Trump, la minaccia di nuovi dazi e l’attacco alla FED mandano nel panico gli alleati
Compagno Trump, dacci un’altra gioia: fai che l’imperialismo muoia!
In tutto il mondo, tra i sinceri sostenitori di un nuovo ordine multipolare più equo e democratico c’è un misto di terrore e di euforia: il terrore per una nuova amministrazione USA che il suprematismo e l’eccezionalismo non tenta nemmeno di mascherarli con un po’ di galateo e di retorica ipocrita, ma anche l’euforia per la possibilità concreta che tutta questa sguaiata presunzione, alla fine, sia la strada maestra per accelerare involontariamente nei fatti la fine dell’egemonia USA e la dittatura del dollaro. La minaccia di ricorrere a una dose senza precedenti di dazi e tariffe per Make America Great Again sta già mettendo in subbuglio le cancellerie di tutto il pianeta, comprese quelle degli alleati più sottomessi: il patto di ferro su cui si fonda l’egemonia USA sugli alleati consiste nel fatto che gli Stati Uniti importano una quantità di merci enormemente superiore rispetto a quelle esportate e poi, con i dollari che accumulano vendendo più di quello che comprano, una ristrettissima classe di oligarchi – anche se in posizione subordinata e gregaria, perché a decidere sono sempre e solo le oligarchie USA – può perlomeno fare un sacco di soldi investendoli nella bolla dei mercati finanziari a stelle e strisce. Noi, rubandolo all’economista rumena Daniela Gabor, chiamiamo questo sistema Wall Street Consensus; un sistema predatorio che ha distrutto le economie di tutti i vassalli e ha scaricato il prezzo tutto sulle spalle del 99%, ma che appunto – dal momento che il 99% nei Paesi a capitalismo avanzato negli ultimi 50 anni non è mai riuscito a far sentire la sua voce – permetteva a Washington di fare felice l’unica classe sociale che deteneva e detiene saldamente il potere nei singoli Paesi: la grande borghesia parassitaria. Questo sistema, però, ha reso gli USA troppo deboli per poter anche solo pensare di avere qualche chance di vittoria nella grande guerra che hanno dichiarato al resto del mondo per ostacolare l’avvento di un nuovo ordine multipolare; ed ecco allora che, dopo i fallimenti dell’amministrazione Biden, Trump ha ricevuto il pieno mandato popolare per provare a trovare una soluzione. E la sua soluzione, stando alle dichiarazioni e alle nomine annunciate, consiste nel rompere il giocattolino del Wall Street Consensus: da una parte, appunto, introducendo dazi e tariffe in grado di ridurre drasticamente l’importazione di merci dall’estero nella speranza di sostituirle (almeno in parte) con quelle prodotte in casa e, dall’altra, contribuendo a dare la mazzata finale al dollaro come riserva di scambio e di valuta globale e, quindi, mettendo a rischio i 22 mila miliardi di crediti che il resto del pianeta vanta nei confronti dell’economia USA nel suo complesso.
