“Nel 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama, un funzionario di medio livello del Dipartimento di Stato americano rispondeva affermativamente alla domanda formulata da lui stesso nel saggio La fine della storia?”: “Complice lo sgretolamento repentino del campo socialista, la pubblicazione gli valse subito un’enorme” (e immeritata) “fama internazionale, tanto che, qualche anno dopo, quello slogan divenne il tormentone su cui si fondava la politica estera degli Stati Uniti e dell’Occidente collettivo, nutrendo la loro ambizione a esercitare un’egemonia mondiale assoluta fondata sul dominio dei settori militare, economico, energetico e socio-culturale”; “In quella fase, all’inizio degli anni ’90, i membri del G7, nato a metà degli anni ‘70 dall’unione delle principali nazioni industrializzate del mondo, avevano effettivamente raggiunto un dominio straordinario”. “Nonostante ospitassero meno del 14% della popolazione mondiale, rappresentavano più di tre quarti del PIL mondiale in termini nominali, e anche più della metà del PIL mondiale calcolato a parità del potere d’acquisto (PPA)”. A 30 e passa anni di distanza, mentre a Kazan si celebra il sedicesimo summit annuale dei BRICS (oggi BRICS+), com’è invecchiata la più famosa profezia del mondo contemporaneo?

Ancora nel 2002 – 10 anni dopo le non esattamente profetiche affermazioni di Fukuyama – Brasile, Russia, India e Cina, nonostante contassero il 42% della popolazione globale, raggiungevano a malapena l’8% del PIL mondiale denominato in dollari e il 18,5 se calcolato a parità di potere d’acquisto; qualche anno dopo, questi Paesi davano vita ai BRIC e quando, nel 2012, si era arrivati a festeggiare i 20 anni della fine della storia propagandata da Fukuyama, le cose erano cominciate a cambiare drasticamente: il PIL nominale dei 4 – insieme al quinto arrivato, il Sudafrica – nel frattempo era quintuplicato e aveva rappresentava ormai il 20% del PIL globale. Nel frattempo, la quota rappresentata dai Paesi del G7 nell’arco di 10 anni era passata dal 73% al 55, un gap che era (ovviamente) ancora più ristretto in termini di PIL calcolato a parità di potere d’acquisto, con i Paesi del G7 che ormai pesavano meno del 40% del PIL globale e i BRICS che si avvicinavano a grandi passi al 30. Dieci anni dopo, questo gap si era ridotto ormai a pochi spiccioli e con l’ingresso di nuovi membri – che verrà definitivamente ufficializzato in questi giorni a Kazan – ecco che avviene addirittura il famigerato sorpasso; ma nonostante il PIL calcolato a parità di potere d’acquisto dia una misura sicuramente più corretta dei rapporti di forza tra i due gruppi di Paesi per quel che riguarda la capacità produttiva, in realtà si tratta ancora di una sottostima macroscopica: la composizione del PIL dei due blocchi, infatti, è piuttosto diversa, con il settore dei servizi che pesa per poco più del 60% in media per i Paesi BRICS e, invece, per quasi il 75% per i Paesi del G7. E in questo 75% c’è una quantità infinita di fuffa che, invece che creare ricchezza, la distrugge: dalle bolle speculative che rappresentano il vero cuore pulsante dell’accumulazione capitalistica ai tempi del superimperialismo USA, agli interessi che popolazioni indebitate fino al collo sono costrette a corrispondere alle nuove oligarchie parassitarie.
