un like a questo video e aiutarci, così, a combattere (anche oggi) la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi, che sono un altro degli strumenti che l’imperialismo statunitense usa per controllare i propri vassalli e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali, su tutte le piattaforme o, ancora meglio, di prendere la buona abitudine di seguire il nostro sito, unica àncora di salvataggio mano a mano che le piattaforme ci oscurano (o, ancora più subdolamente, ci demonetizzano la qualsiasi): a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un qualsiasi governo europeo a sacrificare la sua economia per fare contenta Washington, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di far conoscere a sempre più persone i veri motivi per i quali le élite europee hanno deciso di suicidarsi e che non sentirete mai citare nei media mainstream.

Emmanuel Todd

“Per molti anni la Russia ci ha avvisati che non avrebbe tollerato l’ingresso dell’Ucraina nella NATO” scrive Todd, parafrasando il pensiero di Mearsheimer; “L’Ucraina però, il cui esercito era stato preso in carico dai consiglieri militari dell’Alleanza, stava per diventare un membro de facto. Perciò i russi hanno agito coerentemente a quanto annunciato: sono entrati in guerra. L’unica cosa che dovrebbe sorprenderci, sinceramente, è la nostra sorpresa”. Nei confronti di Mearsheimer e, più in generale, dei realisti, Todd avanza però una critica che sottoscriviamo in pieno: “Al pari dei nostri esegeti televisivi, che nell’atteggiamento di Putin non hanno saputo cogliere null’altro che una follia omicida” commenta infatti Todd, “nelle azioni della NATO Mearsheimer rileva solamente irrazionalità e irresponsabilità”; Mearsheimer, insiste Todd, “tratta i neoconservatori, che sono arrivati ad assumere il controllo dell’establishment geopolitico americano, come noi trattiamo Putin: li psichiatrizza”. Quello che a Todd non convince, in particolare, è che Mearsheimer si immagina “un mondo fatto di Stati-nazione” sovrani, dove con sovranità si intende “la capacità dello Stato di definire le proprie politiche interne ed estere in maniera indipendente, senza alcuna ingerenza o influenza esterna”, ma Todd sottolinea come questa sovranità sia in realtà “un bene raro a disposizione solamente di pochi Stati, primi tra tutti gli Stati Uniti, la Cina e la stessa Russia. D’altra parte, gli scritti e i discorsi più ufficiali menzionano con toni sprezzanti il vassallaggio dei paesi dell’Unione europea nei confronti di Washington o descrivono l’Ucraina come un protettorato americano”. Todd, anzi, fa anche un passo ulteriore che, anche se non ci sentiamo di sottoscrivere del tutto, apre una riflessione importante: “La verità è semplice” sostiene: “in Occidente lo Stato-nazione ha cessato di esistere”; secondo Todd, infatti, “Il concetto di Stato-nazione presuppone che il territorio in questione goda di un minimo di autonomia economica. Tale autonomia non esclude, ovviamente, gli scambi commerciali, tuttavia questi dovrebbero essere, perlomeno nel medio o nel lungo termine, più o meno equilibrati. Un deficit sistematico rende obsoleta la nozione di Stato-nazione, giacché l’entità territoriale in questione è in grado di sopravvivere solamente attraverso la riscossione di un tributo o di una prebenda proveniente dall’estero, senza alcuna contropartita. E quindi, da questo punto di vista, Paesi come la Francia, il Regno Unito e gli stessi Stati Uniti, i cui commerci esteri non sono mai in equilibrio ma sempre in deficit, non sono più del tutto Stati-nazione”. “Il tenore di vita degli statunitensi” ad esempio, insiste Todd, “dipende da un numero di importazioni che le esportazioni non riescono più a coprire” e, aggiungiamo noi, il tenore di vita degli statunitensi non è manco il problema principale: ancora più importante è la concentrazione di capitale nelle mani delle sue oligarchie, che non ha precedenti nella storia umana e che dipende integralmente dal dominio imperiale degli USA e del dollaro; e, proprio per questo, il semplice ripiegamento che sarebbe non solo auspicabile, ma anche possibile nel caso fossimo di fronte a un normale Stato-nazionale (come d’altronde già avvenuto non solo in Vietnam, ma anche in Iraq e in Afghanistan), sarebbe oggi, nel contesto della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, piuttosto inverosimile.
E’ alla luce di questo che, invece del “realismo strategico degli Stati-nazione”, per capire gli sviluppi futuri dobbiamo fare nostra piuttosto “la mentalità post-imperiale, emanazione di un impero in disfacimento”: una delle caratteristiche fondamentali di questo Stato post-imperiale, sottolinea Todd, è che “rende ormai impossibile continuare a utilizzare il termine democrazia”; è invece ancora del tutto legittimo continuare a utilizzare il termine liberale, “giacché nell’Ovest la protezione delle minoranze è divenuta un’ossessione”. Ma se, solitamente, con minoranze ci riferiamo a “coloro che sono oppressi, dai neri agli omosessuali”, “la minoranza meglio protetta nel mondo occidentale è senza dubbio quella dei ricchi, a prescindere che essi rappresentino l’1% della popolazione, lo 0,1, o lo 0,01”, motivo per cui lo Stato post-imperiale, suggerisce Todd, andrebbe definito oligarchia liberale: “Le leggi però non sono mutate. Formalmente sono ancora democrazie liberali, con tanto di suffragio universale, di parlamenti e talvolta presidenti eletti, nonché di una stampa libera. A sparire piuttosto sono stati quelli che potremmo definire i costumi democratici. Le classi più istruite si ritengono intrinsecamente superiori e le élite si rifiutano di rappresentare il popolo, le cui rivendicazioni vengono bollate come populismo”. Rimanendo l’istituto delle libere elezioni ancora in vigore, ma dovendo categoricamente tenere il popolo “fuori dalla gestione economica e dalla distribuzione della ricchezza”, il popolo quindi, molto banalmente, “deve essere ingannato”. Sistematicamente. Anzi, sottolinea Todd: ingannare il popolo è “diventato il lavoro a cui le élite riservano l’assoluta priorità”. Dall’altra parte della barricata, invece, si trovano paesi – come la Russia – che non sono liberali e non proteggono nessuna minoranza, “né gli omosessuali, né gli oligarchi”, però sono maggiormente rappresentativi della maggioranza e quindi, da un certo punto di vista, sono paradossalmente più democratici e, per questo, possono essere definite democrazie autoritarie. Lo scontro tra modelli contrapposti quindi, secondo Todd, effettivamente c’è, ma non c’entra niente lo scontro tra democrazie e regimi autoritari: è, appunto, uno scontro tra oligarchie liberali e democrazie autoritarie.
