La guerra tecnologica è un flop: perché gli USA sono costretti a tornare a mediare con Pechino
La guerra tecnologica che gli USA hanno ingaggiato contro la Cina si sta rivelando un flop ancora più grande delle sanzioni e la guerra per procura contro la Russia, ben oltre ogni più pessimistica previsione: secondo un recente rapporto della Banca Federale di New York, se “i controlli sulle esportazioni per negare alla Cina l’accesso alle tecnologie strategiche” effettivamente ha comportato una fuga dai rapporti con la Cina delle aziende USA, allo stesso tempo però non si è verificato nessun fenomeno consistente di “reshoring o di friend shoring”; il risultato quindi, in soldoni, è stato molto banalmente che “I fornitori americani interessati hanno registrato in media 857 milioni di perdite in termini di capitalizzazione, con perdite totali di tutti i fornitori di 130 miliardi di dollari”. Oltre che alla capitalizzazione, le perdite sono sensibili anche in termini “di ricavi, redditività” oltre che “un calo significativo dell’occupazione” e non è che succede perché investono meno, eh? Anzi: gli investimenti corrono (tanto il grosso viene rimborsato come credito fiscale con soldi pubblici), solo che, con sempre meno rapporti con la Cina e nessuno che è in grado di sostituirla, i soldi investiti rendono decisamente meno. Insomma: per far dispetto alla moglie gli statunitensi si stanno allegramente martellando gli zebedei e la moglie, intanto, ha trovato nuove fonti di piacere; mentre le aziende USA, infatti, perdono un sacco di quattrini “Le aziende non statunitensi che attualmente forniscono beni alle aziende cinesi prese di mira dalle sanzioni sperimentano un aumento dei ricavi e della redditività consistenti” e la stragrande maggioranza di queste aziende non statunitensi sono – ovviamente – proprio cinesi. Insomma: un successone, come dimostra in maniera plateale il caso Huawei; “Huawei è tornata a ruggire” titolava venerdì Il Giornanale. “Due anni fa era a un passo dal fallimento” ricorda l’articolo; “Ora il fatturato vola grazie agli smartphone che divorano le vendite cinesi di Apple e l’utile balza a 7 miliardi di euro”. E Huawei è solo la punta dell’iceberg: come scrive Asia Nikkei, ad esempio, “Per il produttore cinese di cavi sottomarini Wuhan FiberHome International Technologies, essere banditi dal governo degli Stati Uniti non è nulla di cui preoccuparsi. In effetti, è stato positivo per gli affari”; per reagire alle sanzioni infatti, sottolinea ancora l’articolo, “Pechino ha iniziato a impegnarsi per diventare autosufficiente nella tecnologia dei cavi sottomarini, aumentando così a dismisura gli ordini nei confronti di produttori nazionali come FiberHome”.
Ciononostante, gli USA non sembrano avere strategie alternative e continuano a rilanciare con la stessa moneta; il problema è che, come ampiamente prevedibile, la guerra per procura in Ucraina è un disastro ed è in buona parte un disastro perché le sanzioni contro la Russia non funzionano; e le sanzioni contro la Russia non funzionano perché, in qualche misura, il mondo è già multipolare e – a parte gli alleati vassalli più stretti – di quello che decidono a Washington ormai in buona parte del mondo, molto banalmente, non gliene frega una seganiente, ben oltre quanto si immaginassero tutti i media mainstream. Dopo 2 anni di fallimento totale delle sanzioni, infatti, a inizio 2024, quando gli USA hanno introdotto nuove sanzioni che – sulla carta – dovrebbero essere molto più restrittive, per settimane sui giornaloni di quelli studiati (come abbiamo riportato decine di volte su Ottolina Tv) non si faceva che annunciare l’inevitabile prossima resa delle aziende cinesi, che non avevano nessuna intenzione di mettere a repentaglio il loro business per salvare il culo ai russi; purtroppo per loro però, esattamente come nei due anni precedenti, questa profezia s’è rivelata totalmente infondata e i rapporti commerciali tra Russia e Cina sono continuati a crescere, e oggi vengono effettuati per il 90% direttamente in rubli o yuan. Ecco allora che gli USA ricorrono a una strategia innovativa e vincente: altre sanzioni; recentemente gli USA hanno allungato la blacklist delle aziende appestate di oltre 400 nuovi nomi e i cinesi, dopo i russi, fanno ovviamente la parte del leone. Un bel po’ di aziende – a partire dai produttori californiani di macchinari per la produzione di chip come Applied Materials e LAM – si sono leggerissimamente risentite: “Chiediamo di sospendere ulteriori controlli unilaterali sulle esportazioni fino a quando non si sarà adeguatamente provato che tali controlli non danneggeranno la competitività degli Stati Uniti nei semiconduttori avanzati e nelle apparecchiature per la produzione di semiconduttori” hanno mandato a dire a Rimbambiden tramite i parlamentari democratici californiani. E il crollo dei volumi d’affari in quello che era, fino a poco tempo fa, in assoluto il principale mercato per tutti questi produttori è solo una parte del problema; l’altra è che, a un certo punto, la Cina ha cominciato a