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[LIVE OTTOVOLANTE] Italia, Germania e il Patto d’Acciaio per servire Washington – ft. Giacomo Gabellini

Tra la reintroduzione del Patto di Stabilità, la Mega – Truffa del MES e il semi – Golpe dell’Unione Europea, Italia e Germania stringono un’alleanza dove a vincere è soltanto Washington. Berlino si accontenta delle briciole e noi delle pedate nelle gengive, e il bello è che – ciononostante – anche Washington non è che se la passi poi così bene: l’asta dello scorso 9 novembre, per allocare qualche decina di miliardi di titoli di Stato è stata una debacle e, tra BRICS e Nazioni Unite, il Sud Globale – che ha a lungo cercato di corteggiare per sottrarlo alla sfera d’influenza di Russia e Cina con i nostri quattrini – non fa altro che continuare a prenderlo ostentatamente a pesci in faccia. Ne parliamo in questa puntata di Ottovolante con il Marru, Jack Gabellini, Giamba Cadoppi e Alberto Gabriele.

Il ritorno dell’austerity: come e perché a Bruxelles hanno deciso di uccidere l’Economia Europea

Venerdì scorso nella redazione de La Repubblichina era festa grossa: “Ue, l’Italia resta sola” titolavano entusiasti. La testata di punta del gruppo editoriale che, più di ogni altro, s’è speso negli anni per trasformare l’Italia in una doppia colonia – sia di Bruxelles che di Washington – sembra volerle provare tutte pur di far apparire perfino uno svendi-patria di professione come Giancazzo Giorgetti come uno statista tutto d’un pezzo. La partita è di nuovo quella della riforma del patto di stabilità, il quadro regolatorio inventato ad hoc per distruggere scientificamente l’economia reale del vecchio continente. “I governi europei” riportava La Repubblichina “raggiungono l’intesa sulle nuove regole di bilancio”.

Giancarlo Giorgetti

“Per il ministro Giorgetti” scrive Andrea Bonanni in uno dei due comizi propagandistici pubblicati dalla repubblichina a commento della vicenda “è una sconfitta cocente”. Che, più che per Giorgetti, sia una sconfitta non solo per l’Italia, ma ancora più in generale per le condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori e di imprese nel continente, in questa sfida a chi ha i requisiti migliori per candidarsi come curatore fallimentare del paese di fronte alle oligarchie finanziarie dell’Occidente collettivo, evidentemente è un aspetto del tutto secondario: come sottolinea lo stesso Bonanni, infatti, “la proposta iniziale della Commissione è stata corretta nel senso voluto dalla Germania” e, in particolare, dal falco della dittatura dell’austerity Christian Lindner, che vince la sua battaglia contro ogni tentativo di dotare l’Europa degli strumenti minimi necessari per provare a reagire alla gigantesca recessione che è già iniziata nel suo paese e che, a breve, distruggerà quel poco che è rimasto dell’economia europea. L’altro comizio propagandistico anti-italiano de La Repubblichina è affidato invece al solito Claudio Tito che sottolinea come “non si capisce più cosa voglia l’Italia”. Eh, davvero eh? Incomprensibile, proprio; le modifiche filo austerity volute dai falchi tedeschi, infatti, impongono una bella overdose di misure lacrime e sangue per ridurre il debito e riportare il deficit sotto controllo, esattamente l’opposto di quello che servirebbe durante una recessione e contro la nuova ondata di politiche protezioniste made in USA, dove – invece – il debito è esploso e esploderà ancora di più in futuro proprio per regalare una montagna di quattrini alle aziende e convincerle ad abbandonare il deserto europeo e andare a fare fortuna in America. Ora, che degli zerbini viventi come le firme di punta de La Repubblichina accolgano con entusiasmo scelte deliranti di politica economica come questa pur di sperare, un giorno, di prendere il posto dell’amministrazione coloniale attualmente in carica, ovviamente non dovrebbe sorprendere; quello che, invece, è già più complicato da spiegare è “ma perché mai le élite politiche europee hanno deciso di affossare definitivamente l’economia del vecchio continente?
Bye bye soglia del 3%! Per 15 anni abbiamo denunciato come aver imposto, da parte dell’Unione Europea, una soglia del 3% del rapporto tra deficit e PIL fosse stata una misura del tutto arbitraria che aveva il solo scopo di mettere in ginocchio le economie più deboli della periferia meridionale dell’Europa – a partire dall’Italia – per permettere a quelle più forti di fagocitarle; ora quel parametro finalmente viene rivisto. Peccato che sia in peggio: la bozza di riforma del patto di stabilità che ieri ha ricevuto il via libera dai ministri dell’economia e delle finanze dell’Unione Europea, infatti, prevede – come riportava venerdì La Stampa – “di portare il deficit ben al di sotto del 3%, con un margine di sicurezza la cui quantificazione esatta sarà oggetto dei negoziati nelle prossime settimane”. Una mossa geniale che, secondo Bonanni de La Repubblichina, potrebbe essere stata provocata dal fatto che nell’ultima manovra finanziaria italiana ci si è azzardati, contro il parere di Bruxelles, a introdurre qualche spicciolo di deficit in più rispetto al previsto; bazzecole, totalmente insufficienti anche solo a far finta di contrastare la recessione in arrivo e quasi tutte impiegate nella direzione sbagliata, ma abbastanza da far gridare allo scandalo i talebani dell’austerity che, da allora, farneticano che “l’idea che l’Europa veglierà a limitare le politiche di spesa delle destre al potere non dovrebbe essere una cattiva notizia” (Andrea Bonanni, La Repubblichina). Ha ragione: non è cattiva. E’ pessima, e non è l’unica: il nuovo patto, infatti, ripropone pari pari la necessità di svendere i gioielli di famiglia per ridurre il debito a tappe forzate. Certo, le tappe sono distribuite un po’ diversamente rispetto al vecchio patto, ma non certo perché siano cambiate filosofia e scopi di fondo; molto semplicemente, piuttosto, perché la riduzione del debito – come prevista dal vecchio patto – non era fattibile, tant’è che nessuno l’ha mai rispettata e, alla fine, si chiudeva un occhio.
La novità, adesso, consiste nel fatto che l’obbligo di ridurre il debito è sempre sufficiente per indebolire le economie nazionali ma, almeno, in modo che sia un po’ più realistico, e a questo giro – se si sgarra – le sanzioni arriveranno eccome. “Un totem irrinunciabile” scrive La Stampa “da dare in pasto all’opinione pubblica tedesca, poco incline a digerire trasgressioni”. Contro questo delirio Giorgetti, sin dall’inizio, ha cercato di portare a casa almeno una cosa: che dal computo venissero esclusi, perlomeno, una parte degli investimenti – almeno quelli del PNRR. Macché: l’unica eccezione possibile è per l’industria della difesa. D’altronde, per combattere la terza guerra mondiale, quella serve come il pane anche a Washington che, da solo, a tornare a produrre armi a sufficienza molto semplicemente non ce la può fare. E quindi su quello – e solo su quello – si potrà chiudere un occhio.

Giorgetti con il Segretario al Commercio degli Stati Uniti d’America Gina Raimondo

Dal punto di vista macroeconomico, molto semplicemente, tutto questo non ha nessunissimo senso: a causa delle scelte geopolitiche che l’Europa si è lasciata imporre dal padrone a stelle e strisce e che hanno, in primo luogo, completamente devastato il mercato dell’energia del vecchio continente, le nostre aziende già di default non sono più competitive. Ma se a questo ci aggiungiamo la valanga di quattrini che Washington ha messo a disposizione delle aziende che vanno a investire a casa sua, la deindustrializzazione del vecchio continente a favore del padrone d’oltreoceano diventa letteralmente inarrestabile.
Ma perché la classe dirigente europea sta optando per questo plateale suicidio? Sono scemi? In buona parte si: la classe politica, almeno, tanto tanto strutturata e illuminata effettivamente non è, ma loro sono il personale di servizio, diciamo. Chi controlla le fila tanto scemo ovviamente non è, solo che i suoi interessi non sono semplicemente diversi da quelli delle persone normali che campano del loro lavoro; sono esattamente antitetici e, nel caso di noi che viviamo nella periferia dell’Unione, il ragionamento va moltiplicato per due. Il primo schema, infatti, riguarda tutta l’economia europea nel suo insieme ed è quello che continuiamo a ripetere continuamente: l’interesse delle élite economiche europee per la crescita dell’economia reale è relativo. Passare da quella grossissima rottura di coglioni che è la produzione di beni e servizi non è più, da tempo, il modo più semplice per fare profitti; questo vale in generale perché, per fare profitti a mezzo di merci e di servizi, devi far lavorare la gente e la gente, quando lavora, poi avanza sempre strane pretese: diritti, aumenti salariali, addirittura democrazia. Ma vale ancora di più in questa fase dove le variabili sono tante, da quelle climatiche a quelle geopolitiche, e per far tornare le nostre aziende ad essere competitive ci sarebbe un sacco di roba rischiosa da fare: investire nelle infrastrutture, nella formazione, nell’innovazione e, addirittura, ogni tanto andare contro agli interessi di qualcuno più grande e grosso di te, come ad esempio riallacciare i rapporti con la Russia per tornare ad avere l’energia a dei prezzi ragionevoli.
Molto meglio estrarre quel poco di plusvalore che ancora i lavoratori europei sono in grado di produrre – nonostante la produttività sia crollata a causa dei mancati investimenti – e andare a investire quei quattrini nelle bolle speculative d’oltreoceano. Ma non solo: anche farsi dare in gestione dei monopoli naturali dallo Stato – dove i profitti sono garantiti da tariffe imposte con la forza dello Stato stesso e il rischio è zero – è sempre meglio che lavorare, e quindi una bella overdose di austerity che imponga agli stati di privatizzare ed esternalizzare tutto quello che è possibile è una bella scorciatoia per garantirsi profitti facili. E poi ha anche un’altra bella utilità: privatizzando ed esternalizzando, infatti, la gente comune – per garantirsi i servizi minimi essenziali – è costretta a mettere i quattrini nelle pensioni integrative e nelle assicurazioni mediche e quei soldi, poi, vengono gestiti dalle oligarchie finanziarie globali per continuare a gonfiare le bolle speculative che, quindi, ricevono sempre nuovi quattrini per continuare a gonfiarsi all’infinito ed eliminare ogni rischio. Ecco così che, al posto dei rischi dell’economia reale, ti ritrovi di fronte alle rendite sicure delle bolle speculative. E che fai, te ne privi?
Questo è il meccanismo globale – diciamo – e tocca un po’ a tutti, dai tedeschi agli italiani. Dentro questa logica, però, ce n’è anche un’altra gerarchicamente meno importante ma che permette ai tedeschi di imporre ai loro cittadini questo furto sistematico della loro ricchezza da parte dello 0,1% senza che si incazzino troppo ed è la logica, appunto, che attraverso misure di austerity permette ai capitali più forti di fare shopping a prezzi di saldo nei paesi più deboli, come è successo in Grecia ormai oltre 10 anni fa. E’ la logica che vede contrapposti gli interessi dell’Europa del nord, con i conti relativamente in ordine, rispetto a quelli dell’Europa meridionale, quelli che una volta chiamavamo PIGS: impedendo – attraverso misure lacrime e sangue – ai paesi dell’Europa meridionale di rafforzare la loro economia reale, l’Europa del nord rafforza il rapporto gerarchico a suo favore. Non è sufficiente per invertire il declino della loro economia, ma per lo meno ne rallenta il crollo e, con gli ultimi dati sull’andamento della produzione industriale in Germania, direi che ormai ne hanno sempre più bisogno, prima che il malcontento consegni il governo all’AFD o, magari – cosa che a noi andrebbe decisamente meglio ma alle élite tedesche probabilmente meno – alla nuova formazione politica di Sarah Wagenknecht.

Il buon vecchio Tommaso Nencioni

In questo rapporto gerarchico di subordinazione, inoltre, c’è un’altra componente, come ricorda sempre il nostro buon vecchio Tommaso Nencioni: massacrando l’economia reale della periferia europea, infatti, la Germania impone in modo indiretto anche politiche restrittive a livello salariale, e siccome chi produce nella periferia dell’Europa – e in particolare in Italia – lo fa principalmente proprio come sub-fornitore delle industrie tedesche, questo permette di garantire margini di profitto un po’ più solidi. Di fronte a questo scempio l’Europa mediterranea e meridionale dovrebbe gridare all’unisono vendetta, se solo esistesse: in Portogallo il presidente ha sciolto il parlamento, la Spagna è senza governo e sull’orlo di una guerra civile e la Grecia, dopo il trauma della crisi dei debiti sovrani, è così sottona che al governo ci sono dei falchi più falchi dei liberali tedeschi, e all’opposizione un rampollo della finanza speculativa che manco parla greco.
Per quanto paradossale possa sembrare, l’avanguardia della resistenza progressista contro i piani distopici di Bruxelles – paradossalmente – è proprio Giancazzo Giorgetti. Cioè, rendiamoci conto, Giancazzo Giorgetti! E i media mainstream della galassia liberaloide gli fanno la guerra, sì, ma da destra, e non è proprio facilissimo. Se Giorgetti ora punta i piedi, infatti, non è certo per difendere l’economia reale italiana; semplicemente, si vuole garantire qualche margine per distribuire un po’ di prebende ai prenditori parassitari italiani tipo Bonomi che, nonostante rappresenti imprenditori che hanno registrato profitti stellari e non hanno reinvestito un euro nell’economia reale, l’altro giorno ha avuto il coraggio di lamentarsi che, nella manovra, solo l’8% delle risorse sono regali alle aziende. Ma non solo, perché alla fine – infatti – sarebbe addirittura emerso che l’opposizione di Giorgetti in realtà sarebbe stata tutta e soltanto a favore delle telecamere: secondo la ministra spagnola Nadia Calvino, presidente di turno del Consiglio europeo – infatti – “durante gli scambi intensi che abbiamo avuto nelle ultime settimane” tutte queste osservazioni e critiche al nuovo patto di stabilità, in realtà, “non si sarebbero mai sentite”.
Insomma: come per la tassa fantasma sugli extraprofitti, sarebbe solo propaganda ad uso e consumo di quei pochi inguaribili ottimisti che ancora si illudono che questa destra di cialtroni svendi-patria abbia ancora davvero qualche componente così detta sociale. In realtà, ovviamente – come hanno ampiamente dimostrato con l’ultima manovra di bilancio – Giancazzo Giorgetti e il suo governo di svendi-patria finto-sovranisti, al progetto distopico di Washington e di Bruxelles di completo smantellamento delle basi produttive del vecchio continente e di finanziarizzazione forzata dell’intera economia ci ha aderito eccome; quello che chiede è, semplicemente, un po’ di margine per qualche prebenda in più – che è l’unica cosa che il suo governo ha da offrire al paese – e il pretesto per montare un po’ di teatrino e continuare con la pantomima del governo dei patrioti.
E la reazione isterica degli analfoliberali del sistema mediatico mainsteam è esattamente tutto quello che gli serve per portare avanti la pantomima mentre alla fine, come ammette anche La Stampa, “si continua a negoziare, e nei palazzi UE c’è ottimismo”. Come sempre, appena vai un millimetro sotto la superficie, anche a questo giro, l’agenda delle diverse fazioni del partito unico degli affari e della guerra sempre quella è.
Per smontargli il giocattolino abbiamo bisogno di un media che vada alla sostanza delle cose e che le racconti dal punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Cottarelli

CIA e Fondi Speculativi: l’assalto degli USA alle telecomunicazioni globali (a partire dall’Italia)

L’accelerazione della svendita degli asset strategici italiani ai padroni dell’impero è diventata la priorità assoluta del governo dei fintosovranisti che procedono a suon di blitz, e quello di lunedì scorso è stato letteralmente inquietante: senza passare dall’assemblea dei soci, con la piena collaborazione del governo, il Cda di TIM ha deciso di accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR per la vendita della sua rete fissa.

