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Tag: meloni

Israele dichiara l’uccisione di Sinwar, leader di Hamas – ft. Alberto Fazolo

Oggi per il consueto appuntamento con il Global Southurday, i nostri Alberto Fazolo e Gabriele Germani ci portano di nuovo in giro per il mondo: partiamo dall’omicidio di Sinwar, il leader di Hamas, avvenuto a Gaza, per proseguire con gli attacchi alle postazioni UNIFIL da parte israeliana in Libano e la visita del premier Meloni a Beirut. Ci spostiamo poi sul fronte ucraino, con il piano Vittoria, e al prossimo incontro dei BRICS a Kazan. Concludiamo infine con i movimenti in atto attorno Taiwan e il confine coreano.

Meloni come Monti: breve guida all’ennesima manovra finanziaria scritta dai banchieri – ft. Alessandro Volpi

Siamo riusciti all’ultimissimo momento a fare una bella chiacchierata con il nostro Alessandro Volpi per dirvi tutto quello che avreste sempre voluto sapere sull’ultima manovra di bilancio del governo degli svendi-patria e dei finto-sovranisti, ma che non avete mai osato chiedere. Soprattutto ai giornali della propaganda governativa che oggi, tanto per cambiare, operano l’ormai usuale ribaltamento della realtà e cercano di far passare come innovativa – se non addirittura rivoluzionaria e dalla parte del popolo e delle classi medie – una manovra che sembra essere scritta direttamente da MarioMonty & ElsyFornero. Insomma: una storia diversa da quella che avevamo annunciato inizialmente, ma alla fine un copione molto simile. Sia nel caso dell’inaspettata storia d’amore tra Trump e il braccio destro di Soros, che in quella tra Giorgy e il vecchio copione dell’austerity made in Bruxelles, siamo di fronte a dei ciarlatani che cercano di coprire con un po’ di retorica agguantacitrulli un po’ di consenso popolare, per poi rifilargli le solite vecchie manovre lacrime e sangue e il dominio delle stesse identiche oligarchie che fanno finta di contestare davanti alle telecamere.

Atto di guerra contro l’Italia: Israele ci attacca in Libano. Cosa farà adesso la sovranista Meloni? ft. Giacomo Gabellini

Israele attacca ripetutamente basi e postazioni dei caschi blu in Libano, missione in cui l’Italia ha un ruolo centrale, proprio mentre cresce la preoccupazione per un’imminente rappresaglia contro l’Iran che potrà destabilizzare l’intera regione ed innescare una pericolosa escalation. Ne parliamo con Giacomo Gabellini

Amazon Prime Day: la sagra dello shopping che arricchisce le oligarchie e distrugge l’economia

Ottoliner, oggi si festeggia! E’ tornato l’appuntamento che tutti attendevamo frementi: il mitico Prime Day, l’immancabile, eccitante, entusiasmante festa delle offerte prime; la celebrazione della guerra che il grande capitalismo monopolistico made in USA ha dichiarato contro tutte le piccole e medie imprese produttive e commerciali del pianeta, l’ennesimo gigantesco trasferimento di ricchezza dalle tasche di chi campa dandosi da fare, alle casse di una manciata di parassiti, a partire, ovviamente, dai soliti monopoli finanziari che sono i principali azionisti di Amazon e che Giorgia la madrecristiana – che, a chiacchiere, sarebbe la paladina degli interessi dell’Italia del fare – l’altro giorno ha ricevuto in pompa magna stendendogli tappeti rossi. Amazon ha raggiunto una posizione monopolistica ricorrendo a ogni sorta di sotterfugio e di escamotage e oggi usa la rendita che deriva dall’essere monopolista per distruggere l’economia reale dei territori e riempire le casse delle oligarchie, sulla pelle di migliaia di addetti controllati a vista in ogni minimo movimento e sfruttati al punto tale che per descrivere le loro condizioni di lavoro, chi si occupa di queste cose ha dovuto coniare un nuovo termine: il bezosismo, malattia terminale del taylorismo. Amazon ha attirato nella sua rete milioni di rivenditori e di aziende in tutto il pianeta offrendo condizioni vantaggiose grazie alla potenza di fuoco del grande capitale finanziario che la sosteneva e, una volta attirate nella trappola, le ha sottoposte a un sistema di ricatti che puzza di feudalesimo da miglia di distanza; ma prima di ripercorrere in dettaglio la lunga marcia che ha portato un semplice sito di e-commerce a diventare uno dei più feroci agenti della dittatura turbo-capitalista in cui siamo immersi e di come, inspiegabilmente, i suoi azionisti principali sono diventati gli amichetti del cuore della nostra amata premier, paladina delle piccole imprese e santa protettrice delle partite IVA, vi ricordo di mettere un like a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra guerra contro altri algoritmi altrettanto feroci e distopici e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un finto-sovranista a svendere piccole e micro-imprese alla grande finanza globalista, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a fare l’informazione necessaria per creare un fronte popolare contro queste sanguisughe.

Jeff Bezos

Per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo (a partire da me) è ormai la cosa più naturale del mondo: sostanzialmente qualsiasi cosa mi venga in mente, basta un click e (spesso dopo nemmeno 24 ore) ecco che me la ritrovo sul pianerottolo di casa; peccato, però, che – come sottolinea in un lungo articolo sul New York Times Karen Weise – “per far funzionare tutto questo, Amazon abbia messo in piedi una macchina che spreme sempre più soldi dalle centinaia di migliaia di aziende, dalle piccole start-up ai grandi marchi, che inseriscono tutto nel suo store”. Karen ha condotto diverse decine di interviste a piccoli e medi imprenditori che vendono la loro merce attraverso la gigantesca macchina infernale del colosso di Bezos e il bilancio è disarmante: “Amazon” riassume Karen “punisce le aziende se i loro articoli sono disponibili anche solo per un centesimo in meno altrove. Le spinge a usare i magazzini dell’azienda. E le obbliga ad acquistare annunci sul sito per assicurarsi che le persone vedano i loro prodotti”; in questo modo, Amazon si appropria di una fetta sempre più consistente di profitto a discapito delle aziende piccole e medie. “Amazon incassa 27 centesimi di ogni dollaro che i clienti spendono per acquistare cose che i suoi commercianti vendono, un balzo del 42% rispetto a cinque anni fa secondo Instinet, una società di ricerca finanziaria. Ciò non include quello che le aziende pagano per piazzare annunci su Amazon, un’attività che Wall Street considera preziosa quanto Nike”: “Se i venditori non avessero successo” ha affermato Jeff Wilke, amministratore delegato del business consumer di Amazon, “non sarebbero qui”; ma la realtà, piuttosto, è che non hanno alternative perché grazie al sostegno della grande finanza, Amazon s’è conquistata una posizione di monopolio e chi non accetta il ricatto, molto banalmente, muore. “L’anno scorso” ricorda infatti Karen “gli americani hanno acquistato più libri, magliette e altri prodotti su Amazon che non su eBay, Walmart e i suoi sette maggiori concorrenti online messi insieme”: sulle piattaforme social, sottolinea Karen, è tutto un proliferare di gruppi di produttori e rivenditori che si lamentano delle condizioni imposte da Amazon e “oltre 12.000 persone hanno firmato una petizione su Change.org chiedendo ad Amazon di modificare una regola arcana sui prodotti contraffatti che, secondo loro, potrebbe distruggere tutte le loro attività”. Ma mentre tutti gli altri piangono, Amazon accumula capitali che reinveste in attività che spera, in prospettiva, abbiano un margine ancora maggiore dell’e-commerce: “Miliardi di dollari generati dalla vendita di prodotti online finiscono in investimenti come Alexa, su cui lavorano 10.000 dipendenti, e nelle costose produzioni hollywoodiane dell’azienda”.
Inizialmente, il grosso dei rivenditori presenti su Amazon gestivano i propri magazzini, almeno fino a quando Amazon non annusò l’opportunità e cominciò ad aprire magazzini sempre più grandi di proprietà vicino ai principali centri urbani: in un primo tempo, per riempire questi spazi giganteschi ha offerto condizioni favorevoli ai rivenditori, che potevano usare i magazzini di Amazon anche per la merce venduta attraverso altri siti e usufruire di servizi a prezzi molto competitivi; d’altronde, a quei tempi, gli abbonati al servizio Prime erano pochi milioni. Da lì in poi Amazon ha utilizzato la potenza di fuoco finanziaria dei suoi azionisti (e, cioè, i principali monopoli finanziari del pianeta a partire, ovviamente, da BlackRock e Vanguard) per offrire una lunga serie di servizi in perdita e far crescere a dismisura il numero degli abbonati – a partire, ovviamente, da Prime Video; a quel punto, a prendersi il grosso della fetta delle vendite sul portale sono diventate – appunto – le merci che ricadevano dentro il programma Prime e Amazon è diventato “il più grande fornitore di servizi di logistica e di evasione degli ordini al mondo” surclassando anche colossi come DHL, il gigante della logistica di Deutsche Post che, per quanto gigante, non ha dietro la potenza di fuoco finanziaria delle big three. Il suo azionista di riferimento è molto più povero: il governo tedesco.
Il primato nel settore della logistica Amazon se l’è conquistato alla cara vecchia maniera: sfruttando il lavoro più di ogni altro concorrente, alla faccia della fuffa sulle grandi rivoluzioni tecnologiche dei tecno-feudatari a stelle e strisce. L’inferno distopico di chi lavora nei magazzini è cosa nota, con un sistema di misurazione e controllo di ogni singolo movimento che 1984 di Orwell scànsate: è addirittura stato coniato un nuovo termine ad hoc, il bezosismo, malattia terminale del taylorismo. A inventarlo non è stato un sindacalista marxista leninista, ma un giornalista del Wall Street Journal, Christopher Mims: Il modo in cui Amazon usa la tecnologia per spremere i lavoratori merita un nome tutto suo, titolava un suo celebre lungo articolo di ormai 3 anni fa: il bezosismo; “Il gigante dell’e-commerce” commentava “ha potenziato i sistemi di gestione inventati un secolo fa con sorveglianza, algoritmi e dati, dando vita a un nuovo –ismo”.
Come le guerre imperialiste sterminano sempre più innocenti civili senza che nessuno si debba sporcare davvero le mani, così anche dentro Amazon la disciplina anti-umana più feroce è portata avanti senza bisogno che qualche leccaculo ti insegua ed alzi la voce: un sofisticato sistema di sensori rivela ogni mossa dei lavoratori e se non sei dentro gli standard vieni cacciato. Non va meglio ai corrieri che non solo sono sottoposti (come i colleghi magazzinieri) a sistemi distopici di micro-controllo algoritmico, ma spesso si ritrovano in un vero e proprio schema piramidale truffaldino che asfalta i loro diritti più basilari, e anche quelli degli Stati. 31 luglio 2024, Il Fatto Quotidiano: “Amazon, il sistema piramidale e le cooperative che esistono solo per fornire manodopera a basso costo”; l’articolo ricorda come il giudice per le indagini preliminari di Milano a fine luglio avesse convalidato il decreto di sequestro da 121 milioni emesso poco prima dalla procura di Milano. Secondo l’accusa “Il monitoraggio del singolo corriere, con l’impiego di software forniti proprio dalla casa madre Amazon, è la più significativa espressione di un utilizzo consapevole di strategie imprenditoriali direttamente volte ad agevolare la commissione della frode fiscale”: sostanzialmente Amazon, per aumentare ancora di più lo sfruttamento e evadere le tasse, controllava i corrieri come fossero suoi dipendenti, ma li faceva assumere da cooperative che, appunto, “esistono al solo scopo di fornire manodopera a basso costo e al di fuori delle condizioni previste dalla legge”, il tutto con “fittizi contratti d’appalto”. Potenza di fuoco finanziaria e iper-sfruttamento del lavoro (con la connivenza di governi e amministrazioni assetati di investimenti, anche quando non creano mezzo euro di ricchezza reale) sono la strada maestra per imporre un monopolio e, una volta imposto il monopolio, non c’è più niente che ostacoli l’imposizione di condizioni vessatorie ai rivenditori: “Poiché i magazzini ormai operano quasi a piena capacità” scrive Karen, al posto delle buone condizioni iniziali “l’azienda applica tariffe diverse volte superiori rispetto ai concorrenti per immagazzinare gli articoli prima della spedizione” e quello che tieni nel loro magazzino, in soldoni, ormai puoi venderlo solo su Amazon. Per spedire una t-shirt attraverso Amazon, se l’hai venduta attraverso Amazon paghi 3 dollari e 68, riporta Karen; se è venduta attraverso un sito esterno 13,8, oltre 4 volte di più. Amazon poi impone, in modo sempre più smaccato, ai singoli rivenditori di applicare sulla sua piattaforma i prezzi più bassi in circolazione; secondo le norme antitrust, molto banalmente, è una pratica illegale: com’è logico, ogni rivenditore dovrebbe avere il diritto di fare i prezzi che vuole dove vuole, ma lo strapotere del monopolio permette ad Amazon di aggirare ogni norma. Nel caso rilevi su altri siti prezzi inferiori applicati dallo stesso rivenditore, infatti, invece di cacciarlo esplicitamente fa una cosa molto più elegante: disattiva i pulsanti che permettono di ordinare la merce con un click; gli utenti allora devono fare un giro leggermente più complesso che, invece che un solo click, ne prevede magari 2 o 3 e “quando quei pulsanti scompaiono” scrive Karen “i venditori affermano che le vendite crollano del 75%”.
Ma il meglio deve ancora arrivare, perché quando imponendo i prezzi migliori e l’adesione di massa al programma Prime Amazon ha conquistato il monopolio dell’e-commerce del mondo libero e democratico, ha cominciato a chiedere il pizzo. L’avrete notato tutti: sono i risultati sponsorizzati; buona parte del successo iniziale di Amazon, infatti, dipendeva dal fatto che per ogni ricerca ti offriva la soluzione con le recensioni migliori. Non più: ora a venire prima è chi paga di più. Un’azienda che aiuta i rivenditori a posizionarsi nel motore di ricerca di Amazon ha fatto un esperimento: ha smesso di pagare la sponsorizzazione per 750 prodotti; “Immediatamente” riporta Karen “le vendite si sono ridotte del 24%” ed era solo l’inizio perché meno vendi, più in basso cadi tra le risposte del motore di ricerca. Ed ecco, così, che nell’arco di 10 settimane “le vendite dei prodotti senza annunci erano crollate del 55%”; oltre che per i venditori, è un danno anche per i consumatori: Amazon, infatti, ha superato Google come motore di ricerca quando si tratta di fare acquisti, ma senza che nessuno se ne accorgesse non consiglia più quello che conviene ai consumatori, ma quello che conviene a Bezos. E non solo: perché, ovviamente, se fino a quando la testa della classifica si guadagnava con le buone recensioni i rivenditori erano costretti a concentrarsi sul prezzo e sulla qualità investendo quello che era necessario investire sul prodotto, ora che la testa della classifica si guadagna pagando il pizzo ad Amazon, i soldi – necessariamente – invece che sul prodotto vengono investiti sulla pubblicità; e, quindi, la roba è più cara e fa più schifo, ma è pubblicizzata meglio.
E non è ancora finita perché, spesso e volentieri, a fare concorrenza sleale al singolo rivenditore è direttamente Amazon stessa: è quello che è successo, ad esempio, a Plugable Technologies, un’azienda di medie dimensioni statunitensi specializzata in cavi e adattatori usb di ogni genere; nel 2016 Bezos in persona la citò diffusamente nella lettera agli investitori come caso di studio di come i rivenditori potevano approfittare del marketplace di Amazon per consolidare il loro business. Poi, però, qualcosa è cominciato ad andare storto: l’azienda ha cominciato a registrare un crollo anomalo delle vendite, in particolare del suo prodotto di maggior successo, una docking station (e, cioè, un semplice dispositivo che permette di connettere un notebook a sostanzialmente ogni tipo di periferica) fino a quando non hanno ricevuto una mail; la docking station era stata rimossa dalla piattaforma “a causa di lamentele sul fatto che i prodotti Plugable non corrispondevano alle condizioni descritte sul sito” sottolineava la mail. Al posto della loro docking station, la piattaforma ne consigliava un’altra prodotta direttamente da Amazon stessa e quando il personale di Plugable è andato a controllare le recensioni, si è accorto che di tutte quelle fantomatiche lamentele non c’era traccia. Dopo qualche giorno (e diversi reclami), il prodotto è tornato magicamente sulla piattaforma, ma la morale era chiara: “Abbiamo a che fare con un partner” ha dichiarato il fondatore di Plugable a Karen “che può e vuole ostacolarci per ragioni imprevedibili in qualsiasi momento”. La pratica di usare la gigantesca mole di dati che passa per la piattaforma per fare concorrenza sleale ai rivenditori è stata particolarmente accentuata nell’enorme mercato indiano: “Una gigantesca mole di documenti analizzati da Reuters” si legge in un lungo articolo dell’agenzia di stampa britannica del 2021 “rivela come il team dei marchi privati di Amazon in India abbia sfruttato segretamente i dati interni di Amazon.in per copiare prodotti venduti da altre aziende e poi offrirli sulla sua piattaforma”; inoltre “I dipendenti hanno anche alimentato le vendite di prodotti dei marchi privati di Amazon manipolando i risultati di ricerca di Amazon in modo che i prodotti dell’azienda apparissero, come ha affermato un rapporto strategico del 2016 per l’India, nei primi 2 o 3 risultati di ricerca”. Insomma: siamo di fronte all’esempio per eccellenza di quello che il buon Varoufakis definisce tecno-feudalesimo dove – sì – rimane ancora in vita qualche forma diretta di appropriazione di plusvalore tramite sfruttamento vecchia maniera (e anche parecchio feroce), ma ancora di più vale una forma di rendita parassitaria assimilabile ai canoni che i vassalli medievali erano chiamati a corrispondere ai feudatari, veri e propri affitti che i produttori capitalisti “pagano ai proprietari non produttivi delle big tech in cambio dell’accesso ai loro feudi” per dirla con Varoufakis; solo che invece che essere pezzi di territorio, sono pezzi di internet. E proprio alla luce di questo, come sottolinea ancora lo stesso Varoufakis, nell’era del tecno-feudalesimo “dobbiamo organizzare non solo i lavoratori delle fabbriche, ma anche i servi della gleba cloud” e “creare alleanze con i vassalli capitalisti di piccole dimensioni, le cui piccole entrate vengono decurtate dai proprietari del capitale cloud”.
Certo, sarebbe anche il caso che anche i capitalisti di piccole dimensioni a cui si riferisce Varoufakis facessero la loro parte e, ad esempio, quando la premier che hanno votato riceve a braccia aperte e stende tappeti rossi a BlackRock che è il principale azionista, tra le altre cose, proprio della stessa multinazionale che gli sta succhiando il sangue, si incazzassero come scimmie; e, invece, niente: se a incontrare BlackRock è la Schlein, o Letta, o Draghi – giustamente – gridano al complotto globalista. Se, invece, a incontrarla è la Meloni, è un’importante affermazione del ritrovato protagonismo italico nella politica e nell’economia internazionale: misteri della fede pseudo-sovranista. Ma come fa la Meloni, nonostante tutto, a continuare a riscuotere successo in questo blocco sociale che, evidentemente, con la sua politica contribuisce a immiserire giorno dopo giorno? Certo, un po’ pesa la retorica anti-migranti (anche se i risultati concreti, in realtà, sono piuttosto dubbi), ma il vero carico da 11 che, da che mondo è mondo, la destra di governo mette sul tavolo è un altro: il patto sociale che ha tenuto in piedi questo paese per decenni; la vecchia cara accondiscendenza verso un po’ di sana evasione fiscale. La manovra finanziaria del governo dei finto-sovranisti, per chi è cresciuto a pane e cartelle dell’erario inevase, effettivamente è una vera manna; d’altronde, per decenni durante tutta la prima repubblica, l’evasione fiscale ha rappresentato il pilastro fondamentale dell’architettura del blocco sociale dominante, e le buone vecchie abitudini sono dure a morire. Il problema è che oggi quella pratica rischia di essere la stessa corda alla quale, alla lunga (e nemmeno troppo), la vecchia piccola borghesia in continua via di impoverimento si ritroverà definitivamente impiccata: allora, infatti, politiche economiche espansive garantivano comunque agli evasori forme di salario indiretto, attraverso l’accesso ai servizi fondamentali forniti dallo Stato in modo universalistico – dall’istruzione alla sanità – e senza che in cambio si chiedesse sostanzialmente niente; oggi, invece, il totale asservimento ai grandi monopoli finanziari ha completamente cambiato le regole del gioco. Il dogma dell’austerity, da un lato, riduce quelle forme di salario indiretto; e quindi puoi anche evadere, ma poi i soldi ti servono per comprarti privatamente servizi che prima erano garantiti dal pubblico gratis; ma quel che è ancora più grave, lo stesso dogma dell’austerity, accompagnato da politiche fiscali permissive, giustifica una nuova, gigantesca ondata di privatizzazioni che, alla fine, si traducono in una quota sempre maggiore dei nostri quattrini che va nella cassaforte dei monopoli finanziari d’oltreoceano, a partire dai nuovi amichetti di Giorgiona la madrecristiana che dirigono BlackRock. E indovinate cosa ci fanno BlackRock e soci con questi nuovi soldini che arrivano dalle nostre pensioni integrative e dalle assicurazioni sanitarie private? Esatto: aumentano la potenza di fuoco delle multinazionali monopoliste made in USA che la usano per terminare il lavoro di distruzione delle piccole attività economiche dei paesi vassalli.
Insomma: non solo la cecità tipica della piccola borghesia continua a preferire l’uovo oggi alla gallina domani, ma mentre si consola mangiando l’uovo, in realtà contribuisce a smantellare le recinzioni che tenevano alla larga la volpe che si sta fottendo anche le loro uova. Contro la dittatura dei tecno-feudatari, serve una grande alleanza popolare che schifi in ugual misura gli svendipatria analfoliberali come quelli analfosovranisti; e per costruire una grande alleanza popolare, serve un media che, invece che alla propaganda del partito unico delle oligarchie, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Jeff Bezos