Per fortuna, però, che c’è un altro parametro che può aiutarci a farci un’idea un po’ più precisa della rivoluzione copernicana che è avvenuta negli ultimi 30 anni in termini di rapporti di forza tra le cosiddette economie sviluppate e quelle emergenti: il consumo energetico. Come ricorda il rapporto Valdai di ottobre 2024, infatti, nel 1992 i Paesi del G7 rappresentavano oltre il 50% del consumo primario di energia globale, il 57% del consumo globale di petrolio, oltre il 50% del consumo di gas e poco meno del 60% della potenze generata: “Nel 1992” si legge nel rapporto “i Paesi del G7 (compresa l’attuale Unione europea) consumavano 174,5 exajoule”, vale a dire 174,5 milioni di miliardi di joule che allora, appunto, rappresentavano “oltre metà della domanda globale”; ma 30 anni dopo questa domanda, mentre la domanda globale era aumentata del 73%, era aumentata appena dell’11%, il che significa che la quota globale, da oltre il 50, era scesa a poco più del 30%. I Paesi BRICS, invece, nel 1992 rappresentavano insieme una domanda di appena 95,3 exajoules, corrispondente al 27% della domanda globale e poco più della metà del G7, ma nell’arco di 30 anni quella domanda è aumentata di ben 190 exajoules, portando i Paesi BRICS a un consumo complessivo di addirittura 276 exajoules, corrispondente al 45% della domanda globale: “In altre parole” si legge nel rapporto “i ruoli del primo mondo e dei leader del mondo in via di sviluppo si è completamente invertito”. Ovviamente, però, se invece che del consumo complessivo parliamo di quello pro capite, il discorso cambia radicalmente: nel 2022 il consumo di energia medio pro capite all’interno dei Paesi BRICS aveva raggiunto quota 76.6 gigajoules, che è sì il doppio del 1992, ma ancora abbondantemente meno di quanto registrato nei Paesi del G7 nonostante qui, nell’arco di 30 anni, sia diminuito di poco meno del 25%; nei rimanenti 150 Paesi, in media, il consumo medio pro capite invece è di appena 40 gigajoules e, cioè, poco più della metà che nei BRICS e 5 volte inferiore alla media del mondo libero, democratico e ambientalmente consapevole, un consumo che negli ultimi 30 anni non è aumentato di una virgola: “Nonostante tutta la retorica proveniente dai G7, che parlano del contrasto alla povertà energetica del Sud del mondo come una delle principali priorità ormai da decenni” sottolinea il rapporto “alla prova dei fatti, non hanno fatto assolutamente niente per risolvere questa faccenda”.
E all’interno dei Paesi del G7 la responsabilità di questa ennesima prova di ipocrisia non è certo distribuita equamente: mentre negli USA la produzione industriale pesa per appena il 18% del PIL, in Giappone e Germania questo contributo è pari al 28 e oltre il 30%, rispettivamente; ergo, dovrebbero consumare decisamente più energia. E invece ne consumano meno della metà: poco meno di 300 gigajoules pro capite gli USA e meno di 150 sia Giappone che Germania, una sperequazione che, nel tempo, si è andata solo acuendo. Se, infatti, negli ultimi 30 anni la Germania ha investito piuttosto massicciamente ed ha ridotto il consumo pro capite di quasi il 20%, gli USA non l’hanno ridotto nemmeno del 10: l’arroganza dell’impero e la presunzione di avere in esclusiva il diritto divino di distruggere il pianeta dove viviamo tutti. Nel complesso, comunque, grazie alla deindustralizzazione nei Paesi del G7, negli ultimi 30 anni – dove più, dove meno – il consumo di energia pro capite è diminuito; i BRICS, invece – ad eccezione della Federazione russa – altrettanto ovviamente l’hanno aumentato (e di parecchio): in particolare – sempre ovviamente – la Cina, dove il consumo pro capite è quadruplicato e ora ha raggiunto quello di molti Paesi europei (e per fortuna, direi). Anche se a molti suprematisti più o meno democratici e liberali non piace, negli ultimi 30 anni, infatti, questi Paesi sono definitivamente usciti dal giogo neo-coloniale, hanno vissuto una portentosa fase di sviluppo e hanno ovviamente tutto il diritto di contribuire alla distruzione del pianeta tanto quanto un cittadino statunitense qualsiasi (più tutti gli arretrati).