Ma se sono chiari (e perfettamente razionali) i motivi che hanno spinto lo Stato post-imperiale a ingaggiare una guerra totale tra oligarchie liberali e democrazie autoritarie, quello che rimane da capire è come abbiano fatto a convincere anche noi: “L’Europa” infatti, sottolinea Todd, “si trova impegnata in una guerra profondamente contraria ai suoi interessi e autodistruttiva, e questo nonostante i suo promotori ci abbiano venduto per almeno 30 anni l’idea di un’unione sempre più profonda che, grazie all’euro, sarebbe diventata una potenza autonoma, nonché un contrappeso ai giganti rappresentati da Cina e Stati Uniti”; e, invece, “l’Unione europea è scomparsa appresso alla NATO, oggi più che mai asservita agli Stati Uniti”. Il punto è che “L’Europa, contemporaneamente oligarchica e anomica, è stata raggiunta e invasa dai meccanismi sotterranei della globalizzazione finanziaria, la quale non è una forza cieca e impersonale, ma un fenomeno diretto e controllato dagli Stati Uniti”: in un sistema oligarchico, spiega Todd, la ricchezza si accumula ai vertici della struttura sociale e questo patrimonio deve andare da qualche parte. Fino a qualche anno fa, fondamentalmente, andava nel paradiso fiscale e bancario per eccellenza delle élite europee: la Svizzera, prima nelle valute nazionali e poi, quando è arrivato l’euro, in euro; “Certo” sottolinea Todd: “quando la Svizzera era un paradiso fiscale per i ricchi europei rappresentava un problema di non poco conto per i governi di sinistra di tutta Europa. Tuttavia” paradossalmente “la confederazione elvetica allo stesso tempo assicurava l’indipendenza delle nostre oligarchie dagli Stati Uniti”. Dopodiché gli USA hanno convinto la Svizzera a rivedere il segreto bancario che, a prima vista, sembrava una cosa più che buona se non fosse che i capitali, invece che tornare in superficie e andare a contribuire allo sviluppo economico dei Paesi di provenienza, hanno preso la via di altri paradisi fiscali ancora più opachi e irraggiungibili e tutti controllati, direttamente o indirettamente, dagli USA o dalla Gran Bretagna: dalle Isole Vergini alle isole Marshall, passando per le Bahamas e Panama; e prima di prendere la strada di questi lidi esotici, sono stati tutti trasformati in dollari. Questo processo di trasferimento – più o meno forzato – dei fondi neri delle oligarchie europee dal paradiso svizzero a quelli esotici sotto controllo angloamericano, in particolare, ha subito un’accelerazione spaventosa a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, causata dagli USA e pagata dai cittadini europei; risultato: il dollaro s’è rivalutato sull’euro del 25%. Ma, soprattutto, “Se, come suggeriscono alcuni studi, il 60% del denaro dei ricchi europei dà i suoi frutti sotto l’occhio benevolo di autorità superiori situate negli Stati Uniti, si può ritenere che le classi elevate europee abbiano perduto la propria autonomia mentale e strategica”. Ma non solo: se fino a quando stavano nei conti cifrati in svizzera, infatti, questi patrimoni se ne stavano buoni buoni col solo scopo di sfuggire alla tassazione, da quando si sono trasferiti nei paradisi fiscali governati dagli USA sono stati rimessi in circolazione e sono andati a gonfiare ulteriormente la bolla speculativa; quindi non solo hanno rafforzato il dollaro, ma hanno rafforzato in maniera esorbitante il prezzo delle azioni e dei prodotti finanziari scambiati sui mercati finanziari USA. Insomma: hanno contribuito, in maniera fondamentale, a far crescere il gigantesco schema Ponzi che sta alla base dello strapotere finanziario globale degli USA.
E, forse, anche ben oltre le intenzioni iniziali delle oligarchie europee; se infatti, inizialmente, sono state attratte dalla possibilità di mettere a frutto i loro capitali, c’è un prezzo da pagare che forse non avevano tenuto in dovuta considerazione: tutti questi passaggi di capitali infatti, sottolinea Todd, avvengono attraverso mezzi telematici e tutti gli spostamenti telematici sono monitorati dalla National Security Agency. “Quando si pensa al potere di controllo statunitense” scrive Todd “la prima cosa che viene in mente è quella di un gendarme del mondo, che interviene in piccoli paesi quali l’Iraq, o gli Stati dell’America Centrale. Non si considera invece l’elemento forse più importante: la sorveglianza compiuta dall’NSA sulle oligarchie dei paesi alleati/vassalli”: come Epstein organizzava baccanali illegali per i VIP in combutta con i servizi per poi ricattarli, sostanzialmente lo stesso avrebbe fatto l’NSA con i trasferimenti di capitali illegali dei nostri ultra-ricchi e “gli obiettivi prioritari della NSA” sottolinea Todd “non sono i nemici degli Stati Uniti, ma i loro alleati: europei, giapponesi, coreani e latinoamericani”. Insomma: sostituendo i paradisi fiscali sotto giurisdizione angloamericana alla Svizzera, gli USA non hanno solo alimentato a dismisura la dittatura del dollaro e il predominio di Wall Street, ma hanno anche teso una trappola agli amici più stretti trasformandoli tutti in dei piccoli Marcos junior, il presidente delle Filippine che gli USA tengono per le palle attraverso il controllo dell’accesso ai fondi neri accumulati dal padre dittatore e nascosti nei paradisi fiscali. Per fare questo lavoro strategicamente fondamentale, ricorda Todd, l’NSA impiega 30 mila tecnici direttamente e altri 60 mila attraverso gli appaltatori privati: “Se i cittadini europei possono ignorare dove si trovino i soldi dei propri leader” commenta sarcastico Todd, “l’NSA lo sa, e quei dirigenti sanno che lei lo sa”; “Vladimir Putin quindi” continua Todd “può ben ironizzare quando suggerisce che se gli Stati Uniti chiedessero ai leader europei di impiccarsi, questi lo farebbero, ma con la preghiera di poter utilizzare delle corde prodotte da loro. Richiesta che poi tra l’altro verrebbe anche respinta, ovviamente per proteggere gli interessi dell’industria tessile americana”. Sotto ricatto, le nostre oligarchie quindi, quando gli USA hanno architettato la guerra per procura in Ucraina, non hanno avuto il coraggio di obiettare, magari anche perché – completamente dedite al parassitismo più decadente e completamente scollegate dalla realtà come sono – manco avevano gli strumenti per capire in cosa si stavano imbarcando: “Una delle grandi sorprese della guerra” sottolinea Todd “è stata la solidità della Russia” nonostante fosse “facile da prevedere”; “Perché mai” si chiede Todd “gli occidentali hanno sottovalutato a tal punto il proprio avversario, dal momento che non c’era nulla di segreto riguardo alle sue risorse?”. Nonostante un esercito di oltre 100 mila persone coinvolte nella “intelligence community occidentale, come si è potuto credere che l’esclusione dal sistema SWIFT e l’imposizione di sanzioni avrebbero ridotto in miseria un Paese di 17 milioni di chilometri quadrati, che possiede tutte le risorse naturali possibili e che dal 2014 si è preparato certosinamente ad affrontare simili misure ritorsive?”.
La Russia che si è trovata ad affrontare la guerra per procura a partire dal 2022, infatti, rispetto alla famosa pompa di benzina con la bomba atomica del post Eltsin, a ben vedere qualche piccolo progresso l’aveva fatto: per fare degli esempi terra terra, “Tra il 2000 e il 2017, ovvero, nella fase centrale della stabilizzazione intrapresa da Putin” ricorda Todd, “il tasso di decessi legati all’alcol è passato dal 25,6 all’8,4%, quello di suicidi dal 39,1 al 13,8, e quello di omicidi dal 28,2 al 6,2 %, per poi ridursi ancora al 4,7 l’anno successivo”; la mortalità infantile, nel frattempo, invece è passata dai 19 casi ogni 1000 bambini entro i primi 5 anni di vita del 2000, ai 4,8 casi del 2023, contro i 6,3 degli Stati Uniti. Nel frattempo, la Federazione Russa non solo raggiungeva l’autosufficienza alimentare, ma si affermava come uno dei maggiori esportatori di prodotti agricoli al mondo, con un giro d’affari superiore ai 30 miliardi di dollari, “una cifra superiore alle entrate derivanti dalle esportazioni di gas naturale, che hanno raggiunto quota 26 miliardi”: se nel 2012 la produzione di grano ammontava a 37 milioni di tonnellate, nel 2022 aveva raggiunto quota 80 milioni; per fare un confronto, “Nel 1980, quando Reagan salì al potere, la produzione statunitense di grano era pari a 65 milioni di tonnellate. Nel 2022, era scesa a 47”. La Russia si è affermata anche come il “primo esportatore mondiale di centrali nucleari, superando la Francia”, per non parlare del fatto che la Russia era l’unica potenza al mondo che, per quanto riguarda internet, “pur essendo rimasta largamente aperta alle soluzioni occidentali” aveva “equivalenti locali che facevano la concorrenza al monopolio delle GAFAM” e, cioè, Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Paradossalmente, a dare un’accelerata erano state proprio le sanzioni introdotte a partire dell’annessione della Crimea nel 2014 che, come ormai accade sempre più spesso, “l’hanno costretta a trovare dei sostituti per le sue importazioni e a riorganizzarsi internamente”; e idem con quelle on steroids introdotte nel 2022 che, come scriveva l’economista James Galbraith, si sono “rivelate manifestamente un dono”: “Senza le sanzioni” spiegava in un articolo dell’aprile 2023 “è difficile immaginare come si sarebbero potute presentare le opportunità oggi a disposizione delle aziende e degli imprenditori russi. Da un punto di vista politico, amministrativo, legale e anche ideologico, se si considera la profonda presa che l’idea di economia di mercato aveva sui decisori politici, l’influenza degli oligarchi e la natura tutto sommato limitata dell’operazione militare speciale, ancora all’inizio del 2022 il governo russo avrebbe avuto la massima difficoltà a introdurre misure paragonabili, quali dazi doganali, quote ed espulsioni di imprese”.
