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Tag: energia

L’inchiesta dell’anno: “Così un commando ucraino ha fatto saltare il Nord Stream”

Diameter: è questo il nome dell’operazione che ha portato, il 26 settembre del 2022, al sabotaggio e all’esplosione dei gasdotti tedeschi Nord Stream 1 e 2; ad organizzarla sarebbe stata la spia ucraina addestrata dalla CIA Roman Tscherwinsky alla guida di un commando di 12 persone, il quale a bordo della nave Andromeda avrebbe prima posizionato le cariche e poi si sarebbe allontanato dal luogo dell’attentato a bordo della nave, un’operazione fortemente voluta dall’allora capo delle forze armate ucraine Valerii Zaluzhnyi e della quale Zelensky era perfettamente a conoscenza. Lo so: sembra la trama di un film e, invece, è il risultato dell’inchiesta pubblicata ieri dal quotidiano Der Spiegel, testata del mainstream accusabile di tutto fuorché di filo-putinismo; l’inchiesta giornalistica dell’anno, forse del decennio. Per la prima volta infatti, grazie ad un lavoro di indagine durato oltre 2 anni, l’intera storia dietro al clamoroso attacco terroristico alle infrastrutture strategiche tedesche su cui tanto si è speculato in questi anni può essere raccontata, ed entrando anche nei particolari: i giornalisti, che citano come propria fonte i servizi di intelligence tedeschi e l’ufficio federale della polizia criminale, hanno infatti ricostruito tutti i momenti fondamentali del sabotaggio – dalla costituzione del commando a pochi giorni dall’inizio della guerra fino al giorno dell’esplosione – e sarebbero entrati a conoscenza dei i nomi di quasi tutti i 12 componenti del gruppo. Una verità che metterebbe a tacere anni di mistificazioni e depistaggi, necessari a non sputtanare le autorità ucraine e farle sempre apparire integerrimi paladini della libertà e della democrazia e, ancora di più, a non creare un clamoroso caso diplomatico tra la Germania, vittima di un brutale attacco militare alla proprie infrastrutture, e la stessa Ucraina, che dalla Germania, in questi anni, ha invece ricevuto armi e finanziamenti miliardari. Non solo: se l’articolo 5 della NATO valesse veramente e se la ricostruzione del Der Spiegel venisse confermata, i Paesi dell’alleanza avrebbero il dovere rispondere compatti all’aggressione di uno dei propri Paesi membri e attaccare militarmente l’Ucraina. Come vedete, la situazione è piuttosto intricata (per usare un eufemismo); e non è tutto: i giornalisti tedeschi avrebbero dimostrato come anche la CIA fosse stata informata del piano da una spia e come le autorità polacche, una volta concluso l’attacco, avrebbero ostacolato le autorità tedesche nel condurre le indagini fino addirittura ad arrivare, lo scorso agosto, a facilitare (in combutta con Kiev) la fuga di uno degli attentatori alla cattura dai servizi tedeschi. Nessuna smentita è stata ancora data a questa ricostruzione del Der Spiegel; in ogni caso, data l’evidente collaborazione dei servizi segreti tedeschi e degli organi di polizia nello svolgersi di questa inchiesta giornalistica, è difficile pensare che sia semplicemente un caso il fatto che sia uscita proprio in questi giorni, con la fresca vittoria di Trump alle elezioni e la caduta del governo Scholz. Qualcosa forse si sta veramente muovendo; in questa puntata vi racconteremo per filo e per segno i punti salienti dell’inchiesta dell’anno. Nel frattempo iscrivetevi a tutti i canali di Ottolina Tv e di Ottosofia: a voi ci vuole meno di quanto ci metterà Olaf Scholz a chiedere scusa a Zelensky per aver comunque avviato delle indagini e, addirittura, tentato di catturare i sabotatori; per noi, invece, è fondamentale per continuare a raccontarvi inchieste storiche come queste che – guarda caso – i nostri coraggiosissimi giornalisti del mainstream si sono scordati di riportare.

