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Xi e Huawei asfaltano pacificamente Trump. Lui reagisce riempiendo di missili il Pacifico

OttolinaTV by OttolinaTV
28/04/2025
in Cina, Economia, Europa, In evidenza, Italia, U.S.A.
0

E meno male che Trump doveva riportare un po’ di sano realismo alla Casa Bianca: prima ha dichiarato una guerra commerciale al resto del mondo che, però, ha scatenato una delle più massicce fughe di capitali dagli USA di sempre e l’ha costretto a una rovinosa ritirata, poi ha rilanciato la guerra tecnologica contro la Cina, vietando l’esportazione anche di chip di vecchia generazione, per ritrovarsi, però, il giorno dopo con Huawei che annunciava l’uscita di nuove macchine e processori pensati ad hoc per l’intelligenza artificiale che hanno lasciato gli analisti a bocca aperta; e ora, per concludere, sembra si sia messo l’anima in pace e sia tornato ai cari vecchi metodi da cowboy. L’hanno ribattezzato il super bowl delle esercitazioni del Pacifico: si chiama balikatan, spalla a spalla, ed è un’esercitazione marina congiunta tra forze armate statunitensi e filippine che va regolarmente in scena da quasi 40 anni, ma che a questo giro, stando ad Asia Times, “è la più grande mai condotta”. “Più che un super bowl, è un super troll” rispondono i cinesi dalle pagine del Global Times: “un’esercitazione che trabocca di provocazioni nei confronti della Cina”.

Durante l’esercitazione, in corso da lunedì scorso e che prevede la partecipazione di circa 15 mila effettivi tra statunitensi e filippini, verrà infatti dispiegato, per la prima volta in assoluto nell’area, il sistema missilistico NMESIS, dotato di missili d’attacco navali in grado di interdire il passaggio di imbarcazioni cinesi nello stretto di Luzon, il tratto di mare che separa le isole settentrionali delle Filippine da Taiwan; ma, soprattutto, verrà schierato un secondo Typhon, il lanciatore di missili a lungo raggio Tomahawk e SM-6 che, con una gittata massima di poco inferiore ai 2 mila chilometri, permetterebbero all’impero di raggiungere sostanzialmente tutte le principali aree metropolitane del dragone. Il primo sistema era stato dispiegato nelle Filippine l’anno scorso, sempre durante un’esercitazione, e sarebbe dovuto essere rimosso; oggi, si raddoppia! La necessità di rilanciare col bullismo vecchia maniera da parte di Washington ha una causa sola: tutti i precedenti tentativi di intimorire Pechino con sanzioni, restrizioni e tariffe non ha sortito alcun effetto, se non per l’economia statunitense e la sua bolla speculativa. Il motivo è molto semplice: la capitale mondiale del finanz-capitalismo prova a colpire la Cina con misure che farebbero saltare per aria Wall Street in un batter d’occhio, ma che non sembrano scuotere Pechino più di tanto; com’è possibile?

Molto semplice: mentre negli USA ci si scervella su come tenere in vita un’economia decotta fondata su un gigantesco schema Ponzi, a Pechino si ragiona in termini di sviluppo della produttività e dell’economia reale e dopo 50 anni di rapina a mano armata da parte delle oligarchie finanziarie, Washington non sembra avere più gli strumenti necessari per competere davvero su quel piano. Gli rimane il metodo mafioso: minacce e ritorsioni che, però, magari funzionano con una patriota tipo la Meloni, ma un po’ meno con Xi e dintorni; e finiscono per ritorcersi contro gli USA.

