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Tag: germania

Strategie italiane: cosa può fare il nostro paese nel conflitto globale – ft. Gabriele Guzzi

Quali strategie politiche, geopolitiche, culturali e spirituali può adottare il nostro paese per riconquistare una vera sovranità democratica? Nel contesto del nuovo conflitto tra grandi potenze, l’Italia si trova oggi impreparata da tutti i punti di vista e in questi anni si è asservita, praticamente suicidandosi, alle politiche economiche tedesche e all’imperialismo americano. Per questo è urgente chiederci chi siamo e quale ruolo potremmo avere nei nuovi scenari globali per contribuire alla pace e alla giustizia sociale. Ne abbiamo parlato con Gabriele Guzzi, economista, presidente dell’Indispensabile e già consulente economico a Palazzo Chigi.

Il ritorno degli Euromissili in Germania avvicina l’armageddon nucleare

SM-6, Tomahawk, Dark Eagle, OpFires, PrSM: la lista delle nuove sigle da imparare è corposa, ma mi sa che ci toccherà cominciare a familiarizzarci un pochino. Quelli elencati sopra, infatti, sono i nomi in codice dei nuovi missili a raggio intermedio più o meno pronti a invadere la Germania e far precipitare definitivamente il vecchio continente nel conflitto aperto contro il gigante russo; lo hanno annunciato in un brevissimo comunicato congiunto i governi tedesco e statunitense mercoledì scorso, quasi come se niente fosse: “Gli Stati Uniti” si legge “inizieranno il dispiegamento episodico delle capacità di fuoco a lungo raggio della loro task force multi-dominio in Germania nel 2026, come parte della pianificazione per lo stazionamento duraturo di queste capacità in futuro. Una volta completamente sviluppate” continua la dichiarazione “queste unità convenzionali per il fuoco a lungo raggio includeranno” appunto “SM-6, Tomahawk e armi ipersoniche in via di sviluppo, che hanno una portata significativamente più lunga rispetto agli altri sistemi d’arma lanciati da terra attualmente presenti in Europa. L’esercizio di queste capacità” conclude la dichiarazione “dimostrerà l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della NATO e il suo contributo alla deterrenza integrata europea”. Insomma: bentornati Euromissili.

Sergey Ryabkov

A 5 anni dall’uscita unilaterale degli USA dal Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF per gli amici) che nel 1987 aveva messo fine a quella che probabilmente è stata la più pericolosa corsa al riarmo dell’intera storia dell’umanità, la guerra per procura provocata dagli USA in Ucraina contro la sicurezza nazionale russa e ogni velleità sovranista del vecchio continente fornisce la scusa perfetta per trasformarci, di nuovo, nell’avamposto della guerra imperialista contro ogni tentativo di emancipazione dei popoli dalla dittatura delle oligarchie finanziarie transnazionali: “Questa” ha commentato il viceministro degli esteri russo Sergey Ryabkov “è l’ennesima prova tangibile della politica di destabilizzazione intrapresa dagli USA nell’era post Trattato INF”; “Dopo che Washington ha deliberatamente distrutto il Trattato INF” ha ribadito Ryabkov “gli americani hanno chiaramente dichiarato la loro intenzione di posizionare armi precedentemente proibite dal trattato in diverse regioni del mondo. E con il sostegno incondizionato dei loro alleati, ora passano alla fase attiva dei loro piani”. Ryabkov ha poi sottolineato come, ovviamente, “Le azioni degli Stati Uniti e dei loro satelliti che creano ulteriori minacce missilistiche alla Russia non rimarranno senza la dovuta risposta da parte nostra” e ha ricordato come Putin abbia già parlato apertamente della necessità di “riconsiderare la moratoria unilaterale della Russia sullo schieramento di missili terrestri a raggio intermedio” che impegnava la Russia, almeno formalmente, a continuare a rispettare i parametri del trattato: “Le agenzie russe” ha continuato Ryabkov, sono state costrette ora a avviare “il lavoro sullo sviluppo di contromisure compensative, e continueranno questo lavoro in modo sistematico”; “La dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Germania” ha insisstito Ryabkov “avrà conseguenze distruttive per la sicurezza regionale e la stabilità strategica”, “ma purtroppo” ha concluso, era tutto ampiamente “previsto”. Per chi ancora si illude che il sempre più probabile cambio di guardia alla Casa Bianca il prossimo novembre potrebbe rappresentare una svolta nell’escalation bellicista di Washington e dei suoi vassalli, è bene ricordare che il ritiro unilaterale degli USA dal Trattato INF è stata proprio una scelta della prima amministrazione Trump; l’esigenza strutturale delle oligarchie USA di dichiarare guerra a chiunque anche solo accenni ad avanzare critiche alla dittatura globale del dollaro, delle differenze di narrazione utilizzate dalle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari, molto banalmente, se ne sbatte completamente i coglioni e continua a procedere con il pilota automatico qualunque sia il pupazzo temporaneamente elevato al ruolo di commander in chief.
Il ritorno ai missili a medio-lungo raggio precedentemente proibiti dal trattato stracciato da The Donald ha già un precedente: nell’aprile scorso, infatti, per la prima volta l’esercito statunitense aveva inviato all’estero elementi del suo nuovissimo sistema missilistico terrestre noto col nome di Typhon, in grado – appunto – di lanciare sia missili da crociera Tomahawk che missili multiuso SM-6; la destinazione, manco a dirlo, era stata The next Ukraine, la prossima Ucraina dell’Asia-Pacifico, la non tanto ex colonia USA delle Filippine. “L’arrivo di Typhoncommentava il 15 aprile The War Zone “invia un segnale forte a Pechino e in tutta la regione”; la corsa a riempire nuovamente il globo di sistemi d’attacco a medio e lungo raggio in grado di minacciare gli obiettivi sensibili delle grandi potenze ribelli del pianeta è talmente strategica che ha imposto una riorganizzazione complessiva delle forze armate USA, sintetizzata in un libro bianco pubblicato lo scorso 28 febbraio: al primo punto del piano c’è il completamento della creazione di 5 task force multi-dominio che dovranno includere unità di difesa aerea e missilistica nonché, appunto, “unità dotate di nuovi sistemi missilistici a lungo raggio, compresi quelli ipersonici”. “Per quasi vent’anni” sottolinea il libro bianco “la struttura delle forze dell’Esercito ha rispecchiato l’attenzione alle operazioni di contro-insurrezione e antiterrorismo che hanno dominato dopo gli attacchi dell’11 settembre… Ma alla luce del cambiamento del contesto di sicurezza e dell’evoluzione del carattere della guerra, l’Esercito si sta concentrando nuovamente sulla conduzione di operazioni di combattimento su larga scala contro potenze militari tecnologicamente avanzate”: il sistema Typhon inviato nelle Filippine è stato esattamente assegnato alla prima di queste task force; l’arrivo anche nel cuore del vecchio continente era, ovviamente, esclusivamente questione di tempo. Nel novembre del 2021 infatti, ben prima della fantomatica invasione dell’Ucraina da parte del plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino, l’esercito americano in Germania aveva ufficialmente riavviato il famigerato 56esimo comando di artiglieria; come ricostruisce The War Zone, si tratta dell’unità che, tra il 1963 e il 1991, aveva il mandato di comandare battaglioni armati con missili balistici con testate nucleari Pershing e Pershing II: L’esercito rilancia l’unità missilistica nucleare della Guerra Fredda per schierare nuove armi a lungo raggio in Europa, titolava allora la testata.

La base del comando ha il suo centro operativo a Mainz-Kastel, il castello di Magonza, dove appunto sta prendendo forma anche la seconda divisione multi-dominio dell’esercito e sin da subito è stato chiaro che, oltre ai sistemi Typhon, l’obiettivo era equipaggiarli con il Precision Strike Missile, l’ultimo arrivato della famiglia dei missili balistici e, soprattutto, con il Dark Eagle, l’arma ipersonica a lungo raggio che l’esercito sta sviluppando come parte di un programma congiunto con la marina americana; secondo The War Zone “La Dark Eagle dovrebbe essere in grado di colpire obiettivi ad almeno 1.725 miglia di distanza” che percorrerebbe “lungo una traiettoria di volo atmosferica, ad una velocità fino a Mach 17”. E la Germania è solo la punta dell’iceberg: tra i vari eventi secondari tenutesi durante l’ultimo Summit NATO, particolare rilevanza – anche se non da parte dei media mainstream – ha avuto il quadrilaterale tra Francia, Germania, Italia e Polonia durante il quale è stata firmata una lettera di intenti per lo sviluppo dell’ELSA, lo European Long Range Strike Approach, la risposta tutta europea al ritorno – appunto – al dispiegamento di missili a lungo raggio che mira a “sviluppare, produrre e fornire capacità nell’area degli attacchi a lungo raggio, che sono estremamente necessarie per scoraggiare e difendere il nostro continente”, come recita il thread su X pubblicato per l’occasione dall’ambasciata francese negli USA. Insomma: finalmente l’era post Trattato INF, inaugurata dal compagno Trump ben prima che la guerra per procura in Ucraina deflagrasse definitivamente, si sta concretizzando in una corsa al riarmo missilistico generalizzato nel vecchio continente e ora, come sottolinea The War Zone, rimane solo da attendere “di vedere esattamente che tipo di risposta arriverà dalla Russia”. A lanciare l’allarme, sempre interrogato da The War Zone, ci pensa Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project presso il think tank della FAS, la federazione degli scienziati americani, che sottolinea come “è inevitabile che la Russia reagisca con annunci sui propri missili a lungo raggio, compresi missili potenzialmente balistici”; l’idea, infatti, è che la reazione russa non preveda solo l’installazione di nuovi sistemi d’arma in grado di raggiungere i punti sensibili di tutto il vecchio continente, ma anche direttamente “obiettivi simili negli Stati Uniti” e “in questo caso, l’arma preferita sarebbero probabilmente i missili balistici intercontinentali con testate nucleari, potenzialmente multiple”: come sottolinea sul suo profilo X l’analista militare filo-atlantista Pavel Podvig “Se vi piacevano gli SS-20, amerete gli RS-26”.
Gli SS-20, appunto, sono i missili balistici sovietici a raggio intermedio che rappresentavano il cuore della deterrenza nucleare durante la Guerra Fredda, prima dell’entrata in vigore del Trattato INF che aveva acceso una luce di speranza decretandone la distruzione; l’RS-26, invece, è sostanzialmente il suo erede diretto: come ricorda sempre The War Zone “Il recente status dell’RS-26 è piuttosto poco chiaro, con rapporti risalenti al 2018 secondo i quali il programma sarebbe stato sospeso a favore di altre armi strategiche, comprese quelle ipersoniche”, ma “i recenti sviluppi potrebbero portare a un ripensamento”. “Un’arma del genere” conclude The War Zone “reintrodurrebbe nel teatro europeo una dinamica ben nota, con un missile balistico russo con capacità nucleare, la cui gittata è ottimizzata per colpire le capitali dell’Europa occidentale e obiettivi militari chiave. In questo modo, l’RS-26 potrebbe diventare un analogo dell’SS-20 e potrebbe avere lo stesso impatto sulla situazione di sicurezza strategica del continente”. E se questo bel quadretto non vi basta, eccovi la ciliegina: Robert C. O’Brien è stato uno dei più ascoltati consiglieri per la sicurezza nazionale della seconda parte dell’amministrazione Trump e tra gli architetti del ritiro unilaterale dal Trattato INF e dalle pagine di Foreign Affairs fa una proposta inquietante; “Si vis pacem, para bellum” – se vuoi la pace, preparati alla guerra – rilancia nell’incipit dell’articolo e, per prepararsi alla guerra, suggerisce che “Gli Stati Uniti devono mantenere la superiorità tecnica e numerica rispetto agli arsenali nucleari cinesi e russi combinati” e “per fare ciò, Washington deve testare l’affidabilità e la sicurezza delle nuove armi nucleari nel mondo reale per la prima volta dal 1992, non solo utilizzando modelli computerizzati”. “Un’idea terribile” ha commentato sul New York Times Ernest Moniz, che da segretario per l’energia durante l’amministrazione Obama aveva l’incarico di supervisionare l’arsenale nucleare a stelle e strisce: “Nuovi test ci renderebbero meno sicuri” avrebbe affermato, perché “Non possono essere separati dalle ripercussioni globali”; “Una detonazione statunitense” ricorda il Times “violerebbe il Trattato sul divieto totale degli esperimenti nucleari, a lungo considerato una delle misure di controllo degli armamenti di maggior successo. Firmato dalle potenze atomiche del mondo nel 1996, mirava a frenare una costosa corsa agli armamenti che era andata fuori controllo”.
Negli ultimi mesi mi sono scontrato spesso con persone che sostenevano che la certezza della mutua distruzione in caso di escalation nucleare continuava ad essere un deterrente sufficientemente potente da tenerci al sicuro; sarò catastrofista, ma mi sembra una gigantesca puttanata, il classico bias che ci impedisce di ragionare razionalmente su scenari eccessivamente catastrofici. Al contrario, a me sembra palese che, giorno dopo giorno, la necessità dell’impero fondato sul dollaro e sullo schema Ponzi della finanza speculativa di arrestare la transizione a un nuovo ordine multipolare renda verosimili anche gli scenari più catastrofici; se volete approfondire le ragioni profonde che ci hanno portato a questa lettura della fase che stiamo attraversando, abbiamo provato a ricostruirle in questo breve pamphlet che riassume oltre due anni del nostro sforzo quotidiano per orientarci tra – come dice sempre Xi Jinping – “trasformazioni che non vedevamo da 100 anni”. Secondo la nostra analisi, in realtà, l’unico modo per mettere al sicuro la sopravvivenza della nostra specie è cacciare a pedate (una volta per tutte) dai posti di comando tutti i fedeli servitori del partito unico della guerra e degli affari e, per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un vero e proprio media che smonti la retorica suprematista e guerrafondaia delle oligarchie e dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Daniele Capezzone

Fardelli d’Italia (ep. 19) – Caos in Europa

Nell’odierna puntata di Fardelli d’Italia parliamo di elezioni europee, astensione, venti di destra in Germania e Francia nonché della legge sull’autonomia differenziata.

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Cataclisma europee: ora sciogliamo Ue e NATO – ft. Pierluigi Fagan

Torna ospite ad Ottolina Tv Pierluigi Fagan per darci un commento a freddo sulle elezioni europee di ieri. Pierluigi parla di un cataclisma, non percepito in Italia per via del nichilismo e del pressapochismo dell’informazione nostrana. Dietro le tendenze a dominare la paura di cambiare svetta il rovesciamento elettorale francese che ridimensiona drammaticamente la figura di Macron, le dimissioni del premier belga e il successo dell’estrema destra in Austria, Germania e Italia. Il vuoto critico viene dunque occupato dall’estrema destra fascistoide che intercetta il voto di protesta e euroscettico, traghettandoci in un nuovo mondo. Buona visione!