L’esplosione del Nord Stream

Nei giorni precedenti il 26 settembre 2022, il commando di sabotatori attraversa il Mar Baltico tra Sandhamn e Rügen, in acque polacche, tedesche, danesi e svedesi; sono alla ricerca del momento giusto e del posto giusto: non troppo profondo sotto la superficie del mare, non troppo trafficato. Alla fine lo trovano: è a circa 44 chilometri a nord-est dell’isola danese di Christiansø, alle coordinate 55° 32′ 27” nord, 15° 46′ 28,2” est. Alle 2.03 del 26 settembre 2022, un’onda di pressione scuote il fondo del Mar Baltico con una potenza tale da far scattare i sismografi svedesi a centinaia di chilometri di distanza: la linea A di Nord Stream 2 si lacera nel punto di giunzione tra due tubi; 17 ore dopo, alle 19.04, il fondale marino trema di nuovo, questa volta a circa 75 chilometri a nord, in modo molto più violento e con diverse esplosioni. Questa volta, entrambi i tubi del Nord Stream 1 sono stati distrutti: la linea A per una lunghezza di 200 metri, la linea B per 290 metri; le immagini subacquee e le visualizzazioni 3D basate sul sonar mostrano crateri profondi, montagne di detriti e i resti dei tubi che puntano verso l’alto ad angolo, piegati come fossero cannucce. Quello che si è appena consumato non è attentato qualunque, ma l’attacco militare più importante subìto da uno Stato europeo dalla seconda guerra mondiale, “Un attacco alla sicurezza interna dello Stato” come lo definisce immediatamente un giudice della Corte federale di giustizia tedesco. E non è stato un attacco solo alla Germania, ma a tutta l’Unione europea: nel 2021, i due gasdotti coprivano la metà del fabbisogno annuale della Germania, ma anche circa il 16% delle importazioni di gas di tutta l’Unione europea; appena dopo le esplosioni, tutte le persone di buonsenso pensarono immediatamente al coinvolgimento di coloro che più avrebbero avuto vantaggi dalla distruzione di quel collegamento fondamentale tra Germania e Russia e quindi, ovviamente, all’Ucraina (in guerra con la Russia) e agli Stati Uniti, che più volte – e per bocca dello stesso Biden nel 2019 – avevano dichiarato ufficialmente di vedere nel gasdotto che collegava i loro due nemici storici un’insopportabile sfida al proprio impero europeo. La propaganda statunitense, però, si mette subito in moto e tutti i giornali occidentali (magari qualcuno di voi se lo ricorderà) cominciarono a parlare di una presunta nave russa avvistata nei paraggi dell’attacco e, quindi, a insinuare che i russi erano diventati così confusi da colpirsi da soli; ufficialmente partirono le indagini di più di 10 Stati per trovare i colpevoli, ma la verità è che non se ne seppe più nulla, palesandosi che si trattava di una verità che era meglio tenere nascosta a costo di destabilizzare completamente la narrazione occidentale su questa guerra.
A rompere il silenzio ci ha pensato il premio Pulitzer Seymour Hersh nel febbraio del 2023, pubblicando un articolo in cui accusava Washington di aver orchestrato il sabotaggio dei gasdotti: secondo Hersh, che citava una sua fonte anonima con conoscenza diretta, il piano era stato pianificato e realizzato con il supporto della Norvegia durante l’esercitazione militare BALTOPS 2022 nel Mar Baltico. L’indagine del Der Spiegel, che appare molto più solida e documentata, dimostrerebbe però che le cose sono andate diversamente da quanto sostenevano sia Hersh che – naturalmente – la propaganda collaborazionista, la cui malafede e immaginazione sta raggiungendo livelli da letteratura fantasy: “Molti indizi fanno pensare che i responsabili del più grande atto di sabotaggio nella storia dell’Europa siano una dozzina di uomini e una donna provenienti dall’Ucraina. Alcuni sono civili, altri soldati. Sono stati assunti e addestrati da un gruppo che da anni pianificava e realizzava operazioni segrete per l’apparato di sicurezza ucraino. Alcuni degli autori hanno legami di lunga data con la CIA. Nonostante le esplosioni nel Mar Baltico, i membri del commando si sono dati alla macchia. Tuttavia, dopo due anni di ricerche in Europa, li abbiamo identificati nei mondi oscuri dei servizi segreti, nelle zone di guerra e più recentemente nella capitale ucraina Kiev. Per la prima volta, l’intera storia dell’attacco a Nord Stream può essere raccontata”; così recita l’incipit dell’inchiesta, un’inchiesta che difficilmente, nonostante tutto, potrà rimanere senza conseguenze. “Le informazioni fornite dagli autori sono state verificate” continuano gli autori; “un team di ricerca ha parlato con i servizi segreti e gli investigatori occidentali, con esperti di immersioni ed esplosivi, ha analizzato dati e documenti riservati, ha seguito le tracce su Internet e ha consultato altre fonti”. I giornalisti sostengono anche di conoscere l’identità della maggior parte delle persone coinvolte, persone che preferiscono non nominare in quanto diventerebbero, a detta degli autori, bersaglio delle squadre di assassini russi e degli intrighi all’interno dell’apparato di sicurezza ucraino. Il succo dell’inchiesta è questo: a far esplodere il Nord Stream sono stati una dozzina di uomini e una donna ucraini, civili e soldati; si tratterebbe di persone addestrate e reclutate da un gruppo che per anni ha organizzato operazioni segrete per l’apparato di sicurezza di Kiev. Secondo i giornalisti del Der Spiegel, anche gli Stati Uniti avrebbero giocato un ruolo importante poiché alcune delle persone coinvolte nel sabotaggio dell’infrastruttura – come, ad esempio, il leader del commando – hanno chiari legami con la CIA. L’azione, si legge in questa ricostruzione, sarebbe stata finanziata con circa trecentomila dollari da un imprenditore legato alle forze speciali ucraine, forze speciali che da anni consideravano le condotte del gas un obiettivo militare legittimo: “Già nel 2019, negli ambienti dei servizi segreti di Kiev circolava l’idea di far esplodere i gasdotti”.
La prima traccia fondamentale – sia per gli inquirenti che seguivano il caso che per i giornalisti – che ha permesso di risalire ai sabotatori è stato il ritrovamento della barca utilizzata dal commando: Andromeda, una Bavaria Cruiser 50 lunga 15,57 metri e larga 4,61, è noleggiata per 11.900 euro dal 27 agosto al 24 settembre 2022, una barca dotata di cinque piccole cabine e di un’area interna pratica per le operazioni, ideale per attività di immersione grazie alla piattaforma posteriore che facilita l’accesso all’acqua. Già l’anno scorso, in quello che potremmo definire il prequel di questa inchiesta, alcuni giornalisti del Der Spiegel e del Frankfurter Allgemaine Zeitung noleggiarono l’imbarcazione dopo che questa era stata rilasciata dagli esperti forensi della polizia criminale e scrissero sui rispettivi giornali di averla identificata come l’imbarcazione utilizzata per l’attentato. Capo del commando e mente dell’operazione, secondo l’inchiesta, è Roman Tscherwinsky, 49 anni, un’ex spia ucraina considerato un eroe in patria per diverse azioni condotte nel corso della sua carriera; Tsherwinsky è stato uno dei capi del servizio di controspionaggio dell’SBU e per molto tempo ha fatto parte di un gruppo di servizi segreti costruito da agenti statunitensi. Visto che i servizi ucraini erano pieni di ex quadri del KGB, gli americani cercavano da anni persone affidabili che potessero essere addestrate in isolamento dagli informatori russi, affermano gli autori; e l’obiettivo più importante era proprio la creazione di unità di sabotaggio affidabile: “Gli uomini addestrati dalla CIA, sono addestrati a pensare in grande” e il Nord Stream era un grande obiettivo militare comune per nordamericani ed ucraini. Per molti concittadini Tshervinsky è una leggenda, in particolare da quando con l’SBU era riuscito a rapire il leader separatista del Donbass Vladimir Zemach, presumibilmente coinvolto nell’abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines; in questo momento Tshervinsky si trova, però, ai domiciliari e porta una cavigliera elettronica da più di un anno: è infatti accusato da Kiev di aver disubbidito all’autorità militare. La magistratura accusa Tshervinsky di aver tentato di convincere, nell’estate del 2022, un pilota di caccia russo a disertare; quest’ultimo, però, invece di fuggire in Ucraina (come concordato con Tsherwinsky) e di consegnare il suo jet, avrebbe trasmesso le coordinate del sito di atterraggio previsto e le truppe russe avrebbero attaccato il campo d’aviazione. Da quando è in custodia cautelare, Tsherwinsky non gode nemmeno di buona salute e deve andare regolarmente in ospedale; così, i giornalisti del Der Spiegel, che lo volevano incontrare di persona mentre conducevano l’indagine, l’hanno intercettato davanti all’ospedale: “Un uomo magro e basso, con il volto scavato e i capelli radi, esce da una delle sale di cura. Indossa una camicia bianca che gli esce dai pantaloni; sulla caviglia destra è visibile una cavigliera elettronica. Una coppia ucraina lo riconosce: l’uomo è su una sedia a rotelle, ha bende sulla testa, sulla gamba e sulle braccia; la donna si avvicina a Tshervinsky, lo abbraccia e lo bacia sulla guancia. Si scattano un selfie con lui. I giornalisti del Der Spiegel gli parlano. La stretta di mano di Tsherwinsky è morbida. Piccole chiacchiere: Preferisco non parlare dell’argomento (Nord Stream) dice Tscherwinsky, ma posso dire una cosa: le conseguenze dell’attacco non sono state una benedizione solo per l’Ucraina, ma anche per la Germania”. “Finalmente la Germania non può più essere ricattata. Il sabotaggio è un atto di liberazione” dice Tscherwinsky ai reporter.
Era fin dallo scoppio della seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina, nel febbraio del 2022, che Tscherwinsky e il suo commando a Kiev si erano messi a studiare i dettagli dell’operazione: per prima cosa era stato individuato l’esplosivo adatto per le esplosioni subacquee, l’Octogen, un materiale non reperibile in Ucraina che però i servizi erano riusciti a procurarsi; e per prepararsi all’attacco terroristico, l’unità di commando trascorre settimane di esercitazioni in una ex miniera allagata, dove può immergersi fino a 100 metri di profondità. L’obiettivo è attaccare una bomba fittizia a una cima con un moschettone, immergersi fino al fondo, piazzare la bomba e risalire; il piano, una volta pronto, è stato presentato a Zaluzhnyi, che si dimostra talmente interessato da proporre di non fermarsi a Nord Stream, ma colpire anche TurkStream, il gasdotto che collega Russia e Turchia attraverso il Mar Nero. A giugno, però, un agente segreto finlandese sarebbe venuto a conoscenza di Diameter e la notizia sarebbe arrivata fino al Pentagono, sostiene il Der Spiegel; a quel punto la CIA avrebbe inviato un funzionario a parlare con Zelensky: non sapremo mai, naturalmente, cosa si siano detti. Il presidente ucraino ha sempre negato di aver avuto notizia dell’attacco; il Der Spiegel però, forte delle sue fonti, è certo del contrario. Poche settimane dopo la visita della CIA a Zelensky, il commando parte per il Mar Baltico, piazza le cariche con dei timer e, al momento dell’esplosione, tutto il gruppo è già rientrato a casa; nel tragitto di ritorno, secondo l’inchiesta, gli ucraini avevano usato passaporti falsi ed erano stati anche fermati per dei controlli di polizia, senza però essere scoperti. Come riporta Simone Caridi sul Fatto Quotidiano – incredibilmente tra le poche testate italiane ad aver parlato dell’inchiesta – per le forze di polizia tedesche sulle tracce dei terroristi ci sono state numerose beffe nelle beffe; tra i vari depistaggi e ostacoli vari subiti da parte di Stati teoricamente alleati, il più clamoroso è avvenuto questa estate: un sospettato ucraino, Volodymyr Sch., esperto in immersioni profonde, sarebbe sfuggito all’arresto grazie all’aiuto di un diplomatico ucraino dopo essere stato individuato in Polonia. “Il nome di uno dei militari del gruppo era emerso dalle prime indagini, e contro di lui fu spiccato un mandato di cattura europeo. L’uomo si trovava in Polonia, ma riuscì a scappare. Secondo le ricostruzioni, fu avvisato dalle autorità polacche e fuggì a Kiev a bordo di un’auto con targa diplomatica, guidata da un attaché militare dell’ambasciata ucraina a Varsavia” (Simone Caridi, Il Fatto Quotidiano).
Sono tanti altri i dettagli presenti nell’inchiesta del Der Spiegel (che speriamo verrà presto tradotta per intero in italiano), dagli avvertimenti ricevuti e non ascoltati dalle autorità tedesche nel giugno del 2022 dai servizi, ai numerosi episodi che precedono e seguono la detonazione delle cariche raccontati dall’informatore principale dei giornalisti (senza il quale non sarebbe stato possibile ricostruire tutto questo) Andrei’j, nome di fantasia per uno dei 12 membri del commando. La cosa può sembrare ridicola (e, infatti, lo è), ma lo stesso Der Spiegel, giornale – come dicevamo – mainstream e dalla linea editoriale collaborazionista, si è scusato con i propri padroni della propria stessa inchiesta: l’editoriale che accompagnava la pubblicazione di questo splendido lavoro dei propri giornalisti di inchiesta si intitolava Una buona cosa per la Germania e, nel sottotitolo, leggiamo “Dopo l’esplosione dei gasdotto del Nord Stream, l’indignazione a Berlino è stata grande. Ma la distruzione dei tubi del gas nel Mar Baltico è stato un colpo di fortuna, non solo dal punto di vista dei più importanti partner alleati. Ma anche per la Germania”. E allora forse è vero il detto che per gli sciocchi non c’è paradiso e dovremmo davvero rassegnarci al fatto che per questa generazione di classe dirigente non c’è redenzione né paradiso possibile; sta a noi, a forza di calci del sedere più o meno simbolici, cacciarli dalle posizioni di comando prima che sia troppo tardi, prima che la democrazia sarà solo un lontano ricordo e, soprattutto, prima che la guerra e la morte non arrivi dentro le nostre case. Il primo passo è dare vita ad un media veramente libero e indipendente che faccia il lavoro che i giornali che trovate in edicola e i giornalisti che vedete in televisione non fanno. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Olaf Scholz

BRICS a Kazan: è in arrivo una rivoluzione del mercato energetico globale?

“Nel 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, Francis Fukuyama, un funzionario di medio livello del Dipartimento di Stato americano rispondeva affermativamente alla domanda formulata da lui stesso nel saggio La fine della storia?”: “Complice lo sgretolamento repentino del campo socialista, la pubblicazione gli valse subito un’enorme” (e immeritata) “fama internazionale, tanto che, qualche anno dopo, quello slogan divenne il tormentone su cui si fondava la politica estera degli Stati Uniti e dell’Occidente collettivo, nutrendo la loro ambizione a esercitare un’egemonia mondiale assoluta fondata sul dominio dei settori militare, economico, energetico e socio-culturale”; “In quella fase, all’inizio degli anni ’90, i membri del G7, nato a metà degli anni ‘70 dall’unione delle principali nazioni industrializzate del mondo, avevano effettivamente raggiunto un dominio straordinario”. “Nonostante ospitassero meno del 14% della popolazione mondiale, rappresentavano più di tre quarti del PIL mondiale in termini nominali, e anche più della metà del PIL mondiale calcolato a parità del potere d’acquisto (PPA)”. A 30 e passa anni di distanza, mentre a Kazan si celebra il sedicesimo summit annuale dei BRICS (oggi BRICS+), com’è invecchiata la più famosa profezia del mondo contemporaneo?