I primi ad entrare in fibrillazione sono stati i tedeschi, che hanno aperto una crisi di governo e annunciato elezioni anticipate nell’arco di poche ore; era piuttosto scontato: la Germania ha un surplus commerciale con gli USA di oltre 70 miliardi di dollari l’anno e, negli ultimi 15 anni, dal Paese sono usciti – al netto delle entrate – la bellezza di 650 miliardi di dollari, quasi la metà dei quali solo negli ultimi 3 anni. Già messi in ginocchio dalla guerra per procura in Ucraina, il piano Trump, se portato a termine, farebbe saltare definitivamente il Paese per aria una volta per tutte. Segue a ruota l’Italia (o, almeno, un pezzo): nemmeno 24 ore dopo l’annuncio del trionfo di Trump, Mattarella si trovava in Cina in una visita che, ovviamente, era stata programmata da tempo, ma che si è subito trasformata in un tentativo piuttosto evidente di ricucire rapporti che erano stati gravemente compromessi dalla scelta del governo Meloni di uscire dalla Via della Seta per ingraziarsi la Casa Bianca. L’Italia ha un attivo commerciale nei confronti degli USA appena leggermente più basso di quello tedesco – intorno ai 45 miliardi di euro – che, però, incide sul nostro PIL molto di più di quanto non incida quello tedesco e, soprattutto, esporta in Cina meno di un quinto di quanto non esporti la Germania; solo una settimana prima, sempre Mattarella aveva usato parole di fuoco (almeno per il suo standard) contro le agenzie di rating, ritenute troppo severe nei confronti dell’Italia e ricordando come l’Italia contribuisce supinamente al Wall Street Consensus con 225 miliardi di euro che le borghesie parassitarie hanno sottratto ai lavoratori italiani e che sostengono la bolla finanziaria USA – della serie siamo servi fedeli, ma se esagerate a tirare la corda ci sta che a un certo punto si spezzi anche. Ad essere terrorizzati dal nuovo corso trumpiano, poi, ci sono anche gli alleati asiatici: il Giappone ha un surplus commerciale con gli USA paragonabile a quello tedesco; da oltre 70 anni – a parte due brevi parentesi – è sempre stato governato ininterrottamente dallo stesso partito liberale totalmente subalterno a Washington e che, però, dalle ultime elezioni (che si sono tenute in ottobre) è uscito clamorosamente sconfitto. Al momento a Tokyo c’è un governo di minoranza e le minacce di Trump potrebbero dare la spallata finale a un equilibrio politico che si regge in piedi per miracolo. Ancora più a rischio la Corea del Sud: ha un surplus commerciale nei confronti degli USA di 28 miliardi che, comunque, rispetto al PIL (che è meno della metà di quello giapponese) pesano eccome. E la Corea qualche mal di pancia ce l’aveva già: la Cina, infatti, è di gran lunga il suo primo partner commerciale e, in particolare, il principale mercato per la sua preziosa industria dei chip; gli USA però, con la scusa del disaccoppiamento dalla Cina, da 2 anni provano a imporgli di mettere un freno all’esportazione di chip, cosa che ha contribuito a rallentare la crescita a ritmi europei e a causare una gigantesca crisi politica che è sul piede di esplodere. L’attuale presidente, filo-Washington fino al midollo, è al 19% dei consensi; la metà dell’opposizione, che sui rapporti con Washington è decisamente più cauta. Insomma: due anni di guerra mondiale a pezzi hanno già fatto venire al pettine tutte le contraddizioni del Wall Street Consensus; e però le classi politiche degli alleati vassalli USA sono così subordinate da non essere ancora riuscite ad accennare una qualche reazione.
La tracotanza di Trump potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso; è l’allarme che lancia, ad esempio, Angelo Panebianco dalle pagine del Corriere della Sera: “All’Europa” scrive “sarebbe servita una vittoria di Harris, nonostante la sua evidente inadeguatezza. Con Harris alla Casa Bianca, perlomeno, si sarebbero un po’ allungati i tempi del declino, ormai in atto da tempo, dell’ordine internazionale creato dagli Stati Uniti dopo il 1945, e la ricerca di soluzioni alternative da parte degli europei sarebbe stata meno assillante e drammatica”. “Chiunque occupi la Casa Bianca, democratico o repubblicano che sia” sottolinea con realismo Panebianco, “i tempi della benevola egemonia americana sull’Europa sono finiti. E allora perché è un guaio per noi la vittoria di Trump? Perché con lui i processi in atto da tempo subiranno un’accelerazione”. Ecco: esattamente questo, ma – come si dice – in senso positivo. Ma come pensa, allora, Trump il pacifista di risolvere questa contraddizione? La risposta è arrivata in modo chiaro dalle nomine per i posti chiave della sua amministrazione: con le minacce. Da Marco Rubio a Mike Waltz, da Pete Hegseth a Elise Stefanik, passando per Steven Witkoff e Mike Huckabee, ogni casella dell’amministrazione è stata riempita col fior fiore della peggio feccia guerrafondaia e fascio-sionista possibile immaginabile, con la ciliegina di Elon facciamo tutti i golpe che vogliamo Musk a capo del DOGE, il primo ministero al mondo creato ad hoc per fare pubblicità a un prodotto (a parte che in Idiocracy, intendo).