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Una nuova strategia per l’Italia – Passo dopo passo, come riprenderci la nostra sovranità

Bellissima intervista con l’analista Mimmo Porcaro, ex eurodeputato europeo e grande conoscitore delle dinamiche strategiche nazionali. Porcaro rifiuta l’idea paventata anche su Limes che l’Italia debba rinserrare ancora di più i rapporti con gli USA in funzione anti francese e anti tedesca per ritrovare una propria profondità strategica nel Mediterraneo. La proposta di Porcaro è opposta: una rivoluzione europea che porti ad un’alleanza forte tra gli Stati occidentali. Solo così il nostro paese potrà giocarsi le sue carte strategiche nel nuovo mondo multipolare e riottenere, passo dopo passo, la propria indipendenza e sovranità.

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Perché l’Italia è fallita?

Avete mai realizzato quanto siete poveri? Ecco: ve lo faccio vedere.

In questo grafico, la linea rossa rappresenta il rapporto tra il reddito pro capite degli italiani e quello dei francesi a parità di potere d’acquisto: ancora a inizio anni 2000 eravamo messi meglio noi di loro; da lì in poi è stata una discesa continua. Ancora peggio va il confronto coi tedeschi, che è la linea verdognola: a inizio anni 2000 eravamo allo stesso livello, dopodiché s’è aperta una voragine; e se calcolate che francesi e tedeschi negli ultimi 20 anni se la sono passata tutt’altro che bene, ecco che magari realizzate come – nonostante avete ancora qualche spicciolo per una pizzata con gli amici o per un volo low cost nel weekend per andare a farvi spennare da qualche affittacamere abusivo su Airbnb in una capitale europea a caso – in realtà non siete mai stati così morti di fame come oggi.
D’altronde, non poteva essere altrimenti: in quest’altro grafico è rappresentato l’andamento dei soldi che, in media, prendete se avete la fortuna di aver trovato un lavoro.

La Germania è la linea verde: fatto 100 quello che guadagnavano nel 1960, nel 1990 erano saliti a quota 220; oggi sono a quota 280. I francesi, e cioè la linea rossa, sono passati dai 100 del 1960 ai 250 nel 1990, agli oltre 300 di oggi. Gli italiani, dai 100 del 1960, nel 1990 erano arrivati a quota 260: in 30 anni di quel terribile inferno che era la corrotta prima repubblica, ce la siamo passata meglio di tutti gli altri; oggi siamo sotto quota 250. le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista e di quel simbolo di pace e progresso che sono l’Unione europea e l’euro, per noi – unici nel vecchio continente – hanno significato sempre e solo impoverimento progressivo.
Forse da quest’altra prospettiva vi risulta ancora più chiaro:

In un quadro piuttosto deprimente per tutta la vecchia Europa nel suo complesso, l’Italia è l’unico paese – e, ripeto, l’unico – dove il potere d’acquisto dei salari, nell’arco di 30 anni, è diminuito; non so se è chiaro il concetto: nel 1990 non c’erano ancora non dico i cellulari, ma manco internet. Automazione, rivoluzione digitale, supply chain, just in time – e per comprarti una bottiglietta d’acqua o un tozzo di pane devi lavorare più di prima; per la propaganda analfoliberale è tutta colpa nostra, che siamo choosy, non conosciamo più il valore del sacrificio e siamo stati abituati a vivere al di sopra delle nostre possibilità. Fortuna che al mondo, oltre agli analfoliberali che ripetono a pappagallo le vaccate degli oligarchi che gli danno lo stipendio, c’è anche chi studia, come ad esempio il buon Philip Heimberger, giovane e brillante economista dell’Istituto per gli Studi Economici Internazionali di Vienna, che s’è posto una semplice domanda: chi e cosa hanno fatto fallire l’Italia? Ma prima di addentrarsi nella sua risposta, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro gli algoritmi e, se ancora non l’avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri vari canali social e di attivare le notifiche; a voi costa 10 secondi di tempo, ma per noi significa molto e ci aiuta a portare avanti la nostra battaglia contro la propaganda analfoliberale e al fianco del 99%.
Tutti i dati macroeconomici confermano che il declino economico dell’Italia, negli ultimi decenni, è stato costante e inesorabile: secondo la narrazione della propaganda neoliberista, dipende dal fatto che abbiamo fatto troppe poche riforme e troppo lentamente, ma secondo l’economista Philipp Heimberger, molto banalmente, è una fake news; Heimberger ricorda come, ancora negli anni ‘80, “La crescita della produttività del lavoro, misurata come PIL prodotto per singola ora lavorata, in Italia era ancora tra le più alte del mondo” come si vede chiaramente da questo grafico.

L’Italia è la linea celeste, la Germania quella verde e fino al 1989 tenevamo abbondantemente il passo; poi ci siamo bloccati per un paio di anni abbondanti. Siamo ricominciati a crescere nei 4 anni successivi e poi, dal 1995, stop. Kaput. Morte cerebrale. Rivoluzione digitale, automazione, logistica integrata, catene del valore complesse: in 30 anni il mondo è stato rigirato come un calzino, ma noi niente; per produrre un euro di PIL abbiamo bisogno dello stesso tempo e della stessa quantità di lavoro di 30 anni fa. Com’è possibile?
Heimberger, giustamente, la prende larga e, giustamente, parte dalla madre di tutte le scuse: il debito pubblico italiano; Heimberger ricorda come l’Italia abbia un debito complessivo che, rispetto alle dimensioni complessive della sua economia, è assolutamente in linea con gli altri paesi dell’eurozona, solo che è molto più spostato sulla parte pubblica del debito piuttosto che sul debito privato – e questo alla propaganda neoliberale e ai sacerdoti dei dogmi mistici dell’economia mainstream non piace. Secondo Heimberger, che tutta questa fobia del rapporto debito pubblico/PIL abbia qualche fondamento scientifico è molto discutibile: “Il rapporto debito pubblico/PIL” insiste “può essere visto come una metrica potenzialmente fuorviante per valutare la reale sostenibilità fiscale di un paese”; Heimberger, poi, ricorda come questo rapporto ha cominciato a divergere in modo consistente da quanto registrato in Francia, Germania e altri paesi dell’Eurozona a partire dal 1980, quando eravamo ancora a quota 54%, per poi raggiungere il tetto del 100% nell’arco di poco più di 10 anni. La causa principale, sottolinea, è “Il divorzio tra la Banca Centrale e il ministero delle finanze”: è la tristemente nota indipendenza della Banca Centrale che, però, in realtà significa indipendenza dalla politica e dalle scelte democratiche, ma dipendenza al cubo dalle scelte antidemocratiche del cosiddetto mercato e che, in realtà, si riduce ai monopoli finanziari privati detenuti da un manipolo di oligarchi.
E’ il primo capitolo di quella che possiamo definire la shock therapy con caratteristiche italiane. Fino ad allora, infatti, i titoli del debito che venivano emessi dallo Stato per finanziarsi, quando non trovavano acquirenti privati perché i tassi di interesse non erano sufficientemente attrattivi, venivano acquistati – appunto – dalla Banca Centrale, che aveva il potere di stampare moneta; questo permetteva di mantenere i tassi di interesse bassi perché, appunto, non si era costretti a farli lievitare per convincere i privati a comprare i nostri titoli del tesoro. E come unica conseguenza negativa aveva che, stampando moneta ogni qualvolta serviva comprarsi nuovi titoli che non avevano trovato acquirenti sul mercato, si indeboliva un po’ la nostra moneta rispetto agli altri paesi, cosa che – di per se – entro certi limiti tanto negativa non è, anzi: perché, ovviamente, rende le tue merci più competitive sui mercati internazionali e, quindi, rafforza il tuo export; certo ovviamente, di pari passo, rende anche più costoso importare dall’estero merci e materie prime che non hai in casa, ma fino a che la bilancia dei pagamenti – alla fine – rimane sostanzialmente equilibrata, grosse conseguenze negative non ce ne sono, che è proprio il caso dell’Italia dove, dal 1970 al 1989, si è registrato in media un piccolissimo deficit nella bilancia commerciale pari ad appena lo 0,2%.
Quando invece si impone all’Italia la shock therapy della privatizzazione della Banca Centrale, da lì in poi i titoli emessi dallo Stato devono – appunto – essere comprati dal mercato e, cioè, dagli oligarchi e dagli speculatori che, per essere convinti, vogliono essere pagati bene: ed ecco, così, che i tassi di interesse che lo Stato è costretto a riconoscere magicamente schizzano verso l’alto, fino a raggiungere la cifra astronomica del 20% a inizio anni ‘80; un costo stratosferico che – a meno che tu non cresca del 10% l’anno e, nel frattempo, tagli col machete la spesa pubblica radendo al suolo totalmente il welfare – non può che tradursi automaticamente in un’esplosione del rapporto tra debito pubblico e PIL che infatti, appunto, raddoppierà nell’arco di una decina d’anni. Ed ecco, così, che quando poi è arrivata la seconda tappa della shock therapy con caratteristiche italiane – e, cioè, abbiamo sottoscritto quella vera e propria truffa che è il trattato di Maastricht con i suoi parametri deliranti (anche se, grazie all’adozione dell’euro, i tassi di interesse sono andati piano piano diminuendo) – il debito era talmente alto che continuava a drenare una fetta gigantesca di spesa pubblica; e quindi, per tenere fede ai vincoli di bilancio deliranti imposti proprio da Maastricht, siamo stati costretti a tagliare con l’accetta tutte le altre spese, che gli sciroccati analfoliberali chiamavano sprechi e, per carità, spesso e volentieri lo erano anche, ma che messi tutti insieme, in realtà, costituivano la domanda complessiva che permetteva non solo all’economia nel suo complesso di crescere, ma anche di continuare a fare gli investimenti necessari perché, nel frattempo, crescesse anche la produttività.
Da allora, l’Italia è stata di gran lunga il paese più virtuoso dell’eurozona, dove per virtuoso – appunto – si intende un paese dove quello che lo Stato toglie all’economia in forma di tasse è superiore a quello che restituisce in forma di spese: il famoso avanzo primario che, come sottolinea Heimberger, nessuno ha perseguito con più fondamentalismo religioso di noi, come si vede da questo grafico.

Il bello è che deprimendo scientificamente la crescita economica grazie a questa forma di ultra austerità, alla fine il rapporto debito/PIL ovviamente non ha fatto altro che peggiorare – com’era assolutamente inevitabile, a meno di inspiegabili miracoli sui quali, però, forse sarebbe prudente non fondare la politica economica di una nazione. Il punto, molto semplicemente, è che il rapporto debito/PIL – appunto – è un rapporto: e se il numeratore cresce più rapidamente del denominatore, quel rapporto, ovviamente, peggiora; cosa che era ampiamente prevedibile, perché se scientificamente fai di tutto per deprimere l’economia, il PIL o non cresce o cresce molto poco, mentre il numeratore (e, cioè, il debito) anche se spendi meno di quello che incassi, se a quel poco che spendi ci aggiungi gli interessi che devi pagare per il debito che hai accumulato grazie alla prima geniale riforma della tua genialissima shock therapy, ecco che la frittata è fatta.
Ma anche di fronte a questa evidenza, gli analfoliberali comunque non si rassegnano: la tesi è che questi vincoli esterni sarebbero dovuti servire a imporre a una politica clientelare recalcitrante l’obbligo di introdurre riforme strutturali massicce (in particolare per liberalizzare il mercato del lavoro) e che se ne avessimo approfittato per fare queste riforme – quindi per portare a termine la shock therapy da tutti i punti di vista – a quest’ora saremmo una specie di tigre del Mediterraneo; se invece, inspiegabilmente, siamo in declino è solo perché siamo stati troppo buonisti e non abbiamo avuto la forza di fare scelte abbastanza coraggiose. “Secondo questa tesi” continua Heimberger “la protezione dell’occupazione e la regolamentazione del mercato dei prodotti erano troppo rigide, il welfare troppo generoso e i sindacati troppo forti”; “Tuttavia” sottolinea però Heimberger “diversi studi recenti hanno sottolineato che la teoria della mancanza di riforme è smentita dai fatti”: “Nel complesso, infatti” continua Heimberger “l’Italia ha seguito le raccomandazioni sulle riforme strutturali promosse da istituzioni come la Commissione europea e l’OCSE molto più rigorosamente di quanto non abbiano fatto ad esempio la stessa Francia e la Germania”.
Sul versante delle riforme del mercato del lavoro, ad esempio, “Negli anni ‘90 l’indice di protezione per i contratti a tempo indeterminato era leggermente più alto di quelli registrati in Francia e Germania, ma nel 2019 il rapporto si era invertito”.

Ancora peggio per i contratti a tempo determinato che, nel frattempo, sono aumentati a dismisura, dove – come dimostra questo grafico dove l’Italia è la linea celeste (fig. b) – fino a fine anni ‘90 eravamo il paese con le maggiori tutele e, invece, siamo diventati quelli messi peggio, Germania a parte, almeno fino al 2018 quando, col decreto dignità, l’unico governo non dichiaratamente ferocemente antipopolare degli ultimi 40 anni ha invertito un po’ questo trend catastrofico. A contribuire a questo feroce attacco coordinato ai diritti dei lavoratori, ricorda Heimberger, ci si sono messi prima la fine dell’indicizzazione dei salari all’inflazione e poi le liberalizzazioni selvagge in nome di quella che lui definisce la flex-insecurity: “Il lavoro atipico è letteralmente esploso, e chi aveva un lavoro precario non era nemmeno coperto da un’assicurazione contro la disoccupazione, aveva bassissimi contributi previdenziali e né malattia né congedi retribuiti”; “In teoria” sottolinea Heimberger “la deregulation del mercato del lavoro avrebbe dovuto aumentare la competitività delle aziende italiane riducendone i costi, e garantendo così la conquista di quote di mercato per le sue esportazioni”. In realtà, però, invece “Il basso costo del lavoro ha ridotto l’incentivo per le aziende di fare investimenti” e senza investimenti privati ti puoi scordare l’aumento della produttività. E senza aumento della produttività ti puoi scordare pure la crescita e, soprattutto, l’aumento dei salari: “Pertanto” conclude Heimberger “si può sostenere che le riforme che miravano a liberalizzare il mercato del lavoro hanno fatto più male che bene alla crescita della produttività dell’Italia”. Un bel contributo al declino poi, ovviamente – continua Heimberger – lo hanno dato le privatizzazioni che sono state viste come “una scorciatoia per rientrare nei vincoli introdotti da Maastricht”. “Queste privatizzazioni” sottolinea Heimberger “hanno ridotto il numero di grandi imprese nei settori maturi dell’economia e hanno contribuito ad un calo degli investimenti, dal momento che i nuovi proprietari privati non erano in grado o non erano disposti a mantenere il livello di investimenti delle imprese precedentemente di proprietà statale”: insomma, ribadisce Heimberger, “La narrativa della mancanza di riforme che domina il discorso pubblico sull’Italia non è coerente con i dati rilevanti. I governi italiani in realtà hanno intrapreso importanti riforme strutturali a partire dagli anni ’90, poiché hanno deregolamentato i mercati del lavoro, perseguito le privatizzazioni e attuato riforme pensionistiche”.