Sarah Bartlett

Probabilmente l’asset più strategico di tutti gli asset strategici e, probabilmente, il peggior acquirente possibile immaginabile: “The money machine”, la macchina da soldi, come aveva ribattezzato KKR Sarah Bartlett nel suo leggendario libro nell’ormai lontano 1991, aprendo gli occhi al mondo di fronte alle pratiche predatorie dei fondi che compravano a debito le aziende per spolparle e intascare plusvalenze stratosferiche. Ma non solo: KKR, infatti, è diventato un vero e proprio braccio armato delle mire egemoniche dell’impero e si sta ritagliando, acquisizione dopo acquisizione, un posto al sole nel mondo delle infrastrutture delle telecomunicazioni dall’India all’Olanda, passando per il Cile, Singapore, la Colombia. Roba che grande fratello scansate, soprattutto per la biografia di chi è al posto di regia: nientepopodimeno che un ex direttore generale della CIA. E’ il famigerato generale USA David Petraeus, già noto per il ruolo disastroso ricoperto nella carneficina irachena prima e in quella afghana poi; nel 2012, in seguito a uno scandalo a sfondo sessuale, lascia di punto in bianco la guida dell’intelligence USA ed eccolo approdare magicamente nella stanza dei bottoni di KKR che gli crea una nuova divisione ad hoc – il KKR Global Institute – specializzata nell’analisi macroeconomica e geopolitica. “Petraeus” sottolineava Il Sole 24 Ore nel 2013 “potrà aiutare KKR anzitutto ricorrendo alla sua rete di contatti con governi e autorità internazionali”. Direi che ha soddisfatto tutte le aspettative: consegnare infrastrutture strategiche – come le reti di telecomunicazioni – a un fondo speculativo che sa di CIA da mille miglia di distanza ovviamente è un’operazione che non ha niente a che vedere con il mercato, la concorrenza e l’interesse economico in genere. E’ una scelta politica di totale e palese sottomissione, è la ciliegina sulla torta della totale abdicazione a ogni minimo tentativo di ritagliarsi uno spazio, se pur minimo, di indipendenza e di sovranità e completare il processo che in 30 anni ha trasformato l’Italia nel 51esimo stato guidato da Washington.
La domanda è: ma perché? Perché una classe dirigente che è salita al governo grazie alla retorica della patria e del sovranismo sta facendo di tutto per passare alla storia come l’artefice più spregiudicata della morte definitiva dell’Italia come paese sovrano?
Quella che vi racconteremo oggi, con il prezioso contributo del mitico prof. Alessandro Volpi, è la grande storia di come le oligarchie finanziarie USA hanno trasformato, con la complicità delle oligarchie locali, tutti i paesi che definivano alleati in appendici dell’impero a stelle e strisce. E lo faremo a partire dall’ultimo sconcertante capitolo di questa lunga saga, l’incredibile blitz che lunedì ha portato il consiglio di amministrazione di TIM, col benestare del governo e senza manco passare da un’assemblea degli azionisti, ad accettare l’offerta del fondo speculativo USA KKR – che annovera nel suo top management nientepopodimeno che l’ex direttore della CIA David Petraeus -per l’acquisto di quello che è probabilmente in assoluto l’asset più strategico della compagnia e, in generale, del nostro paese: la rete fissa delle telecomunicazioni.

Prof. Alessandro Volpi: ““Perché l’operazione consiste, appunto, nella cessione di operazione della rete. Quindi, secondo me, c’è un primo elemento singolare in questa vicenda, che è la decisione del consiglio d’amministrazione che non passa all’assemblea dei soci, ritiene che il socio pubblico sia sostanzialmente irrilevante e affida a KKR la proprietà della rete. Ora, è vero che TIM aveva già una quota significativa di azionisti internazionali, il 44%, però è altrettanto vero che qui si passa dal 44%, più o meno frammentato di azionisti internazionali ad un unico soggetto che è KKR che diventa il riferimento. Perché, appunto, il fatto che il consiglio d’amministrazione abbia deliberato soltanto a vantaggio di KKR, accettando l’offerta di KKR, considerandola un’offerta che non ha parti correlate, vuol dire che c’è un unico compratore che si chiama KKR.”[…]E poi aggiungerei a questo il fatto che comprerà Sparkle, quindi le reti sottomarine. Quindi in Italia avremo un unico proprietario dei sistemi delle infrastrutture strategiche.”

Alessandro Volpi

Lo shopping, in realtà, era già iniziato oltre due anni fa, nell’aprile del 2021, quando KKR entra a gamba tesa nell’azionariato di Fibercop – la nuova società fondata da TIM – e alla quale ha consegnato le chiavi della rete in fibra ottica sviluppata dalla controllata Flash fiber. Un assaggino, diciamo; Fibercop, infatti, non è certo il monopolista dei nuovi cavi in fibra ottica che attraversano il paese. Anzi, il pezzo grosso di questo fondamentale asset strategico del paese in realtà è un’altra società: Openfiber, dove KKR non c’è. C’è Macquarie, il fondo speculativo protagonista assoluto del banchetto che gli svendipatria britannici hanno apparecchiato a favore delle oligarchie finanziarie cedendogli il controllo dell’acqua pubblica con gestori che, dopo le privatizzazioni, sono diventati enormemente più indebitati senza aver mai investito il becco di un quattrino, ma avendo distribuito dividendi in quantità. L’ultimo scampolo di concorrenza tutta giocata tra fondi speculativi della stessa identica natura e che a breve avrà finalmente fine: una volta conclusa l’acquisizione della rete TIM da parte di KKR, infatti, l’obiettivo è quello di fondere Openfiber con Fibercop creando, anche nel mondo della connessione in fibra, l’ennesimo monopolio privato. Ma non solo: al banchetto, infatti, al momento manca ancora una portata. Si chiama Sparkle ed è la controllata di TIM che gestisce i cavi sottomarini che collegano la rete italiana al resto del mondo: un altro asset strategico fondamentale, e non solo per l’Italia. Attraverso il nodo di Palermo, infatti, Sparkle è la porta d’ingresso in Europa via Mediterraneo sia per il sud-est asiatico che per il Medio Oriente; anche lei è in svendita e KKR aveva fatto la sua offerta. Fortunatamente, al momento è stata respinta: anche il governo dei fintisovranisti ha qualche limite? Macché. E’ solo un problema di quattrini: Sparkle è a disposizione. Basterà aggiungere qualche spicciolo in più ai miseri 600 milioni offerti in prima istanza.

Prof. Alessandro Volpi: “Perché il dato vero è che non è episodica questa cosa, non è che arriva KKR, vede un’opportunità in Italia e dice “mi butto su quella” secondo la logica dei fondi hedge. Qui non è così: qui c’è, probabilmente, un disegno per cui i grandi fondi si impossessano delle infrastrutture e delle telecomunicazioni e quindi anche in quell’ambito, che è un ambito fondamentale, fanno il monopolio. Cioè, la sostanza è la ricerca del monopolio e, in nome della favoletta del mercato, si giustifica la costruzione dei monopoli. Questo è ciò che veramente è inammissibile: se uno legge una dichiarazione dei ministri di fronte a questa vicenda, tratta anche con un certo silenzio, devo dire, di buona parte della sinistra perché – insomma – non mi sembra ci sia stata una sollevazione di scudi nei confronti di questo tipo di operazione. Alla fine, in nome della necessità – appunto – di garantire il mercato, poi alla fine si costruiscono dei monopoli che sono sempre più pesanti, sono sempre più pesanti e significativi.”[…] “Senza nessuna capacità – torno a dire – del potere politico, della politica, di interagire. Io ho letto le dichiarazioni del governo italiano rispetto all’acquisizione di KKR e sono sostanzialmente entusiaste. All’obiezione che gli ha fatto Vivendi, cioè la Francia, dicendogli “ma scusate, vi comprano la rete e fate decidere il Consiglio di amministrazione senza nessuna interlocuzione” loro hanno detto “vabbè, ma questa è un’operazione” usando questo termine, questa favoletta di mercato, e quindi bisogna lasciarla andare. In realtà, qui di mercato mi sembra che ci sia veramente poco: c’è ormai un monopolio di fatto che è evidentissimo nel meccanismo delle telecomunicazioni.”

Dopo aver abbandonato i monopoli pubblici in nome della concorrenza ecco così che, con la complicità della politica, l’industria delle telecomunicazioni torna più monopolistica di prima solo che, a questo giro, è tutto in mano ai privati e neanche ai gruppi industriali, ma ai fondi speculativi che puntano direttamente al dominio globale. Anche se l’Italia ha voluto conquistare il primo gradino del podio dei paesi in svendita, infatti, la campagna acquisti di KKR nel mondo delle telecomunicazioni non si limita certo a noi: nel giugno del 2020 KKR, insieme a un altro fondo USA e a uno britannico, annuncia l’acquisizione di Masmovil, il quarto operatore delle telecomunicazioni spagnolo; nel febbraio del 2021 KKR annuncia un accordo con Telefonica per l’acquisto al costo di 1 miliardo di dollari delle quote di maggioranza della controllata che si occupa di fibra ottica in Cile; 3 mesi dopo è stato il turno degli olandesi con un accordo tra KKR e T-Mobile per fondare insieme una nuova società dal nome Open Dutch Fiber, sempre appunto per la gestione della rete in fibra ottica; ancora, 3 mesi dopo, un altro accordo con Telefonica, questa volta per l’acquisizione della maggioranza della società che gestisce la fibra ottica in Colombia. E così via, acquisizione dopo acquisizione, per arrivare nel 2022 alla partnership con Vodafone per l’acquisizione di Vantage Towers, il colosso tedesco delle telecomunicazioni wireless, e finire giusto questo autunno con un’altra ondata di acquisizioni che va da Singapore alle Filippine, passando per i cavi sottomarini della Malesia. E KKR è solo la punta dell’iceberg.

Prof. Alessandro Volpi: Lo sta facendo in alcuni paesi dell’est europeo, cioè sta specializzandosi nell’acquisizione dei sistemi di telecomunicazione. Metterei questo fenomeno dentro un fenomeno più grande perché il fenomeno più grande è il fatto che gli azionisti, come sappiamo, di KKR sono i grandi fondi: Vanguard, Black rock, State street e una serie di altri quattro o cinque soggetti, che sono i proprietari della rete infrastrutturale e delle infrastrutture delle telecomunicazioni, a partire dagli Stati Uniti in giro per il mondo. Perché se noi prendiamo le principali società di telecomunicazioni – nel caso degli Stati Uniti la più importante di tutti che è T-Mobile, ma prendiamo poi Verizon, poi prendiamo Comcast e prendiamo AT&T, che sono i cinque colossi mondiali se ci togli casi cinesi (se ci togli China Mobile), questi sono i cinque più grandi possessori di telecomunicazioni, non negli Stati Uniti ma in giro per il mondo. Cioè, in queste società, Black rock, Vanguard, State street e 3 o 4 fondi minori che, in genere, vanno a strascico dei primi tre, hanno il 25%. Quindi noi stiamo assistendo a un processo di cui il caso Telecom, il caso TIM, è soltanto un pezzetto, cioè il processo di ri-articolazione del controllo delle telecomunicazioni in giro per il mondo nelle mani dei fondi finanziari. Ora questa non è la vicenda della vecchia privatizzazione; l’Italia ha scelto questa sciagurata strada della privatizzazione nel ‘97, con il governo Prodi.”

La prima conseguenza, palese e tangibile, di questo processo di appropriazione dell’industria delle telecomunicazioni nelle mani di un manipolo di fondi speculativi è la riduzione dei posti di lavoro e il trasferimento di una quota consistente di ricchezza dai salari ai profitti.

Prof. Alessandro Volpi: Infatti, l’altro dato interessante – e io mi sono andato a vedere questi numeri- è che, nel corso degli ultimi dieci anni, tutte le grandi compagnie di telecomunicazioni hanno ridotto il numero dei loro occupati dal 20 al 35%. Cioè da dove arrivano, ovviamente, i fondi, l’operazione diventa quella di garantire un rendimento azionario. Naturalmente tutte queste realtà che vengono comprate dai fondi sono quotate in Borsa, perché hanno interesse a seguire il dividendo azionario e, contestualmente a questo – come sta accadendo del resto nel settore tecnologico e hi tech – a fronte di dividendi significativi, di fatturati molto alti e di ricavi molto alti, si assiste a un licenziamento più o meno sistematico. Perché, appunto, anche nel caso delle telecomunicazioni come nel caso dell’hi tech, c’è stata una perdita del 20, 25, in alcuni casi del 30% della forza lavoro. Quindi la finanziarizzazione porta a una concentrazione che riduce gli spazi della sovranità – mi sembra abbastanza evidente – di natura strategica e, al tempo stesso, determina una distruzione del lavoro. Cioè, c’è evidentemente un meccanismo “finanza versus occupazione” che è marcatissimo.”

Nel caso delle telecomunicazioni, però, rispetto alla solita storia infinita di quotidiana ingordigia c’è un aggravante piuttosto consistente, grossa come una casa.