Come BlackRock ha convinto la Meloni e i finto-sovranisti di tutta Europa a regalargli i nostri soldi

E meno male che in Europa si aggirava lo spettro del sovranismo… In Germania si prepara la grande svolta dopo la lunga dittatura moderata della Merkel e il fallimento dell’altrettanto moderato Scholz: si chiama Friedrich Merz, è un fiero reazionario ed è il candidato cancelliere della CDU; peccato, però, che fino a ieri di mestiere facesse il presidente del consiglio di sorveglianza di BlackRock in Germania. Anche in Europa, nonostante la riconferma della Von Der Leyen, spira un vento nuovo; invece dei soliti finto-progressisti che impestavano la vecchia commissione, a gestire il delicato dossier della costruzione del mercato unico dei capitali, che è il primo pilastro del tanto osannato piano Draghi, è stata chiamata un’altra vera reazionaria tutta d’un pezzo: Maria Luis austerity Albuquerque, già nota per le politiche lacrime e sangue imposte al Portogallo durante la crisi dei debiti sovrani. Peccato, però, che anche lei, fino a ieri, per campare fosse a libro paga della grande finanza USA: era nel board nientepopodimeno che di Morgan Stanley, una delle più antiche e importanti banche d’affari USA. Ma la vera nuova reginetta dell’imperialismo finanziario USA è lei: Giorgia la madrecristiana, protettrice dei finto-sovranisti e paladina degli svendipatria; se prima di assumere l’incarico di governo aveva mandato i suoi emissari in ginocchio a Washington per garantire che Salvini, con le sue cazzate filo-putiniane, faceva un po’ di cabaret e l’ultra-atlantismo della seconda repubblica italiana fondata sulla distruzione della Carta Costituzionale non era in questione, prima di imprimere la grande svolta della politica economica interamente al servizio dei monopoli finanziari USA, aveva trasformato il G7 di quest’estate in Puglia in una sorta di investitura imperiale per il numero uno di BlackRock Larry Fink. Da allora, l’amministrazione coloniale italiana non ha mosso foglia che non fosse nel totale e incondizionato interesse della più grande concentrazione capitalistica della storia dell’umanità: c’è un problema col sistema pensionistico? E che problema c’è? Diamo i soldi a BlackRock e ci penseranno loro! C’è un problema col sistema sanitario? Assicurazioncina privata gestita da BlackRock e torni sano come un pesce! C’è un problema con le catastrofi ambientali? Altra assciurazioncina BlackRock e quando ti ritroverai allagato sarà un festa! C’è bisogno di nuovi capitali per gonfiare un po’ la micro-bolla speculativa della borsa italiana? Ci pensa BlackRock! Ci sono da privatizzare le Poste, i porti, le ferrovie? E che ce vo’: ci pensa BlackRock! A partire dalla guerra per procura contro la Russia in Ucraina, la trasformazione del capitalismo del vecchio continente, in corso da oltre 15 anni, ha subito un’accelerazione senza precedenti che ha finito di escludere alla radice ogni possibilità di una qualsivoglia forma di indipendenza strategica; e la destra finto-sovranista e svendipatria si è dimostrata al totale servizio di questa nuova ondata di politica neocoloniale, paradossalmente ancora più di quanto auspicato dalle vecchie classi dirigenti finto-progressiste. Ma prima di ricostruire nel dettaglio questo gigantesco processo, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci (anche oggi) a combattere la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi al servizio della propaganda dei monopoli d’oltreoceano e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme (visto che, di tanto in tanto, ce ne chiudono uno o ce ne demonetizzano un altro) e anche di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un post-fascista a trovare un altro invasore da servire come quando c’era lui, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di far conoscere a sempre più persone la gigantesca rapina che stiamo subendo e che i media mainstream fanno di tutto per nascondere.
La storia non si ripete: con queste parole mercoledì scorso Angela Merkel ha salutato la nomination del candidato della CDU alle elezioni che si terranno il prossimo anno: Il candidato Cancelliere che vuole seppellire l’eredità della Merkel, come titolava Bloomberg venerdì scorso. E meno male, direte: che inguaribili ottimisti! In questa Europa che ha deciso di affrontare la lunga fase del declino occidentale immolandosi sull’altare degli interessi di Washington, se la storia non si ripete è solo perché non fa che peggiorare; ed ecco così che se, giustamente, avete imparato ad odiare il mercantilismo tedesco che per 30 anni ha letteralmente saccheggiato la periferia del continente e ha anche impedito di costruire un vero mercato unico equilibrato, prospero e in grado di affrontare le sfide del futuro, potete giurare che sarete messi nelle condizioni di rimpiangerlo. Un po’ come quando, guardando la classe politica italiana della seconda repubblica, siamo portati a rimpiangere il peggio del peggio della prima, Andreotti incluso. Il mercantilismo tedesco degli ultimi 30 anni, infatti, e la gigantesca vaccata dell’austerità espansiva hanno fatto sicuramente più danni della grandine, ma – per quanto possa sembrare paradossale – hanno anche avuto alcuni pregi: il primo tra tutti è che la Germania si è affermata sempre più come l’unica vera potenza industriale dell’Occidente collettivo e che, unica in tutto il mondo cosiddetto libero e democratico, ha tenuto almeno in parte il suo capitalismo al riparo dall’invasione dei monopoli finanziari statunitensi, a partire, in particolare, da BlackRock.