Giuseppe Conte

Ma contrariamente alle leggende metropolitane degli analfoliberali tutto questo non ha fatto che aggravare i problemi, invece di risolverli, ma come in tutte le dimostrazioni scientifiche, oltre a descrivere tutto quello che è andato storto applicando un modello, per chiudere il cerchio serve anche la controprova che adottandone una nuovo, che tiene conto delle contraddizioni di quello precedente, si ottengono risultati diversi; e indovinate un po’? Questa controprova oggi c’è e sono i risultati delle iniziative messe sul tavolo dagli unici governi che, negli ultimi 40 anni, non hanno aderito religiosamente ai dogmi mistici della truffa austera e neoliberale: sono i due governi guidati da Giuseppe Conte che, al netto di tutte le criticità possibili immaginabili, hanno – appunto – il merito innegabile non solo di aver testato l’applicazione – per quanto contraddittoria e completamente insufficiente – di un paradigma diverso, ma anche di aver dimostrato, numeri alla mano, che si può fare e che, seppur con millemila limiti, funziona. Diciamo, per lo meno, che si è trattato davvero di fare per arrestare il declino, mentre gli analfoliberali continuavano a dispensare ricette utili solo ad accelerarlo, cosa che hanno immediatamente fatto appena sono tornai ai posti di comando.
Le 3 iniziative in questione sono appunto il reddito di cittadinanza, il decreto dignità e il superbonus: il reddito di cittadinanza, oltre ad essere uno strumento concreto per combattere le sacche di povertà più estreme, è uno strumento piuttosto efficace di politica economica perché, appunto, fa crescere la domanda aggregata e, quindi, stimola la crescita; il decreto dignità impone alle aziende di tornare a investire un minimo per aumentare la produttività, perché ostacola l’ipersfruttamento fondato sulla flex-insecurity e il superbonus che prima di venire completamente distorto e affossato era un modo per creare una moneta fiscale parallela che, in sostanza, permetteva di immettere nuova liquidità nell’economia senza dover aspettare di uscire dall’euro, dall’Unione europea e da tutti i vincoli demenziali che abbiamo sottoscritto e implementato on steroids negli ultimi 30 e passa anni. Al netto di tutte le critiche, queste tre misure sono state le prime tre misure adottate, da 40 anni a questa parte, che uscivano un po’ dal paradigma dell’austerity creato apposta per affossare la nostra economia e favorire la lotta di classe dall’alto contro il basso, e indovinate un po’? Nel loro piccolo, a differenza delle riforme strutturali e dei vincoli esterni, hanno funzionato: non solo perché, per la prima volta, hanno permesso all’Italia di crescere di più dei paesi del nord Europa, ma anche perché, in virtù di questa crescita – come volevasi dimostrare – per la prima volta hanno in realtà permesso di abbattere il rapporto debito/PIL.
Insomma: che cosa fare concretamente domattina perlomeno per arrestare il declino, in realtà, lo sapremmo benissimo; per carità, non è mica il sol dell’avvenire, ma manco il buco nero in cui ci hanno prontamente ricacciato i governi successivi e che ora non potrà che peggiorare ulteriormente con la fine della sospensione del patto di stabilità. Il punto, semmai, è che anche contro quei pochi, timidissimi accenni di un modo diverso di governare l’economia del paese, il partito unico della guerra e degli affari si è subito ricompattato come un sol uomo e, alla fine, il modo per mettere fine all’unica esperienza di governo un minimino democratico e non diretta emanazione delle oligarchie l’hanno trovato subito; figuriamoci il livello di organizzazione e di cazzimma che ci serve se minimamente abbiamo intenzione di andare un po’ oltre questi accenni di prove generali…
Per questo, come minimo, intanto ci serve un vero e proprio media che, invece che alle vaccate della propaganda mistica delle oligarchie neoliberiste, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Carlo Cottarelli

Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai
e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.

Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!

Scholz il cinese: perché Scholz è andato a “ballare in Cina”?

Cina e Germania, due potenze della manifattura mondiale, si sono incontrate questa settimana, con la visita del cancelliere tedesco in Cina. Da questa visita dipende la relazione Cina ed Europa, evidentemente, e Scholz si è portato dietro la carovana di diplomatici e, soprattutto, di imprenditori, che sono l’interfaccia dei rapporti tra i due paesi. Cosa è accaduto?

Bimbe di Bandera e coloni suprematisti impediscono a Rimbambiden di preparare la guerra alla Cina

Prima di passare alle cose serie che, purtroppo, anche oggi non mancano, un po’ di cabaret mattutino. Mirko Campochiari, l’analista fai da te più amato dalle bimbe di Bandera, alla fine ha deciso di farlo davvero; fino ad ora, infatti, l’aveva detto solo alla mamma (e, cioè, a Youtube) due volte: prima attaccandosi al copyright e facendo cancellare il video e poi, una volta che ho ripubblicato il video levando i 10 secondi ai quali il difensore del mondo libero s’era attaccato per incentivare il dibattito pubblico e la libera circolazione delle idee attraverso la censura, segnalandoci una seconda volta per violazione della privacy. Ora Mirko, però, ha deciso che lo dirà anche all’avvocato: “Quando ho smontato le bufale di Lilin” chiede il bomber delle mappe alla sua fanbase di bimbiminkia brufolosi su X, “lo ho fatto mettendo la sua faccia photoshoppata in copertina per dileggiarlo, o stavo sul merito? Si attacca la tesi, non il relatore. Il diritto di critica (cioè quello che lui ha cercato di annullare chiamando due volte la mamma) non consente di ledere la dignità altrui”; quella, diciamo, è una prerogativa che Parabellum vuole tenersi in esclusiva tutta per se. “Ottolina” conclude “ne risponderà in altre sedi”; gli avrà fatto un corso di formazione David Puente? In soldoni, nel mondo libero che Parabellum vuole difendere fino all’ultimo ucraino, i meme sono fuorilegge: caro Mirko, non vorrei scoraggiarti e tarparti troppo le ali, ma mentre giocavi ai soldatini, nel mio piccolissimo – in 25 anni da giornalista – ho affrontato una quantità spropositata di cause contro multinazionali gigantesche che mi chiedevano decine di milioni di risarcimento. Mai dire mai, ma non ne ho persa nemmeno mezza; forse faresti meglio a impiegare il tuo tempo, invece che a fare segnalazioni e a chiamare l’avvocato, a studiare per colmare qualche piccolissima incongruenza che, qua e là, sembra emergere dalla tua narrazione. Volendo ti possiamo anche girare qualche fonte autorevole in amicizia. E, con questo, terminiamo l’angolo del dissing e torniamo (purtroppo) a occuparci di cose serie.
E’ bello essere re diceva Mel Brooks ne La pazza storia del mondo; essere presidente di un impero in inesorabile declino, invece, un po’ meno: lo chiameranno pure Sleepy Joe, ma il povero Rimbambiden, in realtà, tempo per dormire mi sa che ultimamente ce n’ha pochino. Dopo oltre due anni di guerra per procura in Ucraina, non solo ha reso il suo nemico più forte e determinato che mai, ma ancora deve stare dietro a quei parolai degli europei che, a chiacchiere, si riarmano fino ai denti e rovesciano Putin, ma – nei fatti – per recuperare qualche munizione sono costretti a fare la colletta e fare il tour dei più malfamati bazaar di Istanbul e di Pretoria; risultato: come titolava ancora ieri BloombergGli attacchi russi all’Ucraina alimentano la paura che l’esercito sia vicino al punto di rottura”. Il fronte del Pacifico, poi, è un vero e proprio rompicapo; dopo 40 anni di finanziarizzazione, gli USA si sono accorti che, per contenere l’inarrestabile ascesa cinese, gli manca una deterrenza credibile: come fai a minacciare una potenza che ha una base industriale che è tre volte più grande ed efficiente della tua? L’unica possibilità è trasformare definitivamente gli alleati di tutta l’area – che, tra base industriale e posizione geografica, hanno tutto quello di cui hai disperatamente bisogno – nemmeno semplicemente in vassalli, ma proprio direttamente in una sorta di tua emanazione diretta; ed ecco, così, che parte il tour de force: martedì, infatti, è sbarcato a Washington il premier giapponese Fumio Kishida e, per quanto si tratti di un fedele servitore di Washington privo di qualsiasi personalità, è comunque stato un gran bell’impegno.

Fumio Kishida

Il Giappone è, in assoluto, il più importante degli alleati per la guerra contro la Cina visto che, al contrario degli USA, ha ancora un’imponente base manifatturiera indispensabile anche solo per pensare di poter contrastare la strapotenza cinese, soprattutto in termini di produzione navale; il Giappone, però, da decenni è anche probabilmente in assoluto l’alleato che gli USA hanno bistrattato di più, radendolo al suolo con l’atomica prima (giusto per capire chi comandava) e imponendogli, poi, oramai quasi 40 anni di suicidio economico che, in confronto, Gentiloni e la Von Der Leyen sono dei difensori degli interessi dei loro cittadini. E ultimamente, dopo aver ridotto lo yen a carta straccia, per fare un favore alle oligarchie statunitensi hanno anche impedito senza motivo alla Nippon Steel di concludere l’acquisizione di US Steel, senza manco chiedere scusa.
Ora, per i leader del partito liberale poco male, che tanto sono vassalli devoti che mai si azzarderebbero a chiedere qualcosa in cambio; per i giapponesi comuni, però, un po’ meno, che – in fondo in fondo – un po’ nazionalisti, comunque, rimangono. Per fare finta di avere una qualche forma di rispetto per l’interlocutore zerbino, allora gli USA si son dovuti sforzare di apparecchiare un ricevimento in grandissimo stile con tutti gli onori di casa: hanno pure chiamato a suonare Paul Simon e prima gli hanno anche imposto di fare un corso di giapponese.
Ma il bilaterale Giappone – USA era solo l’antipasto: giovedì, infatti, li ha raggiunti pure Marcos junior,erede del sanguinario dittatore e attuale presidente delle Filippine, impegnato a mettere fine alla piccola parentesi sovranista e popolare dell’ex presidente Duterte per riportare lo strategico paese insulare al ruolo di portaerei del Pacifico dell’imperialismo USA; un summit storico, come è stato definito nel comunicato congiunto finale – il primo di sempre tra le tre potenze – e che rappresenta una tappa fondamentale per la costruzione di quell’accerchiamento totale della repubblica popolare cinese volto a danneggiarne l’economia abbastanza da permettere agli USA di recuperare il terreno perduto succhiando risorse a tutti i vari vassalli e, se non basta, a provocare la Cina fino a scatenare una nuova guerra per procura come quella ucraina, ma di magnitudo di ordini di grandezza superiore.
Nel frattempo, Rimbambiden è dovuto pure tornare a occuparsi di America Latina: a giugno, infatti, si vota in Messico e mettere fine all’esperienza sovranista di Lopez Obrador sarebbe fondamentale per assicurarsi di poter riportare vicino a casa un pezzo della base industriale – indispensabile anche solo a pensare di poter fare la guerra contro la Cina – senza che diventi un’arma a doppio taglio; peccato, però, che nonostante tutti i tentativi di destabilizzazione, la candidata di AMLO ancora oggi, nei sondaggi, sostanzialmente doppi gli avversari sostenuti da Washington. Gestire contemporaneamente questi tre fronti metterebbe ko chiunque e, invece, per Sleepy Joe è solo l’antipasto; nelle ultime due settimane aveva provato a scordarselo per un attimo: per evitare l’escalation nel Mar Rosso aveva addirittura mandato (anche in ginocchio) i suoi uomini da Ansar Allah per cercare una soluzione diplomatica dopo che 3 mesi di attacchi diretti in territorio yemenita non sembravano aver dato grossi risultati, quando, sabato scorso, a turbargli i sonni sono arrivati circa 300 tra droni e missili balistici che dall’Iran si sono riversati sul sempre più scomodo – ma ciononostante sempre indispensabile – alleato sionista. Nonostante le divergenze con regime fascista e razzista di Tel Aviv, Biden s’è ritrovato così a dover richiamare all’ordine tutte le sue casematte nella regione per minimizzare i danni e impedire a Tel Aviv di subire un’umiliazione troppo grande, perché lo svantaggio strutturale dell’impero è proprio questo: i suoi millemila nemici possono subire anche sconfitte importanti, eppure la necessità storica delle masse popolari di dotarsi di uno Stato sovrano capace di emanciparsi dal dominio dell’impero, rimane intatta; per il castello di carte che tiene in piedi il dominio globale dell’impero, invece, anche solo essere costretto a rinunciare al dominio in un’area del pianeta può essere esistenziale.
Ma prima di addentrarci nei dettagli di questo arzigogolato racconto sugli sforzi inenarrabili che il povero, anziano leader del mondo libero è costretto a sobbarcarsi per non passare alla storia come il presidente sotto il quale si mise fine a 5 secoli di feroce dominio coloniale dell’uomo bianco, vi ricordo di mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro gli algoritmi e, se non l’avete ancora fatto, di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare pure le notifiche, perché se c’è una cosa che abbiamo imparato lavorando a questo video è che l’impero non è mai stato così fragile e un’informazione corretta che non ricalchi a pappagallo la propaganda, oggi come non mai potrebbe davvero fare la differenza.
“Stati Uniti e Giappone annunciano l’aggiornamento più significativo di sempre della loro alleanza militare”: così, giovedì, il Financial Times riassumeva la conferenza stampa che, il giorno prima, Rimambiden e Fumio Kishida avevano tenuto a conclusione dello storico bilaterale di questi giorni: “Nel corso degli ultimi 3 anni” recita il comunicato congiunto, rilasciato poche ore prima “l’Alleanza USA – Giappone ha raggiunto livelli senza precedenti”; gli USA rinnovano, senza se e senza ma, l’”impegno degli Stati Uniti nella difesa del Giappone… utilizzando l’intera gamma delle sue capacità, comprese quelle nucleari” in cambio di un rafforzamento di quello che chiamano “coordinamento con gli USA” e che, come noi membri della NATO sappiamo bene, in soldoni significa totale subordinazione, a partire dalla messa a disposizione delle “isole sudoccidentali” delle forze armate USA “per rafforzare la deterrenza e la capacità di risposta”, nonostante l’opposizione decennale delle popolazioni locali e dei loro rappresentanti politici.