Quello che l’America sbaglia sulla corsa all’intelligenza artificiale, titola Foreign Affairs: come sottolinea l’articolo, come gli strateghi militari amano ricordare che “i dilettanti parlano di tattiche, i professionisti di logistica”, così nel mondo dell’intelligenza artificiale “i dilettanti parlano di benchmark, i professionisti di adozione”. La tesi è molto semplice: nella competizione per il primato dell’intelligenza artificiale – e in tutto l’hype da copertina di Vice o di Vogue che la circonda, ci si è concentrati nella corsa a tirare fuori il modello più avanzato. Peccato che serva a poco: a parte ai titoli di giornale e all’ego dei tycoon dell’alta tecnologia, non c’è nessun bisogno di avere il miglior modello in circolazione; basta averne uno che funziona e poi mettersi pancia a terra per fare in modo che, invece che rimanere nei titoli dei giornali, venga adottato concretamente nei posti di lavoro, consentendo un balzo in avanti concreto della produttività. Quello che DeepSeek ha dimostrato è che gli USA possono concentrare tutte le loro forze per impedire che la Cina sforni un modello migliore dei loro, ma non possono bloccare lo sviluppo di modelli sufficientemente performanti per condurre l’economia cinese attraverso la rivoluzione dell’intelligenza artificiale.

E quando, dalla gara a chi ce l’ha più performante, si passa alla gara a chi c’ha più strumenti per renderlo qualcosa di concretamente utilizzabile, non c’è partita: gli USA mangiano la polvere. Ecco perché, come titola il Financial Times, La Cina non sta cercando di vincere la corsa all’intelligenza artificiale: “Pechino” sottolinea l’articolo “potrebbe aver concluso che essere secondo vicino agli Stati Uniti serve meglio i suoi interessi”; nonostante il caso DeepSeek, continua l’articolo, gli USA continuano a dominare lo sviluppo di modelli di intelligenza artificiale costosi e all’avanguardia che, però, in pochissimi applicano sul serio e senza un piano ragionevole che li induca a farlo nel prossimo futuro, una differenza di approccio che non è solo dettata dall’ego dei signori del big tech a stelle e strisce. Il punto, sottolineava Nature già in un articolo dello scorso febbraio, è “la differenza tra le forze che guidano l’innovazione nelle due economie: il capitale di rischio negli Stati Uniti e le grandi imprese manifatturiere e gli organi statali in Cina”. L’economia USA è un’economia incentrata sulla carta e, cioè, sulla crescita del prezzo delle azioni: perché le azioni crescano, devono attirare capitali; per attirare capitali, le aziende devono convincerti che avranno il monopolio su un determinato settore. L’ha spiegato, in modo molto, chiaro il re della PayPal Mafia, Peter Thiel, in un articolo di ormai quasi una decina di anni fa: la concorrenza è da sfigati. Nell’economia iper-finanziarizzata degli USA vale la logica ferrea del winner takes all: conta solo arrivare primi e imporre un regime monopolistico.

In Cina, al contrario, l’economia è incentrata sullo sviluppo industriale: significa che lo sforzo è fare adottare le nuove tecnologie a tutti gli attori, favorire la concorrenza e contrastare il consolidarsi di rendite monopolistiche che affossano l’intera economia; “Sebbene le applicazioni rivolte ai consumatori ricevano il grosso dell’attenzione mediatica” sottolinea Nature, “le aziende cinesi di AI, a differenza delle loro controparti statunitensi, sono maggiormente impegnate nella risoluzione di problemi industriali e manifatturieri su larga scala” e, a questo fine, “il governo cinese mira a sviluppare applicazioni di intelligenza artificiale a basso costo e scalabile in grado di modernizzare il Paese in rapida crescita”. Insomma: dietro alla guerra per il dominio dell’intelligenza artificiale si nasconde la solita dicotomia strutturale tra Cina e USA; da un parte un capitalismo produttivo che mira a escludere le rendite parassitarie e ad aumentare la produttività per tutti, dall’altra un capitalismo iper-finanziarizzato che sacrifica la capacità di creare ricchezza materiale per arricchire le oligarchie finanziarie e, da questo punto di vista, sottolinea Nature, “la questione di chi sia avanti e chi indietro potrebbe diventare irrilevante, dal momento che le priorità sono diverse”. “L’arma segreta della Cina nella guerra commerciale” scrive il New York Times “è un esercito di robot industriali, alimentati dall’intelligenza artificiale, che hanno rivoluzionato il settore manifatturiero”.

