L’inquietante trama segreta che si nasconde dietro al premio dell’Atlantic Council alla Meloni
Per vincere la Grande Guerra contro il resto del mondo (o, almeno, provarci seriamente) l’imperialismo a guida USA deve necessariamente prima coronare un sogno troppo a lungo rimandato: prendere definitivamente il controllo dell’apparato produttivo della più grande potenza industriale dell’Occidente collettivo e trasformarlo nel nuovo arsenale della democrazia, la base industriale per sostenere lo sforzo bellico totale e prolungato necessario per provare a ostacolare l’avvento di un nuovo ordine globale multipolare. Insomma: dopo averla colonizzata politicamente, deve finire di colonizzare anche economicamente la Germania e trasformarla, così, nella più grande fabbrica di armi del pianeta; e, a quanto pare, hanno deciso di nominare proprio la nostra Giorgia che, come dice Musk, “è addirittura più bella dentro che fuori”, Giovanna d’Arco di questa novella crociata. Quello che infatti non tutti sanno – o magari, semplicemente, sono indotti spesso a dimenticare – è che tra le grandi economie dell’Occidente collettivo, quella tedesca è l’unica a non aver ceduto alle lusinghe dei grandi monopoli finanziari a stelle e strisce: la proprietà dei principali gruppi industriali tedeschi è ancora interamente nelle mani delle famiglie fondatrici e, in buona parte, dello Stato, in particolare attraverso la KFW, la banca interamente pubblica votata al sostegno all’industria nazionale; al mercato azionario rimangono le briciole. Se la capitalizzazione totale in borsa è uguale al PIL nel Regno Unito, una volta e mezza in Giappone e due volte negli USA, in Germania si ferma a un misero 60% e, di questo, sostanzialmente niente è in mano a BlackRock, Vanguard e la solita scia di mega-fondi statunitensi.
A non aver subito l’attrazione fatale delle bolle speculative governate dai grandi fondi internazionali, in particolare, è il cuore pulsante dell’industria tedesca: l’automotive, con aziende come BMW e Mercedes che, a fronte di fatturati annui ampiamente superiori ai 150 miliardi, hanno capitalizzazioni in borsa che superano di poco i 50; come d’altronde supera di poco i 50 anche Volkswagen, che di miliardi l’anno ne fattura invece 350, più del prodotto interno lordo del Portogallo o della Finlandia. Giusto per fare un confronto, è quasi quattro volte quanto fattura Tesla che, però, in borsa capitalizza oltre 800 miliardi (16 volte di più). Invece di generare aumenti di patrimoni finanziari fittizi spropositati, le grandi aziende tedesche creano principalmente posti di lavoro, una quantità impressionante di posti di lavoro qualificati: peccato che siano a libro paga di gruppi industriali che con l’agenda dell’imperialismo USA e delle sue oligarchie, alla fine, c’entrano il giusto, tanto da aver prosperato per anni comprando gas a basso costo dal plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino e integrandosi economicamente sempre di più col feroce regime turbocapitalista di Pechino. Ed ecco allora l’idea geniale: visto che, come funzionano adesso, i gruppi industriali tedeschi alle oligarchie finanziarie USA non gli fruttano una seganiente, distruggiamoli; facciamoli dichiarare bancarotta e poi convertiamoli alla produzione delle armi che servono a tutto l’Occidente collettivo per combattere la sua ultima grande guerra imperialista. E a darci una mano ci penseranno i fratelli d’Italia guidati da Giorgia che così, finalmente, potrà dimostrare di avere davvero a cuore quel nazionalismo occidentale di cui si è riempita la bocca lunedì mentre, dal palco dell’Atlantic Council di New York, ritirava dalle mani di Elon Musk il riconoscimento di miglior paladina del suprematismo atlantista. Ma prima di entrare nel dettaglio di come si sta sviluppando questa vera e propria guerra di Giorgia contro l’Europa per mano di Washington, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere (anche oggi) la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto (e qualcuno tra voi sicuramente non lo ha fatto), anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Elon Musk a chiedere a Washington di fare un altro colpo di Stato per difendere le sue catene d’approvvigionamento, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette, come ha denunciato Giorgia da New York, di continuare a fare parte di questo fantomatico esercito di troll stranieri e maligni impegnato a manipolare la realtà e – pensate – addirittura a diffondere l’idea dell’inevitabile declino dell’Occidente.