Insomma: come abbiamo sottolineato mille volte in passato, le sanzioni hanno permesso a Putin di accelerare quel processo di concentrazione e di ammodernamento dell’apparato produttivo che, fino ad allora, era stato ostacolato dalle oligarchie e dalle élite politiche cresciute a pane e liberalismo; il punto, sottolinea Todd, è che Russia e Bielorussia assieme rappresentano appena il 3,3 per cento del PIL nominale globale e, quindi, in molti si sono illusi che si trattasse di nani economici. In realtà però, al contrario di tanti concorrenti occidentali ultra-finanziarizzati (a partire dagli USA), “Il PIL della Russia rappresenta la produzione di beni tangibili piuttosto che di attività non meglio precisate”. Il PIL USA invece, sostiene Todd, è una mezza truffa: nel 2022 ammontava a circa 76 mila dollari pro capite; “Il 20%, poco più di 15 mila dollari” calcola Todd “corrisponde a settori dell’economia che definirei fisici: industria, edilizia, trasporti, miniere, agricoltura”, ma i restanti 60 e passa mila, continua Todd, sono tutti servizi e, secondo alcune stime, sarebbero realmente produttivi per non oltre il 40%. Il resto, appunto, sarebbe fuffa: come spiega sempre Michael Hudson, vanno a contribuire al PIL, per fare un esempio, anche i debiti che contrai per studiare, ma il valore d’uso della tua laurea è lo stesso di uno studente italiano che magari, in tutto, invece che 3-400 mila dollari ne ha spesi 10 mila scarsi; nominalmente, il tuo PIL è 390 mila dollari più alto del mio, ma quando poi c’è da curare un appendicite o da costruire un trattore o da combattere in una trincea, quei 390 mila dollari di PIL in più, tutto sommato, te li metti abbastanza al culo. Una misura un po’ più tangibile e meno astratta della capacità di produrre ricchezza materiale concreta, spiega Todd, può essere la stima di quanti ingegneri l’intero sistema è in grado di sfornare l’anno: nel 2020, ricorda Todd, il 23,4% degli studenti che raggiungevano un’istruzione superiore in Russia erano ingegneri; negli USA il 7,2 che, tradotto, significa 1,35 milioni di ingegneri negli USA contro oltre 2 milioni in Russia, nonostante abbia meno della metà della popolazione. I lavoratori specializzati gli USA li importano direttamente, così che i costi per la loro formazione sono a carico di altri Stati; il 30% dei fisici sono stranieri, come addirittura il 39% dei programmatori software e, in larghissima maggioranza, asiatici: saranno tutti disposti a contribuire allo sforzo bellico contro i loro Paesi di origine? E saranno in grado gli USA, invece, di impedire che magari tornino a casa con qualche informazione sensibile? I nativi, invece, si dedicano fondamentalmente al diritto e alla finanza; insomma: invece che per contribuire alla creazione di ricchezza, studiano per acquisire “una superiore capacità di predazione della ricchezza prodotta dal sistema”. Tutte le statistiche indicano che le persone più istruite hanno redditi maggiori, ma “I redditi più alti delle persone con un livello di istruzione maggiore, in realtà, riflettono più che altro il fatto che gli avvocati, i banchieri e molte altre figure che trovano posto nel terziario sono, se in branco, eccellenti predatori. E’ l’ultima perversione dello stato post-imperiale: la moltiplicazione dei laureati crea una moltitudine di parassiti”.
Una vasta manodopera ultra-qualificata, insieme a una base industriale sicuramente non all’ultimissima moda, ma (con qualche ritocchino qua e là) ancora ampiamente efficiente e produttiva, è una delle eredità che Russia e Bielorussia si sono ritrovate del mondo sovietico che, dopo decenni di propaganda, siamo abituati a considerare una roba da età della pietra, ma che, in realtà, prima dell’invasione coloniale e della guerra civile sotterranea imposta dall’invasore USA subito dopo il crollo, aveva ottenuto anche risultati di tutto rispetto: ad esempio superare la quota fatidica di un quarto della popolazione complessiva che riceve, appunto, un’istruzione superiore; se da un lato, quindi, era piuttosto facile prevedere la capacità di tenuta dell’economia russa di fronte alle sanzioni occidentali, dall’altro, allo stesso tempo, la minaccia rappresentata dalla Russia in termini di sicurezza è stata decisamente esagerata, a prescindere dall’idea che uno si sia fatto sulle sue reali intenzioni. Il punto, sostiene Todd, è proprio strutturale: come ripete in ogni occasione lo stesso Putin, la Russia ha un enorme problema demografico. Sono pochini e in calo e “Con una popolazione in calo e una superficie di 17 milioni di chilometri quadrati, più che ambire a conquistare nuovi territori, in realtà, si domanda come potrà continuare a occupare quelli che già possiede”. Il problema demografico, poi, ha influenzato alla radice anche la dottrina militare che in Russia, appunto, “si fonda sulla constatazione che gli uomini a disposizione sono diventati rari”; ed è proprio per questo motivo, sostiene Todd, che “la Russia è entrata in Ucraina con appena 120 mila soldati”: altro che blitzkrieg fallito fantasticato dai NAFO alla ricerca di una sconfitta immaginaria di Putin nel regno della loro fantasia suprematista! E ancora oggi, continua Todd, “La priorità dei russi non è quella di conquistare il maggior numero possibile di territori, ma di perdere il minor numero possibile di soldati”, come hanno ampiamente dimostrato durante la controffensiva Ucraina dell’autunno 2022 quando “hanno preferito abbandonare a est la parte dell’oblast di Charkiv sotto il loro controllo, e a sud ritirarsi senza combattere sulla riva sinistra del Dnepr”. “Proviamo a sottrarci per un attimo all’emozione che, giustamente” continua Todd “ci suscita la violenza della guerra. Il problema non è la Russia: è un paese troppo vasto per una popolazione in calo, e non sarebbe mai in grado di assumere il controllo del pianeta né tantomeno ambisce a farlo. E’ una potenza del tutto normale, la cui evoluzione non ha assolutamente niente di misterioso. Non è in atto alcuna crisi russa che sta destabilizzando l’equilibrio globale. A mettere a rischio l’equilibrio del pianeta è invece una crisi tutta occidentale” conclude Todd: “la crisi terminale degli Stati Uniti”.
Purtroppo, quei pezzi di élite che sono sotto ricatto USA perché c’hanno i fondi neri nei paradisi fiscali (con magari tutti i movimenti belli tracciati nelle mani dell’NSA che può far saltare qualsiasi testa voglia quando vuole), sono anche gli editori dei giornali e delle Tv di merda che siete costretti a guardare normalmente: non saranno loro a darci gli strumenti per capirci qualcosa e, magari, anche per reagire; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte. Quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Daniele Capezzone: amore per il napalm e suprematismo metafisico