Ancora nel 2002 – 10 anni dopo le non esattamente profetiche affermazioni di Fukuyama – Brasile, Russia, India e Cina, nonostante contassero il 42% della popolazione globale, raggiungevano a malapena l’8% del PIL mondiale denominato in dollari e il 18,5 se calcolato a parità di potere d’acquisto; qualche anno dopo, questi Paesi davano vita ai BRIC e quando, nel 2012, si era arrivati a festeggiare i 20 anni della fine della storia propagandata da Fukuyama, le cose erano cominciate a cambiare drasticamente: il PIL nominale dei 4 – insieme al quinto arrivato, il Sudafrica – nel frattempo era quintuplicato e aveva rappresentava ormai il 20% del PIL globale. Nel frattempo, la quota rappresentata dai Paesi del G7 nell’arco di 10 anni era passata dal 73% al 55, un gap che era (ovviamente) ancora più ristretto in termini di PIL calcolato a parità di potere d’acquisto, con i Paesi del G7 che ormai pesavano meno del 40% del PIL globale e i BRICS che si avvicinavano a grandi passi al 30. Dieci anni dopo, questo gap si era ridotto ormai a pochi spiccioli e con l’ingresso di nuovi membri – che verrà definitivamente ufficializzato in questi giorni a Kazan – ecco che avviene addirittura il famigerato sorpasso; ma nonostante il PIL calcolato a parità di potere d’acquisto dia una misura sicuramente più corretta dei rapporti di forza tra i due gruppi di Paesi per quel che riguarda la capacità produttiva, in realtà si tratta ancora di una sottostima macroscopica: la composizione del PIL dei due blocchi, infatti, è piuttosto diversa, con il settore dei servizi che pesa per poco più del 60% in media per i Paesi BRICS e, invece, per quasi il 75% per i Paesi del G7. E in questo 75% c’è una quantità infinita di fuffa che, invece che creare ricchezza, la distrugge: dalle bolle speculative che rappresentano il vero cuore pulsante dell’accumulazione capitalistica ai tempi del superimperialismo USA, agli interessi che popolazioni indebitate fino al collo sono costrette a corrispondere alle nuove oligarchie parassitarie.
Per fortuna, però, che c’è un altro parametro che può aiutarci a farci un’idea un po’ più precisa della rivoluzione copernicana che è avvenuta negli ultimi 30 anni in termini di rapporti di forza tra le cosiddette economie sviluppate e quelle emergenti: il consumo energetico. Come ricorda il rapporto Valdai di ottobre 2024, infatti, nel 1992 i Paesi del G7 rappresentavano oltre il 50% del consumo primario di energia globale, il 57% del consumo globale di petrolio, oltre il 50% del consumo di gas e poco meno del 60% della potenze generata: “Nel 1992” si legge nel rapporto “i Paesi del G7 (compresa l’attuale Unione europea) consumavano 174,5 exajoule”, vale a dire 174,5 milioni di miliardi di joule che allora, appunto, rappresentavano “oltre metà della domanda globale”; ma 30 anni dopo questa domanda, mentre la domanda globale era aumentata del 73%, era aumentata appena dell’11%, il che significa che la quota globale, da oltre il 50, era scesa a poco più del 30%. I Paesi BRICS, invece, nel 1992 rappresentavano insieme una domanda di appena 95,3 exajoules, corrispondente al 27% della domanda globale e poco più della metà del G7, ma nell’arco di 30 anni quella domanda è aumentata di ben 190 exajoules, portando i Paesi BRICS a un consumo complessivo di addirittura 276 exajoules, corrispondente al 45% della domanda globale: “In altre parole” si legge nel rapporto “i ruoli del primo mondo e dei leader del mondo in via di sviluppo si è completamente invertito”. Ovviamente, però, se invece che del consumo complessivo parliamo di quello pro capite, il discorso cambia radicalmente: nel 2022 il consumo di energia medio pro capite all’interno dei Paesi BRICS aveva raggiunto quota 76.6 gigajoules, che è sì il doppio del 1992, ma ancora abbondantemente meno di quanto registrato nei Paesi del G7 nonostante qui, nell’arco di 30 anni, sia diminuito di poco meno del 25%; nei rimanenti 150 Paesi, in media, il consumo medio pro capite invece è di appena 40 gigajoules e, cioè, poco più della metà che nei BRICS e 5 volte inferiore alla media del mondo libero, democratico e ambientalmente consapevole, un consumo che negli ultimi 30 anni non è aumentato di una virgola: “Nonostante tutta la retorica proveniente dai G7, che parlano del contrasto alla povertà energetica del Sud del mondo come una delle principali priorità ormai da decenni” sottolinea il rapporto “alla prova dei fatti, non hanno fatto assolutamente niente per risolvere questa faccenda”.
E all’interno dei Paesi del G7 la responsabilità di questa ennesima prova di ipocrisia non è certo distribuita equamente: mentre negli USA la produzione industriale pesa per appena il 18% del PIL, in Giappone e Germania questo contributo è pari al 28 e oltre il 30%, rispettivamente; ergo, dovrebbero consumare decisamente più energia. E invece ne consumano meno della metà: poco meno di 300 gigajoules pro capite gli USA e meno di 150 sia Giappone che Germania, una sperequazione che, nel tempo, si è andata solo acuendo. Se, infatti, negli ultimi 30 anni la Germania ha investito piuttosto massicciamente ed ha ridotto il consumo pro capite di quasi il 20%, gli USA non l’hanno ridotto nemmeno del 10: l’arroganza dell’impero e la presunzione di avere in esclusiva il diritto divino di distruggere il pianeta dove viviamo tutti. Nel complesso, comunque, grazie alla deindustralizzazione nei Paesi del G7, negli ultimi 30 anni – dove più, dove meno – il consumo di energia pro capite è diminuito; i BRICS, invece – ad eccezione della Federazione russa – altrettanto ovviamente l’hanno aumentato (e di parecchio): in particolare – sempre ovviamente – la Cina, dove il consumo pro capite è quadruplicato e ora ha raggiunto quello di molti Paesi europei (e per fortuna, direi). Anche se a molti suprematisti più o meno democratici e liberali non piace, negli ultimi 30 anni, infatti, questi Paesi sono definitivamente usciti dal giogo neo-coloniale, hanno vissuto una portentosa fase di sviluppo e hanno ovviamente tutto il diritto di contribuire alla distruzione del pianeta tanto quanto un cittadino statunitense qualsiasi (più tutti gli arretrati).
Fortunatamente, però – nonostante, ribadisco, abbiano tutto il diritto di emettere tutta la CO2 che vogliono per i prossimi due secoli – in realtà si stanno comportando da veri signori: “Le economie dei BRICS” ricorda infatti il rapporto del Valdai Club “in termini di miglioramento della loro efficienza energetica, sono riuscite a surclassare il G7”; per ogni 1000 dollari di PIL prodotto, infatti, i Paesi BRICS in media nel 1992 consumavano 14,5 gigajoules. Oggi ne consumano 10: sono 4,4 gigajoules in meno, mentre nei Paesi del G7 il miglioramento è stato di pochissimo superiore ai 3 gigajoules – e questo, ribadiamolo, mentre nei BRICS cresceva a dismisura la produzione industriale al contrario che nei Paesi del G7, dove diminuiva drasticamente; erano relativamente più efficienti i Paesi BRICS mentre producevano acciaio e lavatrici di quanto non lo fossimo noi a fare vacanze sostenibili nei distretti biologici e a vendere pizze ai grani antichi. E – udite udite – quelli che hanno migliorato in assoluto di più la loro efficienza energetica sono proprio quegli assetati di sangue dei russi, che “hanno migliorato di un fattore sette l’impatto nell’arco di 30 anni” e che, nel 2022, per produrre 1000 dollari di PIL impiegavano 4,8 gigajoules contro i 5,9 dell’avanzatissimo e verdissimo Canada.
Ma per quanto lodevoli, per lo meno rispetto a quanto fatto dai Paesi del mondo libero e democratico allo stesso stadio di sviluppo – e, in particolare, nel caso degli USA a quanto viene fatto ancora oggi – gli sforzi per migliorare l’efficienza energetica non sono certo in grado di risolvere di per se il problema di come alimentare l’ulteriore crescita necessaria per terminare di colmare il gap tra mondo BRICS e G7 in termini di consumo pro capite; una crescita che, al momento, è alimentata ancora principalmente a carbone: ancora oggi, infatti, il carbone ha un ruolo di primissimo piano nel mix energetico globale, dove pesa per oltre il 26% (che, visto che è la fonte di energia in assoluto più inquinante, si traduce in un bel contributo del 40% abbondante alle emissioni climalteranti globali). E il grosso del carbone che viene ancora bruciato nel mondo viene bruciato in Cina e poi, a seguire, in India, che insieme pesano per circa il 60% del consumo di carbone globale: la parte del leone la fa la Cina che, da sola, consuma più carbone di tutto il resto del mondo messo assieme – che però, in realtà, non ha moltissimo da insegnare; mentre la Cina, infatti, abbatteva di 15 punti percentuali il contributo del carbone al suo mix energetico complessivo, gli Stati Uniti si fermavano a meno di 10 punti, nonostante negli USA ormai si produca piuttosto pochino e l’utilizzo del carbone (che notoriamente non serve per fare il pieno alla macchina) serva principalmente per alimentare l’industria pesante. Tant’è che i Paesi del G7 che, invece ,continuano ad avere un settore manifatturiero importante, hanno fatto molto peggio: nel civilissimo e avanzatissimo Giappone, ad esempio, il carbone pesa esattamente quanto 10 anni fa; discorso diverso invece per la Germania che, nonostante abbia ancora un’industria pesante di tutto rispetto, dal 2013 al 2021 era riuscita ad abbattere il peso del carbone di oltre 8 punti percentuali. Peccato, però, che poi abbia accettato di farsi sabotare il Nord Stream e sia tornata bruciare lignite come se non ci fosse un domani, e quel virtuoso processo di emancipazione dalla fonte più inquinante del pianeta si sia arrestato in nome della russofobia che la verdissima Annalena Baerbock, evidentemente, deve aver ereditato dal nonno, fervente nazista; perlomeno, comunque, la Germania ha continuato a investire sul serio in rinnovabili, che oggi pesano per oltre il 20% del mix energetico complessivo, cosa che invece non si può dire per il Paese leader del mondo libero e democratico e per la sua amministrazione democratica amica dei diritti umani e dell’ambiente.