Fortunatamente, però – nonostante, ribadisco, abbiano tutto il diritto di emettere tutta la CO2 che vogliono per i prossimi due secoli – in realtà si stanno comportando da veri signori: “Le economie dei BRICS” ricorda infatti il rapporto del Valdai Club “in termini di miglioramento della loro efficienza energetica, sono riuscite a surclassare il G7”; per ogni 1000 dollari di PIL prodotto, infatti, i Paesi BRICS in media nel 1992 consumavano 14,5 gigajoules. Oggi ne consumano 10: sono 4,4 gigajoules in meno, mentre nei Paesi del G7 il miglioramento è stato di pochissimo superiore ai 3 gigajoules – e questo, ribadiamolo, mentre nei BRICS cresceva a dismisura la produzione industriale al contrario che nei Paesi del G7, dove diminuiva drasticamente; erano relativamente più efficienti i Paesi BRICS mentre producevano acciaio e lavatrici di quanto non lo fossimo noi a fare vacanze sostenibili nei distretti biologici e a vendere pizze ai grani antichi. E – udite udite – quelli che hanno migliorato in assoluto di più la loro efficienza energetica sono proprio quegli assetati di sangue dei russi, che “hanno migliorato di un fattore sette l’impatto nell’arco di 30 anni” e che, nel 2022, per produrre 1000 dollari di PIL impiegavano 4,8 gigajoules contro i 5,9 dell’avanzatissimo e verdissimo Canada.
Ma per quanto lodevoli, per lo meno rispetto a quanto fatto dai Paesi
del mondo libero e democratico allo stesso stadio di sviluppo – e, in particolare, nel caso degli USA a quanto viene fatto ancora oggi – gli sforzi per migliorare l’efficienza energetica non sono certo in grado di risolvere di per se il problema di come alimentare l’ulteriore crescita necessaria per terminare di colmare il gap tra mondo BRICS e G7 in termini di consumo pro capite; una crescita che, al momento, è alimentata ancora principalmente a carbone: ancora oggi, infatti, il carbone ha un ruolo di primissimo piano nel mix energetico globale, dove pesa per oltre il 26% (che, visto che è la fonte di energia in assoluto più inquinante, si traduce in un bel contributo del 40% abbondante alle emissioni climalteranti globali). E il grosso del carbone che viene ancora bruciato nel mondo viene bruciato in Cina e poi, a seguire, in India, che insieme pesano per circa il 60% del consumo di carbone globale: la parte del leone la fa la Cina che, da sola, consuma più carbone di tutto il resto del mondo messo assieme – che però, in realtà, non ha moltissimo da insegnare; mentre la Cina, infatti, abbatteva di 15 punti percentuali il contributo del carbone al suo mix energetico complessivo, gli Stati Uniti si fermavano a meno di 10 punti, nonostante negli USA ormai si produca piuttosto pochino e l’utilizzo del carbone (che notoriamente non serve per fare il pieno alla macchina) serva principalmente per alimentare l’industria pesante. Tant’è che i Paesi del G7 che, invece ,continuano ad avere un settore manifatturiero importante, hanno fatto molto peggio: nel civilissimo e avanzatissimo Giappone, ad esempio, il carbone pesa esattamente quanto 10 anni fa; discorso diverso invece per la Germania che, nonostante abbia ancora un’industria pesante di tutto rispetto, dal 2013 al 2021 era riuscita ad abbattere il peso del carbone di oltre 8 punti percentuali. Peccato, però, che poi abbia accettato di farsi sabotare il Nord Stream e sia tornata bruciare lignite come se non ci fosse un domani, e quel virtuoso processo di emancipazione dalla fonte più inquinante del pianeta si sia arrestato in nome della russofobia che la verdissima Annalena Baerbock, evidentemente, deve aver ereditato dal nonno, fervente nazista; perlomeno, comunque, la Germania ha continuato a investire sul serio in rinnovabili, che oggi pesano per oltre il 20% del mix energetico complessivo, cosa che invece non si può dire per il Paese leader del mondo libero e democratico e per la sua amministrazione democratica amica dei diritti umani e dell’ambiente.