Friedrich Merz

Ecco: il nuovo candidato della CDU punta proprio a buttare nel cesso questa eredità. Il candidato in questione, infatti, si chiama Friedrich Merz: “Membro della vecchia élite della Germania Occidentale” scrive Bloomberg, Merz “ha stretti legami col settore finanziario, appartiene all’ala della CDU più conservatrice e orientata agli affari, e rappresenta una rottura definitiva con l’era della Merkel” ; d’altronde, era stata proprio la Merkel a farlo fuori dal gotha del partito, nel 2009, anche se Merz – a dire il vero – a un certo punto se n’era fatto anche una ragione e, gira che ti rigira, indovinate per chi era finito a lavorare? Esatto, pare una barzelletta: BlackRock, di persona personalmente; addirittura presidente del consiglio di sorveglianza di BlackRock Asset Management Deutschland. E il suo programma sembra scritto direttamente a Washington; primo punto: rilancio in grande stile del nucleare, che le vaccate spacciate a piene mani da propagandisti fai da te del suprematismo occidentale sono riusciti a fare passare come la cosa più neutra e naturale del mondo. Peccato abbia grosse implicazioni non solo tecniche e ambientali, ma anche geopolitiche: tornare a investire massicciamente nel nucleare, infatti, è la precondizione per garantire che a nessuno venga mai più in mente, nel prossimo futuro, di tornare a dialogare con la Russia per comprargli il gas; certo, essersi fatti esplodere sotto gli occhi il Nord Stream aiuta, ma tutto sommato il Nord Stream si potrebbe sempre riparare o, al limite, tornare a usare almeno la parte che non è stata completamente distrutta. Secondo punto, poi, un bell’aumento della spesa militare da 52 a 80 miliardi l’anno; ma attenzione però, perché, ovviamente, “non ha detto da dove verrebbe il denaro, poiché ha escluso l’aumento delle tasse e prevede di attenersi al rigido limite del debito del paese”. La soluzione? La sapete già: privatizzare sanità e pensioni in modo che la gente sia costretta a mettere i soldi in un fondo gestito da BlackRock e soci che, con quei soldi, ci finanziano l’industria militare; facile, no? Non fa una piega! Peccato, allora, che “Nonostante il vantaggio di 16 punti della CDU/CSU nei sondaggi, la vittoria di Merz sia tutt’altro che garantita”; come si fa a vincere? Semplice: basta mena’ i migranti più forte dell’AfD, tanto per la nuova Germania economicamente devastata, dove rimane sostanzialmente solo l’industria bellica (anche se notevolmente potenziata), i migranti non servono. Non sono abbastanza qualificati; per una vera economia di guerra, un po’ più di omogeneità etnica fa sempre comodo: hai visto mai st’immigrati mussulmani, invece di dirti grazie, si mettono a manifestare pure contro il tuo sostegno allo sterminio dei bambini palestinesi e, piano piano, anche arabi in generale, st’irriconoscenti…
Che mentre la propaganda analfoliberale ci sfrucugliava le gonadi con le vaccate sull’ascesa della minaccia sovranista e populista, in realtà, in Europa si stesse facendo largo una classe dirigente per quanto possibile ancora più azzerbinata a Washington era diventato chiaro già la settimana prima, quando la Von Der Laiden aveva annunciato la composizione della nuova commissione: come ricordano Valeria Fappani e Blanca Marabini San Martin su The Diplomat, ad esempio, la nuova vicepresidente nonché rappresentante per la politica estera e la sicurezza, l’ex primo ministro Kaja Kallas, nel 2020 era arrivata addirittura a sostenere che quello che sta avvenendo in Xinjian è comparabile a una sorta di “olocausto” ; non quello che sta succedendo a Gaza, con i coloni che fanno le gite in barca per gustarsi gli attacchi aerei delle forze armate israeliane contro i bambini palestinesi e discutere amabilmente su quale pezzo di costa sarebbe più adatto per costruire qualche nuova villetta, ma quello che accade in Xinjiang dove – come riportava un celebre articolo di Repubblica di un paio di anni fa – anche l’ultimo cinese è stato “costretto a uscire dalla povertà”. La Kallas, comunque, non è l’unica virtuosa del doppio standard anticinese sullo Xinjiang: anche la bimba di Macron Stéphane Sèjourné, che per la commissione si occuperà di “prosperità e strategia industriale” (cioè di due cose che non esistono), condivide la stessa passione che, nel 2021, l’ha portata a contrastare l’accordo globale Ue-Cina (allora in discussione) proprio a causa della terribile situazione della minoranza musulmana in Xinjiang; che per inciso, lo ricordiamo, viene regolarmente denunciata solo ed esclusivamente da paesi non musulmani dell’Occidente collettivo e, in particolare, da quelli – come la Francia – che negli ultimi 30 anni hanno partecipato sostanzialmente a tutti gli stermini di civili arabi architettati dagli USA, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia alla Siria.
Ma quel pizzico di suprematismo ultra-atlantista e anti-cinese (che non manca mai) non è certo l’unico segno di sudditanza della nuova commissione; il caso più eclatante (e inquietante), infatti, è quello della nuova commissaria alle finanze, la portoghese Maria Luis Albuquerque che, come ricorda il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi “E’ stata artefice della ristrutturazione del bilancio portoghese durante il periodo del controllo esercitato dalla troika sui conti di quel Paese” che, ovviamente, “si tradusse in un profondo taglio alla spesa pubblica e nella definizione di un modello molto simile ad un paradiso fiscale”, ma, soprattutto, che “dopo quella esperienza” si è buttata (come un Friedrich Merz qualsiasi) anima e corpo nel mondo della finanza speculativa, prima facendosi le ossa nel board del tutto sommato piccolo, ma influente fondo britannico Arrow Global e poi, a partire dal 2022, passando definitivamente in premier league con un bel posto nel board di nientepopodimeno che Morgan Stanley. Un conflitto di interessi e una familiarità con la peggior logica delle porte girevoli che ha triggerato anche una colonna portante della propaganda turbo-liberista e turbo-imperialista come Politico: “La poltrona dei servizi finanziari finisce alla Albuquerque” denunciano, “ma lei si porta dietro un bagaglio ingombrante”. Il compito della Albuquerque è tra i più delicati in assoluto: supervisionerà i lavori per la creazione del mercato unico degli investimenti dell’Ue. Insomma: il primo passo del famigerato rapporto Draghi e, in assoluto, il tavolo fondamentale dove si giocherà la partita che determinerà l’indipendenza o la sudditanza dal capitalismo finanziario USA. Non so se è chiaro: l’arbitro della partita, che determinerà se riusciremo finalmente a creare un polo finanziario autonomo o se non faremo altro che sottometterci definitivamente all’imperialismo finanziario USA, è una talebana dell’austerity che lavora per una delle principali banche d’investimento USA; cosa mai potrebbe andare storto?
Per capirlo, basta dare un’occhiata a cosa è successo in Italia negli ultimi tempi: nel giro di pochissimo tempo, infatti, BlackRock, come ricorda ancora il nostro Volpi “si è imposta come il principale investitore estero delle imprese italiane quotate a Milano, per un totale di 17 miliardi di euro tra Intesa San Paolo, Unicredit, Bpm, Mediobanca, Stellantis, Ferrari e Prysmian a cui vanno aggiunte le partecipazioni in Eni, Enel e nelle multiutility”. Ecco perché Larry Fink, l’amministratore di BlackRock, è stato accolto al G7 che s’è tenuto in Puglia nell’estate come un vero imperatore: perché lo è il padrone dell’ex economia nazionale; ma rispetto alle ambizioni di BlackRock, 17 miliardi sono bruscolini. Meloni e l’ennesimo governo degli svendipatria, allora, hanno cominciato a lavorare giorno e notte a un piano diabolico in 3 punti: il primo punto è usare il monopolio della forza dello Stato per far arrivare nelle casseforti di BlackRock e soci una quota sempre maggiore di risparmi degli italiani; il secondo è spalancare ancora di più a BlackRock le porte d’accesso alle quote di controllo delle principali corporation italiane, a partire da quelle dove c’è ancora un parziale controllo pubblico; il terzo è fare dell’Italia la rampa di lancio per l’attacco finale del capitalismo finanziario USA all’unico capitalismo nazionale di tutto l’Occidente collettivo che ad oggi ancora ha tenuto botta, che è, appunto, quel che rimane della Germania della Merkel. Che si ritrova, così, sotto attacco da tre fronti: uno interno, rappresentato dal nuovo candidato cancelliere della CDU, uno rappresentato dall’Italia della Meloni e, infine, un terzo rappresentato dalle istituzioni dell’Unione europea nel suo insieme. Di questo ultimo punto abbiamo parlato in modo approfondito in questo video della settimana scorsa: l’episodio più eclatante è la scalata di UniCredit a Commerzbank che in realtà, appunto, è una scalata del capitalismo finanziario USA al capitalismo industriale tedesco e che ha raccolto l’entusiasmo di tutte le istituzioni europee al soldo del progetto egemonico statunitense; UniCredit, infatti, ha proprio BlackRock come principale azionista, mentre Commerzbank è stata salvata dal fallimento con soldi pubblici proprio in funzione del suo ruolo di fondamentale finanziatore del sistema produttivo della Germania. Con la scalata, si spalancano le porte del controllo della finanza USA su una parte sempre più importante di economia produttiva tedesca; chissà: magari, appunto – come suggerivamo nel video -, per trasformarla sempre più nella base industriale militare della grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo.
Anche del secondo punto abbiamo parlato già in numerosi video: dal via libera a BlackRock a superare il 3% delle quote di Leonardo alle varie acquisizioni che hanno visto come protagonista il fondo KKR (a sua volta controllato da BlackRock, Vanguard e Capital Research) e che, oltre alla rete delle telecomunicazioni di TIM, nel tempo s’è comprata anche Magneti Marelli, l’azienda umbra di macchinari per l’automazione Cmc, Inwit, che è il principale operatore italiano di torri per le telecomunicazioni, e la ex controllata di ENI per il settore dei biocarburanti Enilive. E ora sul tavolo ci sono le Poste, MPS e anche i porti e le Ferrovie. Ma il punto più inquietante di tutti è il primo: il governo Meloni, infatti, ha deciso di diventare una sorta di esattore erariale al servizio di BlackRock. Il primo passo è la proposta di legge che costringerebbe gli italiani a dirottare almeno il 25% del loro TFR verso il risparmio gestito dei megafondi; il secondo, invece, è già legge ed entrerà in vigore dal prossimo 1 gennaio: anche qui, a essere messo direttamente a disposizione della dittatura della finanza USA è il monopolio della forza dello Stato italiano, un’amministrazione coloniale a tutti gli effetti. E’ l’obbligo da parte delle imprese di stipulare assicurazioni contro le catastrofi climatiche per “terreni, fabbricati, impianti, macchinari e attrezzature industriali e commerciali”, ovviamente private; un gigantesco trasferimento di risorse in mano ai colossi della finanza privata che però, per certo ambientalismo progressista, è ancora troppo poco.
A chiedere che la rapina non si limiti alle sole attività produttive ci pensa Erasmo D’Angelis, volto storico di Legambiente ed ex firma del Manifesto che, in un lungo articolo su GreenReport, si chiede indignato: “E le case? Non si toccano. Storia del tabù dell’allergia all’assicurazione, il paradosso italiano”. Per D’Angelis, compito dello Stato non è assumersi in prima persona il compito di avere una politica equa per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico causato dal turbo-capitalismo, ma imporre ai singoli cittadini impoveriti una nuova gabella che vada a consolidare la concentrazione dei capitali in mano ai monopoli finanziari a stelle e strisce; e se poi la gente s’incazza e vota l’estrema destra, accusarli di essere dei poveri coglioni dalle colonne dei media mainstream: la propaganda antiscientifica climatoscettica e negazionista finanziata dalle lobby petrolifere non potrebbe avere alleati migliori dei D’Angelis di tutto il pianeta. Almeno su questo versante, comunque, fortunatamente la Meloni – che sullo scetticismo antiscientifico sulla crisi climatica fonda una fetta importante del suo consenso – probabilmente non cederà; d’altronde, ha già in mano un perfetto piano B: l’evasione fiscale. “Sembra impossibile” spiegava l’altro giorno ancora il nostro sempre attentissimo Alessandro Volpi: “Nel decreto omnibus tre parlamentari di maggioranza hanno inserito un emendamento che abbina al concordato preventivo un vero e proprio condono tombale”; “Per fare un esempio” continua “ chi dichiara di aver evaso 20 mila euro, pagherebbe in tutto meno di 900 euro”.
Per i registi della finanziarizzazione questa non è una buona notizia; sono due: la prima, infatti, è che gli autonomi appassionati di evasione e di elusione avranno un bel patrimonietto da dargli da gestire per comprarcisi le Poste, MPS, i porti, le Ferrovie e tutto il sistema industriale tedesco. La seconda è che il crollo delle entrate fiscali che queste politiche sono destinate a determinare, costringerà i governi futuri a tagliare ancora più drasticamente la spesa sociale, a partire da sanità e pensioni: risultato? La gente comune non potrà più fare a meno di farsi un’assicurazione sanitaria e un fondo pensionistico integrativo privati e a gestire i loro quattrini, appunto, saranno BlackRock e soci; un meccanismo veramente perfetto perché, a differenza delle rapine condotte dalla fazione finto-progressista della servitù atlantista che scatena innumerevoli malumori e contestazioni infinite tra le masse popolari, la rapina condotta dai finto-sovranisti, invece, riesce comunque a consolidare un blocco sociale piuttosto esteso che è entusiasta di poter partecipare indirettamente alla distruzione sistematica del sistema produttivo italiano ed europeo e a ogni velleità di indipendenza strategica pur di intascarsi due soldini e comprarcisi il SUV nuovo (ovviamente col motore a scoppio, perché quello elettrico è una truffa dei poteri forti, soprattutto se è cinese). Ovviamente, anche il modello di rapina escogitato dalla Meloni e dall’internazionale finto-sovranista ha i suoi punti deboli; e quando le sue conseguenze si concretizzano e chiudono gli ospedali o ti ritrovi con una pensione al di sotto della soglia della povertà, la gente s’incazza. A differenza del blocco sociale messo insieme dalla Meloni, però, chi s’incazza per questi motivi un referente politico non ce l’ha: l’opposizione alla Meloni è monopolizzata dai vari D’Angelis che non solo ti rapinano, ma che se t’incazzi perché t’hanno rapinato ti burionizzano; antropologicamente, il blocco sociale che potrebbe rappresentare l’alternativa ai governi degli svendipatria gli fa proprio schifo. Ecco perché, se vogliamo difenderci dalla grande rapina escogitata dalla Meloni, ci dobbiamo svegliare e ci dobbiamo organizzare per conto nostro e, per farlo, abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio media che, invece che alle due fazione dei rapinatori per conto della finanza USA, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Roberto Burioni

L’inquietante trama segreta che si nasconde dietro al premio dell’Atlantic Council alla Meloni

Per vincere la Grande Guerra contro il resto del mondo (o, almeno, provarci seriamente) l’imperialismo a guida USA deve necessariamente prima coronare un sogno troppo a lungo rimandato: prendere definitivamente il controllo dell’apparato produttivo della più grande potenza industriale dell’Occidente collettivo e trasformarlo nel nuovo arsenale della democrazia, la base industriale per sostenere lo sforzo bellico totale e prolungato necessario per provare a ostacolare l’avvento di un nuovo ordine globale multipolare. Insomma: dopo averla colonizzata politicamente, deve finire di colonizzare anche economicamente la Germania e trasformarla, così, nella più grande fabbrica di armi del pianeta; e, a quanto pare, hanno deciso di nominare proprio la nostra Giorgia che, come dice Musk, “è addirittura più bella dentro che fuori”, Giovanna d’Arco di questa novella crociata. Quello che infatti non tutti sanno – o magari, semplicemente, sono indotti spesso a dimenticare – è che tra le grandi economie dell’Occidente collettivo, quella tedesca è l’unica a non aver ceduto alle lusinghe dei grandi monopoli finanziari a stelle e strisce: la proprietà dei principali gruppi industriali tedeschi è ancora interamente nelle mani delle famiglie fondatrici e, in buona parte, dello Stato, in particolare attraverso la KFW, la banca interamente pubblica votata al sostegno all’industria nazionale; al mercato azionario rimangono le briciole. Se la capitalizzazione totale in borsa è uguale al PIL nel Regno Unito, una volta e mezza in Giappone e due volte negli USA, in Germania si ferma a un misero 60% e, di questo, sostanzialmente niente è in mano a BlackRock, Vanguard e la solita scia di mega-fondi statunitensi.