Nonostante l’incetta di capitali di tutto il mondo che renderebbero piuttosto semplice avviare una transizione ecologica on steroids in brevissimo tempo, negli USA infatti le rinnovabili pesano ancora oggi per meno del 10%; nella Cina arretrata e indifferente alle sorti del pianeta siamo abbondantemente sopra il 15: d’altronde, negli USA i capitali che sono stati rastrellati in quantità senza precedenti da tutto il resto del pianeta negli ultimi 4-5 anni servono solo in piccola parte a fare investimenti concreti (che per le oligarchie parassitarie è un lavoro troppo faticoso), ma – molto banalmente – servono per gonfiare la bolla speculativa dei mercati finanziari trainata, in particolare, dai giganti tecnologici che, invece che contribuire alla transizione, contribuiscono sempre di più con i loro data center a consumare energia in quantità spropositate. In Cina, invece, dove con la guerra economica dichiarata da Washington, di capitali internazionali – soprattutto provenienti dal mondo libero, democratico e green – ne arrivano pochini e si devono arrangiare un po’ da soli, nel 2023 è stata installata più nuova capacità produttiva da rinnovabili che nel resto del mondo messo assieme, e più solare di quanto gli USA abbiano installato da quando esiste l’energia solare. Quello che non producono da carbone, quindi, gli USA lo producono sostanzialmente tutto da altre fonti fossili, che pesano per oltre il 75% del mix energetico complessivo: parliamo, ovviamente, di petrolio e di gas che – tutto sommato – non è che siano poi così migliori del carbone, soprattutto da quando la Cina ha investito alcune decine di miliardi per aumentare l’efficienza e ridurre le emissioni di almeno le sue centrali a carbone più grandi e moderne, soprattutto tenendo conto del fatto che le fonti fossili utilizzate negli USA derivano per lo più dal fracking che, oltre ad essere enormemente energivoro di per se, ha anche la simpatica caratteristica di comportare perdite imponenti di gas metano che si sparge in modo libero e democratico nell’atmosfera; e il gas metano, soprattutto a breve termine, è un gas serra oltre 80 volte più potente della semplice CO2.
Il punto, comunque, è che al netto della retorica, lo sviluppo economico e industriale ancora oggi è alimentato da fonti fossili e non si vede una via d’uscita: come ci ricorda il nostro sempre puntualissimo Demostenes Floros, lo scorso agosto gli USA hanno registrato il loro record assoluto di produzione petrolifera con 13 milioni e 400 mila barili al giorno e hanno ormai raggiunto una sostanziale indipendenza energetica che, però, non si estende al blocco dei cosiddetti alleati, anzi! Per quanto riguarda il petrolio, nel loro insieme i Paesi del G7 producono circa un terzo del loro fabbisogno complessivo; i Paesi BRICS, al contrario, con l’allargamento dei BRICS+ possono contare su un surplus di circa 5 milioni di barili al giorno. Discorso simile per il gas: i Paesi del G7 consumano più gas di quanto siano in grado di produrne, ma – soprattutto – di quanto saranno in grado di produrne nel futuro, dal momento che le riserve sono appena meno di un settimo quelle certificate in casa BRICS. Insomma: al netto della catastrofe ambientale (della quale da entrambi i lati sembra non fregare assolutamente una minchia a nessuno), i BRICS+ hanno tutta la benzina che serve per alimentare all’infinito la loro crescita economica, mentre i G7 possono accompagnare solo. Peccato, però, che non sia così semplice, perché nel mercato globale delle fossili la disponibilità delle materie prime è solo un pezzo di un puzzle decisamente più complesso; intanto perché, ovviamente, le materie prime vanno non solo lavorate e raffinate (e fino a lì ci si può anche arrivare), ma anche trasportate e distribuite – e lì già le cose si complicano: basti pensare agli investimenti necessari per i gasdotti, che le economie sviluppate effettuano da decenni mentre i Paesi BRICS+ sono ancora poco più che dei neonati. Ancora nel 2022, nonostante l’attentato terroristico al Nord Stream, i Paesi del G7 hanno importato via gasdotti 433 miliardi di metri cubi di gas; i BRICS+ hanno superato a malapena i 100, un gap che diventa ancora più evidente quando parliamo di infrastrutture per il gas naturale liquefatto, dove gli USA dominano incontrastati insieme a un alleato come l’Australia, anche se braccati da un Paese molto più amico del Sud globale come il Qatar.
Ma a spostare i rapporto di forza in modo ancora più chiaro a favore dei Paesi sviluppati è un altro aspetto fondamentale: tutta la struttura finanziaria che va di pari passo col commercio delle commodities. Ed ecco, così, che torniamo al vero cuore pulsante del superimperialismo USA: la dittatura globale del dollaro e lo strapotere che Washington esercita sul sistema finanziario e monetario globale; fino ad oggi, questi due aspetti – sostenuti, alla bisogna, anche da qualche bel bombardamento a tappeto che il mondo libero e democratico ha il dovere morale di distribuire un po’ a destra e manca – hanno permesso all’Occidente collettivo a guida USA di fare leva sulle divisioni altrui e di continuare a garantirsi la cabina di regia del mercato globale delle più essenziali e strategiche di tutte le materie prime. Fino a quando, senza rendersi conto che i rapporti di forza ormai stavano rapidamente cambiando, non ha fatto il passo più lungo della gamba: con le sanzioni contro il Cremlino che hanno accompagnato la guerra per procura in Ucraina, gli USA hanno determinato, nell’arco di un anno, l’aumento di 18 volte del petrolio che l’India ha importato dalla Russia e di un altro 30% di quello importato (sempre, ovviamente, dalla Russia) dalla Cina; una vera e propria rivoluzione copernicana che, necessariamente, ha comportato anche un cambiamento nelle infrastrutture finanziarie che accompagnano il mercato del petrolio, a partire dall’uso del dollaro che, fino ad allora, era fuori discussione. Da lì in poi, per la prima volta da 80 anni, gigantesche quantità di petrolio nel mondo vengono comprate e vendute utilizzando valute diverse dal dollaro e, nell’arco di pochi mesi, sono state create tutte quelle infrastrutture alternative che fino ad allora i colossi dei BRICS avevano evitato di costruire per non stuzzicare troppo Washington. Una rivoluzione talmente profonda che ha portato all’impensabile: per 50 anni, Arabia Saudita e USA hanno sottoscritto un accordo che imponeva l’utilizzo in esclusiva del dollaro per la vendita del petrolio, ma quando quest’anno il trattato è scaduto, Riad ha deciso di non rinnovarlo proprio mentre lanciava un progetto pilota con Pechino che prevedeva il pagamento del petrolio in renminbi; ora, sottolinea il rapporto del Valdai Club, “i BRICS devono procedere a istituzionalizzare e introdurre soluzioni a livello di sistema per creare un quadro regolatorio resiliente per il commercio delle risorse energetiche”, un quadro che “deve essere immune da sanzioni unilaterali o da altri passi ostili da parte del governo degli Stati Uniti e dei suoi satelliti del mondo sviluppato”.
Riusciranno i BRICS, riuniti in queste ore a Kazan, ad approfittare di questa opportunità storica che gli USA gli hanno offerto su un piatto d’argento? Per scoprirlo, vi toccherà spegnere la Tv e accendere Ottolina, il primo media che, invece che agli interessi dei padroni del mondo che fanno la spola tra Washington e Wall Street, da voce al 99% e, che per farlo, ha bisogno del tuo sostegno, soprattutto da quando gli algoritmi sono entrati ufficialmente in guerra contro la libertà di espressione e demonetizzano sistematicamente qualsiasi contenuto che non sia completamente appiattito sulla propaganda di regime. Basta aderire alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è RimbamBiden

