Venerdì 9 maggio, Donald Trump: “Tariffe dell’80% sembrano corrette. Ora sta a Scott Bessent”. Scott Bessent, lunedì 12 maggio: “Dazi sulla Cina ridotti al 30%”, non abbiamo nessuna intenzione di “disaccoppiare le due economie”. Nonostante Trump quando si tratta di ribaltare la realtà non si tiri mai indietro, a questo giro la figura di merda era un po’ troppo eclatante anche per i suoi standard; il silenzio social di un commentatore seriale come Re Donald di fronte alla notizia più importante e inaspettata del mese, se non dell’anno, dice già tutto quello che c’è da sapere, ma un piccolo riassuntino può comunque aiutare. Eccolo: Trump introduce tariffe aggiuntive nei confronti della Cina del 34%; la Cina non fa niente. Trump le aumenta all’84%; la Cina reagisce con altre tariffe simili. Trump le aumenta di nuovo al 145%; la Cina reagisce con altre tariffe simili. Trump dichiara che vuole che Xi lo chiami; la Cina non fa niente. Trump dice che è pronto a fare un accordo; la Cina non fa niente: Trump ritira le tariffe. L’arte del negoziato… Sospesi anche gli ultimissimi dazi introdotti dal Liberation Day, dopo tanto rumore si torna (almeno temporaneamente) al business as usual; è stato uno scherzetto, e le borse festeggiano: i principali indici dei mercati azionari USA hanno recuperato tutto il terreno perso, sono tornati ai valori precedenti al Liberation Day e ormai si stanno nuovamente avvicinando al record assoluto raggiunto a inizio febbraio. Le azioni delle magnifiche 7 tornano ad essere l’approdo privilegiato dei grandi capitali alla ricerca di un rendimento sicuro; il danno che Trump sembrava aver causato alla credibilità dei mercati finanziari USA pare essere rientrato: ma non ci eravamo detti che era irreversibile? Com’è possibile?
Trump che annuncia una cosa, Bessent che ne fa un’altra e Trump che fa finta di niente fischiettando sembrano mandare un segnale chiaro al grande capitale: lasciate perdere gli annunci di Re Donaldo, non ci fate caso; le decisioni che contano alla Casa Bianca le prendono gli adulti, i soliti di sempre. Garantisce Scott Bessent, l’ex braccio destro di Soros che, a fine carriera, si trova a fare da badante alla scheggia impazzita che elettori esasperati dai danni fatti da gente come lui hanno deciso di eleggere loro rappresentante, ma che, per rassicurare i mercati, ormai sembra esautorato e relegato al ruolo di influencer. Immaginate la stessa scena in Italia: Giorgetti va a trattare con i banchieri per una tassa sugli extraprofitti; Meloni fa un post sui social dove dice che una tassa del 15% sarebbe un ottimo compromesso e sta a Giorgetti portarla a casa e, due giorni dopo, Giorgetti firma un accordo dove invece tocca allo Stato restituire qualcosa alle banche, e la Meloni muta. Non suona molto realistico, ve’?
Fino alla conferenza stampa, non suonava molto realistico neanche a Washington e, infatti, ha lasciato tutti decisamente sorpresi. Il Wall Street Journal ha parlato di un accordo commerciale a sorpresa: “Fino a pochi giorni fa, sarebbe sembrato impossibile” sottolineano; e, secondo l’Economist, l’accordo concesso alla Cina è “stranamente vantaggioso” e “sorprendentemente gustoso”.
Il punto è che, appunto, bisognava mandare un segnale estremamente chiaro ai cosiddetti mercati: la guerra commerciale dichiarata unilateralmente da Trump è stata una pagliacciata; siamo perfettamente consapevoli che gli USA devono continuare a garantire che l’economia globale non salti per aria e vi dimostriamo in modo eclatante che ora la badante è pronta a fare il mea culpa e a prendersi tutte le sue responsabilità. Per farlo, non bastavano riduzioni tariffarie che, come scrive il Wall Street Journal, sono state sensibilmente “maggiori di ogni previsione”: bisognava andare oltre e azzerare non solo tutta la retorica trumpiana, ma anche quella dell’amministrazione precedente; “Nessuna delle due parti vuole disaccoppiarsi”, ha ribadito esplicitamente Bessent, e ora la palla deve tornare ai professionisti. Bessent ha sottolineato che l’accordo include l’impegno dei funzionari cinesi a proseguire i colloqui e che se questo meccanismo fosse stato messo in piedi prima del Liberation Day, tutto questo bordello sarebbe stato evitato: “Un’ammissione straordinaria” commenta l’Economist; “Se solo i massimi funzionari economici americani avessero avuto l’ingegnosissima idea di incontrare di persona le loro controparti cinesi prima del Liberation Day, l’economia mondiale si sarebbe risparmiata tutto questo caos”. Insomma: gli USA ammettono di essersi affidati agli ultimi scappati di casa e che, da ora in poi, a occuparsi delle cose serie saranno quelli del mestiere. Tutto bene quel che finisce bene quindi? Non proprio.