Giorgia Meloni e Elon Musk

A non aver subito l’attrazione fatale delle bolle speculative governate dai grandi fondi internazionali, in particolare, è il cuore pulsante dell’industria tedesca: l’automotive, con aziende come BMW e Mercedes che, a fronte di fatturati annui ampiamente superiori ai 150 miliardi, hanno capitalizzazioni in borsa che superano di poco i 50; come d’altronde supera di poco i 50 anche Volkswagen, che di miliardi l’anno ne fattura invece 350, più del prodotto interno lordo del Portogallo o della Finlandia. Giusto per fare un confronto, è quasi quattro volte quanto fattura Tesla che, però, in borsa capitalizza oltre 800 miliardi (16 volte di più). Invece di generare aumenti di patrimoni finanziari fittizi spropositati, le grandi aziende tedesche creano principalmente posti di lavoro, una quantità impressionante di posti di lavoro qualificati: peccato che siano a libro paga di gruppi industriali che con l’agenda dell’imperialismo USA e delle sue oligarchie, alla fine, c’entrano il giusto, tanto da aver prosperato per anni comprando gas a basso costo dal plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino e integrandosi economicamente sempre di più col feroce regime turbocapitalista di Pechino. Ed ecco allora l’idea geniale: visto che, come funzionano adesso, i gruppi industriali tedeschi alle oligarchie finanziarie USA non gli fruttano una seganiente, distruggiamoli; facciamoli dichiarare bancarotta e poi convertiamoli alla produzione delle armi che servono a tutto l’Occidente collettivo per combattere la sua ultima grande guerra imperialista. E a darci una mano ci penseranno i fratelli d’Italia guidati da Giorgia che così, finalmente, potrà dimostrare di avere davvero a cuore quel nazionalismo occidentale di cui si è riempita la bocca lunedì mentre, dal palco dell’Atlantic Council di New York, ritirava dalle mani di Elon Musk il riconoscimento di miglior paladina del suprematismo atlantista. Ma prima di entrare nel dettaglio di come si sta sviluppando questa vera e propria guerra di Giorgia contro l’Europa per mano di Washington, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere (anche oggi) la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto (e qualcuno tra voi sicuramente non lo ha fatto), anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Elon Musk a chiedere a Washington di fare un altro colpo di Stato per difendere le sue catene d’approvvigionamento, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette, come ha denunciato Giorgia da New York, di continuare a fare parte di questo fantomatico esercito di troll stranieri e maligni impegnato a manipolare la realtà e – pensate – addirittura a diffondere l’idea dell’inevitabile declino dell’Occidente.
“Come politico, hai fondamentalmente due opzioni” ha dichiarato con enfasi la Giorgiona nazionale: “essere un leader o un follower”; o anche, semplicemente, uno zerbino. Anzi, meglio: un agente straniero (non vorrei passare per maleducato). Da oltre 60 anni, l’Atlantic Council è la mecca del suprematismo atlantista più feroce e spregiudicato, invocando cambi di regime a destra e manca e partecipando attivamente a qualcuno, come quello giudiziario contro Dilma Roussef in Brasile. Quando ancora ero una persona quasi rispettabile, ho avuto l’occasione di visitarlo un paio di volte: durante l’ultima, ho registrato una lunga intervista sul tema dell’influenza dei troll russi nelle elezioni presidenziali del 2016; non sono riuscito a utilizzarne che un piccolissimo frammento. Tutte le informazioni che mi avevano dato, a una rapidissima verifica dei fatti s’erano rivelate una gigantesca sequela di puttanate che nemmeno menti illuminate come Iacopo Jacoboni o Andrea Angrisani sarebbero riusciti a mettere in fila con cotanta nonchalance. Insomma: l’istituzione giusta per riconoscere un ambitissimo premio alla nostra premier Giorgia Meloni; d’altronde, ad essere premiato insieme a lei è stato nientepopodimeno che il premier greco Mitsotakis, il più feroce interprete delle misure lacrime e sangue dell’agenda turboliberista dell’intero vecchio continente. I successi perseguiti nel rapinare lavoratori e cittadini comuni per gonfiare le tasche delle oligarchie USA (a partire da un’immancabile legge sulla privatizzazione delle università) non gli hanno però permesso di attirare le luci della ribalta; la protagonista indiscussa di tutta la serata di gala è stata la nostra Giorgiona, che ha richiesto espressamente di ricevere il premio direttamente dalle mani di Elon facciamo tutti i golpe che vogliamo Musk, un “prezioso genio per l’epoca in cui viviamo” l’ha definito la nostra Giorgiona prima di rivolgergli un lungo sguardo languido.
Ma perché, esattamente, a New York tutti amano Giorgia? E quando dico tutti, intendo letteralmente tutti: dai trumpiani più sfegatati come Musk a, appunto, un’istituzione come l’Atlantic Council che, invece, è sempre stata schierata con il neoconservatorismo più istituzionale e vede i modi un po’ rozzi e irrispettosi del galateo di Trump come il fumo negli occhi. Il punto è che, sin dal suo insediamento, la nostra madre cristiana è stata investita da Washington di un compito preciso, che tiene insieme gli analfoliberali di Biden e gli analfosovranisti di The Donald: Giorgia deve giocare un ruolo di primo piano nel porre fine all’anomalia tedesca. Negli oltre 15 anni che ci separano dalla grande crisi finanziaria, la finanziarizzazione di tutte le economie dell’Occidente collettivo ha subìto un’accelerazione spaventosa: il risultato è, da un lato, che i mercati finanziari sono ordini di grandezza più grandi del prodotto interno lordo dei Paesi e, dall’altro, che i principali monopoli finanziari statunitensi sono gli azionisti di maggioranza di sostanzialmente tutte le principali aziende del pianeta. Negli USA, manco a dirlo, BlackRock e Vanguard sono i principali azionisti della stragrande maggioranza delle aziende dello Standard & Poor 500 e hanno stabilito una sorta di regime monopolistico universale: non c’è sostanzialmente settore dell’economia dove sia rimasta una qualche forma di competizione e di concorrenza; a spartirsi il mercato sono pochi gruppi di dimensioni gigantesche, tutti controllati dagli stessi azionisti di riferimento, che è anche la ragione principale della spinta inflattiva degli ultimi tempi che, al contrario di quanto sostiene la propaganda, ha poco o niente a che vedere con la presenza di troppa moneta in circolazione e ancora meno con fantomatici aumenti della domanda (che vedono solo i banchieri nella loro fantasia), ma – molto banalmente – col potere che questi cartelli monopolistici hanno di imporre prezzi arbitrari e quindi, letteralmente, derubare lavoratori e consumatori in genere.
Ma gli USA sono solo la punta dell’iceberg: questa è la lista delle principali aziende britanniche; al primo posto troviamo la Shell e questo è l’elenco dei principali azionisti (BlackRock e Vanguard). Al secondo posto c’è BP e questa è la lista dei principali azionisti: BlackRock e Vanguard ai quali si aggiunge, a questo giro, anche il fondo di investimento sovrano norvegese, vero e proprio braccio destro dell’imperialismo finanziario USA. Poi, ancora, cambiamo completamente settore e in terza posizione troviamo il colosso della grande distribuzione Tesco, ma la musica non cambia: prima BlackRock e poi Vanguard. E così via: dai colossi bancari come HSBC a quelli assicurativi come Aviva; dai giganti dell’industria mineraria come Rio Tinto a quelli delle telecomunicazioni come Vodafone, a quelli della farmaceutica come GlaxoSmithKline o Astrazeneca, il copione è sempre immancabilmente lo stesso. E quando non è direttamente BlackRock e Vanguard, sono altri fondi che alla fine, gira che ti rigira, sempre lì vanno a pescare, da Capital Search a State Street a Wellington: insomma: il monopolio finanziario USA. Al che uno dice e vabbeh, sei andato a pescare nel Regno Unito, cosa ti aspettavi? Tra l’altro, appunto, oltre al rapporto a doppio filo con i cugini d’oltreoceano, è pure l’economia più finanziarizzata di tutto l’Occidente. E vabbeh, e allora andiamo a vedere i cugini d’oltralpe; questa è la lista delle principali aziende e questa la composizione societaria: Total (BlackRock e Vanguard); BNP Paribas (BlackRock ); Societé Générale (BlackRock, Vanguard e, a questo giro, mettiamoci pure JP Morgan, di gran lunga la più grande banca privata al mondo, ovviamente rigorosamente made in USA); Axa (BlackRock, Vanguard e, di nuovo, il fondo norvegese). Eh… D’altronde, si sa: non ci sono più i gaullisti di una volta; in un paese che sceglie come presidente uno che si fa pagare la campagna elettorale da McKinsey che ti vuoi aspettare… E, allora, spostiamoci ancora e sbarchiamo in Giappone; e, in effetti, qui qualcosina cambia: il gruppo più grande del paese è Toyota, che non ha come principali due azionisti né Vanguard, né BlackRock (che però, insieme, sono comunque il terzo azionista e, se ci aggiungi anche JPMorgan, sono di nuovo il primo. Poi c’è Mitsubishi: anche qua BlackRock e Vanguard sono ben presenti, ma non in testa; in testa c’è una sigla esotica e sconosciuta ai più: New England Asset Management (tradotto: Warren Buffet) . Terzo gruppo: Honda; ed ecco che torna BlackRock (meno male! Mi stavo preoccupando) e idem Hitachi e Sony, e pure Panasonic.
A questo punto, allora, andiamo in Germania: ovviamente, a troneggiare è una delle mie aziende preferite al mondo, la VolksWagen che ovviamente, com’è noto, come primo azionista c’ha la Porsche e, come secondo, il governo della bassa Sassonia; vabbeh, VolksWagen è un’azienda strana, si sa, e allora andiamo oltre. BMW: anche qua, niente BlackRock; appare però Vanguard, effettivamente, col 2,2%. Un po’ poco per mettere pressione al 20% abbondante di Susanne Klatten, la donna più ricca di Germania, e il 16% e passa di Stefan Quandt: sono gli eredi di Herbert Quandt, il famigerato industriale nazista colpevole di aver sfruttato migliaia di lavoratori schiavi nelle sue fabbriche durante la guerra. Eh, ma allora lo fai apposta: proprio l’esempio più eclatante della totale impunità dei gerarchi nazisti sei andato a prendere? Va bene, continuiamo: Mercedes Benz; ah, ecco! Finalmente! Hai visto? Qui sì che ci sono BlackRock e Vanguard. E insieme, con poco meno del 9%: mica bruscolini! Ma aspettate un attimo: cosa sono quelle due sigle più sopra? Il 10,8%, quindi più dei due fondi messi assieme, è di questo Tenaciuos Prospect; e sapete cos’è? E’ una scatola vuota che fa capo a un investitore un po’ diverso da quelli visti finora: si chiama Li Shufu e indovinate un po’? E’ cinese! E’ il leggendario fondatore di Geely, il colosso dell’automotive cinese, uno dei pochissimi gruppi automobilistici a non essere controllato dallo Stato; ed è solo l’antipasto, perché guardate un po’ cosa c’è scritto sopra? Esatto: con l’11,1% delle azioni, il principale azionista di Mercedes Benz è nientepopodimeno che la Beijing State-Owned Capital Operation and Management Company. Tradotto: un fondo sovrano della Repubblica Popolare di Cina; si comincia a intuire la differenza? No? E allora andiamo avanti. Siamo al quarto gruppo: Deutsche Telekom; primo azionista, la banca pubblica tedesca KFW e, secondo, direttamente il governo federale. Ancora non è chiaro? Quinto posto (vabbeh) Uniper, che è pubblica al 99,1%; poi c’è la Bosch, che per il 92% è proprietà della Robert Bosch Stiftung, una società di beneficenza. Poi Daimler Truck, che è in gran parte di Mercedes e, per il resto, di nuovo di Li Shufu. Poi c’è la ZF Friedrichshafen, che magari non vi dirà niente, ma che in realtà ha circa 150 mila dipendenti e fattura ogni anno poco meno di 40 miliardi ed è controllata, con quasi il 94% delle azioni, da un’altra fondazione no profit, la Zeppelin Stiftung; e poi ancora la Continental, il colosso della componentistica per l’automotive e dei pneumatici, che ha altri 250 mila dipendenti e che, col 46% delle azioni, è controllata da un altro colosso della componentistica come Schaeffler che, a sua volta, è controllato dagli eredi dei fondatori. Insomma: spero che ci siamo capiti.
La struttura proprietaria del capitalismo industriale tedesco è (e rimane) una gigantesca anomalia all’interno dell’Occidente collettivo; non solo l’unica roccaforte dove il monopolio totale della grande finanza USA non ha ancora attecchito, ma dove – addirittura – al fianco del capitalismo familiare ci sono, da un lato, ampie forme di capitalismo di Stato (semmai questo termine significhi qualcosa, ma famo pe capisse) e, dall’altro, addirittura direttamente il nemico: investitori cinesi privati e, addirittura, dirette emanazioni del governo (e quindi del partito). Il tutto che va di pari passo, nell’unico paese a capitalismo avanzato dove il grosso della ricchezza si crea producendo cose e non fogli di carta e dove, almeno fino a due anni fa, la produzione industriale è comunque continuata a crescere; e che quindi ha sostanzialmente l’unico vero apparato produttivo in grado eventualmente di giocarsela con le grandi potenze industriali del Sud globale. Ovviamente, non mancano le eccezioni: i grandi gruppi elettrici E.ON e RWE sono già stati presi d’assalto da BlackRock & Company, come d’altronde anche un colosso della chimica come BASF o della farmaceutica come Bayer, ma il grosso fugge ancora da questa sorta di regola di ferro del nuovo imperialismo finanziario contemporaneo e rappresenta un ostacolo gigantesco per l’agenda statunitense e per lo stato di guerra permanente che ha bisogno di dichiarare a casa e in tutti i paesi alleati/vassalli per poter sperare di affrontare ad armi pari i giganti ribelli russo e cinese. E non solo: senza la capacità produttiva tedesca al servizio dell’agenda di guerra dell’impero, la battaglia rischia di essere impari, ma chi assicura agli USA l’obbedienza di questo capitalismo anomalo, se prima il suo braccio finanziario non riesce ad affondarci le sue grinfie? Chi assicura a Washington di avere in mano tutte le leve necessarie, al momento opportuno, per costringere eredi di imprenditori nazisti, azionisti cinesi e fondi sovrani di varia natura di smettere di produrre SUV e cuscinetti a sfera per convertirsi ai carri blindati e ai carrelli dei jet.
Manco da dire che si potrebbe ricorrere al solito ricatto sul debito sovrano: l’austerità tedesca ha sicuramente molti difetti, ma ha anche dei pregi, a partire dal fatto che il debito pubblico è tra i più bassi – se non il più basso – di tutti i paesi a capitalismo avanzato e questo rende piuttosto difficile (per non dire del tutto impossibile) ogni attacco speculativo. La guerra contro l’Europa che gli USA hanno ingaggiato sotto mentite spoglie a partire, in particolare, dal febbraio 2022, ha tra i suoi obiettivi principali probabilmente, allora, proprio imporre una trasformazione radicale di questi elementi strutturali incompatibili con i suoi piani. Mettere in difficoltà i gruppi industriali tedeschi, d’altronde, non è un’operazione particolarmente difficile; rispetto ai patrimoni stellari che si riescono ad accumulare partecipando dalla parte del banco al casino della speculazione finanziaria USA, i margini di profitto di questi colossi (che, organizzativamente, sembrano appartenere a un’era geologica fa) sono piuttosto ridotti e, quindi, basta far lievitare artificialmente il costo dell’energia tagliando le forniture più competitive che metà del lavoro è fatto; per l’altra metà, però, c’è bisogno di qualche quinta colonna che lavori ai fianchi dall’interno e la candidata perfetta per quel ruolo è, appunto, la nostra Giorgiona.
La prima partita è quella della guerra commerciale contro la Cina, che scatenerebbe ritorsioni devastanti che metterebbero in ginocchio l’automotive tedesco e tutto il suo indotto (compresi i lavoratori italiani che però, evidentemente, non rientrano in quegli italiani che dovrebbero venire prima, secondo la retorica degli analfosovranisti): ecco come si spiega la posizione intransigente dell’Italia nella partita sui dazi contro l’automotive elettrico cinese, un vero e proprio suicidio. Anzi: un doppio suicidio perché, come ha sottolineato finanche lo stesso presidente di Federmeccanica, l’indotto dell’automotive italiano si salva solo se convinciamo i cinesi a venire a investire qua e a insegnarci come si fanno le auto elettriche a prezzi concorrenziali che solo loro hanno la tecnologia e il know how per produrre. Noi, invece, uccidiamo il nostro primo cliente – e cioè l’automotive tedesco – e sputiamo in faccia alla nostra unica chance per il futuro, ma, d’altronde, bisogna vincere, e vinceremo. Mentre si contribuisce a devastare il piatto dove mangiamo, comunque, bisogna anche cominciare a prepararsi per – al momento opportuno – avere sufficiente potenza di fuoco per prendere il controllo dei grandi gruppi industriali al collasso, per essere sicuri che, alla bisogna, possano diventare la base militare industriale per la grande guerra; ed ecco che così, magicamente, arriva la scalata di UniCredit a Commerzbank, una delle banche che maggiormente sostengono direttamente il sistema produttivo e industriale tedesco: una scalata pilotata, in tutto e per tutto, dal grande capitale finanziario statunitense che usa l’Italia e il governo degli zerbini come base di lancio. Primo, perché UniCredit fa parte – appunto – di quel capitalismo globale che si è adattato al dominio della finanza USA e ha come principale azionista proprio BlackRock e, a seguire, la crème crème degli altri fondi, ma poi proprio perché, operativamente, la scalata che il governo tedesco considera a tutti gli effetti ostile è stata resa possibile dal sostegno della grande finanza a stelle e strisce.
E’ quanto rivelava lunedì scorso Bloomberg: Barclays e Bank of America hanno aiutato Orcel ad acquistare una partecipazione in Commerzbank titolava; “L’amministratore delegato di UniCredit, Andrea Orcel” specifica l’articolo “si è avvalso di Barclays e Bank of America per costruire silenziosamente una partecipazione in Commerzbank”. “Barclays ha organizzato derivati ​​legati a Commerzbank per l’istituto di credito italiano nelle settimane prima che Berlino vendesse parte della sua quota all’inizio di questo mese. Barclays e Bank of America, poi, hanno aiutato Orcel ad espandere effettivamente la partecipazione di UniCredit in Commerzbank all’attuale livello di circa il 21%”, ma “I rappresentanti di Barclays, Bank of America e UniCredit” conclude Bloomberg “hanno rifiutato di commentare”. Nel frattempo, il governo italiano, dopo aver steso tappeti rossi ai fondi USA nel caso della rete di TIM e delle numerose svendite di Stato di questi ultimi mesi, ha intavolato una trattativa direttamente con BlackRock per la gestione di 3,3 miliardi di asset vari che, al momento, sono in pancia a SACE, il gruppo assicurativo-finanziario italiano direttamente controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, specializzato nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale. E ieri ha dato il via libera ufficiale alla richiesta di BlackRock di salire sopra al 3% di quote in Leonardo. E poi se in Germania torna di moda il nazionalismo, gli analfoliberali si indignano…
L’Italia si è totalmente rassegnata allo status di colonia e ora difendere la patria è diventato sinonimo di leccare il culo all’invasore, nella speranza che quando finiamo il servizietto ci lasci una mancia corposa; e in questo, va detto, vecchi e nuovi ex post e neofascisti c’hanno un curriculum di tutto rispetto. Ora, poi, che hanno anche imparato a fare gli occhi a cuore, se state buoni e non alzate la cresta, tra un’umiliazione e l’altra capace che qualche briciola tocca anche a voi: che, le butti via le mance dei turisti texani che arrivano sempre più numerosi a spendere i soldi che ci stanno fottendo nel Bel Paese? Contro la svendita di quel poco di dignità che ancora c’hanno lasciato, abbiamo bisogno di mandarli tutti a casa e di riprenderci il Paese (e pure l’Europa); per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alle puttanate sul nazionalismo occidentale della nostra premier ancora più bella dentro che fuori dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Antonio Tajani