La Sardegna insorge contro la speculazione energetica

Una legge di iniziativa popolare per fermare il Far West di mega impianti eolici e fotovoltaici imposti senza criterio dal Governo Draghi ha raccolto in Sardegna 210.729 firme. Una cifra enorme se pensiamo che la popolazione residente supera di poco il milione e e mezzo e che la fitta rete dei banchetti è stata organizzata da realtà di base. Ne sarebbero bastate 10 mila per portare in Consiglio Regionale la legge nota come Pratobello 24 che punta ad una transizione energetica fondata sulle comunità energetiche e a sbarrare il campo a multinazionali e banche d’affari. Domani 2 ottobre comitati popolari e associazioni scorteranno le firme a Cagliari in una grande mobilitazione di popolo, anche sostenuti dallo sciopero dei Cobas Scuola Sardegna. In diretta dalla Sardegna seguiremo questa mobilitazione con Cristiano Sabino e Leandro Cossu.

Pratobello 24 – Contro il colonialismo energetico la resistenza popolare in Sardegna diventa legge

Che cosa sta succedendo in Sardegna? Perché i sardi hanno passato l’estate a raccogliere firme per una legge sotto il caldo torrido dell’estate? In nome di una transizione ecologica totalmente a immagine e somiglianza degli interessi dei grandi monopoli finanziari, la Sardegna è di nuovo sotto un attacco speculativo senza precedenti. Ma intorno a un ambizioso progetto di legge di iniziativa popolare, denominata Pratobello 24, si è creata una mobilitazione straordinaria che, attraverso la questione della speculazione energetica, mira a rimettere in discussione dalle fondamenta l’intero rapporto di subordinazione semicoloniale dell’isola nei confronti dei centri di potere del Paese al servizio dell’imperialismo finanziario USA. Leandro Cossu dialoga con l’avv. Michele Zuddas, tra i protagonisti della campagna di questi mesi, tentando di ricostruire in modo completo e comprensibili i fatti, altrimenti occultati dai media di regime.

Il Messico rompe con gli USA, l’India guarda a est, l’Africa va in massa a Pechino: l’impero è accerchiato

28 agosto, Reuters: Il Messico congela i rapporti con le ambasciate statunitensi e canadesi; 29 agosto, New York Times: L’Honduras afferma che metterà fine al trattato di estradizione con gli Stati Uniti; 2 settembre, Washington Post: La crescente dipendenza dell’India dalla Cina rappresenta una sfida per la strategia commerciale degli Stati Uniti. “Negli ultimi anni” spiega l’articolo “le imprese americane che cercano di ridurre la loro dipendenza dalla Cina hanno guardato sempre più all’India come nuovo hub manifatturiero e come copertura contro potenziali interruzioni nelle catene di approvvigionamento cinesi causate dalle crescenti tensioni geopolitiche. Ma man mano che l’India ha incrementato la produzione di beni come smartphone, pannelli solari e medicinali, la stessa economia indiana paradossalmente è diventata in realtà sempre più dipendente dalle importazioni cinesi”. 3 settembre, Foreign Affairs: L’America sta perdendo il Sud-est asiatico. Gli alleati degli Stati Uniti nella regione si stanno rivolgendo sempre di più alla Cina; giorno dopo giorno, in ogni angolo del pianeta, l’impero USA non fa che perdere continuamente pezzi, che cominciano a guardare altrove. Di nuovo 3 settembre, Bloomberg: La Cina mantiene la leadership nella corsa per l’influenza sui giovani africani; “Secondo un recente sondaggio” riporta l’articolo “l’82% dei giovani africani considera positiva l’influenza di Pechino sul continente”. 4 settembre, The Hindu: La Turchia, membro della NATO, ha chiesto di aderire al blocco dei BRICS, ed è solo l’inizio. Ieri a Pechino ha avuto inizio quello che Il Sole 24 Ore definisce “il più grande evento diplomatico dai tempi dello scoppio della pandemia”: è il nono FOCAC, il forum per la cooperazione tra Cina ed Africa, che vede la presenza di almeno 50 fra capi di Stato e di governo di tutta l’Africa determinati a mettere le basi per la costruzione di “un futuro condiviso”. Ma prima di compiere questo viaggio dentro alle millemila ragioni per cui – a parte i per lettori de La Repubblichina e di Internazionale – in tutto il mondo, alle vaccate del sogno americano, si sta sostituendo la costruzione concreta di un nuovo ordine multipolare, ricordatevi di mettere un like a questo video per permetterci di sconfiggerle davvero quelle vaccate (nonostante la dittatura distopica degli algoritmi) e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi Victoria Nuland a organizzare un colpo di Stato, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare davvero a costruire un vero e proprio media che, invece che alle interferenze delle ambasciate USA in mezzo pianeta, dia voce all’autodeterminazione del 99%.