Attenzione: Spoiler Alert!
“È il caso di renderci conto che esistono appuntamenti con la storia non rinviabili. Dall’11 settembre in poi, l’Islam fondamentalista ci ha dichiarato una guerra che è tutt’ora aperta, e che il 7 ottobre ha conosciuto un picco atroce e autoevidente nella sua crudeltà assoluta”; “Un dittatore sanguinario, un regime, un gruppo terroristico? NO: queste realtà tendiamo a non volerle vedere. Il pericolo – in un gioco di specchi deformanti – si incarna in chiunque segnali il pericolo medesimo: nel senso che, come una novella Cassandra, rischierà di non essere creduto, o peggio verrà descritto come guerrafondaio nemico della Pace” (Daniele Capezzone, Occidente, noi e loro – Contro la resa a dittatori e islamisti).
Non riuscivamo quasi a crederci quando ci hanno detto che, a soli pochi giorni di distanza dall’uscita del monumentale Grazie, Occidente di Federico Rampini, un altro capolavoro assoluto del pensiero politico italiano fosse già disponibile in libreria: stiamo naturalmente parlando di Occidente: noi e loro di Daniele Capezzone, abile cortigiano, esponente di spicco del suprematismo metafisico e da sempre in prima linea nella lotta contro i nemici dell’Occidente, a costo di qualsiasi confronto con la realtà e con la verosimiglianza. La prosa capezzoniana infatti, con chiari riferimenti al Dalì e al Kandinsky, è maestra insuperata nel rappresentare l’irrazionale e l’incomprensibile, stordendo il lettore con metafore ardite come questa: “È ora di mettere i piedi nel piatto, di dire le cose come stanno!” o riflessioni come questa: “Loro ce lo hanno fatto capire chi siano e cosa vogliano: dall’11 settembre 2001 al 7 ottobre 2023, per citare due date spartiacque. Sono quelli che ci vogliono uccidere o sottomettere, sono quelli che amano la morte – propria e altrui – più della loro stessa vita”. Dobbiamo ritenerci fortunati perché, un po’ come quando Michelangelo e Raffaello si sfidavano nella Roma del ‘500 e dalla loro competizione nacquero i massimi capolavori del nostro Rinascimento, allo stesso modo il Rampini e il Capezzone si sono come gettati senza indugi in un agone letterario da cui siamo sicuri tutta la cultura italiana uscirà più forte e rinnovata.