Prof. Alessandro Volpi: Mah, io penso che il sistema delle telecomunicazioni sia, evidentemente, un sistema di natura politica e anche di natura militare. Allora, io non sono un esperto di questi risvolti e quindi non mi voglio cimentare con analisi che non sono cose che conosco profondamente, però è chiaro che il controllo delle reti sottomarine, il controllo – appunto – delle strutture fisse attraverso cui passano i segnali telefonici, i segnali delle telecomunicazioni, la rete, sia quanto di più strategico – anche in termini di difesa o aggressione militare – sia possibile. Tra l’altro, si diceva prima, se uno prende le prime dieci compagnie di telecomunicazioni al mondo, le uniche che sono ancora di proprietà dello Stato sono quelle cinesi; cioè – appunto – China Mobile ha come azionista di riferimento lo Stato cinese ed è proprietario delle infrastrutture cinesi. Evidentemente in India l’assalto alle telecomunicazioni da parte delle grandi compagnie – e da parte dei fondi che sono dietro le grandi compagnie – è già partito, perché è evidente che in un modo nel quale il sistema delle telecomunicazioni è controllato – per quanto riguarda le strutture fisse e per quanto riguarda i cavi, per intenderci – da soggetti che sono soggetti di natura privata e finanziaria, vogliamo immaginare che questo non sia un elemento di pressione, di condizionamento delle politiche monetarie, delle scelte – anche strategiche – rispetto all’innalzamento dei prezzi dei prodotti? Cioè io voglio dire – sarà perché a frequentare Giuliano Marucci divento un po’ complottista – che però mi sembra abbastanza evidente che se io possiedo le telecomunicazioni, possiedo le agenzie di rating e possiedo i sistemi informativi, beh, alla fine poi posso anche veicolare le impennate di prezzo che scateno attraverso la vendita degli strumenti derivati. Cioè, è evidente che qui c’è un legame, e questo poi produce una conseguenza – come tu dicevi – geopolitica, perché se ci sono determinate aree di tensione in giro per il mondo, probabilmente questo sistema funziona decisamente meglio e avere il controllo strategico delle reti vuol dire anche, in qualche modo, condizionare gli equilibri di forza tra i vari paesi e quindi far immaginare determinati scenari. Io penso che anche qui – è quello che dicevo in apertura – cioè, si sottovaluti la delicatezza della concentrazione della proprietà, cioè qui non è che stiamo parlando di un mercato dove ci sono dei soggetti che si fanno concorrenza: in Italia, torno a dire, la rete – forse non è chiaro – non è nelle mani dei 44% di investitori che prima componevano, insieme al 20% di Vivendi, il grosso dell’azionariato di TIM; ora ce n’è uno solo che si chiama KKR il quale – torno a dire – è un pezzo di un sistema globale di controllo delle telecomunicazioni attraverso i fondi finanziari. Cioè questa roba mi sembra che abbia molto a che fare con la democrazia, con la sicurezza degli Stati, con le dinamiche conflittuali; cioè, in altri tempi, io faccio fatica a immaginare uno Stato che cedesse le proprie infrastrutture strategiche come la rete fissa o i cablaggi o i controlli di sottomarini a un soggetto finanziario che, peraltro, risponde a logiche di altri paesi e in particolar modo, ovviamente, ha a che fare con il governo degli Stati Uniti. Cioè mi sembra che siamo di fronte a un processo di finanziarizzazione esasperato che partorisce una concentrazione che toglie spazio evidentissimo alla politica, che toglie spazio alla sovranità, ma direi anche la stessa democrazia.”

E quindi qua si ritorna alla domanda di partenza: ma perché mai la nostra classe dirigente, sia politica che economica, si mette a disposizione di questo processo distopico di concentrazione del potere economico e politico nelle mani di una ristrettissima oligarchia che li considera, nella migliore delle ipotesi, camerieri servizievoli? Ovviamente una risposta sta nello strapotere militare e a livello di intelligence di Washington, in grado ancora di tenere sotto scacco mezzo pianeta, ma una risposta fondata solo sui bruti rapporti di forza rischia di essere solo parziale. Una macchina così ben funzionante non si può fondare esclusivamente sul puro dominio e sul monopolio della forza fisica; perché funzioni a dovere, qualche contropartita ci deve essere. Insomma: come al solito, tocca seguire i soldi.
Come fanno oggi le élite economiche a fare profitto? Concretamente, intendo. Passo numero 1: come sempre devi avere un’azienda che produce qualcosa e che, quando la rivende, ci ripaga i costi e ci fa un piccolo margine. A questo punto già c’è la prima biforcazione perché, nel capitalismo tradizionale, una buona fetta di quel profitto lo reinvesti per allargare la tua produzione e fare ancora più profitto; quindi, quando in un anno le aziende hanno registrato tanti profitti, dovresti vedere anche tanti investimenti. E però c’è qualcosa che non torna perché l’anno scorso, ad esempio, le aziende italiane i profitti li hanno fatti eccome, eppure tutta questa ondata di investimenti sinceramente io non l’ho vista (e non solo io).

Prof. Alessandro Volpi: […] perché, ovviamente, i grandi fondi non avrebbero subito grandi difetti, grandi danni da quella riduzione di liquidità, perché ce l’hanno. Quindi, per effetto di questo percorso per cui mettere i soldi nella finanza era vincente, ebbene questo meccanismo ha partorito una progressiva riduzione degli investimenti perché – e i numeri lo dicono con chiarezza anche pensando al nostro Paese – il volume complessivo degli investimenti, a cominciare dagli investimenti lordi fissi – parlando degli investimenti privati – si è significativamente ridotto, quindi perché, quando ci sono i margini favorevoli e ci sono gli utili, si decide di destinarli subito alla remunerazione del capitale, e magari si fanno dei ri-acquisti di titoli azionari, quindi senza nessun effetto sull’andamento reale dell’economia, per far salire il valore di quei titoli. Quindi, praticamente, è come se si comprasse carta su carta, per citare un’espressione sommaria dei grandi economisti.”[…] “Quindi vuol dire, evidentemente, che anche la partecipazione, là dove c’era un capitale pubblico disponibile, dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale – non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale – pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto diversificare, come si dice, il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce certamente.”

Capito eh, i furbacchioni… Ci raccontano che i profitti sono importanti, sennò poi come si fa a investire in innovazione, in ricerca, in marketing e chi più ne ha più ne metta, ma poi – in realtà – quando quei profitti arrivano, invece di reinvestirli li usano per speculare. Però, però, tendenzialmente qui c’è un problemino, perché investire in azioni o in prodotti finanziari – a regola – potrebbe essere abbastanza rischioso: e come faccio, allora, a convincere i miei cari imprenditori ad avventurarsi nel casino delle scommesse finanziarie invece che continuare a investire nel caro vecchio business di famiglia, che tanta fortuna gli ha portato fino ad oggi? Semplice: devo eliminare i rischi. Oddio, semplice… tanto semplice non è, però ecco, l’obiettivo è quello: eliminare i rischi, che – in termini finanziari – si dice anche ridurre la volatilità. E come si fa a ridurre questa benedetta volatilità? Bisogna trovare un modo affinché le bolle speculative non si sgonfino mai; si devono continuare a gonfiare gradualmente, sempre di più. Per farlo, c’è bisogno di una quantità di quattrini sostanzialmente illimitata, una quantità tale che permetta continuamente di iniettare nuovi soldi nelle vecchie bolle. E dove si trovano tutti questi soldi? Semplice: concentrando tutti i soldi che ci sono sempre di più nelle mani di pochi soggetti, che è esattamente quello che è successo.

Logo di BlackRock

Quei soggetti si chiamano asset manager e, in particolare, i tre giganti dell’industria della gestione patrimoniale: Blackrock, Vanguard e State street: la massima concentrazione di ricchezza mai vista nella storia dell’umanità. Con un patrimonio gestito che supera di diverse volte i prodotti interni lordi di interi paesi avanzati, i giganti dell’asset management garantiscono che le bolle continuino a gonfiarsi all’infinito a prescindere da cosa succede all’economia reale, ed ecco allora fatto il giochino: grazie ai monopolisti dei mercati finanziari, i camerieri servizievoli, quando ricevono i profitti delle loro aziende che ancora producono e vendono qualcosa, invece di rischiare reinvestendoli nell’economia reale non devono fare altro che buttarli nelle bolle speculative, sostenute dai monopolisti stessi, e fare soldi dai soldi. Da questo punto di vista non è difficile capire perché a questi camerieri ben remunerati, della sovranità che sarebbe necessaria per far ripartire l’economia non gliene può fregare di meno e sono ben felici di svenderla ai monopolisti della finanza, che soli gli possono garantire delle belle mance cospicue.

Prof. Alessandro Volpi: […] la produttività non cresce, non cresce certamente. Il problema è che l’attrattività e, paradossalmente, la riduzione del rischio che il monopolio finanziario sta generando, produce come effetto inevitabile la contrazione dei processi produttivi; cioè una volta, fino a 10-15 anni fa – ma del resto è, come dire, la crisi del 2008 avrebbe dovuto insegnare qualcosa – in realtà la percezione che si è maturata dopo il 2008 è che la concentrazione vera della ricchezza finanziaria nelle mani di pochissimi – che diventano anche i proprietari di un vastissimo spettro di attività – è lo strumento per ridurre la volatilità dei mercati, perché la volatilità la si affida totalmente alle decisioni di questi gruppi che, alla fine, la regolano come una sorta di rubinetto per comunque provare a garantire rendimenti finanziari a tutte quelle società che sono da loro partecipate. E quindi è ovvio che le imprese cercano di entrare dentro quel sistema di partecipazioni e di investimento, e il sistema produttivo e il modello industriale e manifatturiero di servizi – come noi ce lo immaginavamo in passato – viene meno, perché la differenza di rischio fra affidarsi al sistema finanziario e fare impresa è enorme. E quindi noi avremo sempre meno attività manifatturiera e sempre meno attività di impresa nei paesi dove prevale la struttura di natura finanziarizzata e questo mi sembra che i numeri ormai ce lo dicano con grande evidenza, ma perché è tornata la riduzione del rischio. E non è solo la riduzione del rischio perché, per una certa fase, le banche centrali hanno fornito talmente tanta liquidità che – alla fine – la finanza viaggiava agevolmente perché era facilmente liquida, ma anche e soprattutto perché c’è una regia di un monopolio che è in grado di determinare la volatilità e di farla più o meno oscillare […]”.

L’aspetto geniale di tutto questo meccanismo – più distopico della peggiore distopia hollywoodiana e che permette di guadagnarsi la collaborazione delle élite economiche dei paesi che vengono depredati – è che a fornire ai giganti della gestione patrimoniale una potenza di fuoco sufficiente per portare avanti il loro progetto di dominio globale sono, in buona parte, anche le vittime stesse di questo meccanismo che, alla fine, a volte ringraziano pure; buona parte dei quattrini gestiti da questi asset manager, infatti, sono proprio nostri, della gente comune come noi che campa sempre peggio del suo lavoro.
E’ il frutto delle scelte politiche del partito unico della guerra e degli affari che governa i paesi dell’Occidente collettivo da almeno 30 anni a questa parte, 30 anni durante i quali è stato smantellato sistematicamente lo stato sociale universalista che costituiva la spina dorsale delle democrazie moderne e che ci ha costretto a buttare sempre più quattrini in fondi previdenziali integrativi e assicurazioni mediche di ogni genere. Tutti quattrini che diventano armi di distruzione di massa che le oligarchie usano per devastare scientificamente l’economia reale che ci permette di sopravvivere, dandoci in cambio un contentino perché, se le bolle speculative continuano ad auto-alimentarsi e i quattrini della nostra pensione sono stati investiti in quelle bolle, qualche spicciolo in cambio ci torna pure a noi. Che culo. E’ un po’ lo stesso contentino che ci hanno garantito con le delocalizzazioni e le liberalizzazioni: hanno devastato la nostra qualità della vita a suon di precarietà e stagnazione dei salari, però ci hanno permesso di comprare a due lire un sacco di orrende t-shirt di plastica che prendono fuoco solo a vederle e, addirittura, di far finta di andarci a divertire nel weekend in qualche capitale europea grazie a un viaggio a due lire in un carro bestiame low cost e al soggiorno in qualche aribnb quasi esentasse grazie alla cedolare secca. Grazie, davvero. Non ce n’era bisogno. Stavo bene anche a casina mia col maglione fatto a mano da mia nonna, ma con qualche ora di tempo libero da dedicare alle cose che mi interessano e senza il patema di non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena dall’oggi al domani.

Carlo Bonomi

Ma come in tutte le storie distopiche, al danno – alla fine – si deve aggiungere sempre anche qualche beffa: l’ultima ce l’ha regalata il buon vecchio Carlo Bonomi, patron di Confindustria. Lo spunto gli è arrivato dai dati sull’inflazione della scorsa settimana: 1,8%, sotto il target della BCE. Un dato che ha fatto immediatamente gridare tutta la stampa di regime al miracolo. Una gigantesca presa per il culo: il dato, infatti, si riferisce all’inflazione di ottobre anno su anno, e cioè a quanto sono aumentati nell’ottobre 2023 i prezzi rispetto all’ottobre precedente; peccato, però, che nell’ottobre 2022 – causa la speculazione criminale sui prezzi dell’energia – i prezzi fossero letteralmente esplosi. E’ quello che, in gergo tecnico, viene definito un outlier – un valore anomalo – ma tanto è bastato a Bonomi per lanciare la sua ultima crociata; secondo Bonomi, infatti, di fronte a questi dati sull’inflazione bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno: i salari dei lavoratori italiani sono cresciuti troppo, soprattutto perché – nel frattempo – non è cresciuta la produttività. Ricchi e sfaticati: ecco come Bonomi vede i lavoratori italiani.