“Come politico, hai fondamentalmente due opzioni” ha dichiarato con enfasi la Giorgiona nazionale: “essere un leader o un follower”; o anche, semplicemente, uno zerbino. Anzi, meglio: un agente straniero (non vorrei passare per maleducato). Da oltre 60 anni, l’Atlantic Council è la mecca del suprematismo atlantista più feroce e spregiudicato, invocando cambi di regime a destra e manca e partecipando attivamente a qualcuno, come quello giudiziario contro Dilma Roussef in Brasile. Quando ancora ero una persona quasi rispettabile, ho avuto l’occasione di visitarlo un paio di volte: durante l’ultima, ho registrato una lunga intervista sul tema dell’influenza dei troll russi nelle elezioni presidenziali del 2016; non sono riuscito a utilizzarne che un piccolissimo frammento. Tutte le informazioni che mi avevano dato, a una rapidissima verifica dei fatti s’erano rivelate una gigantesca sequela di puttanate che nemmeno menti illuminate come Iacopo Jacoboni o Andrea Angrisani sarebbero riusciti a mettere in fila con cotanta nonchalance. Insomma: l’istituzione giusta per riconoscere un ambitissimo premio alla nostra premier Giorgia Meloni; d’altronde, ad essere premiato insieme a lei è stato nientepopodimeno che il premier greco Mitsotakis, il più feroce interprete delle misure lacrime e sangue dell’agenda turboliberista dell’intero vecchio continente. I successi perseguiti nel rapinare lavoratori e cittadini comuni per gonfiare le tasche delle oligarchie USA (a partire da un’immancabile legge sulla privatizzazione delle università) non gli hanno però permesso di attirare le luci della ribalta; la protagonista indiscussa di tutta la serata di gala è stata la nostra Giorgiona, che ha richiesto espressamente di ricevere il premio direttamente dalle mani di Elon facciamo tutti i golpe che vogliamo Musk, un “prezioso genio per l’epoca in cui viviamo” l’ha definito la nostra Giorgiona prima di rivolgergli un lungo sguardo languido.
Ma perché, esattamente, a New York tutti amano Giorgia? E quando dico tutti, intendo letteralmente tutti: dai trumpiani più sfegatati come Musk a, appunto, un’istituzione come l’Atlantic Council che, invece, è sempre stata schierata con il neoconservatorismo più istituzionale e vede i modi un po’ rozzi e irrispettosi del galateo di Trump come il fumo negli occhi. Il punto è che, sin dal suo insediamento, la nostra madre cristiana è stata investita da Washington di un compito preciso, che tiene insieme gli analfoliberali di Biden e gli analfosovranisti di The Donald: Giorgia deve giocare un ruolo di primo piano nel porre fine all’anomalia tedesca. Negli oltre 15 anni che ci separano dalla grande crisi finanziaria, la finanziarizzazione di tutte le economie dell’Occidente collettivo ha subìto un’accelerazione spaventosa: il risultato è, da un lato, che i mercati finanziari sono ordini di grandezza più grandi del prodotto interno lordo dei Paesi e, dall’altro, che i principali monopoli finanziari statunitensi sono gli azionisti di maggioranza di sostanzialmente tutte le principali aziende del pianeta. Negli USA, manco a dirlo, BlackRock e Vanguard sono i principali azionisti della stragrande maggioranza delle aziende dello Standard & Poor 500 e hanno stabilito una sorta di regime monopolistico universale: non c’è sostanzialmente settore dell’economia dove sia rimasta una qualche forma di competizione e di concorrenza; a spartirsi il mercato sono pochi gruppi di dimensioni gigantesche, tutti controllati dagli stessi azionisti di riferimento, che è anche la ragione principale della spinta inflattiva degli ultimi tempi che, al contrario di quanto sostiene la propaganda, ha poco o niente a che vedere con la presenza di troppa moneta in circolazione e ancora meno con fantomatici aumenti della domanda (che vedono solo i banchieri nella loro fantasia), ma – molto banalmente – col potere che questi cartelli monopolistici hanno di imporre prezzi arbitrari e quindi, letteralmente, derubare lavoratori e consumatori in genere.