Di fronte a questo affronto – che rischia di essere troppo grande anche per le nostre classi dirigenti di zerbini rodati e che rappresenta un’occasione d’oro per accelerare la definitiva presa di coscienza che l’impero USA è ormai alla frutta e che l’unica possibilità di salvezza è abbandonare la nave prima che affondi del tutto – inspiegabilmente, però, a gettare acqua sul fuoco in aiuto di Washington ci pensano degli insospettabili che, fino a ieri, si proclamavano paladini dell’indipendenza della patria: l’episodio è quello dell’ormai famoso tweet di Musk nel quale l’uomo più ricco del mondo, nonché ministro in pectore dell’amministrazione imperiale, entrava a gamba tesa su questioni interne italiane affermando, rivolgendosi ai nostri giudici (che per quanto vi possano fare ribrezzo, dovrebbero rappresentare il potere giudiziario di un Paese sovrano e indipendente), che “questi giudici dovrebbero andarsene”; un po’ come quando di fronte al tentato golpe in Bolivia, appunto, scrisse con quella strafottenza che lo rende simpatico come una gattina attaccata ai coglioni “Facciamo colpi di Stato dove vogliamo! Fattene una ragione”, solo che, almeno, allora non era il più in vista dei personaggi appena usciti da un trionfo elettorale senza precedenti nel Paese considerato (ancora oggi) più potente al mondo, al punto da essere l’unico che Donald Trump, nelle comunicazioni sulle nomine, si sente in dovere di appellare come Il Grande, “The Great Elon Musk”. Un’ingerenza insopportabile, vergognosa, intollerabile per chiunque – ma, a maggior ragione, per chi fino a ieri si professava patriota e, giustamente, si scagliava contro ogni forma di ingerenza straniera – da Bruxelles a Washington – e che invece, a questo giro, si perde in mille sofismi (è ‘na ragazzata. E’ un semplice cittadino. Che ora un semplice cittadino non si può esprimere su cosa vuole?). E’ il miracolo dell’egemonia che, negli ultimi anni, l’alt right – la cosiddetta destra alternativa e anti-sistema – è riuscita a conquistarsi tra le fila di tutti quelli che dell’egemonia neo-liberale, della fuffa woke e del politically correct si sono (giustamente) abbondantemente rotti i coglioni e ora non si trattengono dall’entusiasmo nel vedere qualcuno che c’ha l’ego, il portafogli e l’arsenale abbastanza grosso da permettersi di suonargliele; una reazione comprensibile, ma – ahimé – pericolosa e controproducente: sembra il remake di un film che abbiamo già visto circa un secolo fa, quando l’imperialismo era in crisi nera e si era aperta la possibilità concreta di incanalare la rabbia popolare in qualcosa in grado davvero di rovesciare tutto, fino a che i soliti parassiti di sempre non trovarono il modo, invece, quella rabbia popolare di incanalarla in direzione diametralmente opposta e, invece che una grande rivoluzione sociale, ci sono toccati il nazifascismo e la seconda guerra mondiale.
Io, sinceramente, me li risparmierei entrambi piuttosto volentieri e, sinceramente, sono convinto che non debba necessariamente finire così; se non vogliamo un remake, ma un copione originale, però, ci dobbiamo dare da fare; e per farlo, con più urgenza che mai, ci serve un media che, invece che alle sirene di una nuova grande rivoluzione passiva eterodiretta dalle fazioni più reazionarie delle oligarchie, dia voce ai bisogni concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Nicola Bombacci
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