Prof. Alessandro Volpi: […] “quindi quel modello ha funzionato, si sono ridotti gli investimenti. Io trovo particolarmente singolare che il presidente di Confindustria dica “va beh, ma allora, visto che siamo in queste condizioni e, quindi, la produttività italiana è bassa, bisogna ridurre i salari” perché – appunto – il buon Bonomi sembra dimenticarsi che la produttività dipende in primo luogo dagli investimenti e dalla qualità degli investimenti; cioè senza che ci sia un investimento reale nel processo produttivo, senza che ci sia uno sforzo di migliorare la qualità del processo produttivo, è difficile che la produttività cresca. Se io destino gli utili che ho accumulato tramite operazioni finanziarie ad altre operazioni finanziarie e riduco il volume degli investimenti, poi non è che mi devo stupire che la produttività non cresca perché, evidentemente, la produttività avrebbe avuto bisogno – in determinati settori in particolare – di una maggiore mole di investimenti privati e una minore attenzione al rendimento finanziario: magari destinare gli utiliqualche anno al 70 – 80% al reinvestimento produttivo. In realtà questo non è avvenuto; è stato finanziarizzato, e la narrazione di Bonomi che veramente, da questo punto di vista, è un personaggio anche abbastanza singolare, è quella di dire “siccome non c’è produttività, i salari sono cresciuti troppo e ora li dobbiamo contrarre ulteriormente, e magari riduciamo ulteriormente il numero degli occupati” a meno che, dice Bonomi, “lo Stato non ci dia dei soldi” lamentandosi del fatto che c’èsolo 8% della legge di bilancio che è destinata agli incentivi alle imprese, senza appunto poi andare a verificare che nel nostro Paese – pur in presenzadelle tranches dei Pnr e quindi di un incentivo pubblico – gli investimenti privati si sono ridotti. Quindi vuol dire, evidentemente, che anche là dove c’era un capitale pubblico disponibile la partecipazione dei privati è stata largamente insufficiente. Quindi il problema è che se, però, buona parte della classe imprenditoriale (non dico tutti, ma buona parte della classe imprenditoriale) pensa che lo strumento per accumulare i propri profitti sia quello di destinare una parte crescente delle proprie marginalità a investimenti di tipo finanziario – che siano riacquisto dei propri titoli azionari, o il riacquisto delle proprie obbligazioni per poter ovviamente avere margini più alti o, appunto, diversificare – come si dice – il portafoglio comprando titoli di varia natura, o magari facendo acquisizioni che sono puramente finanziarie, la produttività non cresce”.

Ci pisciano addosso e i media mainstream all’unisono ci dicono che piove.
Mi sa che abbiamo bisogno di un media tutto nostro che, invece che alle barzellette di questi svendipatria, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Bonomi

Fine lavoro mai: se la Meloni fa l’atlantista con le pensioni degli altri

Pensavate di esservi liberati della Fornero, eh? In realtà non aveva fatto altro che indossare una parrucca bionda, frequentare qualche corso di dizione in burinese per darsi un nuovo tono più popolare e rieccola lì ai posti di comando, pronta a condannarvi di nuovo, tra una lacrima e l’altra, ai lavori forzati a vita.
La riforma delle pensioni partorita dal governo dei fintosovranisti svendipatrioti è un inno all’austerity che fa impallidire i tecnici neoliberisti più feroci: “Dopo anni di propaganda per abolire la legge Fornero” sottolinea con una certa nota di soddisfazione Luca Monticelli su La Stampa “il centrodestra è arrivato al governo e ha di fatto eliminato la flessibilità, creando un meccanismo che addirittura rafforza il sistema pensato dal governo Monti del 2011”. Difficile dargli torto; per andare in pensione, dal prossimo anno bisognerà mettere assieme 63 anni di età e 41 anni di contributi ma non solo, perché ormai i lavoratori che hanno iniziato a lavorare a tempo pieno a 22 anni e non hanno mai spesso per i 41 successivi sono una esigua minoranza. Per tutti gli altri, si arriverà in scioltezza a 67 e per quelli che non sono riusciti a mettere assieme nemmeno 20 anni di contributi – e sono tanti – direttamente a 71. In Francia, contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, centinaia di migliaia di persone hanno messo a ferro e fuoco il paese per mesi.
Ovviamente, l’informazione e le élite liberali gongolano e lasciano il palco alla Fornero original che, sempre dalle pagine de La Stampa, si prende la sua rivincita: “La manovra dimostra che quelle regole non erano dettate da insensibilità nei confronti dei desideri e delle aspettative dei lavoratori, ma dall’insostenibilità del sistema previdenziale. Alle condizioni date, nessuna contro-riforma delle pensioni è ragionevolmente possibile”. Non ha tutti i torti. Basta intendersi su cosa si intende per “condizioni date”: per lei – e i tecnocrati come lei – sarebbero le condizioni imposte dalle scienze economiche, dove con scienza intendono quell’insieme di superstizioni create ad hoc dalle oligarchie finanziarie e osservate religiosamente dalle nostre élite, nonostante siano state smentite millemila milioni di volte negli ultimi 20 anni. Per noi, molto più prosaicamente, consistono nel fatto che tra Monti, Draghi, Letta, Giorgetti e la Meloni non ci sono differenze se non di carattere cosmetico: stanno dove stanno per svendere il paese a Washington e alle sue oligarchie finanziarie.
Avevamo basse aspettative, ma di*c**e! Non c’è modo migliore per descrivere la nostra reazione quando abbiamo visto la bozza di disegno di legge di bilancio che è cominciata a circolare martedì scorso e che tutti sostengono sia più o meno definitiva. Nonostante le avvisaglie, abbiamo sperato fino alla fine che la Lega di Salvini non fosse disposta a sbracare in maniera ignobile di fronte alla macellazione di uno dei suoi cavalli di battaglia “ma non c’è stato nulla da fare” sottolinea il Corriere della Serva: “Palazzo Chigi ha avocato a sé la scrittura della manovra anche sulle pensioni, dove il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha concorso a stringere le norme per mandare un segnale di rigore alla commissione Ue e ai mercati, agenzie di rating comprese”.
La botta più feroce è per i millennial, che passeranno alla storia, probabilmente, come una delle generazioni più sfigate di tutti i tempi; per chiunque abbia cominciato a lavorare dopo il 1996, cioè l’anno del passaggio criminale dal sistema retributivo a quello contributivo, la pensione sarà una cosa da ricchi. Per andare in pensione alla tenera età di 64 anni, infatti, dovranno aver raggiunto un assegno mensile da 1.700 euro che, in soldoni, significa aver avuto per 20 anni stipendi netti intorno ai 2.300/2.400 euri: una piccola minoranza. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, dovranno aspettare di spegnere 67 candeline. Nella peggiore 71, sempre che le aspettative di vita, nel frattempo, non aumentino; in tal caso si ricalcolerà tutto e l’età aumenterà automaticamente. Siamo arrivati al punto che ogni volta che un vecchietto muore prima degli 80 anni dovremo festeggiare, e forse non basterà: tutte le risorse della manovra, infatti, sono andate al taglio del cuneo fiscale che, in realtà, non è fiscale manco per niente. A venire messi direttamente in busta paga del lavoratore, infatti, sono soldi che fino ad oggi andavano all’INPS; per il prossimo anno quei soldi all’INPS li darà lo Stato. Poi chissà.
Una fregatura; il taglio del cuneo, infatti, è diventato indispensabile dopo che l’anno scorso le aziende, nonostante l’inflazione, hanno aumentato i profitti (e di parecchio) ma senza aumentare di un centesimo gli stipendi dei lavoratori che, così, hanno perso oltre il 7% del loro potere d’acquisto, come se gli avessero tagliato di botto la tredicesima. E questo nella migliore delle ipotesi: secondo una relazione di Mediobanca del mese scorso, infatti, la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori delle 2000 principali aziende italiane sarebbe stata addirittura del 20%. Oltre alla tredicesima gli hanno fregato pure un altro stipendio e mezzo. Con il taglio del cuneo, a colmare la lacuna non dovranno essere le aziende, redistribuendo una piccola parte dei profitti letteralmente fregati sia ai lavoratori che ai consumatori, ma ci penserà lo stato, ovviamente con i soldi dei lavoratori stessi, che sono sostanzialmente gli unici che pagano davvero tutte le tasse e per i quali, in futuro, ci saranno ancora meno soldi per pagare le pensioni.
E sapete lo Stato da dove prenderà i soldi per pagare gli aumenti salariali al posto delle aziende? L’ipotesi che va per la maggiore è il blocco del turn over: se ne sentiva proprio il bisogno. L’Italia infatti, al di là delle leggende metropolitane spacciate dalla propaganda e che fanno immediatamente presa sul popolo delle partite iva – che è incazzato nero e non senza ragioni – è uno dei paesi OCSE col numero più basso di lavoratori pubblici sia rispetto al totale della popolazione attiva, sia rispetto alla popolazione complessiva; per raggiungere gli standard medi del mondo sviluppato, avremmo bisogno domattina di assumere tra gli 1 e i 2 milioni di dipendenti pubblicicosì, de botto. In queste condizioni, fare cassa rinnovando il blocco del turn over significa solo una cosa, molto semplice: ridurre l’amministrazione pubblica una scatola vuota a partire dalla sanità, dove la carenza di personale è un vero e proprio dramma.
La soluzione della Fornero con la parrucca? Pagare di più gli straordinari ed evitare scientificamente di assumere, e quello che si risparmia regalarlo alla sanità privata. Ma attenzione: non sono errori. E’ una strategia deliberata; se a garantire pensioni adeguate e sanità dignitosa non è più il pubblico, infatti, ecco che non rimane altra alternativa che dare un po’ dei nostri quattrini a fondi e assicurazioni private, e cioè alle oligarchie finanziarie – in particolare d’oltreoceano – che ormai hanno più quattrini e potere degli stati nazionali stessi che, ormai, assolvono molto banalmente il ruolo di loro comitato d’affari. E, da questo punto di vista, accanirsi più di tanto con questo governo di fenomeni da baraccone lascia il tempo che trova; sono solo l’ennesima variante, magari leggermente più pittoresca e maldestra, del partito unico degli affari e della guerra che governa l’Italia dalla fine della prima repubblica, con differenze del tutto marginali.
E quindi non ce ne vogliate, ma qui tocca aprire l’ennesimo capitolo di educ8lina e, insieme al leggendario Alessandro Volpi, provare a raccontarvi un altro pezzetto oscuro del capitalismo ai tempi della globalizzazione finanziaria che sui media mainstream non troverete mai.

Capitolo primo: come l’efficientissimo ordine economico neoliberale si è trasformato in una gigantesca trappola del debito

Alessandro Volpi: “Io voglio provare a fare un ragionamento che è sostanzialmente legato a 2 o 3 questioni fondamentali: la prima, che mi sembra una questione di natura generale che a mio modo di vedere merita una riflessione, sono i dati che sono emersi in questi giorni sul livello di indebitamento globale. Abbiamo visto che in questi giorni sono usciti questi rapporti di varia natura. Sono più rapporti che mettono in luce come il debito complessivo e il debito pubblico e privato abbiano superato ampiamente i 300.000 miliardi di dollari, quindi ormai è un livello stabilizzato. Sembrava che questa forte impennata dipendesse dalle spese per il covid e quant’altro, anche a livello globale; in realtà ormai viaggiamo su un indebitamento complessivo che è superiore ai 300.000 miliardi, quindi vuol dire grossomodo il 300% del prodotto interno lordo mondiale. Dentro questo numero ce n’è un altro, cioè il gigantesco indebitamento pubblico, perché siamo ormai stabilmente sopra i 100.000 miliardi: oscilliamo fra i 100 e i 98 mila miliardi, quindi il 100% del prodotto interno lordo globale. Ma il dato più rilevante rispetto a questi numeri è rappresentato dal fatto che, secondo le stime di questi istituti di varia origine e provenienza (quindi è certamente un dato oggettivo o almeno presumibilmente oggettivo) la percentuale di interessi maturati sul debito e sul prodotto interno lordo tende a oscillare fra il 15 e il 20%, che è veramente un’esagerazione. Pensare che noi abbiamo una massa di interessi da pagare – intendo il sistema globale degli stati in giro per il mondo – che è grossomodo intorno al 15% del prodotto interno lordo mondiale, vuol dire veramente una montagna di soldi. Da questa fotografia, secondo me, emergono due considerazioni di rilievo. La prima, ce lo dobbiamo mettere in testa (e spero che questo messaggio riusciremo a trasmetterlo), è che è difficile immaginare qualsiasi ipotesi di mantenimento in vita di una parvenza di stati sociali – ma a questo punto direi anche dello stesso sistema delle imprese e delle famiglie – senza il debito. Cioè l’idea che il debito sia in qualche modo, soprattutto nel caso del confronto dei debiti pubblici, un dato patologico per cui bisogna riavviare politiche di austerity, ridurre il debito, riportare i parametri – come vuole fare l’Europa con il patto di stabilità in qualche modo, sia pur gradatamente – a una riduzione, mi sembra che cozzi contro questo dato di fatto. Cioè se noi prendiamo i dati, banalmente, del 2000, i dati del 2000 ci fanno vedere che il rapporto fra il debito complessivo e il prodotto interno lordo mondiale era intorno, grossomodo, al 20 – 25%; oggi siamo al 300%. Come si può pensare che noi manteniamo in vita dei parametri, peraltro pensati a metà degli anni ‘90, quindi in condizioni dove i rapporti debito – PIL pubblico (e in parte privato) facevano dire “Beh, ma il debito è il male e quindi mettiamo tutta una serie di misure che devono far rientrare in direzione della riduzione dell’indebitamento”?

Oggi è abbastanza palese che immaginare una contrazione del debito vuol dire strangolare le economie dei paesi sia dal punto di vista privato sia dal punto di vista pubblico. È evidente che al debito si somma debito e si strangola ancora, in maniera marcata, l’economia pubblica. Quindi bisognerebbe cominciare a pensare che il debito pubblico è un dato sostanzialmente fisiologico, che va rapportato alla capacità di mantenere i Paesi in condizioni di vita che siano dignitose dal punto di vista dei servizi, e servono le politiche delle banche centrali – laddove necessario – per il finanziamento del debito. Ce lo dicono i numeri: a volte veramente è come se noi non volessimo vedere i numeri (e poi su questa arriverò a cascata sulle considerazioni anche legate allo specifico), ma i numeri ci dicono che il debito è indispensabile. Se noi non facciamo debito non siamo in grado di mantenere in vita il nostro sistema economico. I debiti pubblici hanno un ruolo decisivo.

