Ottoliner, oggi si festeggia! E’ tornato l’appuntamento che tutti attendevamo frementi: il mitico Prime Day, l’immancabile, eccitante, entusiasmante festa delle offerte prime; la celebrazione della guerra che il grande capitalismo monopolistico made in USA ha dichiarato contro tutte le piccole e medie imprese produttive e commerciali del pianeta, l’ennesimo gigantesco trasferimento di ricchezza dalle tasche di chi campa dandosi da fare, alle casse di una manciata di parassiti, a partire, ovviamente, dai soliti monopoli finanziari che sono i principali azionisti di Amazon e che Giorgia la madrecristiana – che, a chiacchiere, sarebbe la paladina degli interessi dell’Italia del fare – l’altro giorno ha ricevuto in pompa magna stendendogli tappeti rossi. Amazon ha raggiunto una posizione monopolistica ricorrendo a ogni sorta di sotterfugio e di escamotage e oggi usa la rendita che deriva dall’essere monopolista per distruggere l’economia reale dei territori e riempire le casse delle oligarchie, sulla pelle di migliaia di addetti controllati a vista in ogni minimo movimento e sfruttati al punto tale che per descrivere le loro condizioni di lavoro, chi si occupa di queste cose ha dovuto coniare un nuovo termine: il bezosismo, malattia terminale del taylorismo. Amazon ha attirato nella sua rete milioni di rivenditori e di aziende in tutto il pianeta offrendo condizioni vantaggiose grazie alla potenza di fuoco del grande capitale finanziario che la sosteneva e, una volta attirate nella trappola, le ha sottoposte a un sistema di ricatti che puzza di feudalesimo da miglia di distanza; ma prima di ripercorrere in dettaglio la lunga marcia che ha portato un semplice sito di e-commerce a diventare uno dei più feroci agenti della dittatura turbo-capitalista in cui siamo immersi e di come, inspiegabilmente, i suoi azionisti principali sono diventati gli amichetti del cuore della nostra amata premier, paladina delle piccole imprese e santa protettrice delle partite IVA, vi ricordo di mettere un like a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra guerra contro altri algoritmi altrettanto feroci e distopici e, se non lo avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un finto-sovranista a svendere piccole e micro-imprese alla grande finanza globalista, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a fare l’informazione necessaria per creare un fronte popolare contro queste sanguisughe.

Per centinaia di milioni di persone in tutto il mondo (a partire da me) è ormai la cosa più naturale del mondo: sostanzialmente qualsiasi cosa mi venga in mente, basta un click e (spesso dopo nemmeno 24 ore) ecco che me la ritrovo sul pianerottolo di casa; peccato, però, che – come sottolinea in un lungo articolo sul New York Times Karen Weise – “per far funzionare tutto questo, Amazon abbia messo in piedi una macchina che spreme sempre più soldi dalle centinaia di migliaia di aziende, dalle piccole start-up ai grandi marchi, che inseriscono tutto nel suo store”. Karen ha condotto diverse decine di interviste a piccoli e medi imprenditori che vendono la loro merce attraverso la gigantesca macchina infernale del colosso di Bezos e il bilancio è disarmante: “Amazon” riassume Karen “punisce le aziende se i loro articoli sono disponibili anche solo per un centesimo in meno altrove. Le spinge a usare i magazzini dell’azienda. E le obbliga ad acquistare annunci sul sito per assicurarsi che le persone vedano i loro prodotti”; in questo modo, Amazon si appropria di una fetta sempre più consistente di profitto a discapito delle aziende piccole e medie. “Amazon incassa 27 centesimi di ogni dollaro che i clienti spendono per acquistare cose che i suoi commercianti vendono, un balzo del 42% rispetto a cinque anni fa secondo Instinet, una società di ricerca finanziaria. Ciò non include quello che le aziende pagano per piazzare annunci su Amazon, un’attività che Wall Street considera preziosa quanto Nike”: “Se i venditori non avessero successo” ha affermato Jeff Wilke, amministratore delegato del business consumer di Amazon, “non sarebbero qui”; ma la realtà, piuttosto, è che non hanno alternative perché grazie al sostegno della grande finanza, Amazon s’è conquistata una posizione di monopolio e chi non accetta il ricatto, molto banalmente, muore. “L’anno scorso” ricorda infatti Karen “gli americani hanno acquistato più libri, magliette e altri prodotti su Amazon che non su eBay, Walmart e i suoi sette maggiori concorrenti online messi insieme”: sulle piattaforme social, sottolinea Karen, è tutto un proliferare di gruppi di produttori e rivenditori che si lamentano delle condizioni imposte da Amazon e “oltre 12.000 persone hanno firmato una petizione su Change.org chiedendo ad Amazon di modificare una regola arcana sui prodotti contraffatti che, secondo loro, potrebbe distruggere tutte le loro attività”. Ma mentre tutti gli altri piangono, Amazon accumula capitali che reinveste in attività che spera, in prospettiva, abbiano un margine ancora maggiore dell’e-commerce: “Miliardi di dollari generati dalla vendita di prodotti online finiscono in investimenti come Alexa, su cui lavorano 10.000 dipendenti, e nelle costose produzioni hollywoodiane dell’azienda”.