Nel fantastico mondo fatato dei liberali, questo assaggio di trumpismo è stato solo un incidente di percorso, una svista che poteva tranquillamente essere evitata, tanto che ce vo’? Ad esempio, sarebbe bastato impedire ai cittadini USA di esprimere la loro opinione (come fanno i liberali seri) o, almeno, ci provano, come in Romania o in Germania: e meno male che loro sono quelli studiati! La tecnocrazia… Il trumpismo è tutt’altro che un semplice incidente di percorso: è una conseguenza diretta delle contraddizioni che maturano da decenni e che sono definitivamente esplose negli ultimi 3 anni (noi c’abbiamo pure scritto un libro). Il punto è che Make America Great Again non è il capriccio di un leader eccentrico che vuole abbindolare il volgo: è una necessità strutturale dell’imperialismo USA, una questione di vita o di morte; finita l’egemonia fondata sul soft power e sul dollaro, per obbligare mezzo pianeta a continuare a farsi rapinare servono le maniere forti e per usare le maniere forti serve produrre acciaio, alluminio, terre rare, dispositivi elettronici. Insomma: serve, appunto, Make America Great Again, ma fino a che tutti gli sforzi devono essere concentrati sul mantenere in vita la bolla finanziaria, hai voglia di buttare centinaia di miliardi con l’Inflation Reduction Act o col Chips Act! L’America great again non ce la rifai: il trumpismo è la vittoria di chi ha capito questa realtà basilare su chi vive in un mondo incantato.
Che poi mettere dazi di per se per Make America Great Again non basti è poco ma sicuro: come abbiamo approfondito millemila volte, servirebbe una politica industriale, e non c’è. Servirebbe tassare i ricchi per ricostruire un Paese moderno ed efficiente, e questo c’è ancora meno. E servirebbe azzerare le rendite parassitarie dei monopolisti per tornare ad essere competitivi, e questo ancora meno. Tutto questo è pacifico e l’abbiamo detto e ridetto; ciononostante, se appena metti il primo tassello di tutto quello che ti servirebbe ti crolla tutto addosso e sei costretto a tornare di corsa al business as usual, ma dove cazzo voi anda’? Ma mettiti a ceccia, pigliati una tisana, rilassati e smettila di rompere i coglioni con le buffonate! L’establishment globalista e liberale è stato preso a schiaffi in Ucraina da Putin e sui mercati da Xi; ora festeggia per aver imposto una badante a Trump, ma Putin e Xi sempre lì stanno. Anzi: di fronte a questi teatrini, sono più determinati che mai e, forse, è proprio anche questo che ha fatto precipitare gli eventi.
Il sogno proibito degli yankee di ogni colore è isolare la Cina: la versione trumpiana si chiama Reverse Kissinger (Kissinger all’incontrario); lui aveva convinto Nixon a diventare amico della Cina comunista per rompere i coglioni all’Unione Sovietica. Trump e l’internazionale trumpiana ci sfrucugliano le gonadi da sempre con il piano di diventare amicici con zio Vlad per rompere i coglioni a Pechino; in Italia, fra i più appassionati tra i sostenitori di questa raffinata strategia ci sono i raffinatissimi analisti de La Verità: “La Russia è stanca della Cina: Putin potrebbe tradire Xi” titolavano un po’ di tempo fa. A vedere queste immagini, però non si direbbe: in occasione delle celebrazioni della Giornata della Vittoria, nonostante la presenza di leader da mezzo mondo, Putin ha riservato a Xi un trattamento speciale; sono saliti sul palco d’onore insieme, con Xi con in bella mostra il nastro di San Giorgio appuntato sul petto e non si sono mai separati. Il giorno prima avevano firmato la bellezza di 20 accordi di cooperazione che coprono l’intero scibile umano: dall’energia all’agricoltura, dall’intelligenza artificiale all’industria aerospaziale. Cina e Russia rimarranno “unite in modo incrollabile per favorire un ordine internazionale basato sulla legge” e per promuovere un sistema “multipolare”, ha dichiarato Xi. “Reverse Kissinger?” si chiede sconsolato Bloomberg: “non fino a quando saranno ancora in circolazione Xi e Putin”.