Ma gli USA sono solo la punta dell’iceberg: questa è la lista delle principali aziende britanniche; al primo posto troviamo la Shell e questo è l’elenco dei principali azionisti (BlackRock e Vanguard). Al secondo posto c’è BP e questa è la lista dei principali azionisti: BlackRock e Vanguard ai quali si aggiunge, a questo giro, anche il fondo di investimento sovrano norvegese, vero e proprio braccio destro dell’imperialismo finanziario USA. Poi, ancora, cambiamo completamente settore e in terza posizione troviamo il colosso della grande distribuzione Tesco, ma la musica non cambia: prima BlackRock e poi Vanguard. E così via: dai colossi bancari come HSBC a quelli assicurativi come Aviva; dai giganti dell’industria mineraria come Rio Tinto a quelli delle telecomunicazioni come Vodafone, a quelli della farmaceutica come GlaxoSmithKline o Astrazeneca, il copione è sempre immancabilmente lo stesso. E quando non è direttamente BlackRock e Vanguard, sono altri fondi che alla fine, gira che ti rigira, sempre lì vanno a pescare, da Capital Search a State Street a Wellington: insomma: il monopolio finanziario USA. Al che uno dice e vabbeh, sei andato a pescare nel Regno Unito, cosa ti aspettavi? Tra l’altro, appunto, oltre al rapporto a doppio filo con i cugini d’oltreoceano, è pure l’economia più finanziarizzata di tutto l’Occidente. E vabbeh, e allora andiamo a vedere i cugini d’oltralpe; questa è la lista delle principali aziende e questa la composizione societaria: Total (BlackRock e Vanguard); BNP Paribas (BlackRock ); Societé Générale (BlackRock, Vanguard e, a questo giro, mettiamoci pure JP Morgan, di gran lunga la più grande banca privata al mondo, ovviamente rigorosamente made in USA); Axa (BlackRock, Vanguard e, di nuovo, il fondo norvegese). Eh… D’altronde, si sa: non ci sono più i gaullisti di una volta; in un paese che sceglie come presidente uno che si fa pagare la campagna elettorale da McKinsey che ti vuoi aspettare… E, allora, spostiamoci ancora e sbarchiamo in Giappone; e, in effetti, qui qualcosina cambia: il gruppo più grande del paese è Toyota, che non ha come principali due azionisti né Vanguard, né BlackRock (che però, insieme, sono comunque il terzo azionista e, se ci aggiungi anche JPMorgan, sono di nuovo il primo. Poi c’è Mitsubishi: anche qua BlackRock e Vanguard sono ben presenti, ma non in testa; in testa c’è una sigla esotica e sconosciuta ai più: New England Asset Management (tradotto: Warren Buffet) . Terzo gruppo: Honda; ed ecco che torna BlackRock (meno male! Mi stavo preoccupando) e idem Hitachi e Sony, e pure Panasonic.