Denny Tamaki

A partire dal governatore di Okinawa, Denny Tamaki che, nel 2018, stravinse le elezioni locali proprio sulla base della sua contrarietà alla presenza dei 30 mila militari USA, odiatissimi da sempre dalla popolazione locale e, ancora di più, da quando nel 1995 rapirono una ragazzina di 12 anni, la violentarono e la massacrarono di botte (ovviamente sempre, come cita il documento, “per realizzare un mondo indo – pacifico libero e aperto”). “A sostegno di questa visione” – continua il comunicato – “riaffermiamo il nostro obiettivo di approfondire la cooperazione in materia di intelligence, sorveglianza e ricognizione e le capacità di condivisione delle informazioni dell’Alleanza”, che è un modo gentile per dire che il Giappone rinuncia alla sua sovranità e indipendenza militare per mettere le sue forze armate e il suo apparato di intelligence a disposizione del comando USA. L’impero e il suo vassallo confermano, come ampiamente atteso, i lavori di modifica alle navi giapponesi (che, fino ad oggi, avevano funzioni meramente difensive) affinché “acquisiscano la capacità operativa del sistema Tomahawk Land Attack Missile (TLAM)” che, come dice il nome stesso, con la difesa non c’entra una seganiente e serve ad attaccare; “oggi” inoltre, continua il comunicato, “annunciamo la nostra intenzione di cooperare per un’architettura di difesa aerea in rete tra Stati Uniti, Giappone e Australia”, ai quali poi ci va aggiunta anche la Gran Bretagna nell’ambito dell’AUKUS, al quale poi si affianca anche la Corea del Sud, rispetto alla quale “accogliamo con favore i progressi nella creazione di un esercitazione annuale multidominio”. Insomma: Corea, Giappone e Australia saranno sostanzialmente dependence delle forze armate USA nell’area che potrà, così, eventualmente ingaggiare una guerra frontale contro la Cina – ma sempre per procura – evitando così lo scontro diretto tra potenze nucleari (che, diciamo, che è una cosa che ultimamente ho già rivisto). Queste forze, per essere veramente efficaci nell’opera di contenimento e provocazione nei confronti della Cina, hanno bisogno però di aumentare anche la loro area di pertinenza: ed ecco che entrano in gioco le Filippine, la portaerei nel Pacifico dell’impero che è sbarcata a Washington il giorno dopo per il primo trilaterale di sempre insieme a Usa e Giappone, un trilaterale per cementare i “valori fondamentali condivisi di libertà, democrazie, rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto” che, però, non sono proprio sicurissimo siano i valori fondamentali dell’attuale presidente filippino.
Baby Marcos, infatti – noto anche come Bongbong – non solo è il figlio di uno dei più feroci e cleptomani dittatori dell’Asia contemporanea, ma ha anche avuto direttamente ruoli di primissimo piano all’interno del suo regime diventando uno dei massimi dirigenti del partito del padre che ha imposto la legge marziale nel paese per ben 14 anni; a partire dal 1980, infatti, Bongbong è stato prima vice e poi governatore del distretto di Llocos Norte e, ancora oggi, deve la sua vita agiata a un pezzo della sconfinata ricchezza che suo padre e la leggendaria Imelda Marcos hanno sottratto al loro paese per decenni. Durante il suo governatorato, secondo l’associazione delle vittime della legge marziale, nel suo distretto si sono registrati come minimo due casi di omicidio extragiudiziale; nel 1985 era stato nominato dal padre anche presidente della Philcomsat, il monopolista delle comunicazioni satellitari delle Filippine che Marcos presidente si era auto-venduto al Marcos imprenditore per una manciata di spiccioli (in pieno stile Russia ai tempi di Yeltsin e del crollo dell’Unione Sovietica, un modello che gli Stati Uniti hanno replicato un po’ ovunque) e quando, nel 1986, finalmente scoppiarono le gigantesche proteste di piazza della People Power Revolution, fu proprio Bongbong a convincere il padre ad assaltare e dare fuoco al quartier generale delle forze di polizia che, nel frattempo, era stato circondato da centinaia di migliaia di manifestanti. Dopo che l’amministrazione Reagan aiutò gli amici dittatori e il loro entourage a scappare dalle Filippine per riparare alle Hawaii, Bongbong cercò di ritirare da un conto segreto della famiglia 200 milioni di dollari, ma fu bloccato (ovviamente dalla Svizzera, non dagli USA, e da allora non ha ancora smesso di provare a rimpossessarsi del bottino); insomma: l’interlocutore perfetto per i piani criminali dell’impero contro il nemico cinese che oggi si trova ad essere accolto con tutti gli onori per un vertice che “rappresenta il culmine di decenni di partenariato”. Non poteva andare altrimenti: Bongbong, infatti, aveva iniziato il suo mandato sulla scia dell’ultrapopolare Duterte, candidandone addirittura la figlia alla vicepresidenza; l’idea era quella di continuare a intensificare le relazioni economiche con la Cina, dando seguito agli accordi firmati dal predecessore nell’ambito della Belt and Road Initiative. Credergli, però, è stato un atto di ingenuità piuttosto eclatante: dotati della più grande rete di spionaggio e di intelligence della storia dell’umanità, che gli USA tenessero in pungo l’erede di uno dei più grandi imperi criminali del pianeta, infatti, era piuttosto prevedibile; e ora la potente mano della mafia di Washington si palesa in tutta la sua capacità persuasiva. Per le Filippine vuol dire rinunciare agli investimenti cinesi, proprio ora che, dopo due anni abbondanti di stallo dovuto alla crisi pandemica, la Cina torna ad aprire i borsoni lungo tutta la Belt and Road.
Per placare l’opinione pubblica affamata di introiti e di crescita economica, ecco allora che tutta la prima parte del trilaterale USA – Giappone – Filippine è stata dedicata proprio all’assistenza allo sviluppo, ma è tutta fuffa allo stato puro: al posto delle infrastrutture della nuova via della seta, promettono il fantomatico corridoio economico di Luzon, che cerca di scimmiottare i piani cinesi a suon di “ferrovie, modernizzazione dei porti, energia pulita” e, addirittura, un pezzo della supply chain dell’industria dei semiconduttori. Gli investimenti rientrerebbero nell’ambito della fantomatica Partnership for Global Infrastructure and Investment, la risposta imperialista alla Belt and Road che l’amministrazione Biden continua ad annunciare a ogni summit multilaterale – da ormai 2 anni a questa parte – senza aver, ad oggi, mai sganciato sostanzialmente manco un dollaro. L’elenco degli impegni concreti, invece, è da morire da ridere: 8 milioni per un ponte radio e altri 9 milioni per un altro progetto di telecomunicazioni; probabilmente meno di quanto abbiano pagato Paul Simon per cantare e imparare a dire buonasera in giapponese. Ma la chicca principale è che gli USA promettono anche 4 miliardi di investimenti diretti esteri privati, però coi soldi giapponesi. Geniali! D’altronde, il Giappone sono 40 anni che è abituato a pagare i conti dell’impero USA: il 75% delle spese militari USA in Giappone, infatti, li paga direttamente Tokyo che, ogni anno, sborsa poco meno di 5 miliardi; quando il cervello vi corre a quanti soldi le élite politiche europee ci rubano di tasca per fare contenta Washington, pensate a quanto sono geishe i giapponesi e vi tornerà il sorriso. Vi basti ricordare come, per sostenere lo yen sotto attacco del dollaro, la banca centrale giapponese sia stata costretta a rialzare, per la prima volta dopo 30 anni, i tassi di interesse mentre è nel bel mezzo di una recessione: fino a che punto i giapponesi saranno ancora disposti a tollerare di essere svenduti senza niente in cambio?

Ferdinand Bongbong Marcos jr

Ai cugini coreani, ad esempio, qualcuno ha già presentato il conto; la Corea del Sud è l’altro tassello fondamentale dell’imperialismo USA nel Pacifico: è il terzo produttore navale al mondo e solo mettendo assieme lei e Giappone la rete dei vassalli USA ha qualche chance di potersi confrontare ad armi pari coi cinesi sul mare. Sostanzialmente priva di sovranità quanto – se non di più – di Europa e Giappone, alla Corea quindi è stata imposta l’adesione a una struttura trilaterale con USA e Giappone; ma se finché si tratta di continuare a fare semplicemente da zerbino agli USA la Corea, ad oggi, ancora non ha niente da obiettare, questo matrimonio forzato col Giappone i coreani proprio non riescono a buttarlo giù: in Corea, infatti, il Giappone coloniale fino alla fine della seconda guerra mondiale s’è reso protagonista di una serie di crimini di una ferocia e di una portata inauditi e per i quali non ha mai chiesto scusa. Anzi, la destra fascionazionalista giapponese, che è una componente essenziale del blocco sociale che ha permesso al partito liberale di guidare il governo sostanzialmente sempre, da quando è stato fondato nel 1955, fonda tutta la sua popolarità proprio sull’egemonia nel web giapponese delle sue campagne razziste nei confronti degli eredi dei coreani deportati nel Giappone dell’impero fascista durante la seconda guerra mondiale. Il padrone di Washington, inoltre, ha imposto a Seul di svuotare mezzi arsenali per inviare armi nel tritacarne ucraino e, ovviamente, anche di alzare i toni contro la Cina fino a darsi la zappa sui piedi partecipando al boicottaggio tecnologico della Cina e perdendo, così, una bella fetta del principale mercato di sbocco della sua industria elettronica, con conseguenze devastanti per la tenuta economica. Risultato: mercoledì in Corea del Sud s’è votato per l’elezione del parlamento e il partito del presidente ha raccattato una figura di merda epica. Negli ultimi 2 anni, infatti, il presidente ha dato la colpa di tutto al fatto che il suo partito non aveva la maggioranza in parlamento e la campagna elettorale è stata tutta all’insegna della richiesta di un mandato pieno per completare il lavoro iniziato; non ha funzionato proprio benissimo, diciamo: il suo partito ha perso un’altra decina di seggi, l’opposizione ne ha guadagnati quasi 30 e “ciò significa” sottolinea Responsible Statecraft “che il partito al governo potrebbe abbandonare il Presidente su alcune delle sue iniziative di politica estera più controverse”.
E la propaganda suprematista è in allarme anche sul fronte tedesco “perché Scholz si inchina al dragone cinese” titola Politico, la testata del gruppo editoriale tedesco Springer di proprietà del fondo speculativo USA KKR, quello che si è comprato la rete di TIM e che ha tra i suoi principali dirigenti l’ex capo della CIA David Petraeus. L’edizione europea di Politico è stata inventata ad hoc per minacciare qualsiasi politico europeo si azzardi anche solo minimamente a discostarsi dai dictat del deep state neocon americano e venerdì scorso denunciava scandalizzata come “ignorando le pressioni di Washington, il cancelliere cerca l’appoggio di Pechino”: “Il cancelliere 65enne, considerato privo di senso dell’umorismo anche per gli standard tedeschi” scrive la testata “ha festeggiato il suo debutto suTikTok promettendo di non ballare”; “Arrivato giusto pochi giorni prima della sua visita in Cina, la patria del controverso social newtork” continua quello che appare, ogni riga di più, come un attacco mediatico in pieno stile coloniale “Scholz sembra alla disperata ricerca di convincere Pechino che può ancora essere considerato un buon amico”. Il motivo è semplice, denuncia Politico: “Scholz ha bisogno della Cina”; “Con le elezioni a poco più di un anno di distanza” continua l’articolo “il leader del motore economico europeo sta esaurendo il tempo per evocare un miracolo e invertire la disastrosa posizione del suo governo nei confronti della popolazione tedesca”. I passaggi successivi dell’articolo li ho dovuti rileggere attentamente svariate volte perché non riuscivo a capire se erano seri: sarà il mio inglese da medie inferiori ho pensato, ma temo di no; ma giudicate voi. “Ci si potrebbe aspettare che la Germania, tra tutti i paesi” scrivono “sia sensibile alla difficile situazione di una minoranza etnica costretta a vivere dietro il filo spinato sotto lo sguardo minaccioso delle guardie armate nelle torri di guardia. Beh, ripensateci”, che uno dice ma perché parlano delle vergognose posizioni tedesche su Gaza in un articolo sulla Cina? La Germania, infatti, ha così platealmente sostenuto sin dall’inizio il genocidio del regime sionista e lo sterminio dei bambini palestinesi da vietare ogni forma di solidarietà con Gaza a suon di randellate e arresti e trovarsi, alla fine, sul banco degli imputati alla Corte internazionale di giustizia e, negli ultimi giorni, ha platealmente superato ogni limite: prima ha impedito l’ingresso nel paese a Ghassan Abu Sittah, chirurgo palestinese naturalizzato britannico che avrebbe dovuto partecipare a una conferenza sulla Palestina a Berlino che, dopo il suo respingimento, è stata fatta chiudere con la forza dall’intervento di decine di membri delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno malamente evacuato le oltre 250 persone accorse fino a quel momento. E poi ha addirittura vietato il visto all’economista ed ex ministro greco Yannis Varoufakis proprio perché non ha sostenuto con sufficiente entusiasmo lo sterminio dei bambini palestinesi ed ha addirittura – pensate un po’- sollevato delle critiche.
Effettivamente, per accusare la Germania di essere complice entusiasta di un genocidio di spunti ce ne sono abbastanza, peccato però che la nostra cara testata di riferimento delle nuove SS, gli specializzati in stronzate, invece che del sostegno concreto dei genocidi reali che avvengono sotto gli occhi di tutti, preferisce concentrarsi nella denuncia del sostegno immaginario a un genocidio altrettanto immaginario, inventato tra un’invasione aliena e l’altra dai seguaci complottisti del Falun gong: “Sotto la presidenza Xi Jinping” specifica infatti l’articolo “la Cina ha preso una svolta autoritaria, reprimendo il movimento democratico di Hong Kong e costringendo la minoranza uigura in campi di concentramento” e Scholz c’ha pure il coraggio di andarci a parlare…
Io, sinceramente, pensavo che questi livelli fossero prerogativa de il Foglio, di Giulia Pompili e Radio genocidio Radicale; qui mancano solo giusto gli organi espiantati dai pazienti vivi a mani nude da Xi ed è solo l’inizio perché la Cina, oltre a espiantare gli organi dai prigionieri vivi, è ovviamente anche la patria di tutte le truffe e le pratiche commerciali più scorrette: prima ha attirato gli onesti imprenditori tedeschi promettendo sogni di gloria e poi li ha fottuti con politiche protezionistiche mettendoli fuori mercato con generosi sussidi, che oggi le permettono di esportare “veicoli elettrici cinesi a basso costo in Europa” che mettono in ginocchio gli onesti produttori europei (che è un po’ una sorta di record mondiale di fake news e di ribaltamenti della realtà mai visti in un singolo periodo di un giornale). L’economia tedesca, infatti, è sì vittima di una nuova spirale protezionistica e di una nuova guerra commerciale, solo che a dichiarargliela – com’è arcinoto – sono stati i padroni di Washington che, in quanto a politiche protezionistiche e generosi sussidi, hanno non solo doppiato, ma letteralmente triplato la repubblica popolare, ma pretendere che a ricordarcelo sia un pennivendolo a libro paga dell’ex direttore della CIA effettivamente sarebbe un po’ troppo. Il problema, semmai, è che – fino ad oggi – questo plateale ribaltamento della realtà è stato anche la linea politica delle élite tedesche: come fosse possibile, ce lo siamo chiesti per mesi, senza trovare una risposta chiara; sicuramente, però, un aspetto che ha pesato sempre parecchio è che la Germania, dal punto di vista della difesa e dell’intelligence, non può in nessun modo essere considerata un paese sovrano, ma (nella migliore delle ipotesi) un protettorato. Ma come tutti i servi che si rispettino, l’obbedienza totale e incondizionata al padrone è davvero garantita solo fino a quando a prevalere è la paura, una paura che, fino ad oggi, si fondava sul mito della supremazia militare totale degli USA (che, in parte, è anche un mito non privo di fondamento): grazie alla dittatura del dollaro, infatti, gli USA si sono fatti finanziare dai vassalli quello che è in assoluto il più grande apparato militare della storia dell’umanità che però – comincia a sospettare qualcuno – forse non basta più.
E per stamattina ci fermiamo qua; per la seconda, succulenta parte di questo video vi do appuntamento a fra poche ore e se, nel frattempo, vi piace il lavoro che facciamo e – come noi – siete convinti che in questo mondo nuovo che avanza serva come il pane una voce alternativa alla propaganda dei vecchi media, aiutateci a crescere e a rimanere indipendenti: aderite alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Bongbong Marcos

Partito di Sarah Wagenknecht – per un’ Europa libera dalla NATO

Per una Germania e un’Europa sovrana e libera dalla NATO.
Il numero 2 del partito di Sarah Wagenknecht ci spiega come le élite europee hanno tradito i loro popoli e, attraverso la finanziarizzazione delle nostre ricchezze, ci hanno gettato in una crisi economica epocale e in una guerra suicida con la Russia. Il partito di Sarah Wagenknecht ha un progetto sovranista e sviluppista per il proprio paese e per l’Unione Europea che può rappresentare una valida alternativa sia alla sinistra della ZTL che alla destra reazionaria.