FOCAC 2024

Nuova convergenza nell’Indo-Pacifico: così a giugno il segretario alla difesa statunitense Lloyd Austin ha deciso di intitolare il suo intervento all’annuale summit di Shangri-La, in quel di Singapore. E quando, il mese dopo, all’Aspen Security Forum è intervenuto il segretario di Stato americano Antony Blinken, c’ha tenuto a sottolineare come non aveva mai assistito a “un momento in cui ci sia stata una maggiore convergenza tra gli Stati Uniti e i nostri partner europei e asiatici in termini di approccio alla Russia, ma anche in termini di approccio alla Cina”; “Ma la verità” è costretto ad ammettere Foreign Affairs “è che gli Stati Uniti stanno perdendo terreno in parti importanti dell’Asia”. A testimoniarlo, l’annuale ricerca dell’ISEAS – Yusof Ishak Institute, che è finanziato dal governo di Singapore e, quindi, non è esattamente un pezzo della propaganda putiniana e filo-cinese: anche a questo giro, hanno intervistato duemila persone provenienti dal mondo accademico, del business, delle organizzazioni non governative e pure quelle governative sparse tra tutti i paesi dell’ASEAN; l’anno scorso il 61% degli intervistati aveva dichiarato che nel caso l’ASEAN, a un certo punto, fosse costretto a decidere se schierarsi con gli USA o la Cina, avrebbe dovuto optare per gli USA – e solo il 39% aveva scelto la Cina. Sono passati appena 12 mesi e il mondo s’è rovesciato: la Cina ha sorpassato gli USA (50,5 a 49,5); “Gli Stati Uniti” sottolinea Foreign Affairs “hanno perso sostegno in modo più drammatico nei paesi a maggioranza musulmana. Il 75% degli intervistati malesi, il 73% degli indonesiani e il 70% dei bruneiani hanno affermato che preferirebbero l’allineamento con la Cina rispetto agli Stati Uniti”. A quanto pare, il fatto di aver continuato a fornire armi come se non ci fosse un domani per sterminare i bambini palestinesi non è stato preso proprio benissimo – e anche l’idea di omaggiare con 15 mila standing ovation il commander in chief del primo genocidio in diretta streaming; d’altronde, sono contraddizioni che chi è costretto a tenere in piedi un impero in declino è costretto ad affrontare.
Ma essere costretti a far cadere definitivamente la maschera che dissimulava la natura violenta e razzista dell’imperialismo USA non è il solo fattore a pesare: “I media occidentali” sottolinea infatti ancora Foreign Affairs, forzano spesso la mano e “riportano notizie catastrofiche sulle trappole del debito associate alla Belt and Road Initiative cinese”, ma in realtà, nel sudest asiatico “l’iniziativa generalmente è accolta favorevolmente” e si ritiene “offra notevoli opportunità di sviluppo e di crescita”. E non solo nel sudest asiatico: anche in Africa – soprattutto in Africa – la propaganda suprematista ha investito tutte le sue energie per far passare la Belt and Road come lo spregiudicato veicolo di un nuovo colonialismo cinese, ovviamente ben più feroce di quello imposto sul continente da secoli dall’uomo bianco (che avrà i suoi difetti, ma alla fine è comunque civilizzato e lettore di Kant); l’idea che la Cina si sia comprata l’Africa viene ripetuta ovunque continuamente e non passa giorno senza che mi arrivi qualche messaggio da qualche analfoliberale che mi chiede conto della ferocia del colonialismo cinese in Africa. Peccato, però, sia una gigantesca puttanata: nonostante gli investimenti giganteschi degli ultimi 10 anni, infatti, Stato e aziende private cinesi controllano ad oggi meno dell’8% della produzione mineraria del continente, meno della metà degli anglo-americani; e a partire dal 2016 gli investimenti cinesi diretti in Africa sono enormemente diminuiti. Quello che è vero, piuttosto, è che la Cina è il principale acquirente di materie prime dall’Africa. Che strano, eh? Gli USA per produrre future e derivati importano meno materie prime di quelle che la Cina s’accatta per costruire le apparecchiature elettroniche, le pale eoliche e le auto elettriche che produce per tutto il resto del mondo: veramente inspiegabile!
L’altro aspetto che è sicuramente vero è che la Cina, prima degli altri, si è concentrata sui minerali indispensabili per la rivoluzione verde e quella digitale e, quindi, si è garantita una posizione di quasi monopolio nella Copperbelt – la regione tra l’Africa centrale e l’Africa orientale che occupa uno spazio diviso tra lo Zambia centrale e l’estrema parte meridionale della Repubblica Democratica del Congo – conosciuta per la ricchezza dei suoi giacimenti di rame e di cobalto (e un po’ anche di litio). Adesso però, giustamente, i paesi coinvolti cominciano a chiedere quello che alle vecchie potenze coloniali non è mai stato concesso chiedere e, cioè, che invece che saccheggiare le ricchezze del territorio, dando in cambio al massimo qualche infrastruttura, si cominci a investire a casa loro per fare anche almeno un pezzo di trasformazione industriale e creare così non solo un po’ di lavoro più o meno dignitoso, ma anche un po’ di competenze tecniche. Ai fronte a queste richieste, quando hai a che fare col mondo liberale e democratico in cambio – di solito – ti puoi aspettare un bel colpo di Stato o una bella rivoluzione colorata accolta con entusiasmo dai media progressisti occidentali. A quanto pare, invece, con la Cina se ne può discutere; è quello che, ad esempio, ha fatto l’Indonesia con l’industria del nickel: prima esportava il nickel grezzo, che comprava la Cina, ma il grosso dei soldi andava in tasca alle multinazionali occidentali e alle oligarchie di svendipatria locali conniventi. Poi l’Indonesia ha deciso che il nichel andava raffinato lì e, come ricorda Asia Times, “Questo piano è stato sostenuto da investimenti cinesi”.
Ora la Cina sta facendo una cosa simile in Zimbabwe, dove ha aperto un impianto di lavorazione del litio da 300 milioni di dollari. Intendiamoci: è una goccia nell’oceano, ma va anche detto che per raccogliere altre gocce ci sono ostacoli oggettivi; in primo luogo manca una produzione di energia adeguata. La buona notizia è che ci potrebbe essere una soluzione made in China: mentre la propaganda suprematista occidentale accusa la Cina di pratiche commerciali scorrette perché è arrivata a produrre l’80% dei pannelli solari del mondo, quello che non dicono è che questi giganteschi investimenti cinesi hanno consentito di abbattere drasticamente il costo dei pannelli stessi, che ora sono alla portata delle tasche africane e potrebbero permettere finalmente di fargli produrre in casa l’energia elettrica di cui hanno bisogno per cominciare a industrializzarsi sul serio, per poi magari cominciare a farsi in casa anche i pannelli grazie a investimenti e know how cinese (e, a quanto pare, i giovani africani – al contrario dei giornalisti impegnati a fare whitesplaining per conto delle oligarchie imperiali – lo sanno). Ed ecco così che tra le loro fila, mentre la popolarità degli USA è scesa di 8 punti dal 2020, quella cinese non ha fatto che aumentare. Fortunatamente, conclude incredibilmente Foreign Affairs riferendosi – in particolare – al sudest asiatico (ma è un discorso che può essere facilmente ampliato), “Molti paesi non sono democrazie liberali e i loro governi non necessariamente attuano politiche estere che riflettono l’opinione pubblica”; insomma: anche se generalmente siamo visti male, possiamo sempre ricorrere a qualche ricatto e a un po’ di corruzione della classe dirigente per imporre con la violenza le magnifiche sorti e progressive che l’adesione acritica all’ordine neoliberale garantisce, anche se le persone comuni non sono in grado di capirle. Se non fosse che, conclude amaramente l’articolo, ormai “anche le democrazie illiberali sentono spesso l’esigenza di rispondere alle opinioni dei cittadini”; sapesse, contessa, non esistono più le care vecchie dittature di una volta…
Visto che non si può più fare troppo affidamento sui cari vecchi regimi militari instaurati col sostegno di qualche operazione sotto copertura, gli USA allora hanno tentato la strada delle promesse economiche: all’India, ad esempio, le hanno promesso che sarebbe diventata la prossima Cina, ma senza quella gigantesca rottura di coglioni che consiste nell’avere un Partito Comunista al potere, ma a quanto pare non gli è andata esattamente benissimo; invece di diventare un’alternativa alla Cina, l’India è diventata una sua terzista (un po’ come l’Italia con la Germania). Una vera manna: uno, perché ti permette di mantenere la competitività mano a mano che i salari all’interno aumentano; due, perché rende il paese terzista totalmente dipendente senza aver bisogno di minacciarlo militarmente o con qualche dossieraggio in stile Jeffrey Epstein. “Man mano che l’India ha incrementato la produzione di beni come smartphone, pannelli solari e medicinali, l’economia indiana è diventata sempre più dipendente dalle importazioni cinesi” ricorda il Post: “Le importazioni dell’India dalla Cina” continua “sono cresciute due volte più velocemente di quelle complessive e ora costituiscono quasi un terzo delle importazioni indiane in settori che vanno dall’elettronica alle energie rinnovabili passando per prodotti farmaceutici”; quasi due terzi delle importazioni indiane di componenti elettronici – dai circuiti stampati alle batterie – infatti, oggi provengono dalla Cina, che ha visto i volumi dell’export triplicarsi nell’arco di appena 5 anni. E almeno quella è un’industria che prima in India manco c’era; il grave è che la dipendenza nei confronti della Cina è aumentata anche nei settori dove prima c’era un’industria autoctona, ad esempio nel settore farmaceutico. l’India è da sempre un grande esportatore di prodotti farmaceutici anche verso il Nord globale, a partire proprio dagli USA; ma, come sottolinea di nuovo il Post, “Mentre prima l’industria nazionale produceva in casa gran parte dei propri ingredienti, ora fa sempre più affidamento sulla Cina per buona parte dei suoi input farmaceutici più importanti, come ad esempio il paracetamolo. Dal 2007 al 2022, la quota della Cina nelle importazioni indiane di prodotti chimici e farmaceutici è cresciuta di oltre il 50% e, solo negli ultimi cinque anni, le importazioni indiane dalla Cina di ingredienti farmaceutici e altri prodotti farmaceutici intermedi sono aumentate di oltre la metà”. Idem per il tessile, che è un altro fiore all’occhiello dell’export indiano, ma dove “l’India ha aumentato le importazioni di filati e tessuti dalla Cina”; e anche l’automotive, che era “considerata una storia di successo sia per le vendite nazionali che per quelle all’estero”, ma dove sono aumentate a dismisura “le importazioni di parti e accessori di veicoli dalla Cina”. E anche laddove l’India ha cercato di sviluppare una produzione autoctona di beni intermedi e di componentistica – ammette desolato il Post – è comunque “rimasta dipendente dalla Cina per le competenze”, tant’è che nonostante lo chauvinismo dell’era Modi e la crescente sinofobia, “I rappresentanti dell’industria indiana hanno fatto pressioni sul governo affinché allenti le restrizioni sui visti per i tecnici cinesi”; e recentemente il principale consigliere economico del governo indiano, Anantha Nageswaran, ha proposto anche di allentare le restrizioni sugli investimenti cinesi.
Insomma: non ci sono più le dittature e i colpi di Stato di una volta – e anche il potere economico diciamo che ha perso qualche colpo, che da un lato è una bella notizia, dall’altro è anche terrificante perché, ovviamente, l’unica carta che rimane da giocarsi è la guerra vera. Ma per sapere se quella alla fine può essere la soluzione, forse prima gli conviene farsi una chiacchierata con il compagno Dmytro Kuleba, il ministro degli esteri ucraino che ieri è stato cacciato, insieme ad altri 6 colleghi, per un mega rimpasto di governo che così, a occhio, non credo significhi che sul campo le cose siano andando esattamente come sperato. L’unico posto in cui le cose continuano ad andare come sperato è nei titoli dei giornalacci e dei media finanziati dalle oligarchie dell’impero in declino; sarebbe arrivato il momento di creare un’alternativa e dare finalmente voce al 99%. Aiutaci a costruirla: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Daniele Capezzone

Benzina e gas: la guerra fa esplodere i prezzi – ft. Demostenes Floros

Oggi il nostro Gabriele intervista Demostenes Floros, responsabile energia del Centro Europa Ricerca di Roma, per approfondire il legame tra geopolitica e settore energetico, concentrandosi in particolare sull’effetto che i conflitti in Ucraina e Medio Oriente stanno avendo sul prezzo (e quindi sulla nostra vita quotidiana). Nella prima parte parleremo di prezzo del gas e di come le importazioni di gas dagli USA danneggino l’ambiente e la transizione ecologica. Nella seconda, ci concentreremo sul triangolo USA, Israele e Iran e su come un’eventuale chiusura del Golfo Persico farebbe esplodere il prezzo del petrolio.
Buona visione!

#petrolio #gas #inflazione #energia #ecologia #Iran #Ucraina

TAGLIARSI LE PA**E PER FAR DISPETTO ALLA MOGLIE – la politica energetica europea vista dalla Russia

Tagliarsi le palle per far dispetto alla moglie”: è così, in soldoni, che quello che probabilmente è in assoluto il principale esperto di energia di tutta la Russia descrive la politica energetica europea dopo l’adesione, senza se e senza ma, dell’intero continente alle sanzioni made in USA.

Konstantin Simonov

Si chiama Konstantin Simonov, è a capo del dipartimento di politologia dell’università finanziaria del governo della Federazione Russa e, da oltre 10 anni, dirige la NESF – che sta per National Energy Security Foundation – la fondazione per la sicurezza energetica nazionale, il più importante think tank specializzato sull’industria energetica del gigante eurasiatico. Una voce molto nota anche ai media mainstream dell’Occidente collettivo, almeno fino allo scoppio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina quando, oltre all’energia, abbiamo deciso di porre l’embargo anche sul buon senso; da allora, la voce di Simonov e della sua fondazione sono state gradualmente ma inesorabilmente espulse dal circo mediatico occidentale, dove il pluralismo – ormai – è ristretto esclusivamente alle diverse sfumature della propaganda suprematista, dalla più rozza alla più sofisticata. Meno male, però, che in mezzo a mille difficoltà c’è chi non si arrende e continua a remare controcorrente, come il professor Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia e fondatore del Forum Economico Eurasiatico di Verona che, dopo 14 anni di attività nel capoluogo veneto – durante i quali si sono alternati sul suo palco tutti i principali rappresentanti della politica e del mondo degli affari europeo -, da due anni si è trovato costretto a traslocare nell’Asia centrale: l’anno scorso a Baku e quest’anno a Samarcanda.
Ed è proprio a Samarcanda che abbiamo avuto l’opportunità e l’onore di intervistare in esclusiva, insieme alla nostra allegra brigata di agit prop, proprio Simonov; un grande motivo d’orgoglio e anche l’ennesima prova provata che se volete capire qualcosa del mondo nuovo che avanza, dovete spegnere i vecchi media e accendere Ottolina Tv.
Se la fantomatica controffensiva ucraina è ormai definitivamente scomparsa dai radar, figurarsi che fine ha fatto sui media mainstream l’annosa vicenda dell’attentato al Nord Stream, il caso più clamoroso di sempre di fuoco amico rivolto direttamente contro un’infrastruttura strategica, che più strategica non si può, di un fedele alleato:

Konstantin Simonov: “Dal mio punto di vista, la vicenda del Nord stream continua a mettere l’Unione Europea in forte imbarazzo. Per oltre un anno si è parlato di fantomatiche indagini ma senza nessun risultato, e questo è molto sospetto. Nel caso dei danni causati al gasdotto baltico che unisce Finlandia ed Estonia, le autorità si sono espresse nell’arco di pochi giorni; ora, in oltre un anno, nemmeno una parola. È decisamente molto sospetto, e io credo che il motivo sia che l’Unione Europea è molto cauta nel portare avanti le indagini perché teme che queste non possano che rivelare qualcosa che, dal mio punto di vista, è molto chiaro dal primo minuto, e cioè che esiste un unico beneficiario di tutta questa storia. E questo beneficiario, ovviamente, sono gli Stati Uniti d’America: basta vedere cosa sta succedendo al loro mercato del Gas Naturale Liquefatto, con decisioni molto importanti su nuovi massicci investimenti per aumentarne in modo importante produzione ed esportazione. Ovviamente tutto questo non ha niente a che vedere con la concorrenza e la competizione e, senza concorrenze e competizione, a pagare il prezzo più alto alla fine saranno i consumatori perché il gas, molto semplicemente, sarà più caro. Ora, se il tuo obiettivo è aumentare la spesa, benissimo. Ma, dal mio punto di vista, se l’Unione Europea tornasse a occuparsi dei suoi interessi, o l’Italia tornasse a occuparsi degli interessi economici degli italiani, beh, allora sicuramente la situazione potrebbe cambiare rapidamente. Vedete: l’Unione Europea, da un po’ di tempo, sta perseguendo questa idea della diversificazione delle forniture; ma la diversificazione è un servizio di lusso, e a pagare questo servizio di lusso sono tutti gli europei. E questo ancora non ha niente a che vedere con la competizione sul mercato del gas, anzi! La competizione è il meccanismo che permette di ridurre i costi che i consumatori sono tenuti a sostenere, mentre la diversificazione, al contrario, comporta che questi costi aumentino perché sei costretto a finanziare approvvigionamenti alternativi che non sono competitivi. Ad esempio, sei costretto a ricorrere – appunto – al gas naturale liquefatto, che è strutturalmente molto più costoso e così via. E, da questo punto di vista, è importante sottolineare come la Russia non sia mai stata contraria alla competizione con altre modalità alternative di approvvigionamento: ad esempio, quando è stato deciso di investire nel gasdotto Nabucco ci siamo limitati a sottolineare come non sarebbe mai stato profittevole e come mancassero le risorse sulle quali fondarlo, ma non abbiamo mai intimato o supplicato Bruxelles di fermarsi. Non abbiamo detto che se non avessero fermato il Nabucco noi avremmo interrotto le nostre forniture; è stata Bruxelles a capire che non era fattibile. Quindi noi abbiamo sempre desiderato semplicemente una competizione onesta, ma quello a cui abbiamo assistito ultimamente da parte dei paesi dell’unione è una continua violazione degli accordi. E lo vediamo un po’ ovunque: non è soltanto il caso eclatante della Polonia, ma anche la Germania – dove le autorità sono intervenute a gamba tesa in alcune raffinerie – e adesso lo stesso sta avvenendo in Bulgaria. La domanda quindi è: è così che sarà l’Europa nel futuro? Sarà un territorio dove vige un ordine medievale privo di regole e di leggi o torneremo, prima o poi, a una situazione più trasparente dove esistono dei contratti e degli accordi, e questi contratti vengono rispettati? Se l’Europa dovesse tornare a questo tipo di comportamento, allora certo sarebbe possibile per noi tornare ad avere un rapporto proficuo a partire proprio dal Nord Stream, perché il Nord Stream – ricordiamo – è ancora vivo perché, per entrambi i Nord Stream, parliamo di due condotte e una delle quattro condotte è rimasta integra, quindi tecnicamente sarebbe piuttosto semplice tornare a fornire gas attraverso la condotta del Nord Stream 2 rimasta intatta. Purtroppo, però, quello che tecnicamente è ancora possibile non lo è politicamente, e questo non solo per i rapporti con la Russia ma proprio perché prima l’Europa dovrebbe tornare ad essere la patria della legge e delle regole. La distruzione di questa credibilità, purtroppo, oggi è più devastante anche della situazione energetica in se perché rischia di compromettere la situazione per un periodo di tempo enormemente più lungo”.

La politica energetica suicida dell’Unione Europea parte da un assunto: il gas che, fino a ieri, ricevevamo via gasdotto dalla Russia può essere sostituito dal gas naturale liquefatto. Ovviamente, economicamente è un mezzo disastro non solo perché, strutturalmente, i costi sono molto maggiori, ma anche perché quei costi sono in balia totale delle ondate speculative. Non solo: con il passaggio dai gasdotti alle navi gasiere, facciamo anche ciao ciao con la manina a ogni retorica sulla transizione ecologica che, sulla carta, significherebbe decarbonizzazione totale entro il 2050, ma i nuovi contratti in essere e i tempi di ammortamento dei nuovi investimenti – necessari per cambiare font di approvvigionamento – ci costringono a prevedere di continuare a consumare gas ben oltre. In questo giochino, ovviamente, a guadagnarci sono gli USA, che il gas ce l’hanno e che stanno investendo una montagna di quattrini per vendercene sempre di più mentre la competitività del nostro sistema produttivo va a farsi benedire. Gli effetti sono già visibili, soprattutto in Germania che, sul gas a basso costo, aveva fondato l’intera sua politica industriale e che oggi, guarda caso, torna ad essere il grande malato d’Europa.
-1,4%”, titolava ancora mercoledì scorso Il Sole 24 Ore: è “il calo mensile della produzione industriale in Germania” sottolineava l’articolo, “il quarto consecutivo e molto peggiore delle attese, che avevano previsto un calo contenuto in una forbice tra il -0,1 e il -0,4%”. E il tracollo della produzione tedesca, ovviamente, equivale a un tracollo generale di una fetta consistente di tutto il continente che, in buona parte, alla Germania gli fa da terzista e da sub-fornitore: a partire dall’Italia dove, infatti, l’indice pmi manifatturiero a ottobre è ripiombato sotto quota 45 punti che – in soldoni – significa una bella nuova dose di deindustrializzazione. E il bello è che, tutto sommato, c’è andata anche parecchio di culo perché l’anno scorso, per lo meno, a farci concorrenza sui mercati internazionali per acquistare gas naturale liquefatto è mancata la Cina, alle prese con le politiche zero covid. La ripresa della produzione cinese – finito lo zero covid – è stata inferiore alle attese, ma questo inverno – comunque – si farà sentire eccome: quanto a lungo riusciremo a resistere?

Konstantin Simonov: Ora, l’Agenzia Internazionale dell’Energia ha da poco pubblicato questo report dove si prevede che, già a partire dal 2026, nel mondo ci sarà addirittura un eccesso di offerta di gas naturale liquefatto, e va bene. Ma io vorrei sottolineare un paio di cose: prima di tutto devo sottolineare che, da 25 anni, leggo ogni rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia e devo segnalare che, molto spesso, si tratta di previsioni completamente sballate; quindi valutate voi se è davvero il caso di continuare ad affidarsi a queste previsioni. Ma, soprattutto, c’è un secondo punto che forse è ancora più importante perché, effettivamente, noi abbiamo assistito a questa nuova grande ondata di investimenti negli Stati Uniti, poi abbiamo visto i paesi europei firmare contratti a lungo termine con la Scozia e quindi magari – non dico certo nel 2025 ma, diciamo, a partire dal 2026 – 2027 – vedremo davvero questa nuova grande ondata di gas naturale liquefatto in arrivo, in particolare dagli USA e dal Qatar. Ma rimane un dubbio, perché qui parliamo, appunto, del 2026 e noi adesso siamo nel 2023: quindi – come minimo – ci saranno altri 3 inverni da affrontare prima che questo scenario, nella migliore delle ipotesi, si concretizzi davvero. E allora mi chiedo: “quali saranno gli effetti di altri due o tre inverni senza una fornitura sufficiente di gas naturale liquefatto?”, perché lo scorso inverno, ad esempio, la Cina ha aiutato parecchio l’Europa. Il consumo di gas in Cina l’anno scorso è stato estremamente ridotto a causa delle politiche zero covid e, quindi, il grosso del gas liquefatto è stato venduto ai paesi europei, ma già quest’anno il popolo cinese non ci farà più questo enorme regalo; ciò nonostante, certamente alla fine l’Europa troverà il gas da fornire a tutte le abitazioni e per garantire i servizi delle municipalità ma, come ho già detto, un calo dei consumi del 20% è qualcosa di enorme, una cifra molto pericolosa per le economie europee, e altri due o tre anni così potrebbero significare la totale distruzione delle economie europee. Per carità, se volete continuare con la distruzione sistematica della vostra economia, ovviamente potete continuare con questo esperimento. Magari ci ritroviamo tra tre anni e commentiamo com’è diventata l’Europa.”

Sempre che, fra tre anni, l’Europa ci sia ancora: oltre a tutto quello che abbiamo elencato, infatti, oggi a rompere i coglioni ci si è messa pure l’ennesima crisi in Medio Oriente, che dal genocidio di Gaza rischia di allargarsi a tutta la regione, e se si allargherà a tutta la regione anche a questo giro potremo ringraziare sempre Washington che, da caro vecchio arsenale della democrazia qual è, ha deciso di coprire la guerra di Israele contro i bambini arabi con le sue portaerei.

La Giorgiona nazionale

Un altro attentato bello e buono alla sicurezza e alla sostenibilità economica del vecchio continente, tant’è che qualcuno in Europa s’è pure incazzato; i belgi, ad esempio, dove la vice premier ha dichiarato ufficialmente l’intenzione di chiedere sanzioni economiche contro Israele, ma non l’Italia. Non sia mai, nonostante sia quella che, probabilmente, ha di più da rimetterci e che qualcosina c’ha rimesso già: sostenendo acriticamente la carneficina dei clerico-fascisti di Tel Aviv, infatti, è naufragata definitivamente ogni minima possibilità di trasformare quella gran vaccata del nuovo piano Mattei – escogitato dalla Giorgiona nazionale – in qualcosa di diverso da una favoletta buona per la propaganda dei media.