Le fabbriche cinesi si stanno automatizzando a un ritmo senza precedenti: lontano mille miglia dall’immaginario della propaganda suprematista, già oggi la Cina ha più robot ogni 10 mila addetti al settore manifatturiero di qualsiasi altro Paese al mondo, tranne Corea del sud e Singapore; ed è solo l’inizio. Come riporta sempre il New York Times, un classico braccio robotico dotato di telecamera e guidato dall’intelligenza artificiale, solo 4 anni fa costava poco meno di 150 mila dollari; ora ne costa 40 mila ed ormai è alla portata anche dei piccoli laboratori. Come l’officina di Elon Li, nel Guangzhou: 11 operai che tagliano e saldano il metallo per realizzare forni e attrezzature per barbecue a basso costo e che ora si appresta a fare il grande salto; “Prima non avrei mai immaginato di investire in automazione” avrebbe dichiarato ai giornalisti del Times.

I robot costano un terzo di appena 5 anni fa per un motivo molto semplice: li hanno cominciati a costruire i cinesi a centinaia di migliaia, conquistando la leadership che, da qualche mese, ostentano in ogni occasione. Prima è stato il turno dei robot umanoidi ballerini durante il gran gala televisivo dello scorso capodanno cinese, quando 16 H1 della cinese Unitree Robotics, vestiti con giacche imbottite a tema floreale, si sono uniti a 16 ballerini umani nelle tradizionali coreografie dell’immancabile danza Yangge; poi, lo scorso 19 aprile, è stato il turno di 21 robot umanoidi sviluppati da tre startup cinesi che hanno preso parte, in mezzo a oltre 12 mila umani, alla mezza maratona di Pechino. Uno è crollato prima della linea di partenza, un altro pochi passi dopo e un altro ancora è andato a sbattere contro una ringhiera; gli altri 18 però, come ricorda l’Economist, “hanno saltellato e trotterellato senza intoppi lungo un percorso di 21,1 km e verso il futuro” . Dopo queste dimostrazioni, Goldman Sachs ha visto al rialzo le previsioni sul settore: se nel 2023 aveva previsto un mercato da 150 miliardi in 10 anni, ora la stima è di 200 miliardi entro 8 e, secondo Citigroup, si parla di 7.000 miliardi di vendite entro il 2050, in buona parte cinesi; sempre secondo l’Economist, “Dei circa 60 produttori di robot umanoidi dotati di occhi robotici (ovvero telecamere e sensori) e mani, muscoli e articolazioni, 48 sono cinesi. Il loro valore di mercato combinato di 217 miliardi di dollari è aumentato del 56% da settembre, nonostante il crollo del mercato azionario provocato dai dazi di Trump. Nell’ultimo anno, 12 di loro hanno registrato vendite superiori a 1 miliardo di dollari, rispetto a solo due dei loro dodici rivali non cinesi”.

Ed è solo la cima dell’iceberg: come ricorda il New York Times, “quando la Volkswagen ha aperto una fabbrica di auto elettriche un anno fa a Hefei, aveva un solo robot proveniente dalla Germania e 1.074 prodotti a Shanghai” ; d’altronde, la stragrande maggioranza degli impianti di automobili costruiti negli ultimi 20 anni nel mondo si trova in Cina “e attorno a loro”, sottolinea sempre il Times, “è cresciuta un’industria dell’automazione”. A trainare il processo, le politiche del governo che, con Made in China 2025 ha indicato una serie di settori ad alto valore aggiunto nei quali la Cina doveva riuscire ad imporsi come leader e, tra questi, un posto al sole spettava alla robotica e all’automazione; spinte dalle politiche governative, le banche cinesi (tutte rigorosamente controllate dal governo) hanno prestato alle aziende qualcosa come 2 mila miliardi nell’arco di 4 anni per rifare da capo le linee produttive, mettendoci dentro quanta più tecnologia possibile e, trainati da questa domanda, i cinesi hanno consolidato la loro leadership nel settore: “L’aspettativa è quella di creare qualcosa di comparabile al settore dell’automotive elettrico” ha dichiarato He Liang, il fondatore e amministratore delegato di Yunmu Intelligent Manufacturing, uno dei principali produttori cinesi di robot umanoidi. Come sottolinea di nuovo Nature, esattamente come per i veicoli elettrici o per l’energia rinnovabile “l’obiettivo della Cina non è necessariamente sviluppare un’intelligenza artificiale di frontiera, ma un’intelligenza artificiale per il mercato di massa. Non essere necessariamente i primi a innovare, ma i primi a rendere le tecnologie accessibili e con un uso diffuso”. 