Daniele Capezzone

Ma andiamo con ordine: Daniele Capezzone nasce a Roma nel 1972 e dopo una formazione classica nelle più prestigiose scuole della Capitale si avvicina agli ambienti del suprematismo metafisico romano, entrando nelle grazie di figure del calibro di Marco Taradash ed Emma Bonino. Trovato presto lavoro come messo imperiale, il genio letterario del Capezzone non si dimostra, però, precoce come quello del Rampini; bisognerà infatti aspettare il 2004, con la pubblicazione del saggio Democrazia istantanea: Velocità e decisione – quello che anche alla sinistra converrebbe imparare da Berlusconi, per vedere il nostro fare il suo ingresso nel panorama della saggistica fantasy italiana. Carattere coraggioso e intraprendente, sempre pronto a innovarsi e rinnovarsi sapendo fiutare (come pochi) i nuovi orientamenti del potere, il Capezzone dimostrerà lo stesso eclettismo anche nell’arte poetica e letteraria; al pensatore romano piace, infatti, mettersi alla prova con tutti i principali generi letterari del suprematismo metafisico, dal già citato fantasy ai poemetti idillici, al genere apologetico come, ad esempio, in E basta con ‘sto fascismo. Come la critica non ha giustamente mancato di sottolineare, è però forse nei romanzi di formazione e nelle opere di fantasia che il Capezzone riesce a scatenare appieno tutta la sua immaginazione e verve creativa; ed è infatti prima con Euroghost: un fantasma si aggira per l’Europa: l’Europa, ma soprattutto nel suo ultimo Occidente, noi e loro che il poeta romano si consacra al grande pubblico e si riserva un posto di primo piano nel Pantheon del suprematismo metafisico occidentale.
La trama di Occidente, noi e loro è la seguente: la protagonista del romanzo è la bella Occidente, principessa dal cuore grande e l’animo gentile, alle volte forse un po’ capricciosetta, ma alla quale è impossibile non volere bene; la principessa Occidente è costretta ad affrontare un mondo pieno di creature malvagie e e senza scrupoli, da perfidi dittatori sanguinari che odiano il bene e amano il male a umanoidi fanatici e dalla pelle scura che cercano in tutti i modi di farle del male perché ne invidiano la ricchezza e la bellezza. Come se non bastasse, però, il reame della principessa Occidente è popolato da figure meschine che invece di voler uccidere tutti i nemici della principessa, tramano insieme a loro e mirano alla sua uccisione: riuscirà la bella Occidente, ogni giorno sempre più minacciata da queste creature malvagie, a vincere le proprie debolezze, accettare ogni sacrificio e difendere con ogni mezzo necessario la civiltà e la libertà del reame? “Ho iniziato a stendere queste pagine lo scorso 25 aprile: come tutti sappiamo, si tratta del giorno in cui si commemora la caduta della dittatura fascista e la ripresa del cammino – interrotto più di vent’anni prima – nella direzione della democrazia e della libertà. Se fosse così, come si potrebbe non desiderare un 25 aprile anche per tutti gli oppressi di oggi del mondo? Un 25 aprile per gli iraniani, un 25 aprile per i venezuelani, un 25 aprile per i cubani? E poi, chissà, un immenso 25 aprile per i cinesi o per i russi?”; “Per stare ai conflitti aperti in questo momento: gli ucraini vorrebbero un loro 25 aprile, e un 25 aprile se lo meriterebbero per un verso gli israeliani e per l’altro gli stessi palestinesi ostili ad Hamas, se gli uni e gli altri potessero vedere la fine, e la cancellazione, la distruzione di quel mostro terroristico”. L’attacco capezzoniano è in medias res e il lettore, dopo appena poche righe, viene come catapultato in un mondo dove anche le più elementari regole della logica e della geometria cessano di valere: il 25 aprile certo, ci dice determinato il poeta, ma perché allora non immaginarsi il battaglione Azov commemorare la stessa festività, oppure i palestinesi, festeggiando finalmente la loro libertà e indipendenza nazionale dopo anni di invasioni, colonizzazioni e massacri da parte di…Hamas. Sarebbe possibile, eccome! Sicuramente anche la bella Occidente ne gioverebbe e se ne rallegrerebbe, ma, ma… “Invece no: al solo orecchiare un argomento del genere i nostri compagni di sinistra (e pure qualche residuato anti-atlantista di destra) tendono a storcere il naso e la bocca, ad alzare il sopracciglio, e soprattutto a recitare le loro ben note formulette prestampate: no all’esportazione della democrazia, no alla pretesa di superiorità del modello occidentale, no all’unilateralismo, sì al dialogo, sì alla diversità bla bla bla…”
Bla bla bla… Forse anche io sto un po’ delirando, ma è come se il Capezzone, in questo incipit, avesse racchiuso in pochi semplici versi tutto il nocciolo, la più profonda essenza – oserei dire – di tutto il suprematismo metafisico; se guardate bene, basta infatti a cambiare di segno a queste stantie formulette dei soliti odiatori dell’Occidente ed ecco che cosa viene fuori: sì all’esportazione della democrazia, sì alla superiorità del modello occidentale, sì all’unilateralismo, no al dialogo e no alla diversità. Insomma, come una novella Sfinge, il Capezzone ci ha rivelato i 5 principi fondamentali del suprematismo metafisico. In questi mesi, ci confessa amaro il poeta, è soprattutto il fronte mediorientale a non avergli permesso sonni tranquilli perché, come se non bastassero gli umanoidi dalla pelle scura assetati di sangue, la bella Occidente è infatti costretta a vedersela con pericolose spie e traditori: “Molte voci, incredibilmente, mostrano inquietudine non per i comportamenti di Hamas ma per quelli di Israele, come se la minaccia non venisse dalle bestie dell’islamismo fondamentalista ma dall’unica democrazia presente nella regione”. “Ce lo spiegano politici, intellettuali, docenti universitari” continua poi il poeta, probabilmente in stato allucinatorio: “c’è sempre una buona ragione per vergognarci di noi stessi, per disprezzarci, per praticare una sorta di autorazzismo”; eppure “Loro ce lo hanno fatto capire chi siano e cosa vogliano dall’11 settembre 2001 al 7 ottobre 2023, per citare due date spartiacque. Sono quelli che ci vogliono uccidere o sottomettere, sono quelli che amano la morte – propria e altrui – più della loro stessa vita”; “La realtà” conclude poi “è che gli altri – usiamo la parola proibita: i nostri nemici – si stanno preparando, sono almeno psicologicamente pronti alla guerra, a un confronto decisivo”. Un confronto decisivo con la realtà che il filosofo di Roma, dando prova straordinaria coerenza, si è sempre rifiutato di fare, come ad esempio quando si lancia in ragionamenti dal sapore onirico come questo: “Ma alla fine come diavolo si spiega, nelle nostre città, questa ondata di scoperto e perfino provocatorio antisemitismo, che ormai non viene nemmeno minimamente truccato – travestito – ammorbidito? La finzione manifestiamo per i palestinesi non certo per Hamas è durata pochissimo, lasciando spazio a una spiacevole e imbarazzante verità: una crescente e sfacciata esibizione di ostilità antiebraica di sinistra”. O in voli pindarici come questo: “Liberare Rafah non è un capriccio di Netanyahu: stiamo parlando dell’ultima roccaforte controllata da Hamas. E sarebbe assolutamente insensato lasciare questo bastione nelle mani dei terroristi. Da lì ricomincerebbero appena possibile a colpire. Chi vuole fermare Gerusalemme, sta oggettivamente offrendo un salvacondotto ai terroristi”. Insomma (è costretto a concludere amaro): “Questa grande guerra forse non ha ancora un vincitore, nel senso che fortunatamente le autocrazie non sono riuscite a prevalere: ma non stiamo vincendo noi, anzi stiamo decisamente perdendo terreno” anche perché, purtroppo, “negli ultimi anni, per un verso il Covid e per altro vero gli eventi bellici, hanno innescato una specie di insidioso nuovo socialismo con piani giganteschi che puntano a un’innaturale e artificialissima trasformazione, a un luciferino riordino dell’economia e delle sue priorità”. La soluzione? “Sarebbe istruttivo per leader ed elettori rileggere anche solo per sommi capi, la storia delle guerre puniche, e il livello di paura e di sofferenza con cui Roma dovette misurarsi prima della vittoria su Cartagine. Che la consacrò come indiscussa potenza del Mediterraneo. Quanto timore, quante sconfitte parziali, quale livello di rischio esistenziale, quali perdite quale fatica nel ricostruire alleanze oltre che nel concepire una riscossa militare e politica, fino al trionfo”.
Miei cari amici, che dire: anche questa puntata dedicata ai più grandi intellettuali del ventunesimo secolo sta volgendo termine, ma se ti è piaciuta e pensi che ogni suprematista metafisico si meriti, in fondo, il suo spazietto nel Pantheon della vergogna e del pubblico ludibrio, allora supporta Ottolina Tv iscrivendoti ai nostri canali, attivando la campanella e aderendo alla nostra campagna di sottoscrizione su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Emma Bonino