Inizialmente, il grosso dei rivenditori presenti su Amazon gestivano i propri magazzini, almeno fino a quando Amazon non annusò l’opportunità e cominciò ad aprire magazzini sempre più grandi di proprietà vicino ai principali centri urbani: in un primo tempo, per riempire questi spazi giganteschi ha offerto condizioni favorevoli ai rivenditori, che potevano usare i magazzini di Amazon anche per la merce venduta attraverso altri siti e usufruire di servizi a prezzi molto competitivi; d’altronde, a quei tempi, gli abbonati al servizio Prime erano pochi milioni. Da lì in poi Amazon ha utilizzato la potenza di fuoco finanziaria dei suoi azionisti (e, cioè, i principali monopoli finanziari del pianeta a partire, ovviamente, da BlackRock e Vanguard) per offrire una lunga serie di servizi in perdita e far crescere a dismisura il numero degli abbonati – a partire, ovviamente, da Prime Video; a quel punto, a prendersi il grosso della fetta delle vendite sul portale sono diventate – appunto – le merci che ricadevano dentro il programma Prime e Amazon è diventato “il più grande fornitore di servizi di logistica e di evasione degli ordini al mondo” surclassando anche colossi come DHL, il gigante della logistica di Deutsche Post che, per quanto gigante, non ha dietro la potenza di fuoco finanziaria delle big three. Il suo azionista di riferimento è molto più povero: il governo tedesco.
Il primato nel settore della logistica Amazon se l’è conquistato alla cara vecchia maniera: sfruttando il lavoro più di ogni altro concorrente, alla faccia della fuffa sulle grandi rivoluzioni tecnologiche dei tecno-feudatari a stelle e strisce. L’inferno distopico di chi lavora nei magazzini è cosa nota, con un sistema di misurazione e controllo di ogni singolo movimento che 1984 di Orwell scànsate: è addirittura stato coniato un nuovo termine ad hoc, il bezosismo, malattia terminale del taylorismo. A inventarlo non è stato un sindacalista marxista leninista, ma un giornalista del Wall Street Journal, Christopher Mims: Il modo in cui Amazon usa la tecnologia per spremere i lavoratori merita un nome tutto suo, titolava un suo celebre lungo articolo di ormai 3 anni fa: il bezosismo; “Il gigante dell’e-commerce” commentava “ha potenziato i sistemi di gestione inventati un secolo fa con sorveglianza, algoritmi e dati, dando vita a un nuovo –ismo”.