I sovranisti per Trump non hanno fatto in tempo a digerire questo boccone che gli è arrivata un’altra scoppola, perché se Trump a rompere l’asse tra Mosca e Pechino proprio nun je la po’ fa, almeno lasciategli il giardino di casa; è la soluzione che da tempo propongono teorici ed analisti di scuola realista: il mondo è cambiato, riconoscono, e fino a qui ok. L’ascesa di un nuovo ordine multipolare non è più reversibile e, anche, qui ci siamo; gli USA devono rinunciare alle ambizioni egemoniche e anche questo l’abbiamo capito, ma almeno dietro casa vorrete lasciargli fare un po’ cosa cazzo gli pare? Ecco, a quanto pare, no; di sicuro, ad esempio, non è d’accordo la nostra crush, la divina Claudia Sheinbaum – che, ricordiamo, gode del sostegno dell’85% della sua popolazione, che la rende uno dei leader politici in assoluto più popolari del pianeta – e, forse, è per questo che quando ne parliamo i sovranisti per Trump reagiscono così: “Posa il fiasco, la Sheinbaum è askenazita”, “Ahi! Claudia saluta come un massone”, “Puzza di gatekeeping”.
Nel resto dell’America Latina la situazione è decisamente più complicata: i governi progressisti hanno vita dura e se la devono vedere con oligarchie latifondiste parassitarie ben organizzate, che sono legate a doppio filo a Washington e che rimpiangono i bei tempi andati del piano Condor, quando il Sud America era tutta una dittatura militare, dalle bimbe di Bolsonaro all’opposizione golpista colombiana. Come per la Russia, l’internazionale trumpiana non vuole essere da meno rispetto ai democratici e ai paladini del mondo liberoh e democraticoh: combina ogni genere di schifezza per provare a destabilizzare la sovranità democratica e popolare di questi Paesi e tenta di separarli dal resto del Sud globale. Gli esiti, però, non sempre sono esattamente entusiasmanti: martedì a Pechino è iniziato il summit tra Repubblica Popolare di Cina e CELAC, la comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi. “Cavalchiamo insieme l’onda del progresso per perseguire una cooperazione reciprocamente vantaggiosa” ha dichiarato Xi nel discorso di benvenuto: “Insieme” ha ribadito “promuoviamo il vero multilateralismo, la riforma della governance globale e una maggiore democrazia nelle relazioni internazionali in senso multipolare, avanzando fianco a fianco come una comunità dal destino condiviso”. Ospite d’onore, insieme al presidente colombiano Gustavo Petro, Lula: “La relazione tra Brasile e Cina è indistruttibile” ha dichiarato; “Insieme, possiamo fare in modo che il Sud del mondo sia rispettato come mai prima”. Lula ha ricordato come, tra il 2003 e il 2025, l’interscambio commerciale tra Cina e Brasile sia aumentato di 30 volte: “Vogliamo esportare e importare sempre di più” ha dichiarato. Finite le chiacchiere, hanno firmato altri 20 accordi di cooperazione; in buona parte prevedono la sostituzione di merce che, fino ad oggi, arrivava dagli USA con prodotti brasiliani: “La Cina apre la strada alla separazione del Sud America dagli Stati Uniti” titola Asia Times. E non c’è solo la Cina: il Mercosur, che è il più grande blocco commerciale del Sud America, ha recentemente firmato un accordo di libero scambio con l’Unione europea. Il Cile sta negoziando un partenariato economico con l’India: “Il processo di multi-allineamento del Sud America e di relativa emancipazione dall’influenza statunitense” scrive Asia Times “è inarrestabile”.