Mentre la Meloni sfila negli USA, Draghi rilancia l’economia Ue con la guerra – ft. Vadim Bottoni

Mentre Giorgia Meloni vola negli USA per farsi premiare dai gruppuscoli filo-NATO e da Elon Musk, Mario Draghi propone il suo report su come risolvere la crisi produttiva europea, mirando alla trasformazione dell’economia europea in un’economia di guerra a tutti gli effetti, un’ulteriore compressione degli investimenti nel sociale e uno schiacciamento delle politiche dell’Unione europea ai desiderata degli Stati Uniti e al riarmo voluto dalla NATO. Le carte vengono scoperte e l’ex primo ministro italiano si dimostra il falco filo-atlantista che tutti sospettavamo.

Meloni a New York candida l’Italia a diventare la rampa di lancio per finire di distruggere l’Europa – ft. Alessandro Volpi

L’Atlantic Council è il potente think tank che, da oltre 60 anni, rappresenta il cuore della linea atlantista più intransigente, un potente strumento al servizio dell’egemonia USA e della sottomissione complice degli alleati vassalli del vecchio continente: il luogo ideale dove offrire su un piatto d’argento alle oligarchie finanziarie d’oltreoceano il nostro paese come potenziale rampa di lancio dalla quale sferrare l’attacco definitivo a quel che rimane del capitalismo industriale nazionale dell’Europa, a partire ovviamente da quello tedesco. Che è esattamente quello che ha fatto la nostra premier: proprio mentre, con l’aiuto della grandi banche USA, Unicredit accelera la sua scalata a Commerzbank e mentre Urso e Tajani si mettono contro i tentativi tedeschi di evitare la guerra commerciale contro la Cina, combinazione delle combinazioni, Giorgiona la madrecristiana viene accolta a New York dal gotha dell’imperialismo atlantista come una salvatrice dell’intero Occidente collettivo. In questi due anni e mezzo di guerra per procura in Ucraina, gli USA hanno fallito un po’ tutti gli obiettivi, tranne quello di ridurre l’economia europea a brandelli. E la Meloni si conferma la miglior quinta colonna possibile immaginabile. Ne abbiamo parlato con Alessandro Volpi in questa imperdibile intervista.

Meloni privatizza tutto! Ferrovie, porti, rete, Poste: il piano suicida della Thatcher de’noantri

“Pronti alla privatizzazione dei porti”; ecco: ci mancava. Pochi giorni prima era stato il turno delle Ferrovie: “FS, l’ad Donnarumma: quotazione? Allo studio apertura capitale”; fresco fresco di nomina, Stefano Donnarumma, per il suo debutto in società, ha deciso di giocarsi subito il poker d’assi e di fronte alla crème crème delle oligarchie parassitarie, riunite nel salotto buono di Cernobbio, ha presentato in anteprima la cuccagna del prossimo monopolio naturale pronto per essere spolpato. Nei mesi precedenti la stessa sorte era toccata alla rete delle telecomunicazioni, il sistema nervoso dell’economia del presente e, soprattutto, del futuro; un po’ come la rete elettrica negli anni d’oro del boom economico che infatti, nel 1962, venne nazionalizzata e – una volta sottratta alla rendita parassitaria dei prenditori – rese possibile consolidare il periodo di maggior sviluppo produttivo della storia di questo paese: roba da maledetti comunisti avrà pensato Giorgiona che, infatti, ha adottato la strategia opposta e la rete l’ha regalata a un fondo speculativo americano, alla faccia del patriottismo. A fine luglio, poi, sempre lo stesso fondo USA KKR ha confermato l’acquisto di un altro pezzo di Paese: il 25% di Enilive, la controllata di ENI da 15 miliardi di fatturato l’anno che gestisce una trentina di impianti di produzione di biometano in tutto il mondo, oltre a cinquemila stazioni di servizio in tutta Europa che servono ogni giorno oltre 1,5 milioni di clienti. D’altronde, produce dividendi: perché mai dovrebbero andare nelle casse dello Stato invece che nelle tasche dei soliti noti? Cosa siete, eh? Comunisti? Per sancire il sacrosanto diritto delle oligarchie di mettersi in tasca il grosso della ricchezza prodotta dal resto della società, la Meloni – nonostante sia costretta a fare i salti mortali per far quadrare i conti – è disposta a rinunciare anche a un bel po’ di soldi sicuri; come nel caso delle Poste, che quest’anno hanno registrato un miliardo di utili: l’occasione giusta per passare dal 65% al 35% delle quote. Come dice il nostro Alessandro Volpi fare cassa perdendo soldi, una vera e propria moda che sta tornando a diffondersi in tutto il vecchio continente.