Fortunatamente, però, un modo per sopravvivere e rendere tutto questo gigantesco debito sostenibile c’è, si chiama monetizzazione: in soldoni, significa che quando uno Stato cerca di finanziare il suo debito attraverso l’emissione di titoli di Stato ma sul mercato non trova abbastanza acquirenti, o per trovarli gli deve garantire interessi troppo alti, ecco che a intervenire è la Banca Centrale, che stampa moneta e a comprare il debito ci pensa direttamente lei. Non è una tecnica particolarmente innovativa; quando il capitalismo era ancora capitalismo industriale e per fare quattrini si puntava alla crescita economica – invece che al furto di una fetta sempre più grande di ricchezza in un’economia che si rimpicciolisce sempre di più – era la norma: in Italia, ad esempio, fino al 1981, quando la religione neoliberista ci impose di rendere la Banca Centrale indipendente e al servizio – invece che del governo – delle oligarchie finanziarie. Ma ancora oggi, in piena era di dominio delle oligarchie, c’è chi lo fa ancora, e non sono soltanto gli stati sovrani del sud globale che, anzi, da questo punto di vista qualche difficoltà in più ce l’hanno. No, no. E’ proprio il centro dell’impero.Negli USA la Fed, infatti, fa esattamente questo: dà carta bianca al governo per aumentare il debito sostanzialmente all’infinito. Questo infatti è l’andamento del debito pubblico USA dal 1970 ad oggi: ancora nel 2008 era paragonabile a quello dell’area euro,appena poco sopra il 60%. Oggi è poco meno del 125% e continua ad aumentare di brutto, e la Fed continua a comprare tutti i titoli che servono. Da noi invece, dopo la parentesi del whatever it takes di Draghi, la BCE non solo i titoli ha smesso di comprarli, ma ha anche iniziato a vendere quelli che c’aveva già, nonostante il debito complessivo dell’eurozona sia enormemente inferiore a quello USA: appena appena sopra il 90%. Secondo la leggenda metropolitana degli economisti mainstream, l’eurozona sarebbe quella virtuosa: la teoria magica, infatti, prevede che se aumenti il debito e poi lo monetizzi fai esplodere l’inflazione. Peccato, però, che l’inflazione nell’eurozona sia stabilmente superiore a quella USA: maledetta realtà, che continua a contraddire i tecnocrati neoliberisti. Senza rispetto proprio.
Ma il masochismo dell’eurozona non finisce qui, perché se non hai una Banca Centrale che monetizza il tuo debito, il tuo debito – appunto – lo devi vendere ai privati. Ma come fanno i privati a decidere quanti interessi gli devi riconoscere perché si prendano il rischio di comprare il tuo debito?
Ed ecco che qui entrano in gioco le agenzie di rating, tre aziende private che danno le pagelle al debito di tutti i paesi del mondo, e gli investitori istituzionali – come i fondi pensione – se le agenzie di rating ti hanno dato un brutto voto, il tuo debito molto banalmente non lo comprano. Insomma, delle prof esigenti e influentissime che, però, spesso non agiscono in modo esattamente disinteressato, diciamo. Le tre agenzie di rating che decidono le sorti delle finanze pubbliche di tutto il mondo sono Fitch, Moody’s e Standard & Poor; i primi tre azionisti di Standard & Poor sono Vanguard, State Street e Blackrock ,che sono anche tre dei principali cinque azionisti di Moody’s insieme a Bearkshire Hathaway, il fondo di investimento di Warren Buffet. Un conflitto di interessi gigantesco, che va ben oltre semplicemente assecondare le scommesse al ribasso dell’azionista di riferimento. Il problema è molto più generale; il voto delle agenzie di rating è per forza di cose influenzato dagli interessi generali dei grandi fondi speculativi e il modello è molto chiaro: più svendi il tuo paese ai fondi speculativi e più alti saranno i tuoi voti. Ecco perché, al di là delle polemiche da talk show, essere disposti a svendere la patria non è un’opzione politica tra le tante, ma è proprio il prerequisito per salire al governo di un paese, che tu ti chiami Monti, Fornero, Giancazzo Giorgetti o Giorgia famigliatradizionale Meloni. E sui media mainstream tutto questo noncielodikono.
Per cominciare a guardare la luna invece del dito, l’unica possibilità è che un media tutto nostro – che non faccia da megafono alle oligarchie finanziarie – ce lo si costruisca da no. Per farlo abbiamo bisogno del tuo sostegno: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti

Il peggior amico: come l’Italia ha tradito i palestinesi e ha imparato ad amare i carnefici

In piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.

“Considero legittima la lotta armata dei palestinesi”. Era il 6 giugno, 1985, e con queste parole Bettino Craxi, allora Presidente del Consiglio, affrontava davanti alla Camera dei Deputati la questione palestinese. Oggi, le stesse parole pronunciate da un’alta carica dello stato verrebbero immediatamente etichettate come il delirio di un fanatico filo-hamas e determinerebbero la fine della sua carriera politica. Questo, nonostante a riconoscere la legittimità di un popolo alla lotta armata in caso di occupazione straniera sia la stessa Onu e sia sempre la stessa Onu a chiedere a Israele di fermare la sua invasione e riconoscere il diritto dei palestinesi ad un loro Stato nazionale con la stessa dignità di tutti gli altri. Nulla da fare, in Italia in questi giorni anche solo definire territori occupati territori effettivamente, da ogni punto di vista, occupati, o addirittura pretendere che la comunità internazionale faccia pressione su Israele affinchè si ritiri nei propri confini, comporta automaticamente l’accusa di connivenza con il terrorismo e se non con l’anti-semitismo.

Non è sempre stato così.

Durante la guerra fredda, quando l’Italia conservava ancora un pò di dignità nazionale e mostrava un minimo di indipendenza rispetto agli interessi geopolitici americani, la questione palestinese non era affrontata nei termini ideologici e farneticanti con cui viene affrontata oggi.
In questa nuova puntata di pill8lina ripercorriamo la storia dei rapporti diplomatici tra il popolo italiano e quello palestinese, e di come il nostro Paese, da essere lo Stato occidentale più vicino e solidale alla lotta di indipendenza palestinese, si sia trasformato negli ultimi trent’anni in un acritico sostenitore del fanatismo e dell’imperialismo.

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, l’Italia dedicò grande attenzione al mondo arabo. Negli anni 50’, anche se la politica estera italiana aveva un margine di manovra limitato nel contesto della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il governo cercò di avere un ruolo attivo nel mediterraneo approfittando della propria posizione favorevole di “ponte” tra l’Europa e il vicino oriente. Da un lato, la Democrazia Cristiana, primo partito italiano, voleva dare priorità alle politiche di integrazione europea e basata sugli interessi atlantici. Dall’altro, diversi attori politici e industriali stavano creando relazioni forti e durature nell’area del Mediterraneo. In particolare le forze socialiste, i partiti laici e anche la corrente di sinistra interna alla DC, erano convinti che una forte presenza dell’Italia nel mondo arabo potesse contribuire alla nascita di una “terza via” rispetto alla dicotomia della Guerra Fredda. Il tentativo di perseguire una politica di equidistanza tra il neonato stato di Israele e la causa palestinese ha caratterizzato gli anni ’50 e ’60 con risultati controversi:

durante la crisi di Suez del 1956, ad esempio, l’Italia ebbe un ruolo fondamentale nella risoluzione del conflitto: non solo condannò l‘invasione da parte di Israele, Francia e Gran Bretagna, ma si impegnò diplomaticamente per mettere fine alle tensioni. Undici anni dopo, durante la guerra del ‘67, nonostante la dialettica interna alla maggioranza di governo, l’Italia si rifiutò di condannare l’Egitto e lega araba, ma poi decise di convergere verso il piano di “pace” americano, con ripercussioni negative sui nostri rapporti economici con gli Stati Arabi. Ma fu negli anni ’70 che l’Italia virò più decisamente verso una posizione pro-palestinese. Sotto la guida dell’allora Primo Ministro Aldo Moro, e nonostante le critiche degli Stati Uniti, l’Italia promosse diverse iniziative a favore della Palestina.

Insieme alla Francia, sostenne la partecipazione di Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1974, e poi lo accolse pure in visita ufficiale in Italia.

Il sostegno aumentò ulteriormente nel decennio successivo.

Nel 1985, l’Italia rifiutò di concedere l’estradizione ai dirottatori palestinesi dell’Achille Lauro. È l’anno del discorso di Craxi citato all’inizio e ispirato niente popodimeno che alla figura di Giuseppe Mazzini: “Quando Giuseppe Mazzini nella sua solitudine, nel suo esilio, si macerava nell’ideale dell’unità ed era nella disperazione per come affrontare il potere”, dichiarava enfaticamente Craxi, “lui, un uomo così nobile, così religioso, così idealista, concepiva e disegnava e progettava gli assassinii politici. Questa è la verità della storia”, continuava Craxi, “e contestare a un movimento che voglia liberare il proprio Paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi significa andare contro le leggi della storia”.

Tre anni prima, l’opinione pubblica italiana aveva reagito con sdegno unanime al massacro di Sabra e Shatila e L’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva energicamente condannato il massacro durante il Messaggio di Fine Anno agli Italiani del 1983. “Una volta”, dichiarò Pertini, “furono gli ebrei a conoscere la “diaspora”. Vennero cacciati dal Medio oriente e dispersi nel mondo; adesso lo sono invece i palestinesi”, che “hanno diritto sacrosanto ad una patria ed a una terra come l’hanno avuta gli israeliti”

“Se vi sono nazioni in cui i diritti civili ed umani sono annullati”, continuava Pertini condannando Israele , “non vi è che un provvedimento da prendere contro queste nazioni: l’espulsione dall’Onu. Non valgono le proteste, se le porta via il vento. Non valgono le polemiche. Siano espulse dalla Organizzazione delle Nazioni Unite. Sia dato loro il bando, siano indicate all’umanità come colpevoli”.
Ma verso la fine degli anni ‘80, qualcosa è cominciato a cambiare. I motivi, li spiega magistralmente la ricercatrice dell’università di Oxfors Mjriam Abu Samra. Il primo è la totale integrazione dell’Italia, dopo la guerra fredda, all’interno della sfera politica e culturale americana. Un’appiattimento, che ha cambiato anche la narrazione dei media, che negli anni hanno tentato in tutti i modi di sradicare ogni forma di simpatia nei confronti della causa Palestinese dall’opinione pubblica italiana. Il secondo, riassume sempre Abu Samra “è costituito dai lenti ma inesorabili cambiamenti delle pratiche organizzative palestinesi e della loro visione politica, cristallizzata dagli Accordi di Oslo”. Secondo Abu Samra infatti, “Non solo l‘OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) si è trasformata da movimento rivoluzionario in apparato quasi statale che privilegia la diplomazia rispetto all’attivismo popolare, ma la frammentazione politica dell’organizzazione ha avuto anche un impatto negativo sull’attivismo popolare, causando una paralisi senza precedenti delle attività sociali, culturali e politiche dei palestinesi in Italia”.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: in Italia ormai sostenere qualcosa di diverso dalla linea ufficiale decretata da Washington e Tel Aviv è tabù, il tutto nel nome dell’affinità culturale con quella che con sprezzo per il pericolo e sezna senso del ridicolo continuiamo a definire “l’unica democrazia del medio oriente”. Nei media e nelle dichiarazioni dei politici, lotta per la liberazione e l’indipendenza di un popolo è stato derubricato da un lato dai finto progressisti a semplice problema umanitario, e dall’altro, dalla destra reazionaria, addirittura a tassello della narrazione razzista e suprematista dello “scontro di civiltà”. Supportata da questa propaganda, la politica Italiana ha di fatto sostenuto le politiche imperialiste israeliane anche quando venivano ufficialmente condannate dall’Onu e da tutte le più importanti organizzazioni internazionali, fino ad arrivare ad una prima impensabile identificazione tra un immaginario “noi” di cui Israele farebbe parte, contrapposto a un “loro” che include i palestinesi. In questo quadro, la vittoria democratica di Hamas alle elezioni dell‘Autorità Nazionale del 2006 è stata sfruttata per rietichettare la lotta di liberazione palestinese come uno dei tanti fronti aperti dal “terrorismo islamico”. Ed ecco così che dalla solidarietà e la capacità di svolgere un ruolo di mediazione, indispensabile anche per difendere i nostri interessi nazionali, siamo passati alle bandiere israeliane proiettate e sventolate in questi giorni sui nostri edifici istituzionali. Le bandiere di uno Stato, ribadiamo, condannato ripetutamente dall’Onu per invasione, annessione, e violazione dei diritti umani. Una svolta oltretutto, che testimonia in modo plateale anche un vero e proprio cambio di paradigma culturale: negli anni dopo l’occupazione nazi-fascista e memori della resistenza infatti, era diffusa in Italia l’idea che le tecniche di guerriglia adottate da un popolo occupato fossero politicamente giustificate, e che la responsabilità morale dei massacri e delle stragi commesse da entrambe le parti dovesse ricadere sempre su gli invasori e non sugli invasi .

Oggi invece, in piena controrivoluzione culturale, sembra che non abbiamo più gli strumenti cognitivi per capire che ribellarsi senza troppi calcoli, costi quel che costi, per chi vive in condizione di apartheid e semi schiavitù, a volte è l’unica opzione razionale.
Contro il coro unanime della propaganda, per ricominciare a vedere il mondo dal punto di vista di chi è oppresso, e non di chi opprime, abbiamo bisogno di un vero e proprio media libero e indipendente

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E chi non aderisce è David Parenzo.

La Solitudine di Zelensky: perché l’occidente globale sta voltando le spalle al suo ultimo crociato

Magari mi sono distratto io, ma ultimamente mi sembra che i titoli “copia incolla” sull’occidente unito come un sol uomo che si appresta a concludere trionfante la sua crociata contro la giungla selvaggia che ci assedia vadano un po’ meno di moda; eppure, per mesi e mesi sulle prime pagine di tutti i principali giornali italiani non c’è stato letteralmente altro.

Viene quasi il sospetto che qualcosa sia andato storto e che ora non sia esattamente chiarissimo come salvare la faccia se non, appunto, attraverso l’oblio.

La controffensiva ormai è relegata alle pagine di cultura e società: invece che militare, sembra la controffensiva dei selfie, o dei killfie, come si dice in gergo. Il termine indica il fenomeno delle persone disposte a tutto pur di catturare lo scatto perfetto e che alla fine ci lasciano le penne, e nella guerra ucraina ha raggiunto una dimensione tutta nuova: 13 morti, in una botta sola.

Tanti sarebbero gli uomini dei servizi segreti militari di Kyev, caduti mercoledì scorso nel tentativo di sbarcare in Crimea per realizzare un video che ritrae incursori che sventolano la bandiera ucraina e dicono felici che “la Crimea sarà ucraina o disabitata”, scrive il Messaggero.

In tutto, ricostruisce il Messaggero, “una trentina di marinai ucraini che alle 2 di notte hanno puntato verso la Crimea su un’imbarcazione veloce e 3 moto d’acqua”, che sono state “prima intercettate da un pattugliatore della marina russa, poi attaccate dagli aerei e costrette al ritiro. Il video però”, sottolinea non ho capito quanto sarcasticamente il Messaggero, “è stato girato e postato”.

E io che mi lamento che per fare un video mi devo leggere qualche articolo di giornale. Che ingrato.

D’altronde, a breve, gli smartphone con le camere di ultima generazione potrebbero essere l’unica arma che l’occidente è ancora disposto a fornire per questa guerra per procura, che rischia di rimanere senza procuratori; nonostante le tonnellate di inchiostro sprecato per tentare di convincerci che l’iperinflazione, i tassi di interesse alle stelle e la recessione incombente non fossero altro che leggende metropolitane spacciate dai gufi e dagli utili idioti della propaganda putiniana, sembra quasi che per la realtà sia arrivato il momento di presentare il conto. Non poteva andare altrimenti.