Konstantin Simonov: Ovviamente se questo conflitto dovesse allargarsi fino a coinvolgere una fetta consistente del Medio Oriente, diventerebbe molto difficile anche solo prevedere il livello reale dei prezzi. In questo scenario credo che anche 150 dollari al barile sarebbe da considerare un buon prezzo, ma io spero che non si arrivi a tanto e, al momento, anche i mercati sembrano non credere in uno scenario del genere e questo è il motivo per il quale i prezzi, al momento, tutto sommato non sono ancora così alti rispetto al gigantesco rischio che stiamo correndo. Vedete: pensare che la Russia sia in attesa di una gigantesca crisi in grado di spingere verso l’alto i prezzi di gas e petrolio è una gigantesca mistificazione, e questo perché siamo convinti che una grossa crisi porrebbe dei problemi enormi al consumo di gas su scala globale. Il nostro obiettivo è vendere petrolio e gas come commodities sul lungo termine; non è nel nostro interesse distruggere interi mercati con prezzi insostenibili; questo è il motivo per cui ci stiamo adoperando per evitare l’allargamento del conflitto in Medio Oriente, perché – vedi – prezzi che oscillano tra gli 80 e i 90 dollari al barile per noi sono più che sufficienti. Abbiamo venduto gas per anni all’Europa a 250/300 dollari per 1000 metri cubi: per noi era sufficiente. Non siamo così ingordi come ci dipingete.”

Ora il prezzo del gas è stabilmente 2 – 3 volte superiore – quando va bene – e la nostra bolletta energetica complessiva, rispetto al 2019, è più che raddoppiata portandoci via qualcosa come 4 punti di PIL: un’enormità. Ma c’è anche una buona notizia perché, nonostante tutte le scelte folli fatte dalla politica europea per compiacere il padrone di Washington, potrebbe non essere ancora troppo tardi per invertire la rotta perché il matrimonio di convenienza tra paesi dell’Unione Europea e Russia – fondato sul commercio del gas – non conveniva, appunto, solo a noi, ma pure a loro che, come sottolinea Simonov, “puntano a vendere gas come commodity sul lungo termine” e che erano felicissimi di vendercela in gran quantità a noi a 250/300 euro per mille metri cubi e che una vera alternativa, tranquilla, liscia e serena al ricco mercato europeo, tutto sommato non l’hanno ancora trovata:

Konstantin Simonov: E’ inutile negare che trovare un sostituto immediato al mercato europeo non è possibile. Nel 2021, la Russia ha fornito all’Europa la bellezza di 146 miliardi di metri cubi di gas; quest’anno la quantità totale sarà inferiore a 30 miliardi di metri cubi. Quindi parliamo di un crollo di poco meno di 120 miliardi di metri cubi, che è una cifra gigantesca; trovare rapidamente un mercato sostitutivo per una quantità del genere è letteralmente impossibile. Ovviamente, per quanto riguarda il petrolio, trovare un sostituto per noi non è stato particolarmente difficile, e quando parliamo di petrolio – come d’altronde anche dei vari prodotti di raffinazione – siamo sugli stessi livelli di esportazione che registravamo all’inizio del 2022 perché ovviamente, grazie al trasporto via mare, abbiamo avuto la possibilità di espanderci in altri mercati a partire dall’India, la Cina e altri paesi asiatici. Ma per il gas, ovviamente, la questione è enormemente più complicata. Qualcosa è stato fatto: ad esempio, oggi esportiamo in Uzebkistan 3 miliardi di metri cubi, ma crediamo che potremo raggiungere i 10 miliardi molto presto; abbiamo firmato un nuovo contratto con l’Azerbaijan e dovremmo firmarne di nuovi a breve anche con Kazakhstan e Kyrghizistan, ma non saranno mai sufficienti a rimpiazzare una tale quantità di domanda. È per questo che, ovviamente, la nostra principale speranza rimane la Cina e il Siberia 2 che, da solo, garantirebbe forniture per 50 miliardi di metri cubi. Ovviamente anche i cinesi sono tentati di approfittare della situazione per strappare condizioni di favore: sono convinti che questo contratto sia più importante per Gazprom che non per i consumatori cinesi. Ma io credo che, in realtà, la Cina abbia bisogno di gas a buon mercato, e la Russia è in grado di fornirglielo. Anche qua è questione di competizione, e il nostro gas sarà sicuramente più conveniente del gas naturale liquefatto ma anche del gas che arriva dall’Asia centrale; per questo sono fiducioso che il prossimo anno riusciremo a firmare finalmente il contratto. Ma ciò nonostante, non è un segreto per nessuno che, anche siglato questo accordo, per la Russia trovare in Asia una domanda tale da sostituire il mercato europeo rimarrà comunque molto complicato. Da questo punto di vista, un altro fattore su cui stiamo puntando è il consumo interno: prevediamo di aumentare il consumo interno di gas di circa 30 miliardi di metri cubi l’anno entro la fine del 2030, e questo è dovuto al fatto che in buona parte della regioni orientali ancora oggi manca un sistema unificato di distribuzione del gas. Prendi ad esempio una città come Krasnoyarsk: è un grande città con oltre 1 milione di abitanti e, al momento, la principale fonte di energia è ancora il carbone. Ovviamente, anche dal punto di vista ambientale è una situazione molto complicata, ma anche con questa aggiunta non riusciremo ancora a sostituire pienamente la domanda europea. È impossibile. Ma, d’altronde, se per l’Europa questa situazione è ok, se siete contenti di veder diminuire il consumo di gas – non dico di gas russo ma di gas in generale – di oltre il 20%, noi cosa possiamo farci? Se siete convinti di proseguire verso la deindustrializzazione allora sì, bisogna ammettere che la Russia avrà perso per sempre una fetta di mercato. Va bene, ma dal mio punto di vista questo è un problema reciproco. Fino a poco tempo fa, noi avevamo il gas e vendevamo il gas all’Europa, eravamo una fonte affidabile di gas a buon prezzo per l’Europa. Ora avete deciso di distruggere questo business e ora vi ritrovate in grosse difficoltà economiche. Se questo vi fa piacere, cosa vi posiamo dire? E io sottolineerei anche un’altra cosa: la Russia ha cominciato a fornire gas all’Europa occidentale a partire dal 1968. Sono oltre 50 anni ininterrotti di forniture. Ora vi invito a trovare un singolo caso di interruzione di fornitura del gas da parte della Russia, e per favore non mi citate la storia dell’Ucraina nel 2009 perché, come sapete tutti, in quel caso fu l’Ucraina a stoppare il trasporto. Ecco perché è importante sottolineare che la leggenda secondo la quale la Russia avrebbe usato politicamente il gas come strumento di pressione è una gigantesca mistificazione: non abbiamo mai fatto pressioni politiche sull’Europa utilizzando la leva del gas. Come sapete, da decenni ormai abbiamo relazioni molto complicate con gli stati del Baltico e ciò nonostante non abbiamo mai interrotto la fornitura di gas, mai. Quindi gli europei hanno distrutto un ottimo affare e l’unica cosa che avranno in cambio è che anche la Russia avrà qualche conseguenza negativa. Non credo sia un approccio molto lungimirante.”

Contro ogni forma di disfattismo, sarebbe il caso di ripartire da qui. La prova di forza della guerra per procura in Ucraina è stata, e purtroppo ancora è, una vera e propria catastrofe che non è servita ad altro che sottomettere ancora di più l’Europa al dominio di Washington e che, ormai, sembra procedere a passo spedito verso una debacle totale. Di fronte alla totale irrazionalità suprematista delle élite europee che ci hanno infilato in questo tunnel non ci sarebbe nessun motivo, per qualsiasi interlocutore sano di mente, di voler avere di nuovo a che fare col vecchio continente guidato da questo manipolo di inaffidabili cialtroni svendi-patria. Fortunatamente, però, al di là della antipatie gli interessi economici rimangono e l’integrazione di due economie complementari – come quella russa e quelle europee – non è la velleità di qualche sognatore pacifista, ma una necessità storica che non può essere cancellata con un tratto di penna dalla nostra classe dirigente, per quanto ci si applichi. Ed è proprio per questo che iniziative come quelle del Forum Economico Eurasiatico, per quanto osteggiato, non sono passerelle velleitarie, ma hanno un’importanza strategica.

Gli agit-prop a Samarcanda

Chi ha gambe e testa, mai come oggi le dovrebbe utilizzare per continuare, in mezzo a mille ostacoli, a tenere aperti i pochi ponti che ancora non abbiamo fatto saltare in aria: certo, abbiamo contro quello che, ancora oggi, è il centro dell’impero e la sua gigantesca macchina propagandistica, ma proprio oggi – di fronte alla loro evidente crisi egemonica – pensare che abbiano partita facile nell’invertire il corso naturale della storia sarebbe un errore imperdonabile. A quasi due anni dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’esigenza storica dell’integrazione del super -continente eurasiatico non solo non è stata derubricata ma, a ben vedere, appare più chiara ed evidente che mai. Altro che disfattismo! Altro che partita chiusa! Qui la partita non è mai stata così aperta e ora tocca a noi riprenderci il nostro malandato continente, estirpare il tumore del partito unico degli affari e della guerra al servizio di Washington e restituire a tutti la possibilità di un futuro di lavoro e di pace. Per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un media capace di rovesciare come un calzino sia il trionfalismo dei suprematisti che il piagnisteo dei disfattisti.
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E chi non aderisce è Ursula von der Leyen