Visto che la Cina non ha nessuna intenzione di svenarsi per conquistare un primato che serve alla bolla finanziaria, ma molto poco all’economia reale, l’amministrazione Trump ha deciso di dare una bella svolta alla strategia di Biden: non si tratta più solo di impedire l’accesso alle ultimissime tecnologie in fatto di microchip, ma di ostacolare anche l’accesso a quelle più vecchiotte. Per venire incontro ai dictat dell’amministrazione Biden senza rinunciare al gigantesco mercato cinese, Nvidia aveva sviluppato un altro chip ad hoc, l’H20; Trump ora ha decretato che anche per esportare questi chip servirà un’autorizzazione speciale; il 15 aprile scorso, la notizia ha fatto crollare il titolo del 6%. Nvidia ha dovuto mettere a bilancio una perdita di 5,5 miliardi e l’amministratore delegato Jensen Huang è dovuto correre a Pechino per promettere che l’azienda avrebbe fatto di tutto per “servire incondizionatamente il mercato cinese”. La risposta cinese l’ha data Huawei: il giorno dopo l’adozione delle nuove misure restrittive, ha annunciato l’Ascend 920, il suo chip AI di ultima generazione con caratteristiche simili all’H20 ; dopo pochi giorni ha lanciato il CloudMatrix 384 Supernode. Un supernodo non è altro che una grossa macchina con tante schede, ognuna delle quali con tanti chip, tutti interconnessi tra loro per ottenere la massima potenza di calcolo possibile, necessaria per creare e/o addestrare modelli di intelligenza artificiale grandi e complessi; lo standard, ad oggi, è l’NVL72 lanciata da Nvidia il marzo scorso: il CloudMatrix 384, nonostante i chip meno potenti, ne eguaglia sostanzialmente le prestazioni. Come accade sempre più spesso, l’escalation protezionistica non ha impedito alla Cina di dotarsi di quello di cui ha bisogno per continuare a svilupparsi a ritmi senza precedenti; in compenso, ha dato un’altra mazzata a Nvidia, che senza gli introiti del mercato cinese ha anche meno soldi da investire per mantenere il suo primato.

E il problema potrebbe non essere solo il mercato cinese, esattamente come, più in generale per i dazi, gli USA hanno realizzato che mettere le barriere soltanto nei confronti della Cina, molto banalmente, non funziona perché un modo per bypassarle si trova sempre; e così, già verso la fine dell’amministrazione Biden, per impedire che rientri dalla finestra quello che era stato cacciato dalla porta, hanno introdotto limitazioni importanti anche per gli altri Paesi che, come sottolinea il Financial Times, “non hanno nessuna intenzione di restare a guardare” : “Molti nutrono ambiziosi progetti per costruire i propri data center” e “di fronte alle restrizioni statunitensi sui chip, potrebbero rivolgersi sempre di più alla Cina come fonte alternativa”. “Nel tentativo di soffocare il progresso della Cina”, conclude il Financial Times, “Washington potrebbe quindi fare l’ennesimo favore a Pechino stimolando la domanda di chip cinesi sia a livello nazionale che internazionale”. Come sottolinea Foreign Policy, “Il tentativo degli USA di limitare la potenza di calcolo in modo rigido come è stato fatto per la diffusione del materiale nucleare, è destinato al fallimento”: “L’idea che possiamo mantenere la leadership globale a tempo indeterminato rallentando l’ascesa della Cina con controlli sempre più rigidi sulle esportazioni, è totalmente miope” rilancia la testata del think tank, fondato nel 1994 personalmente da Richard Nixon, Center for the National Interest; “la tecnologia non è sufficiente a garantire l’egemonia statunitense” sottolineano. “La Cina comprende meglio di chiunque altro la necessità di applicare le scoperte ai casi concreti” : “La Cina” continua l’articolo “è attualmente impegnata in uno sforzo massiccio guidato dallo Stato per diffondere l’utilizzo dell’AI in intere aree per ottimizzare la produzione, potenziare l’istruzione e supportare la governance”; questa ristrutturazione, continua ancora l’articolo, “comporta guadagni competitivi giganteschi” e il tentativo di fermare l’ascesa della Cina servirà a poco o niente.