Ferrovie dello Stato

Venerdì scorso, infatti, in Germania si è conclusa la vendita ai danesi di DVS da parte di Deutsche Bahn di Schenker, la controllata specializzata nella logistica: secondo Bloomberg si tratta “di una delle più grandi vendite di un’azienda statale in Germania da anni”; ovviamente, come sottolinea La Verità, Schenker “era l’unica società del gruppo in grado di portare un utile significativo: un miliardo l’anno”, come Poste. E, come in Poste, oltre al buco nelle entrate dello Stato ecco che si affaccia una bella ristrutturazione: “Nell’ambito dell’integrazione” riporta sempre Bloomberg “l’azienda danese prevede di tagliare tra 1.600 e 1.900 posti di lavoro in Germania”. Ed è solo l’antipasto: nonostante l’economia del vecchio continente stia andando completamente a scatafascio – tanto da far rivedere, anche a questo giro, al ribasso le previsioni sulla già più che striminzita crescita futura – la BCE ha deciso (di nuovo) di tirare il freno a mano sulla riduzione dei tassi d’interesse, che è l’occasione d’oro per i governi nazionali al servizio delle oligarchie di fare appello all’insostenibile costo degli interessi sul debito per riprendere a svendere in grande stile i gioielli di famiglia e aggravare, così, ulteriormente la crisi. Privatizzazione, infatti, è sinonimo di ristrutturazione e di tagli e, quindi, di perdita di quei pochi posti di lavoro retribuiti dignitosamente che rimangono, ma è anche sinonimo di rendita parassitaria, con le oligarchie che approfittano delle posizioni di monopolio per imporre al sistema produttivo una gigantesca tassa che, invece che a finanziare investimenti e servizi, finisce direttamente nelle loro tasche; e i risultati si vedono. Il Sole 24 Ore: Metalmeccanica, frenata più forte. Rischio stop per quattro imprese su 10. La Verità: Boom di fallimenti. La Germania sprofonda nel baratro. Repubblichina: La crisi tedesca rallenta l’industria italiana. Senza investimenti l’Italia non cresce. Ma prima di entrare nei dettagli di questo piano diabolico per trasferire quel pochissimo di ricchezza che ci rimane nelle tasche delle oligarchie e finire di devastare l’economia del vecchio continente, vi ricordo di mettere un like a questo video e consentirci così (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Giancazzo Giorgetti per regalare a Vanguard e a BlackRock un’altra infrastruttura strategica del Paese, ma per noi fa davvero la differenza.
Re Carlo inaugura il nuovo parlamento promettendo una legge per la ri-nazionalizzazione delle Ferrovie e l’istituzione della Great British Railway: il governo laburista di Keir Starmer, che si è insediato a Downing Street lo scorso 4 luglio dopo le elezioni più antidemocratiche della storia del Regno Unito, rappresenta gli ultimi mohicani della religione ultra-liberista. Eppure la realtà gli ha imposto di fare una cosa di sinistra: ri-nazionalizzare le Ferrovie . La storia recente delle Ferrovie britanniche, infatti, è forse in assoluto l’esempio più eclatante di come le privatizzazioni non mantengano mai nessuna delle promesse propagandate per imporle all’opinione pubblica: nonostante l’accetta che, inevitabilmente, si abbatte sulla forza lavoro – sia in termini di numeri che di diritti – il servizio non fa che peggiorare, mentre i costi per gli utenti aumentano e, paradossalmente, aumenta pure la spesa pubblica; gli unici che ci guadagnano sono una manciata di parassiti. E, infatti, tutti gli altri non vedevano l’ora di tornare indietro: secondo un sondaggio del 2018 condotto da BMG, soltanto il 19% dei cittadini britannici si sarebbe dichiarato contrario alla ri-nazionalizzazione. L’egemonia neoliberale, per quanto in declino, grazie alla macchina propagandistica è ancora in piedi, ma solo fino a quando le persone non sbattono il muso contro le sue conseguenze concrete: c’era arrivato, addirittura, anche Boris Neurone Solitario Johnson che, già due anni fa, aveva annunciato la ri-nazionalizzazione almeno di alcuni pezzetti. Ora ad opporsi è rimasto soltanto il Financial Times: La ri-nazionalizzazione delle Ferrovie non stimolerà la crescita del Regno Unito titola, ma si rende talmente conto di quanto sia impopolare questa posizione da appaltare l’articolo a un esterno a caso; Andy Bagnall, il direttore di Rail Partners, l’associazione di categoria degli operatori ferroviari privati del Regno Unito. Un caso paradigmatico del conflitto tra il 99% e l’1%.
Non è un caso, quindi, che anche da noi, quando s’è trattato di lanciare la bomba a mano di una possibile privatizzazione delle Ferrovie, si sia scelto di farlo davanti alla crème crème dell’1%: il Forum Ambrosetti di Cernobbio, l’annuale rappresentazione teatrale della subordinazione totale della nostra classe politica agli interessi di una manciata di oligarchi. La faccenda è talmente delicata che, per affrontarla, il neo-nominato Roberto Donnarumma ha fatto un rigirìo di parole che nei corridoi dell’Accademia della Crusca ha causato almeno una decina di trombosi cerebrali: “Apro a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura del capitale laddove possa essere vantaggiosa da un punto di vista finanziario per lo sviluppo degli investimenti dell’azienda”. Ora me la segno ‘sta formula, da riusare tutte le volte che non so che granchi prendere: apro a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura. Per quanto l’italiano sia raccapricciante, comunque, rispetto al contenuto è pura poesia: tradotto, infatti, significa (molto banalmente) cari amici oligarchi, la greppia dell’Italia in svendita arriverà presto anche ai binari. Ovviamente la scusa è sempre la solita: aumentare gli investimenti; è un meccanismo ultra-rodato, lo stesso identico adottato nel Regno Unito e, in generale, ogni volta che si vuole privatizzare qualcosa per arricchire l’1% sulla pelle del 99. Prima si tagliano scientemente gli investimenti pubblici, si trasforma il servizio pubblico in uno schifo intollerabile e, a quel punto, si tira fuori la carta della necessità di ricorrere a un po’ di capitali privati che purtroppo, però – come dimostra il caso britannico – non arrivano mai. Ora, siccome ormai i casi sono talmente tanti (e sempre identici a se stessi) che la gente, nonostante la potenza di fuoco della propaganda, se n’è abbastanza ammoscata, tocca prenderla un po’ larghina; e, quindi, l’idea è di procedere per step: invece di andare subito in borsa, intanto ci si limita ad “aprire a un’ipotesi di valutazione di una possibile apertura” ai capitali privati e poi il resto, piano piano, verrà da se. La quotazione, all’inizio, sempre col pubblico con quote di maggioranza e, poi, la vendita della maggioranza ai privati con la scusa del golden power che manterrebbe in mano pubblica il controllo sulle cose principali anche in assenza della maggioranza delle quote; peccato che poi quel golden power non venga esercitato mai, a meno che non si tratti di impedire a quei barbari dei cinesi di fare la stessa identica cosa che fanno gli oligarchi di tutti gli altri paesi.
Insomma: esattamente quello che, ad esempio, è successo con la rete autostradale o, appunto, a quello che sta succedendo con Poste. La prima parte da aprire al capitale privato sarebbe, ovviamente, quella più redditizia e, cioè, la gestione del servizio dell’alta velocità, un’operazione che, a onor del vero, non è tutta farina dell’ultima governo di svendi-patria e di Donnarumma; a mettere nero su bianco una prima roadmap verso la svendita delle Ferrovie italiane c’aveva pensato, infatti, l’ex amministratore delegato: si chiama Luigi Ferraris e indovinate cosa fa di mestiere oggi? Il fondo USA KKR l’ha chiamato alla guida di FiberCop, il gestore privato della rete in fibra dismessa da TIM col benestare del governo. I registi della svendita del Paese sono una combriccola che passa di poltrona in poltrona e fanno tutti capo a un unico centro di potere che, in particolare, si dipana attraverso l’oligopolio dei quattro colossi della consulenza: Price Waterhouse Coopers, Deloitte, Ernst & Young e KPMG, un esercito di oltre un milione e duecentomila consulenti sparsi su tutto il globo che passano con nonchalance dalle big corporation private alle istituzioni pubbliche, cercando di incastrare sempre i tasselli a favore delle oligarchie; la vera tecnocrazia transnazionale al servizio dell’1%. Ferraris, ad esempio, ha mosso i suoi primi passi in PriceWaterhouseCoopers che, tra le quattro, da un po’ di tempo a questa parte è la più chiacchierata in assoluto. Prima, infatti, è stata travolta dallo scandalo tasse in Australia; giocava su due tavoli: aiutava il governo a scrivere la riforma fiscale e poi passava le informazioni alle big corporation per aiutarle a eludere le tasse. La cosa divertente è che il ruolo di PWC come consulente di primo piano per il governo era stato il risultato di un altro processo di privatizzazione: l’Australia, infatti, a inizio anni ‘10 ha introdotto un tetto massimo al numero di dipendenti pubblici; da allora, le consulenze esternalizzate alle quattro grandi – e, in particolare, a PWC – è cresciuto nell’arco di 10 anni del 400%, fino a pesare sulle casse dello Stato per qualcosa come 20 miliardi l’anno. In questi anni i consulenti hanno gestito un’altra bella dose di privatizzazioni, a partire da quella dell’energia; e così PWC aiutava a svendere un pezzetto di infrastrutture strategiche e, poi, diceva alla nuova società privata cosa fare per eludere le tasse che avrebbe dovuto pagare sulla rendita garantita dalla gestione di un monopolio. Poi, ti serve altro? Una fettina di culo? Una fettina di culo è probabilmente l’unica cosa che, seguendo le indicazioni di Ferraris, forse (e dico forse) non dovremo garantire ai privati che ci fanno la grazia di mettere qualche soldino nella privatizzazione delle Ferrovie; il piano messo a punto da Ferraris, ricorda infatti La Repubblichina, “suggeriva al governo di confezionare un’esca per incoraggiare i privati a entrare nel capitale di Ferrovie. L’esca si chiama Rab, che sta per Regulatory asset base e che, in sostanza, fornisce un’assicurazione sulla vita ai privati disposti a travasare capitali propri in un’azienda pubblica come FS. Grazie al Rab, viene messo a punto un tasso di rendimento certo e i soci possono così contare su una remunerazione in linea con quella che avrebbero ottenuto per investimenti in settori con un profilo di rischio simile”. Siamo all’apoteosi del derisking: compito del governo è svendere le infrastrutture strategiche del Paese e garantire una rendita predeterminata a chi se le compra, una dittatura dei rentier pre-capitalistica vera e propria che, ribadiamo, non solo trasferisce ricchezza dal basso verso l’alto, ma – alla fine – impone anche all’intero sistema economico un pizzo che gli impedisce di investire nelle attività produttive e di crescere. E poi quando perdono la guerra si lamentano… Belle mi’ labbrate, maremmampestataladra. Fortunatamente, però, l’Italia è stretta e lunga e circondata dal mare; e quindi anche se svendiamo le Ferrovie, perlomeno potremo sempre fare affidamento sui porti, fino a che non privatizzano pure quelli: “Siamo a buon punto” ha affermato giovedì scorso, durante un incontro nella sede di Fincantieri di Genova, il viceministro delle infrastrutture Edoardo Rixi. “Appena il governo ci darà il via libera, procederemo”; anche qui il copione è sempre il solito: prima si è tirata la cinghia per decenni – ovviamente solo per gli investimenti produttivi. Per la greppia delle clientele le risorse non mancano mai; anzi, sono fondamentali: è solo grazie alla prebende che tieni tutti più o meno buoni mentre gli devasti l’attività economica che gli dovrebbe dare da vivere davanti agli occhi. Dopo decenni di sotto-investimenti, il servizio è una zozzeria tale che tutti chiedono a gran voce una bella riforma; la riforma, ovviamente, va sempre in senso aziendalista e privatistico perché – si sa – solo il mercato crea valore: quella riforma è arrivata nel 2015 per mano di Delrio, il ministro alle infrastrutture dei pessimi governi Renzi, prima, e Gentiloni, poi, che aveva come obiettivo introdurre intanto un paio di precondizioni necessarie per un’eventuale futura privatizzazione. La prima era abolire quell’organo (di odore quasi sovietico) che erano i comitati portuali, dove – orrore degli orrori – al fianco dei dirigenti e delle aziende sedevano addirittura i sindacati; la seconda era dotare queste nuove autorità portuali riformate di sempre maggiore autonomia che però, incredibile ma vero, non sempre hanno usato proprio al meglio: delle quindici autorità portuali rimaste dalle ventiquattro iniziali, ben quattro sono state commissariate. Nel 2021, poi, ecco un’altra chicchina: viene eliminato il cosiddetto divieto di cumulo e, cioè, quella regola pensata per evitare che un singolo operatore avesse a disposizione spazi eccessivamente ampi all’interno dello stesso scalo portuale e stabilisse, così, una condizione di monopolio (o almeno di semi-monopolio). “La cancellazione di questo divieto” scrive Roberto Bobbio sul Faro di Roma “ha favorito i grandi armatori e ha danneggiato le piccole imprese e anche la posizione dei lavoratori. In una situazione di concentrazione delle concessioni in mano di pochi, tutelare i diritti diventa ancora più difficile”. Fatto 30, ora si trattava di fare 31.
Ed ecco, così, che arriva la proposta shock della premiata ditta Rixi/Salvini: fondiamo una grande Megaporti SPA; inizialmente ci teniamo la maggioranza (sennò la gente si stranisce) e poi, alla prima manovra che arriva dove ci tocca raschiare un po’ il fondo del barile (e cioè, d’ora in avanti, letteralmente ogni anno) ne vendiamo un altro pezzo per volta. Come con l’ENAV, l’Ente Nazionale per l’Assistenza al Volo, che gestisce in regime di monopolio tutti i servizi alla navigazione aerea civile nello spazio aereo di competenza italiana, anche qui prima c’era un commissariato, quindi un pezzo dello Stato. Poi è diventato un’azienda autonoma, che però era sempre un ente pubblico non economico; poi è diventata un ente pubblico economico e, infine, una società per azioni. Anche qui, inizialmente, tutte le azioni erano del ministero dell’economia e delle finanze fino a quando, nel 2014, il governo Letta la quota in borsa, ma ne mantiene comunque il 51%; fino ad oggi che, per raschiare il barile, l’ipotesi è cederne un altro 20% e incassare qualche spicciolo, con la differenza che ENAV – alla fine – comunque è un giocattolino da quattromila dipendenti e un miliardo scarso di fatturato, e con un mandato piuttosto circoscritto: garantire la sicurezza dei voli. L’entità dei porti è un ordine di grandezza superiore; già oggi, nonostante gli scarsi investimenti e la gestione spesso più che discutibile, generano poco meno di 10 miliardi e hanno una quantità di funzioni infinita, tutte strategiche: dai porti italiani, ricordiamo, passa infatti il 60% dei seicento miliardi del nostro export e, come scrive la rivista di settore Logistica News, “La privatizzazione potrebbe comportare l’ascesa di operatori portuali dominanti che, una volta consolidati, potrebbero imporre tariffe e condizioni” mettendo a repentaglio “la competitività globale del sistema portuale italiano”. D’altronde, come ci viene spiegato continuamente ovunque dagli analfoliberali, sempre meglio questo che gli insostenibili sprechi che si registrano ovunque ci sia anche solo l’odore della gestione pubblica; e il viceministro Edoardo Rixi è uno che a combattere gli sprechi ci tiene sul serio, soprattutto da quando, nel 2019, il tribunale di Genova l’ha condannato a tre anni e cinque mesi per aver distribuito, in veste di capogruppo al consiglio regionale ligure, “diverse centinaia di migliaia di euro” ai colleghi per rimborsare “cene, viaggi, gite al luna park, gratta e vinci, ostriche e fiori”, tutte certificate con ricevute “con importi modificati a mano”: “Le pezze giustificative” continua l’ANSA “si riferivano a periodi festivi come Natale, Capodanno, Pasqua e Pasquetta, 25 aprile e primo Maggio, giorni per l’accusa sospetti per svolgere attività istituzionale”. Tre anni dopo Rixi verrà assolto in via definitiva perché “il fatto non sussiste”.
Fintanto che i politici garantiscono di combattere gli sprechi regalando le infrastrutture agli oligarchi, a Capodanno si possono ingozzare coi soldi nostri di tutte le ostriche che vogliono; ed ecco, così, che la svendita di quel poco che ci rimane procede a grandi passi, spinta all’unisono da una lunga serie di scelte prettamente politiche: dalla reintroduzione del Patto di stabilità alle politiche monetarie restrittive della Banca Centrale. Il tutto rigorosamente spacciato dalla propaganda come inevitabile e ineluttabile buonsenso; peccato che, casualmente, sia sempre e solo il buonsenso dell’1% che detiene anche gli stessi mezzi di informazione. Per organizzare la resistenza a questa ennesima rapina organizzata, abbiamo bisogno di un mezzo di informazione tutto nostro che, invece che agli interessi delle oligarchie, dia voce a quelli del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni

VolksWagen minaccia chiusure – Come la guerra ha distrutto l’azienda più democratica dell’Occidente

Care zecche rosse, mi spiace deludervi, ma anche a questo giro le vostre gufate da invidiosi devono lasciare il passo all’Italia dell’amore e della prosperità: Record di occupati, titola Libero; il governo brinda. “L’Italia” – è il commento della nostra condottiera che sta traghettando il paese verso un nuovo rinascimento, ben più brillante e luminoso di quello che il compagno Renzi aveva intravisto nelle petromonarchie assolute del Golfo – “nonostante il rallentamento dell’economia mondiale e la delicata situazione internazionale, sta crescendo più delle altre nazioni europee, e PIL, occupazione, export e investimenti sono positivi”. Mi comincia a venire il sospetto che porti un po’ sfiga, porella: L’Italia arranca, titolava ieri La Stampa; il PIL si ferma allo 0,6%. “Si allontana l’obiettivo dell’1% entro l’anno”, ed è solo la punta dell’iceberg: Componentisti auto, titolava Il Sole 24 Ore domenica scorsa; in Italia uno su due rischia di finire in crisi. Ciononostante, Giorgiona continua a perculare: “Adesso” ha dichiarato “è fondamentale consolidare il quadro economico”. Certo: consolidare la recessione, effettivamente, mi sembra la scelta più adeguata – a meno che, quando parla di consolidare, non si riferisca ad altro; al suo nuovo paese d’adozione dove – chissà mai com’è – il rallentamento dell’economia mondiale (guarda caso) non lo stanno avvertendo poi tantissimo. “Raramente” scrive il Wall Street Journal “gli americani sono stati così entusiasti del mercato azionario”; “L’impennata del mercato azionario” continua l’articolo “ha coniato una quantità spropositata di nuovi milionari. Il numero di persone che ha un conto su un fondo pensione da oltre un milione di dollari è aumentato del 31% rispetto anche solo a un anno fa, attestandosi a quota 497 mila”: loro sì che dovrebbero votare Giorgiona! Che comunque, bisogna ammetterlo, su una cosa ha ragione: agli altri paesi europei non è che vada molto meglio. Già domenica Il Sole 24 Ore avvisava: Germania, sui big dell’acciaio l’ombra della grande crisi e, alla fine, ieri la bomba atomica: VolksWagen sta prendendo in considerazione la chiusura di fabbriche in Germania”, titola Bloomberg, “è la prima volta in 87 anni di storia. Il livello e la rapidità con i quali avanza inesorabile la totale devastazione del vecchio continente nella passività più totale è qualcosa che studieranno sui libri di storia per i prossimi secoli, ma sui media mainstream italiani sembra un problema di qualche zero virgola da correggere con qualche micro-intervento da infilare in una manovra di politica economica da pochi miliardi, che alla nostra crisi – come si dice in francese – gli farà come il cazzo alle vecchie comunque venga declinata. Ma prima di addentrarci nei dettagli di questa cronaca di una morte annunciata, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere anche oggi almeno la nostra piccola battaglia contro la dittatura distopica degli algoritmi e, se non lo avete ancora fatto, anche a iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non ne impieghi John Elkann a mettere in cassa integrazione qualche migliaio di lavoratori a Mirafiori, ma per noi fa davvero la differenza e ci aiuta a provare a portare un po’ di consapevolezza tra i nostri concittadini, mentre i media provano a rincoglionirli con dosi da cavallo di anestetizzanti per le sinapsi.