Come le guerre imperialiste sterminano sempre più innocenti civili senza che nessuno si debba sporcare davvero le mani, così anche dentro Amazon la disciplina anti-umana più feroce è portata avanti senza bisogno che qualche leccaculo ti insegua ed alzi la voce: un sofisticato sistema di sensori rivela ogni mossa dei lavoratori e se non sei dentro gli standard vieni cacciato. Non va meglio ai corrieri che non solo sono sottoposti (come i colleghi magazzinieri) a sistemi distopici di micro-controllo algoritmico, ma spesso si ritrovano in un vero e proprio schema piramidale truffaldino che asfalta i loro diritti più basilari, e anche quelli degli Stati. 31 luglio 2024, Il Fatto Quotidiano: “Amazon, il sistema piramidale e le cooperative che esistono solo per fornire manodopera a basso costo”; l’articolo ricorda come il giudice per le indagini preliminari di Milano a fine luglio avesse convalidato il decreto di sequestro da 121 milioni emesso poco prima dalla procura di Milano. Secondo l’accusa “Il monitoraggio del singolo corriere, con l’impiego di software forniti proprio dalla casa madre Amazon, è la più significativa espressione di un utilizzo consapevole di strategie imprenditoriali direttamente volte ad agevolare la commissione della frode fiscale”: sostanzialmente Amazon, per aumentare ancora di più lo sfruttamento e evadere le tasse, controllava i corrieri come fossero suoi dipendenti, ma li faceva assumere da cooperative che, appunto, “esistono al solo scopo di fornire manodopera a basso costo e al di fuori delle condizioni previste dalla legge”, il tutto con “fittizi contratti d’appalto”. Potenza di fuoco finanziaria e iper-sfruttamento del lavoro (con la connivenza di governi e amministrazioni assetati di investimenti, anche quando non creano mezzo euro di ricchezza reale) sono la strada maestra per imporre un monopolio e, una volta imposto il monopolio, non c’è più niente che ostacoli l’imposizione di condizioni vessatorie ai rivenditori: “Poiché i magazzi
ni ormai operano quasi a piena capacità” scrive Karen, al posto delle buone condizioni iniziali “l’azienda applica tariffe diverse volte superiori rispetto ai concorrenti per immagazzinare gli articoli prima della spedizione” e quello che tieni nel loro magazzino, in soldoni, ormai puoi venderlo solo su Amazon. Per spedire una t-shirt attraverso Amazon, se l’hai venduta attraverso Amazon paghi 3 dollari e 68, riporta Karen; se è venduta attraverso un sito esterno 13,8, oltre 4 volte di più. Amazon poi impone, in modo sempre più smaccato, ai singoli rivenditori di applicare sulla sua piattaforma i prezzi più bassi in circolazione; secondo le norme antitrust, molto banalmente, è una pratica illegale: com’è logico, ogni rivenditore dovrebbe avere il diritto di fare i prezzi che vuole dove vuole, ma lo strapotere del monopolio permette ad Amazon di aggirare ogni norma. Nel caso rilevi su altri siti prezzi inferiori applicati dallo stesso rivenditore, infatti, invece di cacciarlo esplicitamente fa una cosa molto più elegante: disattiva i pulsanti che permettono di ordinare la merce con un click; gli utenti allora devono fare un giro leggermente più complesso che, invece che un solo click, ne prevede magari 2 o 3 e “quando quei pulsanti scompaiono” scrive Karen “i venditori affermano che le vendite crollano del 75%”.
Ma il meglio deve ancora arrivare, perché quando imponendo i prezzi migliori e l’adesione di massa al programma Prime Amazon ha conquistato il monopolio dell’e-commerce del mondo libero e democratico, ha cominciato a chiedere il pizzo. L’avrete notato tutti: sono i risultati sponsorizzati; buona parte del successo iniziale di Amazon, infatti, dipendeva dal fatto che per ogni ricerca ti offriva la soluzione con le recensioni migliori. Non più: ora a venire prima è chi paga di più. Un’azienda che aiuta i rivenditori a posizionarsi nel motore di ricerca di Amazon ha fatto un esperimento: ha smesso di pagare la sponsorizzazione per 750 prodotti; “Immediatamente” riporta Karen “le vendite si sono ridotte del 24%” ed era solo l’inizio perché meno vendi, più in basso cadi tra le risposte del motore di ricerca. Ed ecco, così, che nell’arco di 10 settimane “le vendite dei prodotti senza annunci erano crollate del 55%”; oltre che per i venditori, è un danno anche per i consumatori: Amazon, infatti, ha superato Google come motore di ricerca quando si tratta di fare acquisti, ma senza che nessuno se ne accorgesse non consiglia più quello che conviene ai consumatori, ma quello che conviene a Bezos. E non solo: perché, ovviamente, se fino a quando la testa della classifica si guadagnava con le buone recensioni i rivenditori erano costretti a concentrarsi sul prezzo e sulla qualità investendo quello che era necessario investire sul prodotto, ora che la testa della classifica si guadagna pagando il pizzo ad Amazon, i soldi – necessariamente – invece che sul prodotto vengono investiti sulla pubblicità; e, quindi, la roba è più cara e fa più schifo, ma è pubblicizzata meglio.