reagire e ha risposto a controlli e limitazioni con altri controlli e limitazioni. E siccome, tutto sommato, l’economia USA dipende da quella cinese molto di più di quanto quella cinese dipenda da quella USA, questo tiro alla fune potrebbe rivelarsi essere una strategia non esattamente vincente. In principio era stato il turno del gallio e del germanio e, cioè, due materie prime fondamentali proprio per l’industria dei semiconduttori; a luglio del 2023 la Cina aveva introdotto alcune restrizioni e i prezzi erano esplosi, arrecando un danno considerevole proprio ai produttori USA e dei suoi alleati. A ottobre di quest’anno la Cina poi è tornata a rilasciare un po’ di licenze per l’esportazione, ma i prezzi sono rimasti elevati : come ricorda sempre Asia Nikkei “Martedì scorso il prezzo di riferimento per il gallio destinato ai mercati occidentali era di 525 $ al chilogrammo, in aumento dell’86% rispetto alla fine di giugno 2023” ; il punto è che i produttori stanno facendo scorte perché hanno capito che la Cina ha il potere di governare il mercato come più l’aggrada e temono che – con gli USA che continuano come degli automi a ricorrere alle sanzioni nonostante gli effetti nefasti – la reazione cinese più prima che poi è destinata a rifarsi sentire.
Per provare a calmare un po’ le acque, dopo 8 anni di assenza l’altra settimana un consigliere per la sicurezza nazionale USA è tornato a Pechino; durante gli incontri che Jake Sullivan ha tenuto col ministro degli esteri Wang Yi prima e con Xi Jinping poi, ovviamente la guerra delle sanzioni ha ricoperto un ruolo di primo piano. La formuletta di Sullivan è sempre la solita: le nostre sanzioni hanno come unico obiettivo quello di evitare che nostra tecnologia favorisca il rafforzamento militare di altri; non abbiamo intenzione di colpire l’economia cinese, ma solo di garantire la sicurezza USA. La risposta cinese è chiara: come scrive il Global Times infatti, “Non è un segreto che anche il germanio e il gallio possono essere utilizzati per componenti di uso militare” e quindi, se continuate a farci la guerra tecnologica con la scusa della sicurezza nazionale, abbiamo già la giustificazione pronta per reagire come si deve. Il problema di fondo è che, come sottolineava qualche mese fa un rapporto dell’azienda di software per la difesa Govini, gli USA si riempiono la bocca di decoupling e derisking, ma poi sono totalmente dipendenti dalle forniture cinesi anche per l’industria militare stessa: “Innanzitutto”, riassumeva Forbes commentando l’articolo, “oltre il 40% dei semiconduttori che sostengono i sistemi d’arma del Dipartimento della Difesa e le infrastrutture associate provengono ora dalla Cina. In secondo luogo, dal 2005 al 2020, il numero di fornitori cinesi nella catena di fornitura dell’industria della difesa statunitense è quadruplicato. E in terzo luogo, tra il 2014 e il 2022, la dipendenza americana dall’elettronica cinese è aumentata del 600%”. La guerra degli USA alla Cina, necessariamente, si fonda sulla proiezione nel mare: secondo Govini, per fare un esempio, le portaerei della classe Ford hanno a bordo oltre 6000 componenti cinesi. Ci siamo scervellati per mesi su come le portaerei fossero ormai vulnerabili di fronte all’arsenale di missili ipersonico cinese; in realtà, per affondarle non avrebbe bisogno di sparare nemmeno mezzo colpo: per poter sfruttare al meglio il suo incontrastato potere sul mercato delle terre rare (che sono un po’ il petrolio cinese), a fine giugno la Cina ha emanato una nuova legge che rafforza il monopolio dello Stato. “Nessuna organizzazione o individuo può invadere o distruggere le risorse di terre rare” recita il testo; la gestione delle risorse di terre rare “dovrà attuare le linee, i principi, le politiche, le decisioni e gli accordi del Partito [Comunista cinese] e dello Stato … e seguire i principi della pianificazione generale, garantendo sicurezza, innovazione scientifica e tecnologica e sviluppo verde” conclude. Mentre per ora su gallio e germanio (dei quali la Cina controlla oltre il 90% della produzione) Pechino ha deciso di allentare un attimo i cordoni, nelle ultime settimane a far parlare di se è stato l’antimonio, un minerale utilizzato principalmente come ritardante di fiamma nei veicoli e nell’elettronica: nonostante, in questo caso, la Cina controlli un po’ meno del 50% del mercato globale, l’annuncio delle restrizioni ha fatto lievitare il prezzo del 5% in 24 ore, portandolo a 25 mila dollari a tonnellata – e cioè più del doppio del prezzo registrato ancora a dicembre. Ovviamente, per tutti questi materiali, gli USA e anche gli alleati vassalli da un po’ di tempo a questa parte stanno cercando affannosamente di recuperare il tempo perduto, ma potrebbe essere più complicato del previsto: “Nuove catene di approvvigionamento minerario” scrive sempre Forbes “non sono solo una questione di aumento dell’estrazione mineraria; richiedono un intero ecosistema di sistemi di raffinazione, lavorazione e produzione, tutti costosi e che richiedono molti anni per essere costruiti”.