“Grazie, Occidente!” – Federico Rampini e il suprematismo metafisico

“La superiorità dell’Occidente, è nei fatti. Gli altri, almeno quegli altri che hanno avuto successo, ci hanno semplicemente copiato”; “La Russia vive da molti secoli in un limbo: in ammirazione del progresso e del benessere occidentali, attratta dall’America e dall’Europa di cui è per certi aspetti invidiosa, ma incapace di diventare una di noi”. Federico Rampini, a cui dobbiamo questi straordinari versi tratti della sua ultima fatica letteraria Grazie, Occidente!, non ha invece nulla da invidiare a un Platone, un Hegel o un Dostojevscki e deve – anzi – essere considerato appieno uno dei più grandi pensatori del ventunesimo secolo. Nato 1957 a Genova, famoso per vestire sempre con delle bretelle (in omaggio ai suoi beniamini e datori di lavoro anglosassoni), il Rampini diventa presto noto alle cronache televisive e letterarie grazie alla sua preziosa ed instancabile opera di zerbinismo: il pensatore di Genova per tutta la vita si dividerà, infatti, tra Roma e Washington nella veste di intellettuale collaborazionista, esercitando di fatto il più antico mestiere del mondo nella punta di diamante delle colonie mediterranee dell’Impero; è con il trittico Fermare Pechino. Capire la Cina per salvare l’Occidente, Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori e America. Viaggio alla riscoperta di un Paese che il nostro affina definitivamente il suo stile xenofobo e paranormale, consacrandosi come membro di punta della corrente letteraria del suprematismo metafisico in compagnia giganti assoluti come il Cerasa, il Molinari e il Parenzo. Spesso chiamato in televisione per commentare i fenomeni più complessi dell’attualità geopolitica, il poeta risponde sempre presente e contribuisce al pubblico dibattito con riflessioni mai banali come questa: “Putin vuole a tutti i costi perdere contro la NATO. Adesso infatti, sta perdendo contro la piccola Ucraina. Per evitare brutte figure quindi, deve trascinare a tutti i costi la NATO in Guerra, al fine di salvarsi la faccia” (LA7, ottobre 2022). O ancor più con straordinarie premonizioni metafisiche di questo calibro: “Alla fine di quest’anno, la crescita del PIL americano potrebbe essere addirittura doppia rispetto a quella della Repubblica Popolare Cinese” (Corriere della Sera, 2 settembre 2023) e potremmo continuare. Ma è infine con il suo ultimo lavoro Grazie, Occidente! che il percorso intellettuale del Rampini raggiunge la sua piena maturità: un’opera preziosa, un’opera straordinaria, un grande omaggio alla tradizione metafisica. Nella prefazione, ad esempio, si possono assaggiare versi come questi: “Cinesi o indiani, brasiliani o africani, il mondo è popolato da miliardi di persone che devono la loro esistenza…a noi (l’Occidente)!” e in cui capita di imbattersi in uno di quegli interrogativi esistenziali che da sempre accompagnano l’esistenza umana sulla terra, tipo “Quali tratti originali della nostra civiltà hanno fatto sì che da mezzo millennio il progresso nasca qui (in Occidente, naturalmente) e non altrove?” Insomma: un’opera destinata a rappresentare per le future generazioni di occidentali il non plus ultra del suprematismo metafisico e, al tempo stesso, un imprescindibile vademecum per ogni liberale che si rispetti.