Se davvero si vuole competere con la Cina, invece che fare i dispetti, conviene imparare dalla Cina che “nel suo approccio all’intelligenza artificiale offre ai politici USA molte lezioni di assoluto valore”: la prima è che se vuoi competere, devi tornare a produrre e, per produrre, gli annunci servono a poco (e anche i regali fiscali all’1% più ricco della popolazione); servono invece, sottolinea l’articolo, “pazienza e investimenti costanti”, a partire dalla formazione. La Cina sforna, ogni anno, 9 volte i laureati in materie tecniche e scientifiche degli USA: 450 mila contro appena 50 mila. E graziarcazzo: come ha sottolineato recentemente Bloomberg in una lunga inchiesta, negli USA “I college più prestigiosi sono troppo costosi anche per famiglie che guadagnano la bellezza di 300 mila dollari l’anno”. Come la tecnologia, anche le conoscenze negli USA sono diventate una specie di monopolio, accessibile a una casta ristrettissima che poi gode di una rendita monopolistica a spese dell’intera economia; il risultato l’ha sottolineato, ancora una volta, l’osservatorio sulle tecnologie emergenti della Georgetown University di Washington che ha certificato che, dal 2018 al 2023, nove dei 10 maggiori produttori di ricerche in lingua inglese sui chip erano istituzioni cinesi, e nella top 10 degli articoli più citati, le istituzioni cinesi sono 8, mentre “nessuna istituzione degli Stati Uniti è presente in nessuna di queste due classifiche”.

Ed è solo l’inizio: per compiacere i finanziatori sionisti, l’amministrazione Trump ha dichiarato guerra alle principali istituzioni universitarie del Paese, colpevoli di non aver punito in modo adeguato le manifestazioni degli studenti contro lo sterminio dei bambini di Gaza. Risultato: secondo un sondaggio, sempre di Nature, il 75% dei 1200 scienziati americani interpellati starebbe valutando la possibilità di lasciare gli USA. Come riportava Simona Siri sabato su La Stampa, in Europa è partita la corsa per accaparrarseli ovunque, tranne che in Italia: “Un blocco di 12 nazioni dell’Ue” si legge nell’articolo “sta collaborando per accelerare la concessione di visti, sovvenzioni e borse di studio per il trasferimento, nel tentativo di sottrarre cervelli statunitensi in linea con le proprie priorità strategiche”; “In questo gruppo composto da Francia, Repubblica Ceca, Austria, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Spagna, Slovenia, Germania, Grecia, Bulgaria e Romania” conclude l’articolo, “manca però l’Italia, che rischia di rimanere indietro nella corsa ad accaparrarsi cervelli”.

La retorica contro i professoroni, tanto cara ai fascioleghisti, è un po’ irritante anche quando la sentiamo al bar: quando diventa una politica del governo è una ricetta perfetta per il suicidio – come, in generale, baciare il culo a Trump; contro una classe dirigente che è buona solo a baciare il culo agli inquilini di Washington e a portare il Paese in guerre guerreggiate o economiche o tecnologiche perse in partenza, serve una grande mobilitazione per mandarli tutti a casa. Vi aspettiamo domenica 11 maggio al teatro Il Piccolo di Napoli per un’altra tappa del nostro tour tuttiacasa e, poi, sabato 24 maggio a Milano, in piazza san Babila, per una grande manifestazione unitaria e plurale per la costruzione di una Costituente contro il Sistema Guerra. Nel frattempo, per fare crescere la mobilitazione e supportarla con un’informazione autorevole e indipendente, abbiamo sempre più bisogno di un vero e proprio media che, invece che alla propaganda analfoliberale e analfosovranista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuseppe Valditara

Tags: aicinai pipponi del Marruccipippone del marrucciroboticatecnologiausa
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