Soldati tedeschi contro Russia e Germania: il contenuto delirante dell’intercettazione dell’anno

Frohstedte:… sono arrivato alla conclusione che ci sono due obiettivi interessanti: il ponte a est e i depositi di munizioni, che sono più in alto. Se consideriamo il ponte, quello che vorrei far capire è che il C10 del Taurus non è sufficiente e dovremmo capire meglio come funzionerebbe il tutto, e per farlo abbiamo bisogno di dati satellitari. Non so se riusciremo ad addestrare gli ucraini per una missione del genere in poco tempo, un mese, ad esempio.
Grefe: Va detto chiaramente: più tempo si aspetta per prendere una decisione, più tempo ci vorrà per attuarla. Dovremmo andare per gradi: prima qualcosa di semplice, poi qualcosa di più complesso.

Nell’Occidente collettivo, in preda al panico per gli schiaffi a due a due finché non diventano dispari raccattati sul fronte ucraino, siamo ormai al tutti contro tutti; la pubblicazione della lunga chiacchierata tra 4 uomini delle forze armate tedesche – compreso un generale di brigata e un tenente generale che è anche ispettore dell’aeronautica militare – mentre discutono serenamente sulla strategia migliore per permettere agli ucraini di utilizzare i missili tedeschi Taurus per distruggere il ponte di Kerch senza che i russi li ritengano direttamente responsabili, non è solo un raro squarcio nel delirio quotidiano di chi ci sta inesorabilmente trascinando verso la terza guerra mondiale, ma è anche un segnale del caos e della guerra intestina che sta frantumando il giardino ordinato ad ogni livello, e arriva dopo una lunga sequenza di colpi di scena: a inaugurare le danze ci s’era messo, la scorsa settimana, il neo premier slovacco Robert Fico quando aveva dichiarato alla stampa la sua preoccupazione per l’aria di escalation che si respirava tra le élite euroatlantiche che, denunciava, stanno discutendo apertamente se mandare direttamente uomini NATO al fronte. Nel frattempo usciva il lungo articolo del New York Times che, finalmente, svelava apertamente il segreto di pulcinella: la CIA la guerra contro la Russia dal territorio ucraino la sta conducendo come minimo dal 2014, addestrando e assistendo personale ucraino, ma anche gestendo direttamente come minimo una dozzina di basi al confine tra Ucraina e Russia; nel frattempo, in questa corsa a chi c’ha lo scoop più grosso entrava a gamba tesa anche il Financial Times che annunciava al mondo di essere entrato in possesso di documenti ultramegariservati su un war game made in Mosca che svelava la facilità con la quale i russi avevano intenzione di ricorrere all’arma atomica in caso di difficoltà. Poi arrivava il turno del pimpantissimo Manuelino Macaron che cercava di riguadagnare il centro della scena come un Matteo Mr Bean Renzi qualsiasi ritirando fuori il carico da 11 dell’eventuale intervento diretto di truppe NATO sul fronte; subito dopo, ecco il turno di Scholz che il carico – invece – lo tirava da 12, ma con meno spavalderia: inutile che ora fate gli spavaldi con ‘sta storia di mandare gli uomini nato al fronte. I francesi e gli inglesi ci sono già.
Apriti cielo! Gli inglesi accusano Scholz di tradimento: con questa boutade avrebbe svelato informazioni ultra riservate; ed ecco così che, per magia, spuntano le intercettazioni della riunione dei militari tedeschi che vogliono tirar giù il ponte di Kerch e che, sempre del tutto casualmente, viene sostanzialmente ignorata dalla propaganda ultra atlantista nei suoi contenuti piuttosto rilevanti, per usare un eufemismo, e viene invece usata per denunciare l’inadeguatezza di Scholz stesso e del suo apparato di sicurezza. Ora, siccome in passato abbiamo sperato molto nelle divisioni interne al giardino ordinato e, invece, siamo stati smentiti da una classe dirigente che ha completamente perso ogni senso del pudore, a questo giro ci andiamo cauti, anche perché per ogni cuore che si spezza ci sono nuovi amori che non possono più essere contenuti ed escono alla luce del sole.

Il bacino sulla testa di Biden a Giorgiona è una delle pagine più imbarazzanti della politica estera zerbina di tutta la seconda repubblica sulla quale, però, il partito unico degli affari e della guerra ha scelto di stendere un velo pietoso: i filogovernativi perché, fino a ieri, dicevano che Biden prima ingroppava i neonati e poi li mangiava, che Beppe Stalin scansate proprio; l’opposizione delle ZTL perché non vuole ammettere a se stessa di essere stata rimpiazzata nel cuore di un campione della democrazia e del mondo libero come rimbambiden da una volgave buvina veazionavia daa’ garbatella. Insomma: moriremo tutti, ma non di noia. Ma ci sarà una qualche logica dietro a questa cacofonia di figure di merda?
19 febbraio, Singapore. In un’anonima stanza di hotel, un pezzo grosso della Bundeswehr si appresta a fare la videochiamata che, probabilmente, gli cambierà la vita: si chiama Frank Graefe e, dal 2019, è l’addetto militare della Germania presso l’ambasciata tedesca di Washington; collegati con lui, due tenenti colonnelli dell’aeronautica militare e il grande capo. Si chiama Ingo Gerhartz ed è nientepopodimeno che un tenente generale dell’aeronautica tedesca con il cuore a Tel Aviv: sotto il suo comando, infatti, aerei tedeschi e israeliani nel 2020 per la prima volta hanno volato in formazione congiunta sopra il luogo commemorativo del campo di Dachau e sopra il luogo dell’attacco delle olimpiadi di Monaco del 1972; l’anno dopo guidava il primo aereo tedesco a sorvolare sopra il cielo di Gerusalemme dalla prima guerra mondiale, subito prima di ricevere una medaglia direttamente dal capo di stato maggiore dell’IDF per il suo contributo alla sicurezza di Israele, e quando Israele ha dato il via alla fase finale del suo genocidio contro il popolo palestinese, il compagno Gerhartz ci ha tenuto a dimostrare il suo sostegno alla pulizia etnica recandosi a Tel Aviv di persona per rendere i suoi omaggi al commander in chief del più grande massacro di civili del XXI secolo, il ministro della difesa Yoav Gallant. Insomma: due ferventi patrioti – di altri Stati, però.
L’argomento della conversazione è della massima urgenza e riservatezza; a breve, uno di loro dovrà incontrarsi direttamente col ministro federale della difesa Boris Pistorius e avrà un compito fondamentale: convincerlo a inviare i missili da crociera a lungo raggio Taurus in Ucraina per tentare di rimandare la resa dei conti finale della guerra per procura della NATO contro la Russia e, come appare sempre più evidente, pure contro l’Europa – e, in particolare, proprio contro la Germania che, dal dopoguerra, non si era mai ritrovata con le pezze al culo come oggi. E i nostri protagonisti sono parte del problema non solo perché, appunto, cercano di capire come proseguire e allargare una guerra palesemente suicida, ma anche perché nel farlo si comportano con un livello di cialtronaggine che non ti aspetteresti dai diligenti crucchi, sopratutto non da personale così alto in grado: la comunicazione, infatti, avviene tramite un banale software per videoconferenze privo di ogni forma di protezione. Come sottolineiamo sempre, il problema non è solo che questi vogliono a tutti i costi fare la guerra; è anche che non sono minimamente in grado di farla. Ed ecco così che la registrazione della videoconferenza, pochi giorni dopo, come per magia arriva nella mani di una giornalista russa, un altro pezzo grosso: si chiama Margherita Simonyan, è la capo redattrice dell’emittente russa RT e, dal febbario 2022, è in cima alla blacklist ufficiale dell’Unione Europea – anche se devo dire che, quando nel 2017 l’ho incontrata negli uffici di RT a Mosca, non è che mi abbia fatto un’impressione poi tanto peggiore della stragrande maggioranza dei giornalisti RAI che ho conosciuto in vita mia. Comunque, il 1 marzo scorso la Simonyan pubblica l’audio integrale della videochiamata sul suo profilo Telegram che abbiamo tradotto e doppiato per voi.

Gerhartz: dobbiamo mostrare cosa possono fare i Taurus e come possono essere utilizzati. Dobbiamo considerare le conseguenze se prendiamo la decisione politica di mandarli come aiuti in ucraina. Apprezzerei se riusciste a informarmi non solo sui potenziali problemi, ma anche su come potremmo risolverli. Ad esempio, quando si tratta di pianificare la missione… so come fanno gli inglesi. Li trasportano sempre con i veicoli armati Ridgeback. Hanno alcune persone sul posto. I francesi no. Quindi controllano gli ucraini durante il carico dei missili SCALP perché Storm Shadow e SCALP hanno specifiche tecniche simili per l’installazione. Noi come risolveremmo questi problemi? Trasferiremo i missili dell’MBDA anche noi usando dei Ridgeback? Assegnamo uno dei nostri uomini direttamente all’MBDA?

Allora: i Ridgeback, oltre a essere una razza di cani, sono anche questi veicoli blindati qua. L’MBDA, invece, è un consorzio formato da BAE System, Airbus e Leonardo e, con il 43% del mercato, è il leader europeo indiscusso nella costruzione di missili ed è anche la casa madre della controllata TSG – che sta per Taurus System – ed è, appunto, la produttrice dei missili Taurus. E qui i nostri simpatici commilitoni si limitano a ribadire quello che aveva già detto Scholz pochi giorni fa: uomini di potenze NATO in Ucraina ce ne sono già; in particolare, appunto, gli inglesi, che aiutano gli ucraini a montare i loro Storm Shadow trasportati con queste simpatiche camionette: che famo Franchino, chiede il tenente generale Gerhartz al fidato Graefe, imboschiamo qualcuno dei nostri direttamente tra le fila della ditta e i missilozzi li portiamo come fanno gli inglesi?


Grafe: se il Cancelliere decide che dobbiamo consegnare i missili, saranno trasferiti direttamente dalla Bundeswehr. Ok, ma non saranno pronti prima di 8 mesi. Non possiamo accorciare i tempi: se lo facessimo, ci potrebbero essere errori durante l’utilizzo. Un missile potrebbe colpire un asilo, e ci sarebbero altre vittime civili. Questi aspetti vanno tenuti in considerazione: durante i negoziati dobbiamo sottolineare che senza il produttore non possiamo fare niente. Sarebbe come con i razzi IRIS-T, che i primi missili vengono equipaggiati, convertiti e consegnati in tempi brevi, ma poi bisogna fare altre cosette, come una piccola revisione, togliere il distintivo tedesco, e così via. Ma per questo non devi aspettare di averne venti. Teoricamente potresti consegnare i primi cinque. Quindi quello sarebbe il primo treno: in quanto tempo potrebbero essere consegnati? Beh, in realtà questo dipende tutto dal produttore. E la domanda resta “chi paga?” perché comporta dei costi. La seconda domanda riguarda l’interfaccia: come si collega e a quale sistema d’arma? E come faremmo a tenere in piedi l’interazione tra l’azienda e gli ucraini? È già stata stabilita qualche forma di integrazione?
Gerhartz: io non credo.

E qui c’è la prima cosa da tenere a mente e che, sostanzialmente, nessun organo della propaganda suprematista ha sottolineato: il generale di brigata Graefe, infatti, sottolinea come per fare tutte le cose per bene servono 8 mesi e, se accorciamo i tempi, se e quando un missilozzo centrerà un asilo e farà una carneficina non ci dovremmo stupire – anche se i nostri media le chiameranno vittime collaterali e martiri del mondo libero.

Grafe: se il Cancelliere decide di procedere, si deve comprendere che ci vorranno 6 mesi soltanto per risolvere la questione del montaggio e poi che, teoricamente, la questione dell’addestramento potrebbe preoccuparci. Lavoriamo in collaborazione con l’industria come per gli IRIS-T: loro gestiscono la formazione per quel che riguarda la manutenzione e noi ci occupiamo delle applicazioni tattiche. Questo impiega circa 3 – 4 mesi e questa parte si potrebbe svolgere in Germania. Quando consegneremo i primi missili dovremo fare decisioni rapide su montaggio e addestramento. Potremmo aver bisogno di rivolgerci ai britannici per questi aspetti e sfruttare il loro know how: gli possiamo fornire i nostri database, le immagini satellitari e le stazioni di comando. Oltre ai missili di cui disponiamo, tutto il resto dovrebbe essere fornito dal produttore o all’IABG.
Gerhartz: dobbiamo sempre ricordare che loro possono utilizzare gli aerei con sistemi di montaggio sia per i missili Taurus che per gli Storm Shadow. Gli inglesi hanno già equipaggiato i velivoli. Non c’è poi tutta questa differenza tra i due sistemi, possono essere utilizzati tranquillamente anche per i Taurus. Degli F16 non ne parliamo adesso, ma ce li hanno già sui MIG23 e questo è quello che conta. Posso riferire l’esperienza dei Patriot: i nostri esperti inizialmente avevano previsto tempi lunghissimi, ma sono riusciti a gestirla in poche settimane; si sono attrezzati per avere tutto funzionante così rapidamente e in quantità tale che il nostro staff diceva “Oh wow, Non ce lo aspettavamo affatto!”

E qui si comincia già a limare: ma quali 8 mesi, compagno Graefe! E quanto la fa lunga lei! Ci stanno gli inglesi lì che montano più razzi che marmitte al motorino ammiocuggino nel suo garage/scannatoio – anche se è sempre bene ricordare che ammiocuggino una volta da bambino è morto – e anche per l’addestramento, compagno Graefe, lei va troppo per il sottile e così mi fa piangere l’America.

Fenske: se abbiamo a che fare con personale sufficientemente qualificato, basteranno circa 3 settimane affinché familiarizzino con l’attrezzatura, e poi potrebbero iniziare subito l’addestramento dell’Air Force, che dura circa 4 settimane: quindi, si parla di molto meno di 12 settimane.

Da 10 mesi a 10 settimane è un attimo. Se fossi negli asili nei paraggi, qualche preoccupazioncina ce l’avrei, diciamo, tant’è che anche il tenente colonnello Fenske, dopo la sparata, ritratta un po’.

Fenske: se parliamo di schieramento in combattimento, in tal caso, di fatto ci verrà consigliato di supportare almeno il gruppo iniziale perché la pianificazione è molto complessa. Per formare il nostro personale abbiamo impiegato circa un anno e ora vogliamo ridurre il tempo ad appena 10 settimane. Inoltre, c’è l’ulteriore preoccupazione di garantire che siano in grado di gestire la guida fuoristrada in un’auto di F1.