A questo punto, allora, andiamo in Germania: ovviamente, a troneggiare è una delle mie aziende preferite al mondo, la VolksWagen che ovviamente, com’è noto, come primo azionista c’ha la Porsche e, come secondo, il governo della bassa Sassonia; vabbeh, VolksWagen è un’azienda strana, si sa, e allora andiamo oltre. BMW: anche qua, niente BlackRock; appare però Vanguard, effettivamente, col 2,2%. Un po’ poco per mettere pressione al 20% abbondante di Susanne Klatten, la donna più ricca di Germania, e il 16% e passa di Stefan Quandt: sono gli eredi di Herbert Quandt, il famigerato industriale nazista colpevole di aver sfruttato migliaia di lavoratori schiavi nelle sue fabbriche durante la guerra. Eh, ma allora lo fai apposta: proprio l’esempio più eclatante della totale impunità dei gerarchi nazisti sei andato a prendere? Va bene, continuiamo: Mercedes Benz; ah, ecco! Finalmente! Hai visto? Qui sì che ci sono BlackRock e Vanguard. E insieme, con poco meno del 9%: mica bruscolini! Ma aspettate un attimo: cosa sono quelle due sigle più sopra? Il 10,8%, quindi più dei due fondi messi assieme, è di questo Tenaciuos Prospect; e sapete cos’è? E’ una scatola vuota che fa capo a un investitore un po’ diverso da quelli visti finora: si chiama Li Shufu e indovinate un po’? E’ cinese! E’ il leggendario fondatore di Geely, il colosso dell’automotive cinese, uno dei pochissimi gruppi automobilistici a non essere controllato dallo Stato; ed è solo l’antipasto, perché guardate un po’ cosa c’è scritto sopra? Esatto: con l’11,1% delle azioni, il principale azionista di Mercedes Benz è nientepopodimeno che la Beijing State-Owned Capital Operation and Management Company. Tradotto: un fondo sovrano della Repubblica Popolare di Cina; si comincia a intuire la differenza? No? E allora andiamo avanti. Siamo al quarto gruppo: Deutsche Telekom; primo azionista, la banca pubblica tedesca KFW e, secondo, direttamente il governo federale. Ancora non è chiaro? Quinto posto (vabbeh) Uniper, che è pubblica al 99,1%; poi c’è la Bosch, che per il 92% è proprietà della Robert Bosch Stiftung, una società di beneficenza. Poi Daimler Truck, che è in gran parte di Mercedes e, per il resto, di nuovo di Li Shufu. Poi c’è la ZF Friedrichshafen, che magari non vi dirà niente, ma che in realtà ha circa 150 mila dipendenti e fattura ogni anno poco meno di 40 miliardi ed è controllata, con quasi il 94% delle azioni, da un’altra fondazione no profit, la Zeppelin Stiftung; e poi ancora la Continental, il colosso della componentistica per l’automotive e dei pneumatici, che ha altri 250 mila dipendenti e che, col 46% delle azioni, è controllata da un altro colosso della componentistica come Schaeffler che, a sua volta, è controllato dagli eredi dei fondatori. Insomma: spero che ci siamo capiti.
La struttura proprietaria del capitalismo industriale tedesco è (e rimane) una gigantesca anomalia all’interno dell’Occidente collettivo; non solo l’unica roccaforte dove il monopolio totale della grande finanza USA non ha ancora attecchito, ma dove – addirittura – al fianco del capitalismo familiare ci sono, da un lato, ampie forme di capitalismo di Stato (semmai questo termine significhi qualcosa, ma famo pe capisse) e, dall’altro, addirittura direttamente il nemico: investitori cinesi privati e, addirittura, dirette emanazioni del governo (e quindi del partito). Il tutto che va di pari passo, nell’unico paese a capitalismo avanzato dove il grosso della ricchezza si crea producendo cose e non fogli di carta e dove, almeno fino a due anni fa, la produzione industriale è comunque continuata a crescere; e che quindi ha sostanzialmente l’unico vero apparato produttivo in grado eventualmente di giocarsela con le grandi potenze industriali del Sud globale. Ovviamente, non mancano le eccezioni: i grandi gruppi elettrici E.ON e RWE sono già stati presi d’assalto da BlackRock & Company, come d’altronde anche un colosso della chimica come BASF o della farmaceutica come Bayer, ma il grosso fugge ancora da questa sorta di regola di ferro del nuovo imperialismo finanziario contemporaneo e rappresenta un ostacolo gigantesco per l’agenda statunitense e per lo stato di guerra permanente che ha bisogno di dichiarare a casa e in tutti i paesi alleati/vassalli per poter sperare di affrontare ad armi pari i giganti ribelli russo e cinese. E non solo: senza la capacità produttiva tedesca al servizio dell’agenda di guerra dell’impero, la battaglia rischia di essere impari, ma chi assicura agli USA l’obbedienza di questo capitalismo anomalo, se prima il suo braccio finanziario non riesce ad affondarci le sue grinfie? Chi assicura a Washington di avere in mano tutte le leve necessarie, al momento opportuno, per costringere eredi di imprenditori nazisti, azionisti cinesi e fondi sovrani di varia natura di smettere di produrre SUV e cuscinetti a sfera per convertirsi ai carri blindati e ai carrelli dei jet.