E non è ancora finita perché, spesso e volentieri, a fare concorrenza sleale al singolo rivenditore è direttamente Amazon stessa: è quello che è successo, ad esempio, a Plugable Technologies, un’azienda di medie dimensioni statunitensi specializzata in cavi e adattatori usb di ogni genere; nel 2016 Bezos in persona la citò diffusamente nella lettera agli investitori come caso di studio di come i rivenditori potevano approfittare del marketplace di Amazon per consolidare il loro business. Poi, però, qualcosa è cominciato ad andare storto: l’azienda ha cominciato a registrare un crollo anomalo delle vendite, in particolare del suo prodotto di maggior successo, una docking station (e, cioè, un semplice dispositivo che permette di connettere un notebook a sostanzialmente ogni tipo di periferica) fino a quando non hanno ricevuto una mail; la docking station era stata rimossa dalla piattaforma “a causa di lamentele sul fatto che i prodotti Plugable non corrispondevano alle condizioni descritte sul sito” sottolineava la mail. Al posto della loro docking station, la piattaforma ne consigliava un’altra prodotta direttamente da Amazon stessa e quando il personale di Plugable è andato a controllare le recensioni, si è accorto che di tutte quelle fantomatiche lamentele non c’era traccia. Dopo qualche giorno (e diversi reclami), il prodotto è tornato magicamente sulla piattaforma, ma la morale era chiara: “Abbiamo a che fare con un partner” ha dichiarato il fondatore di Plugable a Karen “che può e vuole ostacolarci per ragioni imprevedibili in qualsiasi momento”. La pratica di usare la gigantesca mole di dati che passa per la piattaforma per fare concorrenza sleale ai rivenditori è stata particolarmente accentuata nell’enorme mercato indiano: “Una gigantesca mole di documenti analizzati da Reuters” si legge in un lungo articolo dell’agenzia di stampa britannica del 2021 “rivela come il team dei marchi privati di Amazon in India abbia sfruttato segretamente i dati interni di Amazon.in per copiare prodotti venduti da altre aziende e poi offrirli sulla sua piattaforma”; inoltre “I dipendenti hanno anche alimentato le vendite di prodotti dei marchi privati di Amazon manipolando i risultati di ricerca di Amazon in modo che i prodotti dell’azienda apparissero, come ha affermato un rapporto strategico del 2016 per l’India, nei primi 2 o 3 risultati di ricerca”. Insomma: siamo di fronte all’esempio per eccellenza di quello che il buon Varoufakis definisce tecno-feudalesimo dove – sì – rimane ancora in vita qualche forma diretta di appropriazione di plusvalore tramite sfruttamento vecchia maniera (e anche parecchio feroce), ma ancora di più vale una forma di rendita parassitaria assimilabile ai canoni che i vassalli medievali erano chiamati a corrispondere ai feudatari, veri e propri affitti che i produttori capitalisti “pagano ai proprietari non produttivi delle big tech in cambio dell’accesso ai loro feudi” per dirla con Varoufakis; solo che invece che essere pezzi di territorio, sono pezzi di internet. E proprio alla luce di questo, come sottolinea ancora lo stesso Varoufakis, nell’era del tecno-feudalesimo “dobbiamo organizzare non solo i lavoratori delle fabbriche, ma anche i servi della gleba cloud” e “creare alleanze con i vassalli capitalisti di piccole dimensioni, le cui piccole entrate vengono decurtate dai proprietari del capitale cloud”.