Federico Rampini mentre guarda un pastorello Masai

“È ora che qualcuno lo dica: Grazie, Occidente!”; l’attacco rampiniano, degno di un dardo apollineo, mette subito le cose in chiaro: non saranno fatti sconti al lettore. Basta infingimenti e basta girare intorno alle cose: tutto deve essere detto e deve essere detto fino in fondo; “Grazie, Occidente. Sono due parole che non sentiremo mai pronunciate insieme. Mai”. Grazie e Occidente mai… “Non in quest’epoca storica, perlomeno”. Ehhh: “È un’espressione proibita, un tabù del nostro tempo che pure si considera tollerante” continua amaro il poeta; eppure il Rampini non teme certo di ripeterle. “Grazie, Occidente” e sembra quasi di vederlo, il poeta, durante una di queste ultime notti estive, seduto malinconico sulla battigia ripetere sibilanti le parole proibite al ritmo del frangersi e rifrangersi delle onde. Grazie, Occidente, “Ma non si può dire” continua digrignando i denti e stringendo la sabbia nei pugni. Ma perché no, poeta? A quale rischio? “A rischio di attirarsi addosso una fatwa laica” ci risponde severo; “l’equivalente della condanna che i sacerdoti scagliano contro chi osa rappresentare il Profeta”. Ecco, ma soffermiamoci un istante sulla potenza di questa immagine: la dolorosa solitudine del Rampini che, pur consapevole delle terribili ritorsioni che il pronunciare le parole proibite gli costerebbe, incurante del pericolo e al tempo stesso amareggiato per la sua gente, decide comunque di farlo… Grazie, Occidente! E poi? E poi il nulla; il lettore viene lasciato lì, sospeso, fluttuante in un desiderio insoddisfatto fino a quando il poeta non lo riprende per mano e lo conduce con sé in un flashback africano: “Sono vicino ad Arusha, in Tanzania, quando quelle due parole mi vengono in mente, scandalosamente unite”. “La frase tabù” ci racconta quasi ancora spaventato al ricordo di quell’esperienza, come Dante al ricordo del suo viaggio all’Inferno, “mi viene in mente una prima volta quando vedo un pastorello Masai, a guardia del gregge di capre, con l’occhio sul suo cellulare. Sì, in questa riproduzione del giardino dell’Eden, in quest’angolo di natura pressoché incontaminata, il ragazzino è aggrappato a quel gadget tecnologico perché ha campo, anche se per ora è solo un 3g”; “Meno veloce rispetto a quello a cui noi siamo abituati” puntualizza a questo punto il Rampini, dimostrando di essere non solo uomo di lettere, ma anche di scienza. “Quel cellulare” continua poi “è il suo mondo, gli apre gli orizzonti, popola le sue giornate con qualcosa di nuovo oltre il mestiere di accudire bestiame”: che immagine ricca di evocazioni e simbolismi nascosti! Il pastorello della Tanzania che deve tutto quello che ha a quel gadget tecnologico; e quell’apparentemente piccolo e insignificante gadget tecnologico che rappresenta, in verità, tutta la civiltà Occidentale a cui il pastorello deve – naturalmente – tutto. “Ecco: quel pezzo di tecnologia gliela abbiamo portata noi al pastorello Masai” aggiunge quasi alzando un po’ la voce il poeta “perché la telefonia mobile, è un’invenzione dell’Occidente”; e non solo certo la telefonia mobile. Per non parlare dei vaccini e dei farmaci che noi, l’Occidente, distribuiamo gratuitamente all’Africa: “Dimostriamo una certa faziosità” riflette su questo punto il Rampini, rendendo omaggio alla tradizione metafisica, “quando da una parte esaltiamo Medici Senza Frontiere ed Emergency, e dall’altra demonizziamo un miliardario come Bill Gates che distribuisce gratis reti anti-zanzare e vaccini”. E come dargli torto: “Prima la centrali a carbone, poi il petrolio, poi il gas naturale, l’idroelettrico e il nucleare, il solare, l’eolico, sono stati modi in cui l’Occidente ha traghettato il continente nero verso stadi progressivamente più efficienti e meno inquinanti”. L’uomo bianco può, insomma, dirsi soddisfatto del lavoro che ha compiuto in Africa; certo, il lavoro non è ancora finito, conclude realistico e consapevole dei sacrifici futuri, ma una cosa è indubbia : “il progresso è merito nostro”.
Quindi orgoglio, certo, ma poi sopraggiunge tutta l’amarezza perché, a questo punto, uno si aspetterebbe almeno un bel Grazie, Occidente da questi primitivi; e invece cosa fanno questi? “Mentre attraverso la Tanzania, le oligarchie politiche che comandano in Africa stanno mettendo in scena l’ennesimo processo politico all’Occidente”. [..] “Dentro il palazzo di vetro, nella città dove abito (New York) l’assemblea generale dell’ONU rimbomba delle arringhe pronunciate dai leader del Grande Sud Globale per condannare l’appoggio dell’Occidente a Israele”. Che vergogna! Che ingrati! Paradosso dei paradossi: dopo avergli dato tutto il progresso agli africani, loro ci ripagano in questo modo? E proprio nei giorni in cui il poeta sta attraversando la Tanzania? E questo processo, conclude, ha luogo “non solo in Africa, ma in tutto il mondo”. Ecco: e adesso seguiamo la penna rampiniana, tra sferzanti sillogismi e visioni oniriche, fino al cuore pulsante dell’opera: Perché possiamo dirci superiori è il titolo del capitolo centrale dove, citando raffinati studiosi occidentali, il nostro dimostra perché gli occidentali possono dirsi scientificamente superiori a tutti gli altri uomini. “La superiorità dell’Occidente, è nei fatti” afferma perentorio; “gli altri – almeno quegli altri che hanno avuto successo – ci hanno semplicemente copiato”. Un esempio su tutti? Ma la Cina, naturalmente: “Oggi” argomenta il poeta, incurante della realtà, “è di moda a Pechino teorizzare il declino dell’Occidente e la superiorità cinese […] Ma nella misura in cui Xi cerca di seguire una strada alternativa a quella americana o europea, lo fa con un mix di socialismo (dottrina che tra i massimi fondatori ha Karl Marx, tedesco) e di keynesismo (nel nome dell’economista inglese John Maynad Keynes)”. E alla luce di tutto questo ancora i cinesi fanno le bizze per i missili americani nel Pacifico puntati contro Pechino? Solo una parola: vergogna! E non solo loro, perché il vero obiettivo polemico di questa insuperata invettiva non è tanto il resto del mondo (che viene considerato alla stregua di omuncoli di robinsionana memoria), ma noi stessi: è infatti a guardarci allo specchio – la figura letteraria per eccellenza – che il Rampini ci invita; un vero e proprio bagno di realtà, un bagno di realtà metafisica. “L’America, e con essa l’intero Occidente” – riflette – “viene considerato l’impero del male da una parte delle nuove generazioni”; “La sconfitta del nazifascismo” si legge nel capitolo La fortuna di essere atlantici “fu possibile perché una generazione di giovani americani pagò una prezzo altissimo, fino a sacrificare la vita, in un conflitto europeo che non li minacciava direttamente”. E anche la democrazia italiana (non scordiamocelo mai) è, in fondo, opera americana: “In Italia una vera democrazia, e il diritto di voto alle donne, arrivarono solo dopo la liberazione a opera delle forze alleate”; “Tutto ciò è stato dimenticato. Nelle nostre scuole forse si insegna altro. E tutto questo” come se non bastasse “lo paghiamo a caro prezzo, perché sanguinari dittatori ci osservano, capiscono bene le nostre debolezze date dal nostro continuo processo a noi stessi, e se ne approfittano.”
Inutile girarci attorno: il riferimento all’Ucraina non può più essere rimandato. E invece di fare come nella seconda guerra mondiale, di mostrare i muscoli e combattere Putin il sanguinario con tutto quello che avevamo a disposizione per la libertà e la democrazia, questa volta “le armi all’Ucraina, quando arrivavano erano in ritardo, sempre in quantità e qualità inferiori rispetto alla necessità, a lungo vincolate da restrizioni pesanti. Così, mentre Putin strepitava slogan propagandistici contro l’America guerrafondaia, prendeva le misure dell’estrema cautela di Biden”. E scrutando lontani orizzonti di incertezza, e quasi presentendo catastrofi incombenti, il suprematista pone a tutti noi la più universale delle domande: “Forse un giorno nelle scuole sarà utile soffermarsi sul significato del D DAY in Normandia e Anzio, affrontando la domanda seguente: l’Europa sarebbe stata liberata dai nazifascismi, se una generazione di americani ottant’anni fa avesse rifiutato la chiamata alle armi e scelto invece di sfilare in cortei pacifisti contro Hitler?”.
Cari amici, è quasi arrivato il momento di lasciarci. E concludiamo, però, in bellezza solo con qualche citazione tratta dal capitolo Gli accerchiati siamo noi in cui il pensatore di Genova, incurante delle ripercussioni personali, non esita a chiamare il nemico per nome e cognome; anzi, i nemici: la Russia e la Cina, e la loro malvagia alleanza. Ma come e perché è nata questa amicizia del Male? si chiede. “La lunga visita di Putin nella Repubblica Popolare” recita l’attacco rampiniano “ha cementato un Asse (da notare la lettera maiuscola) che non ha alcuna logica economica: l’interscambio fra Cina e l’Occidente vale sei volte quello con la Russia”. E allora perché? Perché? Rispondici, poeta! “Tra quei due il collante è molto più forte dell’interesse materiale: è l’avversione al mondo libero”. Eccolo, lo strappo al velo di Maya; il climax metafisico ha raggiunto il suo vertice e le parole lasciano il posto all’estasi suprematista: quello che dobbiamo fare è “non lasciare che Putin e Xi Jin Ping prendano l’iniziativa nel Grande Sud Globale” e, soprattutto, educare meglio i nostri giovani nelle scuole e nelle università per evitare che si affollino ancora in “cortei pro-Hamas che trasudano odio contro l’Occidente”. Quello che proprio questi giovani non voglio capire infatti, è che “L’egemonia dell’Occidente, nei secoli in cui si è allargata a vaste aree del pianeta, non fu solo legata a una superiorità materiale, tecnica. […] la nostra espansione geografica univa lo sviluppo materiale a quello morale”. E, con queste parole, si chiude il sipario. Ma se volete nuovi spettacoli come questi e letture tratte delle opere dei migliori suprematisti metafisici contemporanei, allora mettete mi piace a questo video e aderite alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è un suprematista metafisico