Nonostante negli ultimi 50 anni le élite politiche del nord globale non abbiano fatto altro che restringere ogni spazio di democrazia, fortunatamente qualcosina in eredità ci è rimasto

e, mano a mano che per le élite che negli ultimi 18 mesi hanno sacrificato gli interessi della stragrande maggioranza dei loro cittadini si avvicina lo spettro delle urne, il mondo fatato immaginario dipinto dalla propaganda del partito unico della guerra e degli affari comincia a scricchiolare.

Il primo clamoroso esempio è stata la Polonia, che sul sostegno all’Ucraina senza se e senza ma ha tentato, con il supporto incondizionato di Washington, di riconfigurare completamente il suo status all’interno dell’Unione Europea; sotto stretta osservazione per le sue palesi violazioni dei requisiti minimi di uno stato di diritto, nell’arco di poche ore si era magicamente trasformata nella paladina più intransigente del mondo democratico contro i totalitarismi.

Evidentemente, però, l’operazione di maquillage ideologico ha convinto più i rubastipendi che stanno in villeggiatura a Bruxelles che non i contadini polacchi, che inspiegabilmente sono così maleducati da preoccuparsi più di non finire in miseria che non di immolarsi in nome della retorica democratica.

La storia la conoscete: da quando è naufragato l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina mediato dalla Turchia, l’Ucraina ha cominciato a esportare il suo grano via terra, approfittando della sospensione di quote e tariffe da parte della UE nei confronti dei prodotti alimentari ucraini a partire dal febbraio del 2022. Da allora il grano ucraino ha letteralmente invaso paesi come la Bulgaria, la Romania e appunto la Polonia, rischiando di gettare sul lastrico gli agricoltori locali: ammassato a milioni di tonnellate nei silos, pur di sbarazzarsene il grano ucraino aveva raggiunto prezzi troppo bassi per permettere a qualunque produttore di reggere la concorrenza. Di fronte alle proteste delle popolazioni locali, nel maggio scorso, l’Unione Europea aveva introdotto un divieto temporaneo alla vendita del grano ucraino in questi stessi paesi, divieto che però a settembre è scaduto.

Una tempistica perfetta: il 15 ottobre infatti la Polonia torna al voto, e il voto degli agricoltori è determinante, in particolare per il partito di governo di estrema destra Diritto e Giustizia, che ha proprio tra la popolazione rurale il suo bacino di voti principale e che, come 18 mesi prima, da essere considerato la peggio feccia reazionaria era diventato, nell’arco di mezza giornata, il punto di riferimento dei sinceri democratici, ora si apprestava altrettanto rapidamente a fare il percorso inverso.

Il compagno Morawieczki infatti ha si è rifiutato di ritirare il divieto e Zelensky ha reagito presentando un ricorso ufficiale presso il WTO e accusando la Polonia di essere solidale solo a parole.

E Morawieczki non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. “Non trasferiremo più armi all’Ucraina”, ha annunciato laconico a fine settembre in diretta televisiva. Ma non solo: “Se vogliamo che il conflitto si intensifichi in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia. Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata“.

Maledetti populisti! La stragrande maggioranza dei loro elettori avanza una rivendicazione, e per paura di perdere le elezioni questi gliela concedono pure, magari addirittura senza aver prima ottenuto il via libera da Washington o da Bruxelles.

Se ce lo dicevano prima che funzionava così la democrazia, ci inventavamo un altro sistema.

E la Polonia non è certo un caso isolato. Tra gli stati canaglia dell’internazionale nera di Visegrad che più hanno cercato di sfruttare la guerra per procura in Ucraina per tornare a piacere alla gente che piace, senza manco bisogno di rinunciare a un briciolo della loro vocazione clericofascista, spicca infatti anche la piccola ma agguerritissima Slovacchia, che salta anche più agli occhi; fino al 2018 infatti al governo c’era stato un tale Robert Fico, che invece il muro contro muro con la Russia e il suicidio delle sanzioni economiche li vedeva di pessimo occhio già da tempi non sospetti.

Cresciuto tra le fila del Partito Comunista subito prima dello smembramento della Repubblica Ceca, Fico aveva fondato una formazione politica tutta sua, che si chiama SMER, ed è un esempio piuttosto eclettico di partito socialdemocratico che ha incredibilmente sempre nutrito più di qualche perplessità per quel che riguarda le controriforme di carattere neoliberista e l’adesione religiosa ai vincoli esterni.

Nel 2018 però al governo guidato da Fico ne subentra un altro, altrettanto populista, ma a questo giro in senso prettamente reazionario, che fa sue battaglie di civiltà come ad esempio trasformare l’aborto in un reato penale, e come tutti i veri fintosovranisti ma veri reazionari, quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina ecco che la Slovacchia si trova a gareggiare per il primo gradino del podio dei governi più svendipatria del continente.

Come ricorda People Dispatch, “in termini di percentuale del suo prodotto interno lordo, la Slovacchia è attualmente uno dei maggiori donatori europei all’Ucraina. Ha fornito all’Ucraina obici, veicoli corazzati e la sua intera flotta di aerei da combattimento MiG-29 dell’era sovietica”.

Purtroppo però, continua l’articolo, la Slovacchia “è anche uno dei paesi più poveri d’Europa, e il grosso dell’elettorato è convinto che il denaro dovrebbe servire per migliorare i servizi interni, non per la guerra”.

Totalmente dipendente dal gas russo a prezzi di sconto, la Slovacchia negli ultimi 18 mesi ha registrato uno dei tassi d’inflazione più alti dell’intero continente, superando durante la scorsa primavera addirittura quota 15%; la crisi economica ha scatenato una crisi politica e la maggioranza filo NATO si è sfaldata, ma invece di sciogliere il parlamento e tornare alle urne la presidenta fintoprogressista Zuzana Caputova ha deciso di consegnare il paese nelle mani dell’ennesimo caso di governo tecnico farsa guidato dal vice governatore della banca nazionale.

Come tutti i governi tecnici che si rispettano, i mesi successivi sono stati mesi di sospensione della democrazia e di politiche antipopolari in nome dei vincoli esterni nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, fino a quando anche qui è arrivata la scadenza naturale della legislazione ed è tornata quella gran rottura di coglioni che sono le elezioni politiche che – ormai – ai paladini della democrazia piacciono sempre meno.

Ovviamente a quel punto, come sempre accade al termine di un governo tecnocratico antidemocratico, il grosso dell’elettorato non poteva che prediligere la forza politica che meno si era compromessa, ed ecco così che il nostro Robert Fico ha avuto gioco facile.

Durante la campagna elettorale gli è bastato ricordare che le conseguenze delle sanzioni alla Russia lui le denuncia da sempre e promettere espressamente che in caso di vittoria “non invieremo un solo colpo all’Ucraina”, ed ecco fatto: una cosa lineare, prevedibile, semplice.

Per tutti, tranne che per la sinistra suprematista imperiale delle ZTL e la sua bibbia, internazionale, che affida l’ennesima analisi psichedelica all’immancabile Pierre Haski.

Un vero punto di riferimento: quando avete un dubbio, andate a vedere cosa ne pensa Haski. e fate, o pensate, l’esatto opposto.

Secondo Haski in questo caso, la vittoria di Fico sarebbe attribuibile “al ruolo della disinformazione di massa, dalle fake news ai video truccati, che ha imperversato durante la campagna elettorale slovacca”.

Ma la potenza di fuoco dell’inarrestabile macchina propagandistica di Putin – il primo presidente nella storia a riuscire a pilotare l’opinione pubblica globale nonostante sia già morto da mesi per uno dei suoi 17 incurabili tumori e nonostante la bancarotta della Russia annunciata dalla Tocci da due anni ma tenuta ancora nascosta – va ben oltre la Slovacchia: anche il nostro paese, nonostante la RAI, Mediaset, La7, il gruppo GEDI, e gli analfoliberali sul web, è a rischio.

Facciamo un passetto indietro: lunedì scorso Tajani è andato a Kyev e durante la visita avrebbe ufficialmente annunciato nuovi invii di armi.“E’ soltanto una dichiarazione d’intenti” l’ha redarguito Crosetto.

Di questo fantomatico ottavo pacchetto di aiuti, sottolinea infatti Crosetto, “C’è tantissima gente che ne parla non avendone competenza”, anche perché, ricorda sommessamente, “è secretato. C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, però bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe”.

l’italia ha fatto molto”, ha continuato Crosetto, ma non abbiamo “risorse illimitate”, e abbiamo già fatto “quasi tutto ciò che potevamo fare; non esiste molto ulteriore spazio”.

Non è un cambio di linea eh, ci mancherebbe. “Continueremo a sostenere l’Ucraina”, ha infatti ribadito, “privilegiando la via del dialogo per riaffermare il diritto a raggiungere una pace giusta”, ma solo come se fosse antani, tarapiotapioca con scappellamento a destra.

O a centrodestra, se siete più moderati.

Ma gli arsenali vuoti non sono l’unica cosa a spingere l’Italia verso una parziale marcia indietro: come ha sottolineato Giorgiona stessa, a preoccupare comincia anche ad essere, anche qui, l’opinione pubblica. Un sostegno incondizionato, avrebbe dichiarato Giorgiona “genera una resistenza e rischia di generare stanchezza nell’opinione pubblica”, ma a colpire ancora di più è la reazione dello stesso Zelensky, che fino a qualche mese fa si incazzava decisamente per molto meno, e oggi invece si riscopre comprensivo.

So che l’Italia ha le proprie sfide”, avrebbe affermato, “e so anche che l’Italia subisce una forte campagna di disinformazione della federazione russa, che spende milioni per distruggere le relazioni tra le nazioni dell’Europa e del mondo”.

E a noi, manco un centesimo, popo’ di ingrati.

Di fronte a questa inarrestabile campagna propagandistica russa che, senza che ve ne accorgeste, si è impossessata di tutti i media e tutti i mezzi di produzione del consenso italiani, Zelensky non può che apprezzare comunque lo sforzo: “Vorrei ringraziarvi perché voi avete un primo ministro molto forte”, avrebbe affermato.

Ma com’è che tutti questi Paesi, che abbiamo sempre additato come umili servitori degli USA, anche contro i loro stessi interessi più immediati, ora cominciano di punto in bianco un po’ a scalpitare? Semplice: i primi a scalpitare ormai, infatti, sono proprio gli USA.
Come sapete, per rinviare per l’ennesima volta il rischio shutdown pochi giorni fa Biden e la maggioranza repubblicana alla camera, hanno siglato un patto che permette nei prossimi quarantacinque giorni di effettuare tutta una lunga serie di spese. Che è lunga si, ma non abbastanza da contenere ulteriori aiuti all’Ucraina. Biden voleva altri 6 miliardi. ne ha ottenuti zero.

Ed è solo l’inizio. Perchè comunque quell’intesa tra leader repubblicani alla camera e amministrazione democratica, a qualcuno proprio non è andata giù. Risultato: un piccolo gruppo di 8 repubblicani che secondo i media mainstream sarebbero l’estrema destra dell’estrema destra trumpiana, hanno chiesto il voto di sfiducia per lo spekaer della camera Kevin McCarthy, lo hanno ottenuto, e poi lo hanno pure vinto. È la prima volta che succede da quando esistono gli Stati Uniti d’America per come li conosciamo oggi. Senza lo speaker, l’attività legislativa della camera è bloccata e l’ucraina teme che per lei sarà bloccata anche quando di speaker ne eleggeranno uno nuovo. “Difficile eleggere uno speaker che sostenga gli aiuti all’ucraina”, così avrebbe dichiarato un parlamentare repubblicano interrogato da La Stampa. Non si tratta di uno dei parlamentari della fronda, ma di Pete Sessions, storico rappresentante neocon del texas, e filoucraino sfegatato. A spingere i repubblicani verso un deciso cambio di rotta, i sondaggi che continuano a dimostrare come la maggioranza assoluta dei cittadini USA non ne possa più. Come quello pubbicato l’altro giorno dalla cnn che affermava che il 55% degli americani ritiene che siano stati dati tutti gli aiuti necessari e che “è stato fatto abbastanza”. I soldi che ci sono, devono essere spesi in qualcosa che potrebbe permettere ai repubblicani di vincere le prossime elezioni: in particolare, rafforzare il controllo del confine con il Messico, e ridurre il debito.
“Prima bisogna garantire i finanziamenti per la sicurezza alle frontiere e poi occuparci di Ucraina”, avrebbe dichiarato Garrett Graves, della ristretta cerchia di McCarthy. Ed ecco così che spunta la candidatura di Jim Jordan, potentissimo capo della commissione giustizia, tra gli artefici della procedura di impeachment contro Biden e uno degli oppositori più vocali all’invio di aiuti a Kyev.

Una “SUPERPOTENZA DISFUNZIONALE”, come l’ha definita in un lungo articolo su “foreign affairs” Robert Gates, già direttore della CIA all’inizio degli anni ‘90, e poi caso più unico che raro di segretario della difesa bipartisan, prima con George W. Bush, e poi con Barack Obama. La domanda che si fa Robert Gates è più attuale che mai: Può un’America divisa scoraggiare Cina e Russia?

“Gli Stati Uniti”, sottolinea Gates, “si trovano ora ad affrontare minacce alla propria sicurezza più gravi di quanto non fossero mai state negli ultimi decenni, forse mai. Il problema, tuttavia è che nel momento stesso in cui gli eventi richiedono una risposta forte e coerente da parte degli Stati Uniti, il Paese non è in grado di fornirne una”. Secondo gates gli USA si trovano ancora oggi in una posizione di relativa forza rispetto a Cina e Russia. “Purtroppo, però”, riflette Gates, “le disfunzioni politiche e i fallimenti politici dell’America ne stanno minando il successo”. Per tornare ad avere il potere di dissuadere gli avversari da compiere ulteriori gesti inconsulti, suggerisce Gates, gli Stati Uniti devono assolutamente ritrovare quell’”accordo bipartisan decennale rispetto al ruolo degli Stati Uniti nel mondo”, ed essere in grado di spiegare insieme a tutti gli elettori che “la leadership globale degli USA, nonostante i suoi costi, è indispensabile per preservare la pace e la prosperità”. Per fare questo non bastano gli appelli alla nazione dallo studio ovale. “Piuttosto”, sottolinea Gates, “è necessario che tutti ripetano all’infinito questo messaggio affinché venga recepito”. Insomma, l’esercizio di quel poco di democrazia che è rimasto nel nord globale rischia di far sbandare dalla strada maestra, che non è quella che si scelgono i popoli in base ai loro interessi, ma quella che decidono a tavolino i Gates e gli oligarchi che lo sostengono. Per tornare sulla retta via, c’è bisogno di richiamare tutti all’ordine, e lanciare una campagna di lavaggio del cervello di massa che ci faccia riconoscere come nemici senza se e senza ma quelli che loro hanno individuato come nemici in base ai loro interessi. E siccome poi alla gente li puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma se gli levi il pane da sotto i denti, poi a un certo punto comunque si incazza, se non basterà il soft power della persuasione, vorrà dire che si passerà all’hard power delle mazzate. L’occidente globale è in via di disfacimento. prima che si rassegnino a mollare l’osso, ci sarà da vederne delle belle.