Manco da dire che si potrebbe ricorrere al solito ricatto sul debito sovrano: l’austerità tedesca ha sicuramente molti difetti, ma ha anche dei pregi, a partire dal fatto che il debito pubblico è tra i più bassi – se non il più basso – di tutti i paesi a capitalismo avanzato e questo rende piuttosto difficile (per non dire del tutto impossibile) ogni attacco speculativo. La guerra contro l’Europa che gli USA hanno ingaggiato sotto mentite spoglie a partire, in particolare, dal febbraio 2022, ha tra i suoi obiettivi principali probabilmente, allora, proprio imporre una trasformazione radicale di questi elementi strutturali incompatibili con i suoi piani. Mettere in difficoltà i gruppi industriali tedeschi, d’altronde, non è un’operazione particolarmente difficile; rispetto ai patrimoni stellari che si riescono ad accumulare partecipando dalla parte del banco al casino della speculazione finanziaria USA, i margini di profitto di questi colossi (che, organizzativamente, sembrano appartenere a un’era geologica fa) sono piuttosto ridotti e, quindi, basta far lievitare artificialmente il costo dell’energia tagliando le forniture più competitive che metà del lavoro è fatto; per l’altra metà, però, c’è bisogno di qualche quinta colonna che lavori ai fianchi dall’interno e la candidata perfetta per quel ruolo è, appunto, la nostra Giorgiona.
La prima partita è quella della guerra commerciale contro la Cina, che scatenerebbe ritorsioni devastanti che metterebbero in ginocchio l’automotive tedesco e tutto il suo indotto (compresi i lavoratori italiani che però, evidentemente, non rientrano in quegli italiani che dovrebbero venire prima, secondo la retorica degli analfosovranisti): ecco come si spiega la posizione intransigente dell’Italia nella partita sui dazi contro l’automotive elettrico cinese, un vero e proprio suicidio. Anzi: un doppio suicidio perché, come ha sottolineato finanche lo stesso presidente di Federmeccanica, l’indotto dell’automotive italiano si salva solo se convinciamo i cinesi a venire a investire qua e a insegnarci come si fanno le auto elettriche a prezzi concorrenziali che solo loro hanno la tecnologia e il know how per produrre. Noi, invece, uccidiamo il nostro primo cliente – e cioè l’automotive tedesco – e sputiamo in faccia alla nostra unica chance per il futuro, ma, d’altronde, bisogna vincere, e vinceremo. Mentre si contribuisce a devastare il piatto dove mangiamo, comunque, bisogna anche cominciare a prepararsi per – al momento opportuno – avere sufficiente potenza di fuoco per prendere il controllo dei grandi gruppi industriali al collasso, per essere sicuri che, alla bisogna, possano diventare la base militare industriale per la grande guerra; ed ecco che così, magicamente, arriva la scalata di UniCredit a Commerzbank, una delle banche che maggiormente sostengono direttamente il sistema produttivo e industriale tedesco: una scalata pilotata, in tutto e per tutto, dal grande capitale finanziario statunitense che usa l’Italia e il governo degli zerbini come base di lancio. Primo, perché UniCredit fa parte – appunto – di quel capitalismo globale che si è adattato al dominio della finanza USA e ha come principale azionista proprio BlackRock e, a seguire, la crème crème degli altri fondi, ma poi proprio perché, operativamente, la scalata che il governo tedesco considera a tutti gli effetti ostile è stata resa possibile dal sostegno della grande finanza a stelle e strisce.