La questione Ucraina e la Classe armata – con Gabriele Germani, Andrès Lasso, Antonio Mazzeo

Oggi vi riproponiamo un panel di Fest8lina; Gabriele e i nostri ospiti ci hanno parlato del conflitto in Ucraina e di come questo abbia segnato il passo rispetto ai precedenti conflitti che hanno coinvolto l’Occidente. Il ruolo della Russia, una potenza nucleare, porta su un altro livello il conflitto rispetto ai precedenti interventi in altre aree del mondo. Sullo sfondo, l’inquietante processo espansivo della NATO e il ruolo al suo interno del complesso industriale-militare, il cui strapotere è tale da essere stato persino denunciato da ex presidenti USA.

Maduro denuncia un golpe cyber-fascista in Venezuela

Il nostro Gabriele torna a parlare di Venezuela e delle ultime elezioni tenutesi nello Stato latinoamericano. La stampa occidentale parla di proteste che spesso e volentieri non esistono o sono decisamente sovrastimate, mentre l’Unione europea dubita della vittoria di Maduro, alludendo a dati a sua disposizione ben poco chiari. Intanto Maduro ha vinto le elezioni e nelle maggiori città del paese si sono tenuti grandi festeggiamenti; il pericolo sembra lontano, mentre non terminano le minacce virtuali di ingerenze straniere. Buona visione!

There is alternative! Coma la Cina ha fregato gli USA e oggi dà nuova speranza agli oppressi

Seconda puntata dedicata al commento del pamphlet di Giuliano Marrucci Riscossa multipopolare e all’analisi dei punti fondamentali della visione politica di Ottolina Tv e Multipopolare. In questa puntata parliamo di come la Cina è sfuggita alle trame neocoloniali dell’Occidente, è riuscita a ridurre il gap tecnologico con Washington e a conquistare una propria sovranità. Se si parla di mondo multipolare oggi è grazie al miracolo cinese, che rappresenta un baluardo di speranza per tutti i popoli oppressi dagli USA che oggi cercano un sostegno politico ed economico per sopravvivere. 

Per acquistare il libro: Riscossa Multipopolare – POETS & SAILORS (poetsandsailors.com)