E le terre rare non sono l’unica materia prima che rischia di farci perdere la competizione con la Cina: l’allarme più grosso, infatti, potrebbe riguardare la conoscenza: a lanciarlo è, dalle pagine di Foreign Affairs, Amy Zegart, professoressa a Stanford e voce autorevole dell’Hoover Institution diretto da Condoleeza Rice; “Il potere non è più quello di una volta” riflette, e “i Paesi traggono sempre più potere dalle risorse immateriali”, ma “Secondo il Program for International Student Assessment, che valuta i quindicenni di tutto il mondo, nel 2022 gli Stati Uniti si classificavano al 34° posto in termini di competenza media in matematica, dietro a Slovenia e Vietnam”. “Più di un terzo degli studenti statunitensi” continua “ha ottenuto punteggi inferiori al livello di competenza matematica di base, il che significa che non possono confrontare le distanze tra due percorsi o convertire i prezzi in valute diverse”; d’altronde, essendo il paese che per primo – insieme al Regno Unito – ha abbracciato le magnifiche sorti e progressive della controrivoluzione neoliberista, c’era da aspettarselo. Fino ad oggi, comunque, gli USA hanno rimediato a questa lacuna strutturale (che, per essere invertita, richiederebbe di trasformare profondamente l’intera società statunitense) con il drenaggio dei cervelli: significa che i Paesi civili del mondo investono una marea di risorse per la formazione di base dei loro cittadini e poi i pezzi migliori se li prendono gratis gli USA grazie ai colossi della formazione universitaria privata; ecco così che, nel 2022, solo il 32% dei dottorati in informatica erano cittadini USA. “Il primato degli Stati Uniti nell’attrarre talenti da tutto il mondo” sottolinea la Zegart “è un vantaggio enorme. Quasi il 45% di tutte le aziende Fortune 500 nel 2020, tra cui Alphabet, SpaceX e il gigante dei chip NVIDIA, sono state fondate da immigrati di prima o seconda generazione. E circa il 40% degli americani premiati con il premio Nobel in campo scientifico dal 2000 sono nati all’estero”. Insomma: un’altra forma di neocolonialismo bell’e buona che, però, comincia a scricchiolare; le politiche restrittive sull’immigrazione – che tanto peso hanno nel successo politico di Trump – stanno demolendo questo meccanismo dall’interno e la concorrenza si comincia a sentire. Nel 2022, per la prima volta, a conquistare il gradino più alto della classifica della produzione scientifica è stata la Cina; a penalizzare gli USA è anche il fatto che sì, in termini assoluti si continua a investire più che altrove in ricerca e sviluppo, ma il grosso di quell’investimento è in mano ai privati che, invece che fare ricerca di base e quindi porre i fondamenti per le grandi innovazioni del futuro, si limitano a ricercare quello che gli può fare aumentare i profitti nel trimestre successivo o – ancora meglio – l’andamento in borsa. Ecco, così, che i finanziamenti federali complessivi per la ricerca (in percentuale del PIL) negli USA sono diminuiti dal picco dell’1,9% nel 1964 ad appena lo 0,7% nel 2020, mentre in Cina superano l’1,3%.