Certo, sarebbe anche il caso che anche i capitalisti di piccole dimensioni a cui si riferisce Varoufakis facessero la loro parte e, ad esempio, quando la premier che hanno votato riceve a braccia aperte e stende tappeti rossi a BlackRock che è il principale azionista, tra le altre cose, proprio della stessa multinazionale che gli sta succhiando il sangue, si incazzassero come scimmie; e, invece, niente: se a incontrare BlackRock è la Schlein, o Letta, o Draghi – giustamente – gridano al complotto globalista. Se, invece, a incontrarla è la Meloni, è un’importante affermazione del ritrovato protagonismo italico nella politica e nell’economia internazionale: misteri della fede pseudo-sovranista. Ma come fa la Meloni, nonostante tutto, a continuare a riscuotere successo in questo blocco sociale che, evidentemente, con la sua politica contribuisce a immiserire giorno dopo giorno? Certo, un po’ pesa la retorica anti-migranti (anche se i risultati concreti, in realtà, sono piuttosto dubbi), ma il vero carico da 11 che, da che mondo è mondo, la destra di governo mette sul t
avolo è un altro: il patto sociale che ha tenuto in piedi questo paese per decenni; la vecchia cara accondiscendenza verso un po’ di sana evasione fiscale. La manovra finanziaria del governo dei finto-sovranisti, per chi è cresciuto a pane e cartelle dell’erario inevase, effettivamente è una vera manna; d’altronde, per decenni durante tutta la prima repubblica, l’evasione fiscale ha rappresentato il pilastro fondamentale dell’architettura del blocco sociale dominante, e le buone vecchie abitudini sono dure a morire. Il problema è che oggi quella pratica rischia di essere la stessa corda alla quale, alla lunga (e nemmeno troppo), la vecchia piccola borghesia in continua via di impoverimento si ritroverà definitivamente impiccata: allora, infatti, politiche economiche espansive garantivano comunque agli evasori forme di salario indiretto, attraverso l’accesso ai servizi fondamentali forniti dallo Stato in modo universalistico – dall’istruzione alla sanità – e senza che in cambio si chiedesse sostanzialmente niente; oggi, invece, il totale asservimento ai grandi monopoli finanziari ha completamente cambiato le regole del gioco. Il dogma dell’austerity, da un lato, riduce quelle forme di salario indiretto; e quindi puoi anche evadere, ma poi i soldi ti servono per comprarti privatamente servizi che prima erano garantiti dal pubblico gratis; ma quel che è ancora più grave, lo stesso dogma dell’austerity, accompagnato da politiche fiscali permissive, giustifica una nuova, gigantesca ondata di privatizzazioni che, alla fine, si traducono in una quota sempre maggiore dei nostri quattrini che va nella cassaforte dei monopoli finanziari d’oltreoceano, a partire dai nuovi amichetti di Giorgiona la madrecristiana che dirigono BlackRock. E indovinate cosa ci fanno BlackRock e soci con questi nuovi soldini che arrivano dalle nostre pensioni integrative e dalle assicurazioni sanitarie private? Esatto: aumentano la potenza di fuoco delle multinazionali monopoliste made in USA che la usano per terminare il lavoro di distruzione delle piccole attività economiche dei paesi vassalli.
Insomma: non solo la cecità tipica della piccola borghesia continua a preferire l’uovo oggi alla gallina domani, ma mentre si consola mangiando l’uovo, in realtà contribuisce a smantellare le recinzioni che tenevano alla larga la volpe che si sta fottendo anche le loro uova. Contro la dittatura dei tecno-feudatari, serve una grande alleanza popolare che schifi in ugual misura gli svendipatria analfoliberali come quelli analfosovranisti; e per costruire una grande alleanza popolare, serve un media che, invece che alla propaganda del partito unico delle oligarchie, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Jeff Bezos
Interessante, come sempre; fate riflettere e poi piglia male: ma è la realtà! Domanda: quindi per contrastare il predominio di Amazon si dovrebbe evitare anche apparecchi tipo Kindle e preferire altre piattaforme digitali, anche se il mercato degli eBook, in generale, non sarà così incisivo.