La VolksWagen di Wolfsburg

Se qualcuno mi avesse mai chiesto come m’immaginavo l’azienda ideale nell’Europa del futuro, non avrei avuto dubbi: avrei risposto, senza alcun dubbio, VolksWagen (come, d’altronde, sostanzialmente qualsiasi cittadino tedesco); quando nell’agosto del 2015, poco prima dello scoppio del dieselgate, YouGov in un sondaggio aveva chiesto ai tedeschi quale considerassero il simbolo per eccellenza della Germania, due terzi risposero VolksWagen. Altro che Goethe, o la Merkel, o i wurstel! Nonostante sia stata fondata durante il nazismo per soddisfare il sogno di Hitler di avere anche in Germania un’auto del popolo, in realtà la produzione di massa in quel di Wolfsburg inizierà soltanto nel dicembre del 1945, a regime ormai sconfitto; l’impianto era controllato dai britannici che, però, decisero in fretta e furia di restituirlo ai tedeschi perché non riuscivano a trovare un acquirente privato: “Le auto VolksWagen sono poco attraenti per il consumatore medio” dichiarò sprezzante un pezzo grosso dell’industria automobilistica della regina. Insomma… Nell’arco di una generazione il Maggiolino divenne l’auto più venduta del pianeta e nel 1972 superò la Model T della Ford nella classifica delle auto più prodotte di tutti i tempi. Ma ancora più che le auto, la VolksWagen in questi quasi 90 anni ha prodotto lavoro: con oltre 680 mila addetti, ancora oggi VolksWagen è la quinta azienda privata al mondo per numero di impiegati (la seconda, se si restringe il cerchio alle sole aziende manifatturiere, dietro soltanto a Foxconn); posti di lavoro difesi con le unghie. Tra i grandi marchi dell’automotive occidentale, VolksWagen è l’azienda che in assoluto produce meno fatturato per singolo impiegato: 500 mila dollari; Stellantis viaggia a quota 800 mila, Ford e General Motors oltre 1 milione – nonostante molti di noi, prima di comprarsi una Ford o una General Motors, probabilmente preferirebbero spostarsi comodamente con una Graziella (o col calesse). Ciononostante, anche quest’anno i sindacati sono sul piede di guerra per ottenere aumenti salariali intorno al 7%. A garantire che la difesa dei posti di lavoro in Germania venisse prima di tutto, c’è la struttura aziendale: la metà dei seggi nel consiglio di sorveglianza dell’azienda, infatti, spetta ai rappresentanti dei lavoratori, che hanno sempre potuto contare sul sostegno di un azionista piuttosto importante. E’ lo Stato della Bassa Sassonia, che detiene il 20% delle azioni – e molto di più in termini di potere negoziale; un modello di governance che (ovviamente) non piace così tanto agli investitori internazionali, che l’unico tipo di vincolo sociale che sono abituati a tollerare sono le vaccate sulla responsabilità sociale che le aziende scrivono sulla carta igienica solo per farne parlare qualche giornalaccio mainstream. Anche perché quando, in passato, qualcuno ha provato a introdurre logiche che guardano più agli interessi degli azionisti che a quelli dei lavoratori, non ha fatto esattamente una bella fine: come ricorda Bloomberg, infatti “I manager che in passato hanno tentato di sfidare i lavoratori, hanno fatto tutti una pessima fine: precedenti scontri hanno posto fine o ridotto il mandato di alti dirigenti, tra cui l’ex amministratore delegato Bernd Pischetsrieder, l’ex capo del marchio VW Wolfgang Bernhard e Herbert Diess, il predecessore di Blume come amministratore delegato. Tutti e tre hanno cercato di ottenere efficienze, in particolare nelle operazioni nazionali tedesche di VW, ma hanno fallito miseramente”. Ecco perché l’annuncio di ieri di una possibile chiusura di qualche stabilimento in Germania rappresenta uno snodo epocale per la storia di VolksWagen e, a cascata, di tutta l’industria europea: “Viviamo in un mondo geopolitico difficile” ha commentato, sempre dalle pagine di Bloomberg, l’analista di CitiGroup specializzato nel settore automotive Harald Hendrikse e “anche VW è stata costretta a riconoscere la gravità della situazione”.
La crisi dell’industria tedesca è di una gravità senza precedenti: l’indice PMI di agosto per il settore manifatturiero s’è attestato a quota 42,4, perdendo quasi un altro punto intero rispetto al già disastroso 43,2 di luglio; a pesare, in particolare, il calo dei nuovi ordini. Vuol dire che le fabbriche non riescono a smaltire le scorte e non hanno intenzione di accumularne altre e, quindi, non ordinano beni intermedi; e non riguarda certo solo l’automotive: Germania, sui big dell’acciaio l’ombra della grande crisi titolava domenica Il Sole 24 Ore. I conti di Thyssen-Krupp AG, proprietaria di Thyssen Krupp Steel Europe (che è il più grande produttore d’acciaio in Germania), nel terzo trimestre del 2024 sono andati in profondo rosso e il titolo ormai supera di poco i 3 euro; prima dello scoppio della seconda fase della guerra per procura in Ucraina e delle sanzioni contro la Russia e contro l’industria europea, viaggiava attorno ai 10 euro. Non se la passa molto meglio neanche la Salzgitter, che è la seconda azienda siderurgica tedesca; solo un anno fa era stata definita Il faro della transizione verde in Germania che però, da allora, si è spento: da inizio anno il titolo ha perso oltre il 50%, nonostante si siano intascati 1 miliardo di euro di finanziamenti pubblici (come, d’altronde, altri 2 miliardi di finanziamenti erano andati in cassa pure a Thyssen Krupp). E se poi nei lander più poveri la maggioranza di governo raggiunge a malapena il 15%, è stato “un colpo di Stato di Putin”, come l’ha definito davvero Politico.
Ma se non riescono a tenere in piedi i loro campioni nazionali in Germania, nonostante abbiano ancora parecchi soldi pubblici da regalargli senza che a Bruxelles gli venga una crisi isterica, pensate come stiamo messi noi… Più o meno, così: Stellantis agli operai: il lavoro c’è, ma in Polonia; “Stellantis” riporta Attilio Barbieri su Libero “propone di rientrare al lavoro a una decina di operai carrellisti dello stabilimento piemontese di Mirafiori. Ma non in Piemonte. In Polonia. Precisamente nello stabilimento di Thychy, nel voivodato della Slesia, l’impianto dove si producono la nuova Fiat 600, la Jeep Avenger e l’Alfa Romeo Junior”. D’altronde, in quel di Stellantis ormai fuggire dall’Italia è considerato proprio trendy: un po’ di tempo fa, venne a galla che i dirigenti Stellantis consigliavano ai fornitori di chiudere baracca e burattini per andare in Marocco; l’obiettivo era ridurre i costi fino al 40%. “La tecnologia elettrica, in Europa” aveva sottolineato Carlos Tavares durante un incontro nello stabilimento di Atessa “è del 40% più costosa. Se vogliamo rendere i veicoli elettrici accessibili dobbiamo digerire il 40% del costo addizionale. Che ci piaccia o no”; da lì in poi, le aziende di componentistica in Italia sono diminuite del 4,4% e la produzione è scesa del 18%, mentre le ore di cassa integrazione sono aumentate della stessa identica percentuale: “In Piemonte siamo ai bollettini di guerra” commenta La Verità. “Tredici settimane di cassa in Prima Industrie di Collegno, altrettante all’ex Alcar di Vaie. Da lunedì, fino a fine anno, 200 lavoratori in cassa anche per la Novares. E poi ancora alle Officine Vica, alla Proma, al Gruppo Cornaglia e alla Denso”; di questo passo, secondo uno studio commissionato dall’associazione di categoria ad Alix Partners, nel 2030 la componentistica italiana avrà perso tra i 20 e i 40 mila posti di lavoro.
D’altronde, del milione di veicoli che Giorgia la patriota ha sempre garantito sarebbe riuscita a imporre di produrre a Stellantis – e che sono considerati la cifra minima indispensabile per non radere al suolo tutto l’indotto – alla fine dell’anno ne verranno prodotti poco più della metà, anche perché non ci sarebbe chi se li compra: di competitività internazionale, infatti, non se ne parla, e il mercato interno è al collasso. Dall’inizio dell’anno, la propensione al consumo degli italiani ha subito un crollo come non se ne vedevano da oltre 15 anni; d’altronde, come va l’economia lo sperimentano sulla loro pelle, non sui titoli della propaganda filo-governativa. E, ad esempio, si rendono benissimo conto che se negli ultimi anni l’economia italiana non dico che ha tenuto (perché sarebbe una bestemmia), ma almeno ha preso qualche scoppola in meno rispetto ai paesi vicini, è solo ed esclusivamente a causa del superbonus: “Senza l’apporto delle costruzioni” riconosce finalmente anche Repubblica, dopo anni passati a massacrare il superbonus per fare contenta Bruxelles e gettare merda a gratis su Giuseppi, “il PIL dell’Italia tra 2021 e primo trimestre 2024 sarebbe cresciuto solo del 10,5% anziché del 14,5%”; ed ecco così che gli italiani, senza più il becco d’un quattrino e senza una minima prospettiva per il futuro, le auto – molto banalmente – non se le comprano più. Ad agosto le vendite di auto hanno subito un calo di oltre il 13% rispetto all’anno scorso, e quelle di Stellantis addirittura di oltre il 30%.
Il problema, però, è che Stellantis non è solo un’azienda che ha il monopolio della nostra industria automotive, ma ha anche il monopolio dell’opposizione politica mainstream a questo governo, che usa con finalità che niente hanno a che vedere con gli interessi di chi ci lavora (e del 99%); ed ecco così che, immancabilmente, il suo poderoso apparato propagandistico scende in campo per dissimularne la fuga dall’Italia e lo fa rifugiandosi in un passato idilliaco: Torino conquista gli Stati Uniti, titola La Stampa; “La FIAT e lo sbarco negli USA: record Jeep grazie a Melfi”. L’articolo a piena pagina fa parte di una serie celebrativa pensata in occasione dei 125 anni di FIAT e riporta agli anni d’oro dell’innamoramento di massa (totalmente ingiustificato) nei confronti dell’allora CEO Sergio Marchionne: ricorda come quando FIAT è sbarcata a Detroit, su invito del premio Nobel per la pace Barack Obama, sembrava “un’ex metropoli bombardata nel centro” e che Marchionne era determinato a portare agli antichi splendori. Grazie a investimenti ed innovazione? Macché: grazie ad Eminem! L’articolo ricorda quando Olivier Francois incontrò l’agente di Eminem, il rapper bianco che aveva cantato la disperazione della città: “La proposta è incredibile” scrive enfaticamente l’ennesimo pennivendolo a libro paga degli Agnelli/Elkann: “Per qualche giorno Eminem non si è fatto trovare. Fino a quando ha accettato di ricevermi nel suo studio, ricorderà anni dopo il manager. Ecco come nasce il più lungo spot televisivo trasmesso nella notte del Super Bowl, il 7 febbraio 2011. Nove milioni di dollari per dire all’America che la Chrysler è tornata e soprattutto che Detroit non è più sinonimo di disperazione: Siamo andati all’inferno e siamo tornati, canta Eminem prima dello slogan finale, Imported from Detroit”. Tre anni dopo, Marchionne presenta al salone di Ginvera la Renegade, “il primo modello con marchio Jeep prodotto fuori dall’America, a Melfi. Quella che poco tempo prima sarebbe parsa una bestemmia negli Stati Uniti, diventa una realtà e un’opportunità. Il piccolo SUV viene esportato e venduto anche in Nord America. Le navi con le auto prodotte in Basilicata partono da Civitavecchia per attraversare l’Atlantico. Il marchio Jeep, guidato da Mike Manley, arriva a vendere da solo 2 milioni di auto all’anno”.
Poco dopo nasce FCA, per la precisione il 12 ottobre 2014; una “data non casuale” sottolinea l’articolo “che coincide con quella della scoperta dell’America” – certo non da parte dell’Italia, che anche a questo giro è assente: la nuova società ha sede ad Amsterdam e domicilio fiscale a Londra. E più che ai lavoratori FIAT e all’indotto, punta al portafoglio degli investitori di Wall Street: “Quello di oggi è un momento storico” afferma Elkann dopo aver suonato la campanellina che avvia le contrattazioni a Wall Street “perché sulle fondamenta di FIAT e Chrysler ci consente di affrontare da protagonisti il mercato automobilistico mondiale”; non è andata proprio benissimo – a parte forse per chi, allora come ora, continua a scrivere queste apologie propagandistiche e a spacciarle per articoli giornalistici. Sarebbe il caso di non affidargli l’unica opposizione a questo governo di scappati di casa e di provare a costruirci davvero, finalmente, un nostro media che invece che a Tavares e ad Elkann, dia voce al 99%. Per farlo, abbiamo bisogno del tuo aiuto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Giannini