Insomma: dalla loro guerra tecnologica contro la Cina gli USA, ad oggi, non sembrano aver ottenuto neanche lontanamente i risultati sperati e in futuro potrebbe andare molto, ma molto peggio (e forse non siamo i soli ad essercene accorti): tra gli schiaffi in Ucraina e i pessimi risultati della guerra tecnologica contro la Cina, che questa prima fase della grande guerra contro il resto del mondo per impedire la transizione a un nuovo ordine multipolare sia stata un fallimento è ormai opinione piuttosto diffusa anche tra gli strati profondi del potere statunitense; d’altronde, il benservito a Biden deriva anche da qua. Se non si può ancora parlare di una vera e propria ritirata strategica, perlomeno di un piccolo arretramento per provare a riorganizzare le fila sicuramente sì; e la sfida tra la Harris e Trump fondamentalmente è una sfida per decidere come debba avvenire questa riorganizzazione e a quali interessi specifici debba rispondere. Ovviamente però, dal momento che siamo in campagna elettorale, distinguere la fuffa dalle cose concrete è tutt’altro che semplice: come è ben noto, Trump si sta giocando la carta dell’isolazionismo, come se l’isolazionismo fosse un’opzione realistica per un impero globale che dipende per almeno due terzi della sua ricchezza dal saccheggio sistematico del resto del pianeta. La retorica di Trump è piuttosto chiara: meno inutili guerre guerreggiate e più guerra economica alla Cina; durante la sua prima amministrazione, la media dei dazi sui prodotti cinesi passò dal 3% al 19%, un aumento che comportò una bolletta per le tasche degli statunitensi pari allo 0,3% del PIL e fu comunque sufficiente a fare imbufalire parecchi settori dell’economia americana – a partire dagli agricoltori. Ora la proposta di Trump è aumentare quella soglia dal 19 al 50%, che comporterebbe una nuova bolletta che il Peterson Institute quantifica attorno al 2% del PIL; probabile che non tutti la vedano proprio di buonissimo occhio. I democratici, allora, hanno risposto con la nomina a candidato per la vicepresidenza di Timothy Walz: dal 2019 è il governatore del Minnesota, che è uno degli Stati USA dove la lobby degli agricoltori che si sono opposti alla politica dei dazi di Trump è più forte; Walz è un profondo conoscitore della Cina, dove si è recato la bellezza di 30 volte. E’ anche un critico feroce della Cina per tutto quello che riguarda la retorica sui diritti umani, ma sul versante dei rapporti commerciali ha la reputazione, appunto, di essere decisamente più pragmatico: è quello che si augura ad esempio, su Project Syndicate, Stephen Roach, l’ex presidente di Morgan Stanley Asia noto tra l’altro per un importante testo del 2014 dal titolo La co-dipendenza di America e Cina dove, appunto, perorava la causa di una governance economica più condivisa tra le due grandi potenze. Potrebbe essere Kamala Harris la prossima Richard Nixon? è il titolo dell’articolo: il riferimento, ovviamente, è alla grande svolta di Nixon del 1972 che aprì la strada a un nuovo ciclo di relazioni costruttive tra USA e Repubblica Popolare Cinese; “Nonostante Walz sia sempre stato un falco sulle questioni inerenti i diritti umani” sottolinea appunto Roach “ha anche sottolineato l’importanza di una relazione sostenibile tra Stati Uniti e Cina, sostenendo che il dialogo è essenziale e deve avvenire assolutamente. In altre parole” si augura Roach “porterebbe un pragmatismo che manca gravemente nella posizione sempre più sinofobica dell’America nei confronti della Cina”. Ovviamente il parallelo con Nixon è decisamente fuori luogo: allora la Cina rappresentava un’opportunità straordinaria per il grande capitale USA in cerca del posto dove delocalizzare la produzione per potersi dedicare a tempo pieno alla speculazione finanziaria e vincere a tavolino una lotta di classe che, con la complicità del disastro in Vietnam, stava diventando insostenibile.
Il punto qui, però, è che non c’è bisogno di essere democratici o dalla parte del 99%, che sono posizioni che – per definizione – chi guida la nazione leader dell’imperialismo non può abbracciare, sia che ricorra alla retorica demagogica – populista dell’alt right o che ricorra a quella globalista e dirittumanista della sinistra ZTL; visti i risultati disastrosi ottenuti con la strategia della guerra totale fino ad oggi, per fare qualche passo in avanti basterebbe qualcuno con un minimo di senso della realtà: che la realtà si stia cominciando a imporre anche nelle menti perverse di almeno un pezzo di classe dirigente occidentale? Ovviamente non è il caso di farci illusioni: la violenza indiscriminata è una caratteristica fondativa di ogni imperialismo – e quello distopico USA non fa certo eccezione. Le contraddizioni e i rapporti di forza, però, pesano e oggi non sono a favore di Washington; gli unici che non se ne accorgono sono i media mainstream e i pennivendoli che ci lavorano. Abbiamo bisogno di una vera alternativa; aiutaci a costruirla: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Federico Rampini