Nonostante l’incetta di capitali di tutto il mondo che renderebbero piuttosto semplice avviare una transizione ecologica on steroids in brevissimo tempo, negli USA infatti le rinnovabili pesano ancora oggi per meno del 10%; nella Cina arretrata e indifferente alle sorti del pianeta siamo abbondantemente sopra il 15: d’altronde, negli USA i capitali che sono stati rastrellati in quantità senza precedenti da tutto il resto del pianeta negli ultimi 4-5 anni servono solo in piccola parte a fare investimenti concreti (che per le oligarchie parassitarie è un lavoro troppo faticoso), ma – molto banalmente – servono per gonfiare la bolla speculativa dei mercati finanziari trainata, in particolare, dai giganti tecnologici che, invece che contribuire alla transizione, contribuiscono sempre di più con i loro data center a consumare energia in quantità spropositate. In Cina, invece, dove con la guerra economica dichiarata da Washington, di capitali internazionali – soprattutto provenienti dal mondo libero, democratico e green – ne arrivano pochini e si devono arrangiare un po’ da soli, nel 2023 è stata installata più nuova capacità produttiva da rinnovabili che nel resto del mondo messo assieme, e più solare di quanto gli USA abbiano installato da quando esiste l’energia solare. Quello che non producono da carbone, quindi, gli USA lo producono sostanzialmente tutto da altre fonti fossili, che pesano per oltre il 75% del mix energetico complessivo: parliamo, ovviamente, di petrolio e di gas che – tutto sommato – non è che siano poi così migliori del carbone, soprattutto da quando la Cina ha investito alcune decine di miliardi per aumentare l’efficienza e ridurre le emissioni di almeno le sue centrali a carbone più grandi e moderne, soprattutto tenendo conto del fatto che le fonti fossili utilizzate negli USA derivano per lo più dal fracking che, oltre ad essere enormemente energivoro di per se, ha anche la simpatica caratteristica di comportare perdite imponenti di gas metano che si sparge in modo libero e democratico nell’atmosfera; e il gas metano, soprattutto a breve termine, è un gas serra oltre 80 volte più potente della semplice CO2.
Il punto, comunque, è che al netto della retorica, lo sviluppo economico e industriale ancora oggi è alimentato da fonti fossili e non si vede una via d’uscita: come ci ricorda il nostro sempre puntualissimo Demostenes Floros, lo scorso agosto gli USA hanno registrato il loro record assoluto di produzione petrolifera con 13 milioni e 400 mila barili al giorno e hanno ormai raggiunto una sostanziale indipendenza energetica che, però, non si estende al blocco dei cosiddetti alleati, anzi! Per quanto riguarda il petrolio, nel loro insieme i Paesi del G7 producono circa un terzo del loro fabbisogno complessivo; i Paesi BRICS, al contrario, con l’allargamento dei BRICS+ possono contare su un surplus di circa 5 milioni di barili al giorno. Discorso simile per il gas: i Paesi del G7 consumano più gas di quanto siano in grado di produrne, ma – soprattutto – di quanto saranno in grado di produrne nel futuro, dal momento che le riserve sono appena meno di un settimo quelle certificate in casa BRICS. Insomma: al netto della catastrofe ambientale (della quale da entrambi i lati sembra non fregare assolutamente una minchia a nessuno), i BRICS+ hanno tutta la benzina che serve per alimentare all’infinito la loro crescita economica, mentre i G7 possono accompagnare solo. Peccato, però, che non sia così semplice, perché nel mercato globale delle fossili la disponibilità delle materie prime è solo un pezzo di un puzzle decisamente più complesso; intanto perché, ovviamente, le materie prime vanno non solo lavorate e raffinate (e fino a lì ci si può anche arrivare), ma anche trasportate e distribuite – e lì già le cose si complicano: basti pensare agli investimenti necessari per i gasdotti, che le economie sviluppate effettuano da decenni mentre i Paesi BRICS+ sono ancora poco più che dei neonati. Ancora nel 2022, nonostante l’attentato terroristico al Nord Stream, i Paesi del G7 hanno importato via gasdotti 433 miliardi di metri cubi di gas; i BRICS+ hanno superato a malapena i 100, un gap che diventa ancora più evidente quando parliamo di infrastrutture per il gas naturale liquefatto, dove gli USA dominano incontrastati insieme a un alleato come l’Australia, anche se braccati da un Paese molto più amico del Sud globale come il Qatar.