P.S.: appena finito di registrare questo video, mi sono dato la consueta sbirciatina ai listini delle borse USA, sempre in trepidante attesa del crollo definitivo che, ovviamente, non è arrivato manco stavolta; ma un contentino della buona notte me l’hanno voluto regalare lo stesso: dopo mesi e mesi di crescita stabile e ininterrotta di tutto quello che è quotabile, anche ieri, per la terza volta nel giro di pochissimi giorni, i listini USA hanno segnato un bel segno rosso, che è diventato particolarmente profondo per il Nasdaq, il regno per eccellenza dei nuovi feudatari. Nel frattempo Ukrainska Pravda annuncia che in Ucraina, in una botta sola, si sono dimessi la vicepremier, il vice capo dell’ufficio presidenziale, la ministra per la reintegrazione territoriale Iryna Vereshchuk e il ministro degli esteri Kuleba. Forse anche i 500 mila nuovi milionari USA dei quali parlava il Wall Street Journal farebbero bene a cominciare a porsi qualche domandina…

Italiani rapinati: perché il governo Meloni ha deciso di regalare il nostro tfr alla finanza USA

Il Sole 24 Ore, 21 agosto: Panetta al meeting di Rimini: il problema cruciale rimane la riduzione del debito pubblico. La Verità, 23 agosto: Ai fondi pensione il 25% del tfr. Domani, 23 agosto: Stellantis scappa da Torino. Libero, 24 agosto: Giorgetti a Rimini: il PNRR mi ricorda i piani quinquennali dell’Unione Sovietica. Non c’è che dire: se eravate alla ricerca di indizi su quanto tutte le famiglie politiche della classe dirigente italiana siano impegnate giorno e notte nel rendere il declino economico del paese il più rapido e irreversibile possibile, l’ultima settimana dovrebbe avervi lautamente ricompensati; dal ritorno dell’austerity alla sottomissione forzata dei lavoratori italiani alle logiche della grande finanza, passando per l’incedere inesorabile della deindustrializzazione e il culto fuori tempo massimo delle magnifiche sorti e progressive del mercato che si autoregola, bisogna ammettere che non ci siamo fatti mancare assolutamente niente. Ad aprire le danze c’ha pensato, appunto, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta con un intervento che sembrava arrivare direttamente dal 2009, quando tutto l’establishment economico dell’Occidente collettivo parlava di austerità espansiva prima di scoprire, conti alla mano, che l’austerità non solo distrugge l’economia, ma alla fine inevitabilmente fa anche aumentare il debito. Tutto rimosso: “Il debito elevato” afferma Panetta con un contorsionismo da psichiatria “sottrae risorse alle politiche anticicliche”; cioè Panetta stesso – che c’avrà sì anche lui i suoi limiti, ma non al livello di uno youtuber di Liberi Oltre o un giornalista de Il Foglio – riconosce ovviamente che quando l’economia va di merda, a intervenire dev’essere lo Stato per aumentare, facendo spesa in deficit, la domanda aggregata. Al che uno pensa che quindi ammetterà che ora c’è bisogno di allentare i cordoni della borsa; d’altronde, gli ultimi dati confermano che il valore della produzione industriale in un anno è diminuito di un altro 4% e che in 4 anni i salari reali degli italiani più fortunati (quelli che hanno un contratto regolare) hanno perso circa il 10% del loro potere d’acquisto, ad essere generosi: più crisi di così, cosa vuoi? Una carestia? Eppure – non si capisce bene in base a quale logica – Panetta sostiene che proprio ora i cordoni della borsa è il caso di stringerli il più possibile, così magari in futuro, quando arriverà un’altra crisi, avremo sufficienti margini di manovra per fare un po’ di spesa pubblica. Tipo il 32 agosto del duemilacredici o dopo che saremo tutti morti per un olocausto nucleare. Evidentemente c’è qualcosa che non torna e quello che non torna è che a brevissimo bisognerà cominciare a mettere mano alla manovra economica; e la direzione deve essere chiara: non cominciate a venir fuori con idee strampalate su come far ripartire produzione e consumi in Italia, che qui ancora questi zucconi conservatori tirchioni degli italiani non hanno capito che i loro risparmi devono essere dati in mano ai grandi gestori di patrimoni per gonfiare la principale fonte di rendita di chi i soldi ce li ha già, e cioè la bolla finanziaria.
Ed ecco così che arriviamo al secondo indizio, che è il più succulento: la proposta di legge della Lega che introdurrebbe l’obbligo di destinare almeno il 25% dell’accantonamento del tfr ai fondi pensione; da anni, tutti – e quando dico tutti intendo letteralmente tutti, di sinistra, di destra, di sopra, di sotto – provano a convincere gli italiani ad aderire ai fondi integrativi, ma con risultati non esattamente del tutto soddisfacenti. Non rimane quindi che la via di imporlo con la forza anche se, come sostiene ad esempio Alberto Brambilla, già sottosegretario al lavoro e alle politiche sociali del secondo governo Berlusconi (e quindi non esattamente un pericoloso bolscevico), “Imporre ai lavoratori di impegnare parte della loro retribuzione in un fondo pensione non è costituzionale. L’adesione alla previdenza integrativa non può che essere volontaria”. D’altronde, però, a mali estremi, estremi rimedi e qui c’è bisogno di garantire ai nostri giovani pensioni dignitose per il futuro, soprattutto dal momento che ormai un lavoro vero, con un contratto vero full time a tempo indeterminato e con un salario superiore alla soglia di povertà, è un lusso per pochi. L’unica speranza, allora, è affidare quei pochi risparmi che mettiamo da parte – a partire dal tfr – a qualcuno che li investe in borsa e che li sa far fruttare come si deve: come ribadisce Gianluca Baldini, l’obiettivo della misura non può che essere “garantire soprattutto ai giovani lavoratori pensioni migliori” e “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre” (e sottolineo SEMPRE) “di più rispetto a lasciare il tfr in azienda”. Ma è proprio così?

A vedere da questo grafico pubblicato da Morningstar ormai oltre un anno fa, a dire il vero, tutto sommato, sembrerebbe di no: per quanto riguarda il 2022 ad esempio (secondo il grafico), mentre chi aveva i soldi in un fondo pensione si è visto svalutare il suo patrimonio del 9,8 o addirittura del 10,7% – a seconda che si trattasse di fondi riservati ai lavoratori di determinati settori o di fondi aperti a tutti – quei tirchioni cacasotto che li avevano lasciati fermi immobili nel tfr se li sono visti rivalutare dell’8,3%. Eh vabbeh, direte; stai a fa il solito cherry picking. Sei andato a scegliere proprio l’anno del tracollo dei titoli azionari legato alla crisi pandemica. E’ vero, solo che proprio quell’anno lì è bastato da solo a smontare, dati alla mano, l’idea che appunto “Quello che è certo è che affidarsi a un fondo pensione complementare nell’arco di una carriera rende sempre di più rispetto a lasciare il tfr in azienda” che quindi, molto banalmente, è una fake news bella e buona, una pubblicità ingannevole al servizio della grande finanza; a causa dell’annus horribilis 2022, infatti, chi ha lasciato i suoi soldi nel tfr ha guadagnato rispetto a chi li ha dati in affidamento ai fondi anche se allarghiamo la finestra temporale: nell’arco degli ultimi 3 anni, infatti, chi ha messo i soldi nei fondi ha perso dallo 0,7 allo 0,8%, mentre il tfr si rivalutava del 4,3%. E nell’arco degli ultimi 5 la differenza diminuisce un po’, ma il senso non cambia: il patrimonio messo nei fondi si è rivalutato dallo 0,2 allo 0,4%, mentre quello rimasto a dormire nel tfr del 3,3. E per quanto effettivamente il 2022 sia stato un anno anomalo per l’andamento dei titoli azionari, il punto è che questi anni anomali, nel tempo, sono diventati sempre più frequenti: per trovare un altro caso, infatti, non bisogna risalire al 1929, ma basta tornare al 2008, o al 2001, o al 1987.
Quindi – sostanzialmente – la politica economica del governo Meloni consisterebbe nel fatto di scommettere al Casino con i pochissimi quattrini che un’economia in declino da 40 anni ancora ci ha lasciato in tasca, ma c’è di più, perché almeno questa roba servisse a dare un po’ di risorse finanziarie alle nostre PMI messe in ginocchio dalla crisi economica e dai tassi di interesse da usura… Macché: in realtà, anche da questo punto di vista è una gigantesca fregatura; da un lato, infatti, dei soldi che affidiamo ai fondi solo il 16% rimane in Italia, mentre oltre il 60% viene trasferito direttamente oltreoceano senza passare dal via. Dall’altro, in questo modo colpiamo direttamente la liquidità proprio delle nostre PMI che – soprattutto in questa fase, dove le banche di finanziamenti ne concedono pochini e quelli che concedono se li fanno pagare a peso d’oro – hanno visto nel tfr accantonato in azienda una fondamentale ancora di salvezza; insomma: si tolgono con la forza soldi ai lavoratori e alle aziende italiane per darli alla grande finanza d’oltreoceano. Per un governo di patrioti – bisogna ammettere – niente male, e gli effetti si vedono eccome: Frena il mercato del lavoro titolava La Repubblichina martedì scorso: “Forte aumento a luglio delle richieste di cassa integrazione e dell’utilizzo dei fondi di solidarietà da parte delle aziende”; in totale, riporta l’ultimo Osservatorio dell’INPS, le ore di cassa integrazione autorizzate a luglio sono state 36,6 milioni, segnando un + 3,71%, ma soprattutto un insostenibile + 27,9% rispetto al luglio del 2023 . A fare ancora più impressione è il dato disaggregato relativo alla sola industria, dove le richieste di ore di cassa integrazione durante i primi 6 mesi del 2024 hanno visto un aumento di un incredibile 51,3% rispetto all’anno precedente.
E – indovinate un po’ – tra i settori che soffrono di più, “incredibilmente” c’è l’automotive: “Stellantis dà il bentornato in fabbrica agli operai dello stabilimento di Pomigliano annunciando altri 5 giorni di cassa integrazione a settembre” riporta Il Fatto Quotidiano. E non è solo un problema degli operai: come ricordava venerdì scorso Maurizio Pagliassotti su Domani, il tramonto ormai è arrivato anche – ad esempio – per lo storico centro ricerche FIAT di Orbassano che a partire dagli anni ‘70 si era imposto come “uno dei cuori pulsanti della ricerca in campo automobilistico in tutto il vecchio continente”; nel tempo, ha sfornato la bellezza di oltre 3000 brevetti – dal motore turbodiesel multijet a iniezione diretta al common rail. Ancora nel 2002 impiegava oltre 1000 dipendenti super-specializzati, che poi sono diventati 770 nel 2012 e 500 nel 2021; oggi sono poco più di 150, troppo pochi per tenerlo ancora in vita. Ma FIAT a parte, la vera tragedia si sta abbattendo su scala ancora maggiore su tutto l’indotto che da FIAT dipendeva e, anche qui, paghiamo lo scotto della nostra sottomissione a Washington e della guerra che i suoi vassalli sono stati costretti a dichiarare alla Repubblica Popolare cinese: lo ha spiegato in modo sorprendentemente chiaro ed esplicito Federico Visentin, il presidente di Federmeccanica, in occasione del lungo viaggio della Meloni a Pechino a fine luglio scorso; in una breve (ma molto significativa) intervista al Corriere della Sera, Visentin spiega in maniera esemplare quello che sosteniamo continuamente da oltre un anno. Primo punto: per tenere in piedi la filiera dell’automotive italiano bisogna che vengano prodotti in Italia almeno 1 milione e mezzo di autoveicoli. Due: questi numeri non si possono sostenere producendo solo auto di alta gamma o costose; bisogna produrre utilitarie economicamente accessibili. Tre: “Gli unici in questo momento con le tecnologie adatte a produrre utilitarie elettriche a basso costo, dai 10 ai 12 mila euro, sono i cinesi”; altro che le vaccate della propaganda imperialista e guerrafondaia sulle politiche commerciali scorrette della Cina, tanto che anche l’intervistatore del Corriere deve essere rimasto un po spiazzato e chiede: “Ma allora davvero i cinesi sono più avanti sull’auto elettrica?”. “lo sono” risponde perentorio Visentin “e dovremmo avere l’umiltà di ammetterlo. Sulle batterie sono arrivati alla quinta generazione”.
Ma noi nel frattempo eravamo troppo impegnati a capire come far arrivare i nostri quattrini sui mercati finanziari d’oltreoceano dove, invece che alla quinta generazione di batterie, sono arrivate alla quindicesima di prodotti finanziari che non fanno altro che rendere più ricco l’1% e destinare alla miseria tutti gli altri. Cosa concretamente si potrebbe e si dovrebbe fare per tornare a creare ricchezza in questo paese non è un mistero: per farlo, però, ci dovremmo prima di tutto liberare dal partito unico degli zerbini di Washington e delle oligarchie finanziarie e dai loro organi di propaganda. Costruire un vero e proprio media che dia voce agli interessi del 99% è il primo indispensabile passo; aiutaci a portarlo a termine: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Federico Rampini

Meloni a Pechino cerca di approfittare del caos negli USA e in Europa per rimediare i danni fatti

Come una D’Alema qualsiasi, appena salita al potere Giorgiona la Svendipatria, per accreditarsi al padrone di Washington, ha mantenuto la promessa fatta quando aveva chiesto il via libera al suo governo di non rinnovare il memorandum per l’adesione dell’Italia alla Belt and Road Initiative. Dietro le quinte, comunque, alcuni funzionari che non sono completamente rimbambiti come i rappresentanti politici del partito unico della guerra e degli affari, hanno cercato di mantenere i rapporti con la più grande potenza economica del pianeta. Quel lavoro dietro le quinte sta alla base della lunga trasferta della Meloni a Pechino, durante la quale la Giorgiona ha provato a cospargersi un po’ di cenere sul capo per provare a rimediare il rimediabile. D’altronde, l’occasione è d’oro: la debolezza dell’asse franco-tedesco e l’impasse statunitense alla vigilia del voto delle presidenziali di novembre, potenzialmente permetterebbero all’Italia di ritagliarsi margini di manovra prima insperati. Saranno in grado i nostri analfosovranisti di approfittarne? Oppure si comporteranno come degli analfoliberali qualunque? Ne abbiamo parlato con Michelangelo Cocco, cofondatore del Centro Studi sulla Cina Contemporanea e corrispondente da Shanghai per Il Domani.