Contro il piano orwelliano dei gates, nel frattempo, quello che possiamo fare è continuare a insinuare i dubbi e a segnalare le contraddizioni. e per farlo, abbiamo bisogno di costruire il primo media che invece che dalla parte della loro propaganda, stia dalla parte degli interessi del 99%

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…e chi non aderisce è Robert Gates.

L’Italia è fallita? La resa dei conti finale dopo 30 anni di devastazione dell’economia italiana

Bentornato 2011

Vi ricordate? L’anno della crisi del debito sovrano. Trending topic su ogni genere di piattaforma e nei titoli di ogni media possibile immaginabile un solo termine: SPREAD.

l’Italia era sull’orlo del baratro al punto che la trojka ha architettato un vero e proprio colpo di stato, e noi gli abbiamo pure detto bravi.

A 12 anni di distanza, spiace dirlo, abbiamo la prova provata: non solo non è servito, ma non ha fatto che aggravare la situazione; ora siamo di nuovo di fronte allo stesso identico baratro, solo che a questo giro è ancora più profondo e le vie di fuga sono enormemente più ristrette, troppo per permettere a questo governo di cialtroni e svendipatria di riuscire a percorrerle, tant’è, che manco ci provano. Preferiscono rifugiarsi nella più cringe delle propagande: “governo-gufi 4 a 0” titolava martedì entusiasta il Giornale, elencando 4 goal totalmente immaginari.

Il primo il governo l’avrebbe segnato riuscendo a vendere ai risparmiatori italiani il Btp Valore, per la bellezza di – sottolineano enfaticamente – 4,6 miliardi. Evidentemente, hanno qualche problemino con i numeri e con le virgole: quei 4,6 miliardi al debito italiano, come si dice dalle mie parti, gli fanno come il cazzo alle vecchie. Niente. Zero. Nemmeno un friccicorino. A breve di miliardi, infatti, ce ne serviranno pochi meno di 150, e per piazzarli ci dovremo letteralmente disssanguare.

Il secondo goal il governo l’avrebbe segnato grazie allo spread, che invece della cifra astronomica di 500 punti abbondanti raggiunta nel 2011, ora sarebbe sotto quota 200.

Che culo eh? Peccato che non significhi assolutamente niente.

Prof. Alessandro Volpi: “Ma io […] la smetterei di parlare di spread, perché lo spread è un indicatore che ha un senso nella misura in cui i titoli tedeschi, che sono i titoli di riferimento, paga rendimenti bassi. In questo momento la Germania sta pagando rendimenti che sono significativamente alti, vicini al 3%. Quindi è chiaro che se la Germania invece che pagare lo zero o poco più come accadeva nel 2011, paga il 3%, lo spread rimane a 200. […] Quello che conta non è il differenziale con la Germania, è quanto paghiamo ad oggi. […] Cioè noi stiamo pagando il decennale sopra il 5%. […] Alla fine tutta questa roba qui vuol dire che il conto interessi dello Stato italiano è passato dai 57 miliardi del 2020 a una stima che dice che nel 2025 saranno 132 miliardi ed è molto probabile che sia una stima per difetto.”

Non so se è chiaro: la propaganda filogovernativa stappa lo champagne, mentre nei prossimi 2 anni dobbiamo trovare 80 miliardi l’anno in più solo per pagare gli interessi sul debito.

80 miliardi sono 5,6 manovre finanziarie e 4 volte i 20 miliardi che il governo si appresta già quest’anno a recuperare privatizzando i gioielli di famiglia. Ogni anno,forever and ever. Non volevamo fare la fine della Grecia e ci hanno accontentati: sarà molto, ma molto peggio.

l’Italia è nel bel mezzo di una nuova gigantesca crisi del debito; non forse, chissà, magari, nel futuro. No, no, proprio adesso. Qui. Ora.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] C’è una regoletta del debito che è molto semplice, che consiste in questo, cioè: quando i rendimenti dei titoli a breve termine è vicino al rendimento dei titoli a lungo termine, vuol dire che quello che, un po’ pomposamente si chiama mercato e che io chiamerei il luogo delle speculazioni, è sostanzialmente convinto che per quel Paese ci sia delle serissime difficoltà nel corso dei prossimi mesi. Cosa sta succedendo in Italia in questo momento? […] i buoni del Tesoro emessi a sei mesi pagano il 4%, i Btp pagano il cinque, quindi vuol dire che chi presta i soldi allo Stato italiano e sa che lo Stato ieri restituirà fra sei mesi, chiede il quattro e passa per cento. Chi glielo presta per dieci anni, il cinque. Ora questo è un differenziale assolutamente anomalo, perché se io presto i soldi a dieci anni è chiaro che chiedo maggiori garanzie perché vincolo quel titolo per dieci anni. Quindi normalmente il differenziale fra il breve e il lungo termine è molto ampio. Ora questo fenomeno si sta riducendo. Nel 2011, nel famigerato novembre 2011, i tassi a breve superarono i tassi a lungo termine. Questo vuol dire che in quel momento c’era chi scommetteva su una crisi dello Stato italiano e chi era che scommetteva che lo Stato italiano? Tutti quelli che possedevano le scommesse sul debito, i famosi credit default swap che sono ripartiti nonostante la normativa europea, dice che non è possibile che si rimettano scommesse titoli derivati su titoli di Stato senza possederli… Ecco, nonostante tutto questo, […] è ripartita anche la scommessa contro il debito italiano. […] È nell’aria una grande e sempre più marcata aggressione nei confronti del debito italiano. In primis, io direi dai grandi fondi che intervengono in questo tipo di mercato.

Chi si sveglia oggi, o è completamente suonato, o è in malafede.

Il punto, come abbiamo ripetuto ormai milioni di volte, è che le cause che hanno portato alla crisi finanziaria globale del 2008, e poi a quella dei debiti sovrani del 2011, non solo non sono state minimamente risolte, ma sono state enormemente aggravate.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Noi abbiamo affrontato anche la crisi del 2011, come se fosse una deroga alla normalità. […] La stessa Whatever it takes (pronunciata da Mario Draghi, ndr) aveva la implicita affermazione secondo cui era una situazione di emergenza. Si affrontava una situazione di emergenza con una deroga, si produceva l’acquisto del debito perché quella era una situazione particolarmente critica, eccetera eccetera eccetera. […] Poi c’è stato il covid che ha prorogato la deroga e ora siamo arrivati alla fine della deroga. […] Ora le cose più o meno sono tornate come erano, ritorniamo alle vecchie regole: è lì errore cioè fino a che noi non capiamo che non è una questione di deroga.”

Durante questa deroga, molto banalmente, la Banca Centrale Europea è tornata a fare quello che le banche centrali hanno sempre fatto fino a quando l’obiettivo del capitalismo era la crescita economica, e non la sua distruzione sistematica: il prestatore di ultima istanza, che in soldoni significa che a comprare il debito, e a stabilire quanto si deve pagare di interessi, non sono i mercati, che non esistono, ma lei.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] Nella storia il prestatore di ultima istanza esiste dalla nascita della Banca d’Inghilterra alla fine del Seicento, e fattelo dire da uno che queste cose ci ha perso tempo a studiare. È sempre esistito un prestatore di ultima istanza. […] Lo faceva la Banca di Francia al tempo di Napoleone; lo ha fatto la Banca di Francia al tempo del Secondo Impero di Napoleone terzo e Zola lo ha scritto con grande chiarezza; l’ha fatto storicamente la Banca d’Inghilterra; l’ha fatto storicamente la Federal Reserve, che è nata dopo le altre banche. […] Lo ha fatto la Banca d’Italia quando era una società per azioni privata nel 1893; L’ha fatto durante il fascismo con la legge 36, lo ha fatto nel dopoguerra. Ma perché ci dobbiamo inventare una roba che non è mai esistita? Perché noi consideriamo la normalità quello che nella storia non è mai esistito e andiamo in deroga perché riteniamo che la normalità sia quella roba lì per cui la banca centrale non ha senso di essere.”

Oggi infatti la deroga è finita e il debito bisogna tornare a piazzarlo sul mercato, che in concreto, in realtà, significa semplicemente che dobbiamo convincere a comprarlo i fondi speculativi, e per convincerli gli dobbiamo riconoscere interessi che, molto banalmente, non sono sostenibili; oggi più che mai perchè il problema del whatever it takes di Draghi non è soltanto che era solo una deroga, e poi il conto si sarebbe comunque ripresentato, ma – forse ancora più grave – è che durante quella deroga si è fatto di tutto per aggravare il problema. Invece che andare in investimenti nell’economia reale, e quindi permettere all’economia nel suo insieme di tornare a creare ricchezza, quella montagna di quattrini sono andati a gonfiare le bolle speculative, e il debito prima non si è ridotto per qualche anno manco di un centesimo, e poi, col covid, è letteralmente esploso.

Prof. Alessandro Volpi: “Qui il problema del debito è diventato essenziale. D’altra parte noi siamo stati in piedi, come Paese nel corso degli ultimi anni, almeno dal 2020, e abbiamo fatto una spesa pubblica complessivamente intorno ai 100-112 miliardi di euro. Più della metà, quasi il 70%, l’abbiamo finanziata emettendo debito, che però era debito, pagando lo 0,5%, addirittura con la Bce che comprava o prestava i soldi alla Banca d’Italia, che comprava i titoli di Stato italiano e su quei titoli riceveva un interesse che girava al Tesoro italiano. Ecco, questa partita è finita. Questa partita è completamente esaurita. […] Cioè qui non non esiste modo per finanziare perché ormai la spesa pubblica è strutturalmente finanziata a debito. […] Quando gli interessi non costavano cinquanta miliardi, tu potevi fare la spesa pubblica. Se la spesa da cinquanta arriva a centocinquanta, cosa che non è impossibile perché non c’è più una banca centrale che compra i titoli e fa anche un’azione di calmiere. […] Perché è chiaro che se io so che una parte di titoli se li compra la Bce alla fine è solo che il tasso lo fa la Bce. Il whatever it takes di Draghi, in quel momento era servito anche a frenare i meccanismi speculativi, perché le scommesse sul debito ci sono. E se si sa che a un certo punto la Bce inonda il mercato di liquidità alla fine, qualche speculatore rischia di rimanere scottato. Tutta questa roba qui non c’è più. Gli speculatori giocano a senso unico, la Bce, questa fenomenale Madame Lagarde ha detto e continua a dire “noi finché non arriva il 2% terremo i tassi alti”. Non compriamo più niente. Ma come la sostituiamo questa roba qui? Che io voglio capire come la sostituiamo. […] Perché la Bce ha detto chiaramente noi non compriamo più niente fino a che l’inflazione arriva al 2%, che è una roba veramente lunare, lunare.”

Ad aggravare la situazione, 10 anni dopo la crisi del debito sovrano del 2011, è che ormai nella corsia del pronto soccorso delle economie in stato comatoso non ci sono più soltanto i paesi più deboli della periferia europea, ma letteralmente tutto il nord globale, alla disperata ricerca di capitali per tenere in piedi un debito pubblico che nel frattempo è letteralmente esploso, scatenando una guerra al rialzo dei tassi della quale non si vede la fine.

Come abbiamo già detto, i titoli tedeschi, che nel 2011 fruttavano lo 0,2% di interessi, ora si avvicinano alla soglia del 3; ma la situazione è ancora più estrema oltreoceano, a Washington, dove il rendimento dei titoli di stato si sta avvicinando al 5%.

Non so se è chiaro: i titoli in assoluto più liquidi e sicuri sul mercato globale, pagano oggi il 5% di interessi.

Prof. Alessandro Volpi: “E questo vuol dire che in giro per il mondo c’è un competitor fortissimo che sono gli Stati Uniti. I quali appunto emettono debito a tassi di interesse così alti che sono il target con cui fare riferimento. In questo ricorda molto la politica di Paul Volcker e del primo Reagan, cioè quando Reagan arriva porta i tassi della Federal Reserve, attraverso Paul Volcker, da cinque, sei per cento al 14%. E il nostro debito si è scassato lì […]. Non è che il debito pubblico italiano è cresciuto perché abbiamo fatto la riforma delle pensioni, perché abbiamo fatto una riforma sanitaria… è cresciuto perché a un certo punto abbiamo dovuto pagare interessi altissimi per fare concorrenza al debito degli Stati Uniti e non ce l’abbiamo più fatta. […] Ma ancora nel ’90 il debito italiano era il 70% del Pil. È esploso per effetto non delle politiche Craxiane e tutta sta roba, ma perché per ogni titolo di Stato emesso si pagava il 14%. Cioè 1994 c’erano i buoni del Tesoro [così come] nel ’93 e nel ’92, pagavano undici, dodici perché c’era la concorrenza internazionale, non c’era la banca centrale.”

Perchè il punto, ovviamente, è che questi rendimenti faranno sì che tutti i soldi che ci sono in circolazione eviteranno come la peste di impelagarsi in mezzo a tutti i rischi che comportano gli investimenti nell’economia reale. Chi te lo fa fare di produrre qualcosa se semplicemente comprando titoli del tesoro hai un rendimento di oltre il 5%?

Questo significa una cosa sola, semplicissima: recessione. E con l’economia che entra in una lunga e dolorosa recessione, da dove li tiri fuori i 120/130 miliardi l’anno che ti servono per pagare gli interessi sul debito?

La risposta purtroppo la conoscete fin troppo bene: privatizzazioni, che a noi che siamo un po’ complottisti, più che l’unica soluzione possibile, sembra molto sinceramente la vera ragione ultima che ha determinato queste scellerate scelte di politica economica.

Prof. Alessandro Volpi: “[…] In questo momento la politica della Bce è una politica irresponsabile . […] Una politica che ha come fine evidente la privatizzazione. […] È partita una concorrenza internazionale sui titoli del debito che provocherà un aumento dei tassi di interesse che vorrà dire per gli Stati più deboli: privatizzare obbligatoriamente. Perché quando la seconda voce di spesa del bilancio sono centocinquanta miliardi di interessi su mille miliardi di spesa pubblica di cui ce ne sono una parte significativa vincolata fra pensioni e cose di questo tipo… ma di cosa stiamo parlando? È evidente che andremo verso la privatizzazione. I fondi costruiranno le pensioni integrative, la sanità integrativa e andiamo avanti così.”