Insomma: una cosa è insegnargli due fondamentali in croce al calduccio di una sonnolenta base della Renania come quella di Buechel dove ci stanno, ovviamente, pure gli americani e che tanto piace ai nostri 4 simpatici programmatori di escalation militari; un’altra lanciare missili veri su obiettivi veri dal fronte. Se vogliamo fare le cose in fretta, non c’è verso: tocca mandare uomini nostri sul campo fino a che questi non hanno imparato tutto come si deve. Oppure c’è anche una via di mezzo: una via di mezzo tra i 10 mesi e le 10 settimane e anche una via di mezzo tra prendere di sicuro qualche asilo ed essere sicuri di non prenderne; diciamo metà tempo standard e metà standard di sicurezza, pari e patta. Per farlo, però, possiamo evitare di mandare gli uomini direttamente sul campo, ma almeno da remoto vanno guidati da noi, sennò addio. Ma guidarli da remoto significa entrare in guerra contro la Russia o no? E se sì, come si fa ad aggirare il problema?

Fenske: una possibilità sarebbe fornire supporto tecnico programmato. Teoricamente, questo possiamo farlo da Büchel, se abbiamo una linea di comunicazione sicura con l’Ucraina. Quindi lo scenario sarebbe questo: fornire il supporto completo del produttore tramite il servizio di supporto utente, che risolverà i problemi del software.
Gerhartz: fermo un attimo. Capisco cosa stai dicendo. I politici potrebbero essere preoccupati per una linea di comunicazione diretta tra Büchel e l’Ucraina, che implicherebbe un coinvolgimento diretto nel conflitto ucraino, ma in quel caso possiamo dire che lo scambio di informazioni avviene attraverso l’MBDA e noi ci limiteremo a inviare un paio di nostri esperti a Schroebenhausen. Ovviamente è un’assurdità, ma da un punto di vista politico, probabilmente è diverso se lo scambio di informazioni avviene attraverso il produttore, e quindi non ha niente a che fare con noi.

Birbantelli crucchi che non siete altro! Capito il giochino? Si chiama Plausible Deniability, negazione plausibile, ed è quando mischi le carte in modo che tutti sanno che è responsabilità tua, però la pistola fumante manca: è la tecnica che adottano sempre i miei figli quando trovo il cesso sporco. Ecco: i massimi gradi delle forze armate tedesche sono dei bambini che lasciano le sgommate e il capro espiatorio è un’azienda privata – che mica gli puoi fare la guerra a un’azienda privata (e poi dicono che le privatizzazioni non servono…). Purtroppo, però, anche questo semplice escamotage non risolve tutti i problemi.

Fenske: qui dipende anche da che tipo di informazioni stiamo parlando. Se parliamo di informazioni sull’ingaggio del bersaglio, che quindi idealmente includono immagini satellitari con una precisione fino a 3 metri, allora debbono essere prima processate a Buechel. Indipendentemente da ciò, possiamo senz’altro organizzare in qualche modo uno scambio di informazioni tra Büchel e Schroebenhausen. Oppure, possiamo sondare la possibilità di inviare le informazioni in Polonia, in qualche luogo accessibile con l’auto. Se siamo sostenuti, nel caso peggiore, possiamo spostarci con un auto, che ridurrebbe i tempi di reazione: di sicuro, non saremo in grado di reagire in un’ora perché servirebbe il nostro consenso. Nel caso migliore, circa sei ore dopo aver ricevuto le informazioni gli aerei sarebbero in caso di eseguire l’ordine; se è necessario perfezionare il target, dovremo lavorare con immagini satellitari che consentano la modellazione e, allora, i tempi si allungano fino a circa dodici ore. Dipende tutto dall’obiettivo, ma credo sarà possibile. Dobbiamo solo capire come organizzare la trasmissione di dati.

Qui c’è anche del romanticismo, eh? C’è già la scena pronta per Hollywood: i poveri tecnici di Buechel che, dopo aver elaborato le immagini satellitari con una vecchia auto scassata – perché, a suon di austerity, la Germania ha tagliato tutto – si precipitano in Polonia e al fotofinish riescono a trasferire le informazioni in Ucraina in tempo per cogliere l’obiettivo giusto; Spielberg è già lì che si sfrega le mani. Ma quale obiettivo? E qui arriva il bello.

Frohstedte: per quanto riguarda le difese aeree, il tempo e la quota di volo, etc… sono arrivato alla conclusione che ci sono due obiettivi interessanti: il ponte a est e i depositi di munizioni, che sono più in alto. Se consideriamo il ponte, quello che vorrei far capire è che il C10 del Taurus non è sufficiente e dovremmo capire meglio come funzionerebbe il tutto, e per farlo abbiamo bisogno di dati satellitari. Non so se riusciremo ad addestrare gli ucraini per una missione del genere in poco tempo; un mese, ad esempio.
Fenske: noi lo abbiamo osservato bene. Il ponte purtroppo, date le sue dimensioni, è come una pista di atterraggio. Ciò significa che potrebbero servire 10 o addirittura 20 missili.
Gerhartz: alcuni sostengono che il Taurus potrebbe riuscire se venissero utilizzati i caccia Dassault Rafale francesi.
Fenske: riuscirebbero solo a fare qualche buco e a danneggiare il ponte. Prima di fare certe affermazioni, noi per primi dovremmo…
Frohstedte: non sto sostenendo l’idea di prendere di mira il ponte; pragmaticamente voglio capire cosa vogliono.
Gerhartz: sappiamo tutti che vogliono abbattere il ponte, non solo per la sua importanza strategico – militare, ma anche per il suo significato politico, anche se adesso hanno un corridoio terrestre.

Geniale! Il ponte non è più vitale perché in Crimea si arriva ormai tranquillamente anche via terra; tirarlo giù con i Taurus è praticamente impossibile, però vale la pena comunque rischiare l’escalation perché agli ucraini farebbe tanto piacere lanciare un messaggio politico. Non fa una piega: io mi lamento dei figli miei, ma questi mi sa che non lasciano le sgommate; lasciano la zotta intera, anche un po’ spalmata ai bordi.
“La conclusione di questo scandalo” commenta Andrew Korybko dal suo sempre preziosissimo profilo Substack “è che alcuni pezzi dell’élite della Bundeswehr sono seriamente intenzionati a coinvolgere ulteriormente il loro paese nel conflitto ucraino, nonostante il rischio crescente che la guerra calda non dichiarata ma limitata dell’Occidente con la Russia si trasformi in una terza guerra mondiale a causa di errori di calcolo”; “Questa”, rilancia John Helmer, “è la prova che quando ufficiali dell’esercito tedesco e ufficiali della marina tedesca discutono delle operazioni a livello di stato maggiore prima di informare il ministro della difesa Pistorius, sono semplicemente impegnati ad attaccare la Russia quanto Gerhartz e i suoi aviatori” e questo è pacifico. Ma ci sono anche altri insegnamenti preziosi: come sottolinea Simplicius, infatti, “Molti attribuiscono comprensibilmente la fuga di notizie all’intelligence russa, ma a me sembra altrettanto, se non di più, plausibile che sia stata fatta trapelare dagli stessi addetti ai lavori tedeschi al fine di contrastare i piani del loro stesso Stato profondo, chiaramente intenzionato a iniziare la Terza Guerra Mondiale”. Quindi, in soldoni, non ci sono solo tutti i paesi del giardino ordinato ai ferri corti l’uno contro l’altro: anche all’interno di ogni singolo Paese tutta questa unità del mondo libero – dopo essersi narcotizzata sotto la cappa di Washington mano a mano che la debacle al fronte diventa più evidente – torna a mostrare cedimenti piuttosto evidenti. Ma l’insegnamento più palese di tutti – come l’altra settimana con il discorso di Putin – è quanto la nostra informazione ormai non sia più solo fuorviante e propagandistica, ma anche del tutto inutile, come nel caso del lungo e articolato discorso di Putin di fronte all’assemblea federale che si è concentrato per l’80% su questioni di economia interna e da noi è stato riassunto in Putin minaccia l’Europa col nucleare: anche qui, del contenuto concreto di queste importantissime intercettazioni non è stato fatto sostanzialmente cenno e si è completamente rovesciata la frittata, titolando a 6 colonne sulla minaccia della disinformazione russa.
Riportare le notizie ormai è disinformazione e informazione, invece, significa nasconderle: al di là di ogni considerazione, noi ci saremmo abbondantemente rotti i coglioni e la creazione di un vero e proprio media che non funzioni da ufficio stampa di una delle tante fazioni del partito unico della guerra e degli affari non può più essere rinviata. Per provare a farlo davvero abbiamo bisogno del tuo contributo; ci sono mille modi per sostenere il nostro progetto: iscriviti e fai iscrivere ai nostri canali, condividi i nostri contenuti (visto che le piattaforme dell’impero li segano sistematicamente), visita il nostro sito, iscriviti alla nostra newsletter, compra i libri dalla nostra bibli8teca, il merchandising dal nostro negozio online, ma soprattutto aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il pimpante Manuelino Macaron (per la terza volta, ndr)

L’Europa si sta preparando alla GUERRA TOTALE contro la Russia?

“Allarme a Washington”; “Una nuova arma russa minaccia gli Stati Uniti”: dopo la provocazione di Trump sul via libera alla Russia ad attaccare liberamente qualunque paese europeo si ostini a non raggiungere la quota del 2% del PIL di spesa militare e con lo stallo che va avanti, ormai, da oltre due mesi sull’approvazione del pacchetto di aiuti USA per l’Ucraina, alla vigilia del Summit di Monaco – noto anche come la Davos della Difesa – la propaganda del partito unico degli affari e della guerra, per cercare di scatenare un po’ di panico, le ha provate letteralmente tutte. La storia della novella alabarda spaziale termonucleare con la quale il dittatore pazzo ci sta minacciando tutti quanti di estinzione è una delle tante ed è piuttosto indicativa; il caso scoppia mercoledì scorso, quando il presidente della Commissione Intelligence della Camera, il repubblicano Mike Turner, volto pacioccoso del bellicismo neocon old school e grande supporter della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, in attesa del via libera per le bombe vere ne lancia una virtuale sul suo account X: “Oggi” scrive “il comitato permanente del Congresso per l’Intelligence ha informato i membri del congresso relativamente a una grave minaccia alla sicurezza nazionale” così, di botto, senza senso. Esattamente quello che la propaganda guerrafondaia stava aspettando per scatenare il finimondo: “Mosca supera un’altra linea rossa e punta a militarizzare lo spazio” rilancia gasatissima La Stampa; le prove sono schiaccianti e le elenca il nostro generale Tricarico, informatissimo. “Non è inverosimile” afferma “che la Russia possa attrezzarsi e sviluppare un’arma nucleare da lanciare nello spazio e farla esplodere con la potenza di megatoni”; non è inverosimile: quando si dice una pistola fumante. Il livello di fuffa ha raggiunto livelli tali che anche lo stesso Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, avrebbe dichiarato di essere “rimasto basito”, mentre un altro rappresentante della Commissione Intelligence prendeva anche per il culo e invitava alla calma -quando si dice lanciare il sasso e nascondere la mano. A 5 giorni di distanza, tutto quello che sappiamo è che, appunto, ci sarebbe una non meglio precisata minaccia russa che riguarda lo spazio e ha qualcosa a che fare con l’energia nucleare e con la disattivazione dei satelliti e che comunque, in nessun modo – parole della stessa Casa Bianca – rappresenta un pericolo immediato, ma qualcosa che “nel medio lungo termine” “può” condizionare la difesa degli States.

Aleksej Naval’nyj

A parte ai pennivendoli della propaganda guerrafondaia, è apparso evidente subito a tutti si trattasse di un’enorme vaccata buttata nella mischia a caso per creare un po’ di panico ad hoc, e i trumpiani hanno avuto gioco facile a perculare il tutto; i commenti al tweet di Turner sono emblematici: “Ci è appena stato detto” scrive il blogger cospirazionista Jeff Carlson “che la Russia… [riempi lo spazio vuoto]. E’ una minaccia molto reale di cui non possiamo dirti nulla. È molto seria. Dico sul serio. Quindi devi finanziare l’Ucraina per i prossimi dieci anni” – firmato Mike Turner. Manco più a montare le psyop sono buoni; fortunatamente per loro, poche ore dopo è arrivata la tragica notizia della morte in carcere di Navalny e la campagna russofoba per la corsa al riarmo si è potuta fondare su qualcosa di un attimino più solido: Torniamo a bomba, come ha titolato emblematicamente Il Manifesto, con tanto di foto di gruppo da Monaco. “Il mondo si riarma a passi forzati: Stoltenberg preme sull’acceleratore, l’Europa è in piena corsa in difesa dell’Ucraina, e la Germania si avvia verso l’economia di guerra e riapre il dibattito sull’atomica”. Il giorno dopo, Sirsky annunciava il ritiro definitivo delle truppe ucraine da Adveevka; cosa mai potrebbe andare storto?
“Dirò a Putin di attaccare i paesi europei che non spendono per la loro difesa”: con un colpo di scena degno del Berlusconi dei migliori tempi, dal palco di un’anonima cittadina della Carolina del Sud The Donald torna a imporre l’agenda del dibattito elettorale e a offrire un assist perfetto alle cancellerie più guerrafondaie del vecchio continente e alle industrie di armi, che si sfregano le mani all’idea di altri anni di succulenti extraprofitti; la necessità di armare fino ai denti tutto il continente in vista di una possibile ritirata USA dall’Europa nel caso, sempre più probabile, di una vittoria di Trump, è stato il tema per eccellenza del Summit di Monaco dove, riporta il New York Times, aleggiava un umore piuttosto asprino “in netto contrasto con quello di appena un anno fa, quando molti dei partecipanti pensavano che la Russia potesse essere sull’orlo della sconfitta”. Allora, ricorda sempre il Times, “si parlava di quanti mesi sarebbero potuti essere necessari per ricacciare i russi verso i confini che esistevano prima del 24 febbraio 2022. Ora” conclude amaramente l’articolo “quell’ottimismo appare prematuro nella migliore delle ipotesi, leggermente delirante nella peggiore” .
Finita la botta del delirio precedente, eccone uno tutto nuovo per l’occasione: l’assunto di base, a questo giro, è che Putin ora sarebbe in procinto di attaccare direttamente un paese NATO così, a cazzodicane; effettivamente, come per l’Ucraina, potrebbe essere un caso paradigmatico di profezia che si autoavvera. Ovviamente, a Putin di attaccare un paese NATO non gliene può fregare di meno, ma a forza di dirlo – e di comportarsi come se fosse un destino ineluttabile, armandosi fino ai denti e sfidando continuamente le linee rosse di Mosca – la fantasia potrebbe diventare davvero realtà; di sicuro ci stanno provando con ogni mezzo necessario: in Ucraina, ad esempio, mentre sul fronte terrestre la debacle è ormai totale, tutti gli sforzi della NATO sono concentrati a colpire la flotta russa, che secondo alcune stime, avrebbe registrato perdite vicino addirittura a un terzo del totale “che equivale”, sintetizza Andrew Korybko sul suo blog, “a 25 navi e un sottomarino”. La propaganda russofoba l’ha spacciata come una vittoria degli Ucraini, ma – in realtà – qui l’Ucraina non c’entra sostanzialmente niente: l’Ucraina manco ce l’ha una flotta; fa solo da prestanome. Si tratta, a tutti gli effetti, di una guerra della NATO contro la marina russa nel tentativo, come dice sempre Korybko, “di imporre costi militari asimmetrici alla Russia, andando a colpire obiettivi di alto profilo relativamente facili da colpire” e senza che la Russia possa in qualche modo reagire in modo simmetrico, dal momento – appunto – che l’Ucraina una marina, molto banalmente, non ce l’ha; e il tutto mentre, nel frattempo, nei mari del Nord la NATO sta svolgendo la più grande esercitazione dai tempi della Guerra Fredda: si chiama SteadFast Defender 2024 e coinvolge, in tutto, qualcosa come oltre 50 navi, un’ottantina tra jet, elicotteri e droni, oltre 1000 veicoli da combattimento e la bellezza di oltre 90 mila soldati. E dai mari del Nord si estende a tutto il continente: in coordinamento con SteadFast Defender, infatti, i tedeschi impiegheranno 12 mila uomini della decima divisione Panzer nell’esercitazione denominata Quadriga 2024, dove sperimenteranno la logistica necessaria per raggiungere Svezia, Lituania e Romania nella “prima esercitazione in cui la difesa del fianco orientale della NATO si coniuga con il ruolo della Germania come perno della difesa dell’Europa” (Carsten Breuer, capo delle forze armate tedesche). Nel frattempo, le forze armate polacche testeranno la capacità di movimento di 3.500 veicoli, compresi 100 carri armati statunitensi, nell’operazione denominata Dragon-24; insomma: prove di guerra totale alla Russia. Dopo aver decantato le lodi di questo sforzo ciclopico, per rispondere alla boutade di Trump Stoltenberg ha ricordato che, in realtà, “i paesi NATO non hanno mai speso così tanto”: come ricorda Tommaso di Francesco sul Manifesto, infatti, “In 9 anni, dal 2014, gli Stati europei più il Canada hanno aumentato di ben 600 miliardi i loro bilanci militari”; allora, i paesi NATO che rispettavano l’obiettivo del 2% erano appena 3. Quest’anno saranno 18, con alcune encomiabili eccellenze: i paesi baltici superano il 2,5%, la Grecia il 3, la Polonia addirittura il 4; “un caso istruttivo” come sottolinea l’Economist, perché oltre metà dei soldi polacchi andranno in acquisto di attrezzature – dai carri armati agli elicotteri, dagli obici ai razzi Himars – il tutto, continua l’Economist, “con una pianificazione poco coerente e con totale negligenza su come equipaggiare e sostenere tali attrezzature. I lanciatori Himars” ad esempio “possono sparare fino a 300 km, ma gli strumenti che hanno per l’intelligence non sono in grado di localizzare gli obiettivi a quella distanza e dovranno fare interamente affidamento sugli USA”.