E’ quanto rivelava lunedì scorso Bloomberg: Barclays e Bank of America hanno aiutato Orcel ad acquistare una partecipazione in Commerzbank titolava; “L’amministratore delegato di UniCredit, Andrea Orcel” specifica l’articolo “si è avvalso di Barclays e Bank of America per costruire silenziosamente una partecipazione in Commerzbank”. “Barclays ha organizzato derivati legati a Commerzbank per l’istituto di credito italiano nelle settimane prima che Berlino vendesse parte della sua quota all’inizio di questo mese. Barclays e Bank of America, poi, hanno aiutato Orcel ad espandere effettivamente la partecipazione di UniCredit in Commerzbank all’attuale livello di circa il 21%”, ma “I rappresentanti di Barclays, Bank of America e UniCredit” conclude Bloomberg “hanno rifiutato di commentare”. Nel frattempo, il governo italiano, dopo aver steso tappeti rossi ai fondi USA nel caso della rete di TIM e delle numerose svendite di Stato di questi ultimi mesi, ha intavolato una trattativa direttamente con BlackRock per la gestione di 3,3 miliardi di asset vari che, al momento, sono in pancia a SACE, il gruppo assicurativo-finanziario italiano direttamente controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, specializzato nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale. E ieri ha dato il via libera ufficiale alla richiesta di BlackRock di salire sopra al 3% di quote in Leonardo. E poi se in Germania torna di moda il nazionalismo, gli analfoliberali si indignano…
L’Italia si è totalmente rassegnata allo status di colonia e ora difendere la patria è diventato sinonimo di leccare il culo all’invasore, nella speranza che quando finiamo il servizietto ci lasci una mancia corposa; e in questo, va detto, vecchi e nuovi ex post e neofascisti c’hanno un curriculum di tutto rispetto. Ora, poi, che hanno anche imparato a fare gli occhi a cuore, se state buoni e non alzate la cresta, tra un’umiliazione e l’altra capace che qualche briciola tocca anche a voi: che, le butti via le mance dei turisti texani che arrivano sempre più numerosi a spendere i soldi che ci stanno fottendo nel Bel Paese? Contro la svendita di quel poco di dignità che ancora c’hanno lasciato, abbiamo bisogno di mandarli tutti a casa e di riprenderci il Paese (e pure l’Europa); per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alle puttanate sul nazionalismo occidentale della nostra premier ancora più bella dentro che fuori dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Antonio Tajani
Francamente,dopo aver sentito queste cose(che in parte conoscevo ed immaginavo),mi sono sentito un Marziano,nel pensare di applicare sulla Terra,una certa idea,che cerco di promuovere,…..alla luce dei fatti è un bel sogno!!!
Quale sarebbe?….Beh,da tanto tempo ho capito che il sistema “partitico” in sè,non è più all’altezza dei tempi.
Sin dal 2012 mi sono reso conto di questa evoluzione…
Già,….una “nuova politica”,….basata su rappresentanti eletti dal Popolo(lo dicono un pò tutti),ma….,e qui stà la novità,…..non con l’attuale sistema elettorale “partitico”,ma sulla base di “affinità maggioritarie”,che tengano in considerazione diversi parametri,quali:
età,studio,attività,salute,nazionalità,religione,sesso,residenza,stato civile,etc….
La mia proposta(Marziana),che come accennato sin dal 2012 stò cercando di diffondere, prevede che tutti i votanti,individuati da questi parametri,esprimendosi con “corposi questionari”,su diversi temi,che toccano,tutti gli aspetti della vita corrente(etica,morale,lavoro,svago,abitudini,sicurezza, giustizia,difesa,accoglienza,aspettative,etc.etc.),attraverso un “software on-line”(e oggi la tecnologia lo consente),vengano “accorpati”,per “affinità”,formando gruppi il più possibile omogenei,da cui, per successivi passaggi,giungere alla elezione di “rappresentanti”,come vero spaccato del “popolo”,per l’attuazione di riforme e leggi maggioritarie “ponderate” sulla base appunto di una specifica “affinità”su temi specifici.
Questa è quella che ho chiamato “Democrazia delle Affinità”,che non è certo ne destra, sinistra, centro,ma il minimo comun denominatore trasversale,delle “esigenze affini”,realizzabile mediante le decisioni di “rappresentanti” eletti con questo sistema,che si avvarranno anche di costanti “referendum” propositivi ed abrogativi “on-line”,esecutivi della volontà popolare locale e nazionale, espressa con questo sistema,su tutto.
Uno strumento quindi,per restituire alla base del popolo nella sua totalità,nella sua diversità(non come oggi, laddove i “rappresentanti”,sono legittimati da meno del 50% degli aventi diritto al voto),la possibilità concreta di eleggere “rappresentanti”,veramente “intonati”,al di fuori degli schemi partitici attuali.
Lo so,….sono un Marziano!
Cordialmente