Ma a spostare i rapporto di forza in modo ancora più chiaro a favore dei Paesi sviluppati è un altro aspetto fondamentale: tutta la struttura finanziaria che va di pari passo col commercio delle commodities. Ed ecco, così, che torniamo al vero cuore pulsante del superimperialismo USA: la dittatura globale del dollaro e lo strapotere che Washington esercita sul sistema finanziario e monetario globale; fino ad oggi, questi due aspetti – sostenuti, alla bisogna, anche da qualche bel bombardamento a tappeto che il mondo libero e democratico ha il dovere morale di distribuire un po’ a destra e manca – hanno permesso all’Occidente collettivo a guida USA di fare leva sulle divisioni altrui e di continuare a garantirsi la cabina di regia del mercato globale delle più essenziali e strategiche di tutte le materie prime. Fino
a quando, senza rendersi conto che i rapporti di forza ormai stavano rapidamente cambiando, non ha fatto il passo più lungo della gamba: con le sanzioni contro il Cremlino che hanno accompagnato la guerra per procura in Ucraina, gli USA hanno determinato, nell’arco di un anno, l’aumento di 18 volte del petrolio che l’India ha importato dalla Russia e di un altro 30% di quello importato (sempre, ovviamente, dalla Russia) dalla Cina; una vera e propria rivoluzione copernicana che, necessariamente, ha comportato anche un cambiamento nelle infrastrutture finanziarie che accompagnano il mercato del petrolio, a partire dall’uso del dollaro che, fino ad allora, era fuori discussione. Da lì in poi, per la prima volta da 80 anni, gigantesche quantità di petrolio nel mondo vengono comprate e vendute utilizzando valute diverse dal dollaro e, nell’arco di pochi mesi, sono state create tutte quelle infrastrutture alternative che fino ad allora i colossi dei BRICS avevano evitato di costruire per non stuzzicare troppo Washington. Una rivoluzione talmente profonda che ha portato all’impensabile: per 50 anni, Arabia Saudita e USA hanno sottoscritto un accordo che imponeva l’utilizzo in esclusiva del dollaro per la vendita del petrolio, ma quando quest’anno il trattato è scaduto, Riad ha deciso di non rinnovarlo proprio mentre lanciava un progetto pilota con Pechino che prevedeva il pagamento del petrolio in renminbi; ora, sottolinea il rapporto del Valdai Club, “i BRICS devono procedere a istituzionalizzare e introdurre soluzioni a livello di sistema per creare un quadro regolatorio resiliente per il commercio delle risorse energetiche”, un quadro che “deve essere immune da sanzioni unilaterali o da altri passi ostili da parte del governo degli Stati Uniti e dei suoi satelliti del mondo sviluppato”.
Riusciranno i BRICS, riuniti in queste ore a Kazan, ad approfittare di questa opportunità storica che gli USA gli hanno offerto su un piatto d’argento? Per scoprirlo, vi toccherà spegnere la Tv e accendere Ottolina, il primo media che, invece che agli interessi dei padroni del mondo che fanno la spola tra Washington e Wall Street, da voce al 99% e, che per farlo, ha bisogno del tuo sostegno, soprattutto da quando gli algoritmi sono entrati ufficialmente in guerra contro la libertà di espressione e demonetizzano sistematicamente qualsiasi contenuto che non sia completamente appiattito sulla propaganda di regime. Basta aderire alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è RimbamBiden
Spero proprio che si stia andando verso un mondo multilaterale. Mi auguro una classe politica che ne sia all’altezza.