Jens Stoltenberg

Altri paesi europei sono intenzionati a seguire le stesse orme: “Gli europei” ha affermato il ministro della difesa Pistorius a Monaco “devono fare molto di più per la nostra sicurezza”; l’obiettivo del 2% è solo l’inizio, e nel prossimo futuro “potremmo raggiungere il 3, o forse anche il 3,5%”. Più che sulla volontà di aumentare la spesa, quindi, i distinguo all’interno dell’imperialismo guerrafondaio dell’Occidente collettivo potrebbero giocarsi su dove vanno a finire questi quattrini: se la Polonia, infatti, è ben felice di riempire le tasche degli alleati d’oltreoceano, la Germania, infatti, potrebbe puntare piuttosto a sfruttare l’occasione per ridare un po’ di ossigeno al suo manifatturiero, che – nel frattempo – è stato raso al suolo; ed è solo l’antipasto. Come ricorda il Financial Times, infatti, “Le aziende tedesche si riversano negli Stati Uniti con impegni record di investimenti di capitale”; “Gli Stati Uniti” si legge nell’articolo “stanno attirando una quantità record di investimenti di capitale da parte di aziende tedesche attratte dalla loro forte economia e dai lucrosi incentivi fiscali, mentre Berlino è preoccupata per la deindustrializzazione”: in un solo anno, infatti, gli investimenti diretti tedeschi negli USA sono passati da 8,2 miliardi a 15,7 miliardi, distribuiti in 185 progetti, 73 dei quali nel settore manifatturiero – e potrebbe essere solo un primo assaggino. “Secondo un sondaggio condotto su 224 filiali di aziende tedesche negli Stati Uniti, pubblicato l’8 febbraio dalle Camere di commercio tedesco – americane” continua, infatti, l’articolo “il 96% prevede di espandere i propri investimenti entro il 2026”.
Il rilancio dell’industria bellica nostrana potrebbe essere la medicina giusta; le differenze tra Biden e Trump andrebbero forse analizzate anche da questo punto di vista: congelando la guerra per procura in Ucraina, infatti, Trump si troverebbe col fiato sul collo della sua industria bellica a corto di commesse e sarebbe portato a fare pressioni sull’Europa per alzare la spesa sì, ma solo per sostenere l’industria USA. Per tenere il fronte acceso, invece, Biden avrebbe bisogno dello sforzo industriale sia statunitense che europeo; da questo punto di vista, quindi, la scelta starebbe un po’ a noi: vogliamo morire di fame e di miseria o di guerra? E poi dicono che non c’è democrazia… Questo dilemma potrebbe caratterizzare anche l’agenda elettorale della Von Der Leyen, alla disperata ricerca di un secondo mandato alla guida del protettorato europeo: “La proposta di Von der Leyen per il secondo mandato” titola, ad esempio, Politico “più potenza militare e meno discorsi sul clima”; “Il mondo di oggi è completamente diverso rispetto al 2019” ha affermato, “e anche Bruxelles lo è” sottolinea Politico, “o lo sarà presto”. “L’attuale gruppo di deputati del Parlamento europeo” continua Politico “è stato eletto al culmine delle marce giovanili ispirate a Greta Thunberg che hanno catapultato il cambiamento climatico nel mainstream politico” e hanno influenzato la retorica del primo mandato di Ursulona. Nonostante la leggenda metropolitana sulle ecofollie di Bruxelles spacciata dall’alt right, però, al di là della retorica i risultati sono stati pochini e, per la gioia dei negazionisti climatici che hanno scambiato la lobby del fossile per il nuovo fronte di liberazione popolare, ora anche la retorica sembra essere arrivata al capolinea, e così “nella conferenza stampa di lunedì” riporta sempre Politico “il clima è stato appena menzionato e l’accento si è spostato tutto sulla difesa”; ma nella peggiore delle ipotesi, rilancia l’Economist, se davvero “l’America abbandonasse l’Europa” la nuova situazione “richiederebbe di fare molto di più che semplicemente aumentare la spesa”. “Quasi tutti gli eserciti europei” sottolinea l’Economist “fanno fatica per raggiungere i loro obiettivi di reclutamento”: a dicembre, Pistorius ha affermato che, col senno di poi, aver interrotto la leva obbligatoria in Germania nel 2011 è stato un tragico errore, mentre il generale britannico Patrick Sanders, capo dell’esercito britannico, ha usato l’esempio dell’Ucraina per ribadire che “Gli eserciti regolari iniziano le guerre; gli eserciti di cittadini le vincono”. Ma anche nei rari casi in cui gli obiettivi del reclutamento vengono raggiunti, mancano comunque “capacità di comando e controllo, come ufficiali di stato maggiore addestrati a gestire grandi quartier generali”.
L’altro nervo scoperto – fondamentale – è la questione nucleare: “L’America” sottolinea l’Economist “è impegnata a usare le sue armi nucleari per difendere gli alleati europei” e sarebbero quelle armi ad averci fornito una garanzia contro l’invasione russa; ora, però, chi può pensare che “un presidente americano che non è più disposto a rischiare le sue truppe per difendere un alleato europeo, sarebbe invece disposto a mettere a repentaglio le città americane in un conflitto nucleare?”. Francia e Gran Bretagna l’atomica ce l’hanno, ma si parla di 500 testate in totale contro le 5 mila degli USA e le 6 mila russe e, in buona parte, non sappiamo come gestirle: le armi nucleari britanniche, infatti, sono assegnate alla NATO; la Gran Bretagna può decidere di usarle come vuole “ma è totalmente dipendente dagli USA per la progettazione delle testate, per le quali attinge ad un pool comune di missili, conservato in Georgia”. “Se l’America dovesse interrompere ogni cooperazione” sottolinea l’Economist “le forze nucleari britanniche probabilmente avrebbero un’aspettativa di vita misurata in mesi anziché in anni”; e il problema della catena di comando va ben oltre il nucleare: la NATO, infatti, gestisce una complessa rete di quartieri generali – un quartier generale in Belgio, tre comandi in America, Paesi Bassi e Italia, e una serie di comandi più piccoli sotto. “Questi” sottolinea l’Economist “sono i cervelli che gestirebbero qualsiasi guerra con la Russia. E se Trump si ritirasse dalla NATO da un giorno all’altro, gli europei dovrebbero decidere come riempire questo vuoto” e in molti dubitano che gli Stati Membri dell’UE possano mettersi d’accordo nell’individuare l’equivalente di un comandante supremo tra di loro, in grado di sostituire il padrone di Washington.

The Donald

Insomma: l’obiettivo dell’Economist è chiaro: fare un po’ di terrorismo psicologico contro la possibilità di una nuova amministrazione Trump; l’Europa è sotto attacco russo, ovviamente deve spendere un sacco di quattrini per riarmarsi, ma che non gli venga in mente di vedere nelle minacce di Trump un opportunità per ritagliarsi uno spazio di autonomia strategica, perché senza la Pax Americana l’Europa è destinata a soccombere e, magari, anche a tornare a farsi la guerra vera al suo interno. Nel frattempo, in Italia – per tagliare la testa al toro – abbiamo approfittato del clima bellicista per fare un altro bel favore all’industria delle armi: la famosa legge 185 – che, anche se è stata spesso aggirata, permetteva al Parlamento di avere un controllo su dove autorizzavamo ad esportare le nostre armi – è sotto attacco; “L’obiettivo” titola Il Manifesto “è escludere il Parlamento dai controlli”. “Il senso dell’operazione che la maggioranza si appresta a varare” conclude l’articolo “è di ridare al governo il potere di decidere il da farsi in autonomia, togliendo alle Camere ogni potere di discussione”.
Forse di fronte all’offensiva propagandistica delle due correnti del partito unico degli affari e della guerra, il potere di discussione – invece – sarebbe il caso di riprendercelo per sul serio; per farlo, ci serve un vero e proprio media che che non si faccia infinocchiare dalla propaganda bellicista e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

Italia, Germania e Giappone: quale delle 3 Colonie USA FALLIRÀ PER PRIMA?

Germania in crisi titolava lo scorso 8 febbraio a caratteri cubitali – per l’ennesima volta – Il Sole 24 Ore; “produzione industriale giù del 3%”. A dare la botta definitiva sarebbero stati i dati dell’ultimo dicembre: ci si aspettava un crollo significativo dello 0,4, al massimo lo 0,5% che, spalmato sull’anno, significherebbe comunque un disastroso – 6%; il calo invece, in un solo mese, è stato addirittura dell’1,6%. Altri 12 mesi così e l’industria tedesca, in un solo anno, avrà perso quasi il 20%; “I giorni della Germania come superpotenza industriale stanno inesorabilmente volgendo al termine” sentenzia Bloomberg.