In realtà un’alternativa ci sarebbe anche: far pagare chi in questi anni di devastazione sistematica dell’economia, casualmente, si è arricchito come non mai prima ma il vento politico, sempre casualmente – ci mancherebbe – sembra spirare in una direzione leggermente diversa.

Prof. Alessandro Volpi: “Non so se hai notato, è un inciso, ma l’eredità del vecchio uno dei temi per cui, come dire, gli eredi del Vecchio cercano di pagare l’imposta di successione in Italia e non in Francia è perché in Francia pagherebbero il 70%. […] A differenza di quella percentuale poco distante del dieci che pagherebbero in Italia. Quindi è evidente che noi dobbiamo riformulare il sistema fiscale: riformulare il sistema fiscale in forma equa, progressiva, colpendo le rendite, eliminando questa bega delle cedolari secche che sono gli affitti per coloro che hanno fasce di reddito di un certo tipo, recuperando certamente l’imposizione fiscale sul tema dei dividendi, cioè noi non possiamo continuare ad avere un’imposizione fiscale per cui i profitti sono penalizzati molto di più dei dividendi e quindi tutto si sposta in questo modo sui dividendi. [..] Cioè se noi non teniamo insieme debito e riforma fiscale, una delle due non è sufficiente. […] Se anche mettessimo la patrimoniale più esasperata, pesantissima modello governo Parri del maggio dei 45, non riusciremo ad avere in queste condizioni il gettito sufficiente. Creeremo certamente dei meccanismi di riduzione delle disuguaglianze, creeremo finalmente dei meccanismi di incentivazione a una economia che non è un’economia di finanza e di rapina, però abbiamo bisogno di una banca centrale che ci finanzi il debito, che è una parte essenziale della finanza pubblica. Se non facciamo questo. […] non ce la faremo, quindi ci vuole una riforma fiscale, ma contestualmente ci vuole una politica monetaria, come diresti tu (riferito a Giuliano Marrucci, ndr) di natura sovrana, ma nel senso che sia in grado di rispondere alle esigenze di un’economia che è un’economia produttiva, di una collettività.”

Ed ecco così che si ritorna a bomba. Ormai vi uscirà dalle orecchie, ma noi continueremo a ripeterlo a oltranza fino a quando quello che diciamo non si trasformerà in un progetto politico serio, in grado di mandare definitivamente a casa tutti i portaborse delle oligarchie finanziarie che si sono avvicendati negli ultimi 30 e passa anni: è in corso una guerra totale dell’1% contro il resto del mondo, combattuta a colpi di finanziarizzazione e distruzione degli assi portanti dello stato e della democrazia moderna, una guerra che l’1% combatte ferocemente con tutte le armi a disposizione, a partire dal monopolio totale della cultura e dei mezzi di produzione del consenso.

Ripartiamo da lì e costruiamo il primo vero media che dia voce al paese reale e ai subalterni.

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Il delirio degli svendipatria: se il Governo dei Finto-Sovranisti Svende l’Italia agli Oligarchi

Cosa si può vendere per tornare a crescere”

No, giuro. Non è la provocazione di qualche mattacchione. E’ proprio la citazione testuale di un titolo vero di giornale, e non su un giornaletto della parrocchia ma su Libero, che magari vi farà pure ridere ma non dovrebbe: per quanto sia imbarazzante, rimane comunque una delle testate di riferimento della maggioranza di governo che, mentre voi ridete, ha messo il turbo per l’ennesima ondata di svendite a tutto tondo dei gioielli di famiglia alle solite vecchie oligarchie finanziarie che, negli ultimi decenni, ci hanno ridotto in miseria.

La guerra senza frontiere che gli USA, con la complicità delle istituzioni europee al servizio delle sue oligarchie, hanno ingaggiato contro l’economia del vecchio continente, sta dando i suoi frutti: recessione, corsa al rialzo dei tassi di interesse e politiche monetarie ultra-restrittive delle banche centrali, indipendenti dai Governi, ma succubi delle oligarchie finanziarie, stanno facendo saltare tutti i conti. A breve l’Italia dovrà rifinanziare qualcosa come poco meno di centocinquanta miliardi di debito e a comprarlo non ci sarà più la BCE; gli acquirenti ce li dovremmo andare a trovare sul mercato, che è il nome di fantasia che la propaganda neoliberista ha dato a quel manipolo di oligarchi che determinano da soli e senza che nessuno abbia la volontà di mettergli dei paletti, l’andamento dell’intera economia del nord globale.

Per convincerli, li dovremo riempire di quattrini: circa il 5% di interessi, se tutto va bene. Dieci volte quello che pagavamo alla BCE. Le oligarchie, così, si intascheranno tutto quello che abbiamo risparmiato, smantellando senza ritegno lo stato sociale che però – almeno questo è quello che cercano di spacciarci – non è abbastanza e quindi, per far finta di provare a tenere i conti in ordine, dovremmo accollarci un’altra bella overdose di sacrifici che toccheranno soltanto a noi.

I multimiliardari, infatti, è meglio lasciarli perdere, visto che abbiamo passato gli ultimi 30 anni a cucirgli addosso leggi ad hoc che gli permettono, appena anche solo si comincia a parlare di tasse e di redistribuzione, di portare i capitali dove meglio credono senza mai pagare dazio. Ed ecco quindi che per fare cassa, la maggioranza che è andata al governo grazie alla retorica sulla patria e il sovranismo, la patria si prepara a svenderla a prezzi di saldo, quasi fosse un Giuliano Amato qualsiasi, e per giustificarsi ha avviato una campagna ideologica a suon di pensiero magico e fake news che in confronto il maccartismo era un onesto e genuino tentativo di ricercare la verità.

Davvero vogliamo permettergli di svendere quel poco che ci rimane senza battere ciglio?

In tempi di vacche magre, per far quadrare i conti, bisogna tagliare le spese e mettere mano ai risparmi. lo sanno bene padri e madri di famiglia”. Fortunatamente, adesso, lo ha imparato anche il governo, che finalmente si è posto l’obiettivo “di portare in cassa la bellezza di una ventina di miliardi per puntellare i conti pubblici, cominciare ad abbattere il debito e iniettare liquidità”.

Sembra il temino di un alunno un po’ zuccone per la prima verifica di economia della terza superiore verso metà degli anni ‘90, quando la nuova moda della religione neoliberista dominava incontrastata e in Italia ancora si faceva fatica a prevedere i disastri epocali che avrebbe causato, e invece è l’incipit di un articolone a tutta pagina di Libero di ieri; lo firma un tale Antonio Castro, che fortunatamente non avevo mai sentito nominare. Googlando, si trova questo: “Antonio Castro, cantante intrattenitore per eventi musicali”, il che giustificherebbe tutto.

E invece no: spulciando più a fondo, si scopre che è solo un omonimo, e che il nostro Castro invece non solo è un giornalista, ma addirittura il capo servizio economia di tutto il giornale.

E’ come se il direttore del centro Nazionale di metereologia e climatologia dell’aeronautica militare iniziasse un suo paper scrivendo che “non ci sono più le mezze stagioni”, o un direttore di un prestigioso dipartimento di antropologia scrivesse che “come tutti sanno, i neri hanno la musica nel sangue”.

L’equiparazione della politica economica di un Governo alla gestione di un bilancio familiare è la frontiera più estrema dell’analfabetismo economico che si è diffuso tra i ceti “intellettuali” in Italia, in particolare appunto a partire da fine anni ‘80; fino ad allora, nei paesi che hanno sconfitto da tempo l’analfabetismo di massa, nessuno si sarebbe azzardato ad affermare simili puttanate, e nei quarant’anni successivi, ovviamente, la realtà ha sistematicamente presentato il conto, smentendo in maniera plateale ogni singolo assunto derivante da queste leggende metropolitane inventate dagli oligarchi e diffuse dall’esercito dei loro utili idioti.

Come ormai sappiamo tutti benissimo, privatizzare e tirare la cinghia non aiuta in nessun modo a mettere in ordine i conti, ma finisce di devastarli; per mettere in ordine i conti, l’unico modo è far ripartire l’economia, e per far ripartire l’economia l’unico modo è aumentare quella che Keynes chiamava la domanda aggregata, e in particolare gli investimenti pubblici e i salari.

Ma allora perché è ripartita fuori tempo massimo questa campagna ideologica completamente campata in aria?

Semplice: come vi ripetiamo da mesi, costringere i paesi come il nostro, alla periferia dell’Europa e con i conti sempre in bilico, a svendere i gioielli di famiglia era la finalità ultima di buona parte delle assolutamente insensate scelte di politica economica perseguite negli ultimi anni senza distinzione da tutte le forze politiche, finti patrioti in testa. Ora è arrivato il momento di passare all’incasso: tra i gioielli di famiglia da svendere agli oligarchi, quei fini intellettuali di Libero in particolare ne hanno individuati due: la RAI e le Ferrovie. Non fa una piega. La privatizzazione delle ferrovie nel Regno Unito da decenni è il caso scuola probabilmente in assoluto più eclatante di come la privatizzazione dei monopoli naturali sia sempre, immancabilmente, una vera e propria rapina effettuata dalle oligarchie contro tutto il resto della popolazione. “La RAI”, invece, sottolinea Libero, “può oggi ingolosire le grandi società dei media internazionali affamate di contenuti”; e giustamente, se le grandi società internazionali sono golose e vogliono concentrare ancora di più i mezzi di produzione del consenso nelle mani di una manciata di oligarchi, chi siamo noi per impedirglielo?

Ma le aziende pubbliche strategiche sono solo una parte del pacchetto regalo che il governo degli svendipatria ha in serbo per le oligarchie finanziarie globali; c’è tutto un mondo di piccole e medie imprese da offrire in palio e anche qua ci siamo già portati un bel pezzo avanti.

Comprate e chiuse”, titola La Verità, “le aziende italiane in mano straniera. Negli ultimi 5 anni”, sottolinea l’articolo, “1000 imprese sono passate sotto controllo estero. Di queste, una su due è stata spolpata della propria tecnologia e poi lasciata morire o convertita in semplice filiale”. Le cifre ricordate dall’articolo, fanno letteralmente paura: negli ultimi 5 anni infatti, le aziende con sede in Italia ma con soci di maggioranza stranieri, sono aumentate di oltre il 25%, e oggi sono la maggioranza assoluta di quelle con oltre 250 dipendenti.

Per molte di queste”, sottolinea l’articolo, “il destino non è il rilancio, ma il saccheggio e poi la chiusura”; in particolare, dal momento che a fare shopping nella maggioranza dei casi non sono altri gruppi industriali, che cercano di raggiungere una maggiore efficienza attraverso l’integrazione e il raggiungimento di economie di scala. Afare shopping, il più delle volte, sono fondi speculativi e “la finanza”, sottolinea giustamente l’articolo, “è focalizzata sui risultati di brevissimo termine, ragiona in termini di trimestrali e spesso spinge le aziende a destinare i guadagni in primo luogo alla distribuzione dei dividendi o al riacquisto di azioni proprie per arricchire i soci, a dispetto degli investimenti in ricerca e sviluppo o ai miglioramenti di strutture e condizioni di lavoro”.

Gli esempi si sprecano: il più celebre, grazie alla cazzimma dei lavoratori coinvolti, è senz’altro quello della GKN di Campi Bisenzio, chiusa dal giorno alla notte dal fondo inglese Melrose, nonostante i conti in ordine e l’alto livello di competenza della manodopera. Stessa sorte per la Gianetti Ruote di Monza, caduta nella rete del fondo speculativo tedesco Quantum Capital Partner, che è salito alla ribalta delle cronache per aver licenziato in tronco tutti i dipendenti poche ore dopo la decisione del governo di togliere il blocco dei licenziamenti introdotto durante la fase pandemica.

A febbraio scorso”, ricorda l’articolo de La Verità, “il tribunale di Monza ha condannato Gianetti Ruote a pagare un risarcimento di 280 mila euro agli ormai ex suoi lavoratori, per non avere rispettato i tempi fissati dalla legge per la procedura di licenziamento”. Negli ultimi giorni invece è scoppiato il caso della Magneti Marelli di Crevalcore: era stata venduta a un fondo dagli Agnelli nel 2018, ovviamente a seguito della solita buffonata della garanzia del mantenimento dei posti di lavoro in Italia. Per acquistare l’azienda, il fondo, come accade sostanzialmente sempre, si era indebitato e poi aveva scaricato questo debito sui conti dell’azienda, azzerando gli investimenti proprio quando la transizione ai motori elettrici li avrebbe resi più necessari. Ora ovviamente il fondo piange miseria a causa del calo di affari dovuto alla imprevedibile transizione energetica dai motori a combustione a quelli elettrici, e a pagare il prezzo sono i 229 lavoratori e l’economia italiana tutta. Quel fondo si chiama KKR, “la macchina dei soldi” come lo definiva già nel 1991 in un bellissimo libro la giornalista investigativa americana Sarah Bartlett.

Negli anni, KKR è diventato sinonimo in tutto il mondo di spregiudicate operazioni di acquisto a debito, o leverage buyout, in grado di riempire le tasche degli azionisti sulla pelle dei lavoratori e dei territori che vengono sistematicamente depredati della loro ricchezza; ora, a breve KKR potrebbe diventare proprietario della rete di telecomunicazioni di TIM, con il pieno sostegno del governo.

Cosa mai potrebbe andare storto?

Ma l’aspetto ancora più paradossale è che, nel tempo, i governi che si sono succeduti su queste acquisizioni hanno cominciato a mettere il becco, ostacolandone alcune attraverso il famoso strumento del golden power. Peccato, l’abbiano fatto totalmente a sproposito: invece che opporsi agli acquisti predatori da parte dei fondi speculativi, infatti, si sono opposti ai pochi acquisti di natura veramente industriale, che invece che depredare il nostro tessuto produttivo, avrebbero potuto arricchirlo. Il motivo? A comprare, in quel caso, erano gruppi industriali cinesi, mentre i fondi speculativi battono tutti bandiere occidentali; amiamo così tanto i nostri alleati democratici che, pur di accordargli qualche privilegio, siamo disposti a sacrificare fino all’ultimo operaio.

Contro la ferocia predatoria dei prenditori della finanza, e contro le politiche suicide degli svendipatria, abbiamo bisogno di un media che sta dalla parte di chi la ricchezza la produce, e non di chi se ne appropria e la distrugge.

E chi non aderisce è Giancazzo Giorgetti.