Ciononostante, ci sono altre superpotenze industriali che per andare come la Germania ci metterebbero una bella firma: “Il prodotto interno lordo del Giappone si è inaspettatamente ridotto per il secondo trimestre consecutivo” scrive Asia Nikkei, il Sole 24 Ore giapponese. Un altro fulmine a ciel sereno: la media degli analisti interpellati dal quotidiano economico, infatti, puntava a una crescita dell’1,1%, e la conseguenza immediata ha qualcosa di epocale; con questi ultimi dati, infatti, il Giappone scende definitivamente dal podio delle principali economie globali e, ironia della sorte, si fa scalzare proprio dalla Germania che, come scrive Onida sul Sole, nel frattempo – come negli anni ‘90 – “è tornata ad essere il vero malato d’Europa”.
Eppure, tra le grandi potenze industriali c’è anche chi ha tutto da invidiare pure al Giappone; chi? Ma noi, ovviamente: la nostra amata colonia italiana. La gelata del mattone titolava ieri mattina La Stampa; “Le compravendite di case calano del 16%, e le erogazioni dei mutui del 35%”, specifica. Non so se è chiaro: il 35% di mutui in meno, un’enormità dalle conseguenze devastanti: il patrimonio immobiliare degli italiani, infatti, negli ultimi 30 anni è stato il vero grande ammortizzatore sociale di massa che ha permesso di tenere botta di fronte a una crisi economica infinita e di proporzioni bibliche e che è stata tutta scaricata sulle persone comuni, mentre i super – ricchi incassavano. Il protettorato italiano è ormai, in buona parte, un’economia a zero valore aggiunto fondata su gelaterie e parrucchieri, che durano come un gatto in tangenziale e, ciononostante, proliferano come funghi proprio perché fanno leva sul patrimonio immobiliare accumulato dalle famiglie, che ormai è ridotto al lumicino; come ricordava una decina di giorni fa Il Sole 24 Ore infatti, ancora solo nel 2009 le famiglie italiane erano le più ricche di tutti: 159.700 euro pro capite, ben al di sopra dei francesi che erano fermi a quota 137.400 euro e, addirittura, degli statunitensi, a quota 152.300. E il grosso di questa ricchezza era tutto mattone: circa il 65%.
Ora tra i paesi del G7 siamo il fanalino di coda (e manco di poco) e più poveri eravamo in partenza, più c’abbiamo rimesso: nel 2011 la metà più povera della popolazione, infatti, deteneva il 12% del patrimonio complessivo; ora non arriva all’8, una quota che, però, non è stata redistribuita equamente tra il 50% messo meglio, eh? Se la sono presa tutta i più ricchi: il 10% più ricco del paese, infatti, già all’inizio del secolo deteneva oltre la metà della ricchezza complessiva, il 53%; ora ne detiene il 58. Si sono fregati tutta la ricchezza del 50% più povero e un pochino anche di tutti gli altri.
In buona parte è dovuto a un fattore molto semplice: il patrimonio (misero) dei più poveri sta nel mattone; quello dei più benestanti in buona parte è invece in azioni di aziende quotate e il valore delle azioni quotate è aumentato parecchio di più che la casa di famiglia, il 125% contro il 54, quasi 3 volte. E questo è se rimaniamo a Piazza Affari; quelli più privilegiati tra i privilegiati, infatti, mica investono nelle aziende italiane mezze decotte quotate a Milano: puntano direttamente tutto sui mercati internazionali che sono cresciuti del 200%, quasi il doppio. Con quest’ultima prevedibilissima, scontatissima botta al mercato immobiliare si va verso la resa dei conti finale; ora, una domandina semplice semplice: cosa hanno in comune i tre paesi elencati? Esatto: sono i 3 grandi sconfitti della seconda guerra mondiale e non è un caso; il superimperialismo finanziario statunitense, infatti, ha allungato le sue mani piene zeppe di dollari su tutto il pianeta, ma una cosa è essere semplicemente soggiogati dal potere del dollaro, un’altra cosa è essere occupati militarmente che è, sostanzialmente, la nostra condizione. Negli anni, un pochino questo aspetto fondamentale era rimasto quasi in sordina; certo, c’è stata Gladio, la strategia della tensione, il golpe bianco di tangentopoli, però il peso materiale, concreto, tangibile dell’occupazione militare vera e propria – almeno da un po’ di tempo a questa parte – non emergeva in modo così lampante, anche perché le nostre élite condividevano pienamente l’agenda e nessuno gliene chiedeva particolarmente conto. Ora, nei confronti dei propri protettorati l’impero usa più o meno la mano forte a seconda delle circostanze: quando se lo può permettere – e coincide con i suoi interessi o, almeno, non ci fa a cazzotti – può essere anche un dominio benevolo; lo è stato addirittura quello inglese sul subcontinente indiano dove, a un certo punto, sono state investite anche ingenti risorse, e proprio per liberare forze produttive: sono state costruite infrastrutture, sono stati fatti investimenti industriali enormi, fino a che l’impero non è entrato in difficoltà e, allora, le forze produttive sono state massacrate per estrarre quanto più valore possibile e rinviare il declino, che è esattamente quello che sta succedendo ora a noi con gli USA.
Per far fronte al fatto che una bella fetta del Sud globale di farsi succhiare risorse si è abbondantemente rotto i coglioni, e sta reagendo in modo sempre più perentorio, il superimperialismo finanziario USA sta succhiando risorse da tutti gli alleati e tra gli alleati, in particolare – ovviamente – a quelli letteralmente occupati militarmente, dove può esercitare direttamente e senza tanti compromessi il proprio dominio: l’equivalente del subcontinente del superimperialismo finanziario USA; la buona notizia è che, vedendo al precedente britannico, per quanto ti sforzi di spolpare lo spolpabile (o forse proprio perché ti riduci a spolpare lo spolpabile), alla fine l’impero crolla e i sudditi trovano il modo di andarti abbondantemente nel culo. Quella cattiva, invece, è che – sempre nel caso britannico – per convincerli a mollare definitivamente l’osso c’è voluta un’altra bella guerra mondiale, che non è stata esattamente una pacchia, diciamo. Come andrà a finire?
Autunno 2023, Dusseldorf: “In un cavernoso capannone industriale” “i toni cupi di un suonatore di corno accompagnano l’atto finale di una fabbrica secolare” scrive in un raro slancio poetico Bloomberg: la fabbrica in questione, da una trentina di anni, era diventata la divisione locale della francese Vallourec, il principale concorrente della ex italiana Tenaris nel mercato dei tubi in acciaio senza saldatura indispensabili per l’industria petrolifera e del gas, ma le sue radici affondano più dietro assai; a partire da fine ‘800, infatti, era sempre stata il fiore all’occhiello di Mannesmann, il colosso tedesco che prima di dedicarsi interamente alle telecomunicazioni ed essere inglobato da Vodafone (in quella che rimane ancora oggi la più grande acquisizione di tutti i tempi) aveva la leadership mondiale della lavorazione dell’acciaio e ora, “tra lo sfarfallio di razzi e torce”, ecco che “molte delle 1.600 persone che hanno perso il lavoro rimangono impassibili mentre il metallo incandescente dell’ultimo prodotto dello stabilimento viene levigato fino a diventare un cilindro perfetto su un laminatoio”. “La cerimonia” continua Bloomberg “mette fine a una corsa durata 124 anni, iniziata nel periodo di massimo splendore dell’industrializzazione tedesca e che ha resistito a due guerre mondiali, ma non è riuscita a sopravvivere alle conseguenze della crisi energetica”; cerimonie del genere, continua Bloomberg, sono diventate sempre più frequenti e ormai scandiscono “la dolorosa realtà che la Germania deve affrontare: i suoi giorni come superpotenza industriale potrebbero essere giunti al termine”.
Notare le date: 124 anni, come avrebbe dovuto festeggiare il centoventesimo compleanno anche la Ritzenhorff, la storica fabbrica di bicchieri di Marsberg, nella Renania – Vestfalia, ma per la festa non sono previste candeline; come ricorda Isabella Buffacchi sul Sole 24Ore infatti, la dirigenza ha annunciato “di doverla dichiarare insolvente per evitare la bancarotta, e 430 dipendenti rischiano il posto di lavoro”.
Siamo alla resa dei conti definitiva della seconda guerra dei 100 anni, che anche nella sua prima versione – quando a confrontarsi erano Francia e Inghilterra – ne durò in realtà 116; a questo giro, invece che due paesi in lotta per il controllo del territorio, a confrontarsi sono stati due sistemi economici: l’imperialismo finanziario da un lato e il capitalismo produttivo dall’altro. Potremmo leggerla anche così questa fase terminale della grande avventura industriale dell’asse Italia – Germania – Giappone, l’ultimo atto della guerra dei 100 anni tra il neofeudalesimo delle oligarchie finanziarie e il capitalismo industriale che, come ci ha raccontato Michael Hudson, è iniziata appunto con la prima guerra mondiale. Il tracollo dell’industria tedesca procede spedito oltre ogni più pessimistica previsione e il modo migliore per provare a realizzarne l’entità è attraverso questo grafico:

rappresenta l’andamento della produzione industriale; fatta 100 la produzione nell’ottobre 2015, è passata da un valore di 70 nel 1993 a un picco di 107,5 nel novembre 2017, in una delle più grandi ascese di sempre in un paese a capitalismo già avanzato. Da allora è iniziata la grande discesa che ha portato a perdere 15 punti nell’arco di 6 anni e se gli indici non vi stuzzicano abbastanza la fantasia, ecco qualche esempio concreto: il gigante della componentistica per l’automotive Continental ha da poco annunciato il taglio di oltre 7.000 posti di lavoro, 5.400 in ruoli amministrativi e 1.750 addirittura nelle attività di sviluppo e ricerca e “circa il 40% delle riduzioni” sottolinea Bloomberg “riguarderà i dipendenti in Germania”. Il produttore di pneumatici Michelin ha annunciato la chiusura di due dei suoi stabilimenti e la riduzione di un terzo entro il 2025 “con una mossa” scrive sempre Bloomberg “che interesserà più di 1.500 lavoratori” ai quali vanno aggiunti quelli impiegati in due stabilimenti della concorrente Goodyear che ha annunciato intenzioni simili; e sempre per restare nell’automotive e dintorni, anche Bosch, riporta sempre Bloomberg, “sta cercando di tagliare 1200 posti di lavoro nella sua unità software ed elettronica”.
Va ancora peggio per la chimica dove, sempre secondo Bloomberg, “quasi un’azienda su 10 sta pianificando di interrompere definitivamente i processi di produzione”; a inaugurare le danze intanto c’hanno pensato la Lanxess di Colonia e la BASF, che hanno annunciato rispettivamente un migliaio e 2.600 licenziamenti. D’altronde, non poteva andare molto diversamente: se la produzione industriale tedesca è calata in media del 3% in un anno, nel solo mese di dicembre quella metallurgica è crollata di 5,8 punti; quella chimica addirittura di 7,6, e il tonfo si è sentito benissimo anche in Italia. La crisi tedesca fa calare l’export made in Italy titolava il 16 gennaio Il Sole 24Ore, “a novembre – 4,4% annuo”; “La discesa, in termini assoluti” si legge nell’articolo “vale oltre 2,5 miliardi di euro”, ma se nei mercati extra UE l’export italiano cala di meno di 3 punti e mezzo, in Europa siamo poco sotto i 5 punti e mezzo “con punte più alte proprio a Berlino, primo mercato di sbocco, che ha ridotto nel solo mese di novembre gli acquisti del 6,4%, approfondendo il rosso dall’inizio dell’anno”. Risultato: “Italia e Germania”, riporta sempre Il Sole in un altro articolo, “sono i paesi della zona euro con la quota più alta di aziende vulnerabili” e, cioè, di aziende che rischiano di chiudere i battenti: addirittura 1 su 10; “Nel secondo e terzo trimestre del 2023” continua l’articolo “l’indice delle dichiarazioni di fallimento dell’eurozona ha raggiunto il livello più elevato dal 2015, quando l’indicatore UE è stato reso disponibile per la prima volta” e, ovviamente, il grosso delle aziende vulnerabili sono proprio aziende manifatturiere: l’11% contro il 6% di quelle attive nei servizi. Eh, narra la difesa d’ufficio degli analfoliberali, un po’ però ce lo cerchiamo, con tutte queste piccole aziende inefficienti. Beh, insomma: “La quota di imprese vulnerabili” ricorda infatti Il Sole “è aumentata in misura maggiore tra le grandi imprese rispetto alle PMI”. Eh, continua la difesa analfoliberale, ma un po’ comunque se la sono cercata: sono vecchi dinosauri, ma, anche qui, ari-insomma; “La quota di imprese vulnerabili” continua infatti l’articolo “è cresciuta più tra le imprese giovani rispetto alle più vecchie”, ed ecco così che, anche a questo giro, dura realtà rossobruna batte editorialisti del Foglio 3 a 0. E le stime dell’osservatorio UE potrebbero essere ottimistiche: secondo la società di consulenza Alvarez & Marsal, riporta infatti Bloomberg, “circa il 15% delle aziende tedesche attualmente sono in difficoltà finanziarie”; in soldoni, significa che fanno fatica a ripagare le obbligazioni che hanno emesso e, come sempre accade quando si cominciano ad ammucchiare le carcasse, ecco che spuntano gli avvoltoi. “Secondo i banchieri e i consulenti presenti a Davos” ricorda, infatti, sempre Bloomberg “le società di private equity sono attratte dalla Germania a causa delle difficoltà che molte aziende stanno attraversando, e stanno cercando di acquistare aziende familiari a basso costo e promuovere miglioramenti operativi” che, se lo traduci nella nostra lingua, significa come sempre smembrarle a pezzetti, spolparle per bene e rivenderle con ampio margine fuggendo con la borsa piena e il deserto produttivo alle spalle. Fondi come Ares Management e Blackstone, riporta sempre Bloomberg, hanno aperto uffici a Francoforte e sono a caccia di affari per acquistare a prezzi di saldo, o anche soltanto per concedere prestiti ad alti tassi. E c’è chi scommette nel crollo definitivo: “I venditori allo scoperto” riporta, infatti, sempre Bloomberg “stanno scommettendo 5,7 miliardi di euro contro le aziende del paese”; ad essere presa di mira, in particolare, Volkswagen che in molti, ormai, sospettano non abbia nessuna chance di reggere l’impatto della concorrenza cinese. Ma le scommesse vanno anche oltre l’industria, a partire da Deutsche Bank, particolarmente esposta nel settore immobiliare, dove si è già registrato un calo di prezzi dell’11% nel residenziale che potrebbe essere solo l’antipasto; per gli uffici, infatti, “gli analisti” riporta Bloomberg “prevedono cali di valore in media rispetto al picco del 40%”. L’ultima volta che l’impero finanziario angloamericano cercò di troncare sul nascere l’ascesa industriale del Giappone e della Germania – con l’Italia utile idiota al seguito – le potenze industriali reagirono coltivando il sogno di ridurre in schiavitù mezzo pianeta; ora, fortunatamente, non hanno la potenza militare e politica nemmeno per pensarci e, però, la tentazione rimane: come abbiamo anticipato ieri, infatti, la Germania si è messa alla testa dei paesi europei che stanno cercando di affondare la normativa europea che impone alle grandi aziende di rispettare nientepopodimeno che le leggi sull’ambiente e i diritti umani, e pure di farle rispettare ai fornitori e ai subappaltatori. E’ già un passo avanti: prima, per trovare schiavi, ti invadevano coi carrarmati; ora si accontentano di fare qualche gara al massimo ribasso o di un po’ di caro vecchio caporalato.

Olaf Scholz

Di fronte alla debacle economica e all’assoluta mancanza anche solo di un barlume di reazione da parte della classe dirigente, nel mondo reale i malumori non possono che aumentare esponenzialmente: se oggi la maggioranza di governo tornasse alle urne, tutta insieme supererebbe di poco il 30%; e le piazze tornano a riempirsi di lavoratori dell’industria e dei servizi, ma in queste settimane, sopratutto, di trattori che, nonostante comportino numerosi disagi e spesso portino avanti rivendicazioni non proprio chiarissime – e addirittura a volte non proprio condivisibili – possono vantare un grande sostegno popolare, una miccia che bisogna spegnere in tutti i modi. E in particolare in Germania, dalle proteste contro il sostegno incondizionato a guerre e genocidi a quelle contro il declino economico, non c’è metodo migliore per spegnere una miccia che fare leva sull’atavico senso di colpa per il passato nazista; ed ecco così che come per magia, proprio quando serve, spunta una bella psyop in piena regola: ricordate la vicenda del fantomatico complotto di estrema destra ordito da alcuni dirigenti dell’AfD che avrebbero esternato la volontà di radunare gli immigrati per poi deportarli? Quello che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere in piazza contro la deriva nazista, segnando l’unica vittoria in termini di public relations del governo Scholz da 2 anni a questa parte? Beh, a leggere il sempre ottimo Conor Gallagher su Naked Capitalism, è una vicenda non esattamente limpidissima, diciamo; il tutto, infatti, sarebbe nato da un rapporto di un’organizzazione no profit di nome Correctiv: Piano segreto contro la Germania si intitola. “Era l’incontro di cui nessuno avrebbe mai dovuto venire a conoscenza” recita il rapporto; “A novembre” continua “politici di alto rango del partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), neonazisti e uomini d’affari comprensivi si sono riuniti in un hotel vicino a Potsdam. Il loro programma? Niente di meno che la messa a punto di un piano per le deportazioni forzate di milioni di persone che attualmente vivono in Germania”. Nel rapporto si fa inoltre riferimento alla Conferenza di Wannsee, durante la quale una quindicina di gerarchi nazisti mise a punto la strategia della cosiddetta soluzione finale della questione ebraica; indignarsi, ovviamente, è il minimo indispensabile ed è esattamente quello che succede, e non ci si ferma alle proteste: bisogna trovare una soluzione drastica. E la soluzione è proibire per legge l’AfD che diventa, magicamente, una proposta ragionevole, razionale, almeno fino a quando la vicedirettrice di Correctiv, Anett Dowideit, viene intervistata dalla Tv e indovinate un po’? Afferma, riporta Gallagher, “che in realtà non si era parlato di deportazioni durante l’incontro, né era simile alla conferenza nazista di Wannsee del 1942, dove si si decise di intraprendere l’uccisione di massa degli ebrei”; “Dowideit” continua Gallagher “ha affermato che la stampa tedesca ha interpretato male il rapporto di Correctiv”: due smentite secche che, però, non hanno trovato eco sui media – dove si continua a discutere di quanto sia democratico proibire all’AfD di partecipare alle elezioni. E la cosa buffa è che, nel frattempo, le deportazioni avvengono davvero e non certo a causa dell’AfD; a impartirle, infatti, è stato il democraticissimo Bundestag che ha approvato, nel silenzio dei media, una legge che apre la strada a una semplificazione drastica per la deportazione dei richiedenti asilo.
Quanto a lungo continueremo a permettere alle nostre élite di evitare di pagare le conseguenze delle loro azioni semplicemente spacciando puttanate? Per smetterla una volta per tutte di farci prendere così platealmente per il culo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che invece che spacciare armi di distrazione di massa per rimandare la resa dei conti, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

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