Insomma: dopo 4 anni di fallimenti della linea soft di rimbamBiden, Trump aveva promesso di cambiare musica attraverso una dose massiccia di shock therapy che avrebbe dovuto gettare nel panico gli interlocutori e fargli calare le braghe; è andata a finire che coi calzoni calati c’è rimasto lui. E, coi calzoni calati, ora si ritrova a fare il giro del pianeta col cappellino in mano perché sì, ok, dopo la rovinosa ritirata dalla guerra commerciale i capitali sono tornati in massa a gonfiare la bolla USA come se niente fosse, ma c’è poco da starsene tranquilli; l’ha dovuto ammettere pure un fedele agente dell’imperialismo USA come Kenneth Rogoff: “Trump ha capitolato e non ha ottenuto nulla”, ha dichiarato dalle pagine del Corriere della Serva, ma “Il problema non è solo Trump: sono gli Stati Uniti”. Il punto, sottolinea Rogoff, è che ormai degli USA non ci si può fidare: fino ad oggi, gli USA avevano sempre rispettato la sacralità degli interessi del grande capitale (perlomeno, di quello amico); “Ora, con questo modello di governo forte” sottolinea Rogoff “nessuno è più al sicuro”, “non sai se sarai tassato o penalizzato in modo speciale perché sei italiano o altro. E questa incertezza mina alla base uno dei pilastri della forza degli USA”. In più, insiste Rogoff, il deficit ormai viaggia verso il 7% del PIL “e non c’è nessun piano per diminuirlo”; e finanziarlo, nei prossimi anni, sarà sempre più complicato e costoso: “Adesso i rendimenti sono attorno al 4,4%” continua Rogoff, “ma penso che nei prossimi anni sia più probabile vederli al 5 o al 6% che non al 3 o al 3 e mezzo”. Mercoledì i rendimenti dei titoli a 10 anni erano saliti al 4,53%; prima del Liberation Day erano a quota 4,16: sono quasi 40 punti base in più, circa 150 miliardi l’anno.
Per finanziare questa montagna di debito e continuare a sostenere la bolla c’è bisogno di tanti amici facoltosi, volenterosi e ben disposti e, per farli ben disporre, bisogna trattarli bene: ed ecco, allora, che Trump da bullo si trasforma in un amicone delle famigerate élite globaliste e dei governi che hanno soldi cash da spendere, come le petromonarchie. Pur di assicurarsi che i feudatari col turbante continuino a riversare montagne di petrodollari sui mercati finanziari USA, nel suo tour in Medio Oriente Re Donaldo si è dimostrato pronto a tutto: prima di tutto, come da mesi chiedono i big della tecnologia, ad allentare il controllo sui chip di ultima generazione; nell’ambito della guerra tecnologica contro la Cina, Biden aveva posto restrizioni all’esportazione di chip di ultima generazione anche nei confronti di una lunga serie di Paesi accusati di essere troppo accondiscendenti nei confronti di Pechino, a partire, appunto, dalle petromonarchie. E’ un po’ la stessa logica che, sempre per colpire la Cina, ha portato Trump a dichiarare la guerra commerciale contro tutti; tanto, se metti le restrizioni solo a Pechino, con le migliaia di porta-container che fanno avanti e indietro ogni giorno tra la Cina e il resto del mondo, il modo per fregarti lo trovano sempre. Ma tutte queste restrizioni, alla fine, chi penalizzano di più – perlomeno nell’immediato – sono proprio gli USA: ed ecco, così, che prima Trump è stato costretto a una ritirata rovinosa sul fronte della guerra commerciale e poi pure sulle restrizioni imposte da Biden.
Con il boss di Nvidia al suo fianco, Trump ha garantito l’arrivo di tutti i chip che i sauditi vogliono per perseguire i loro sogni di autonomia nel settore dell’intelligenza artificiale; e non è ancora finita, perché fare la corte agli Stati, ormai, non basta più: la corte va fatta anche – anzi, soprattutto – ai grandi fondi, che hanno più quattrini in saccoccia di qualsiasi Stato al mondo; ed ecco, così, che nel tour del Golfo Trump va a braccetto con l’icona per eccellenza della vecchia élite globalista: mr BlackRock, al secolo Larry Fink: sarà lui a gestire i petrodollari che sauditi, qatarioti ed emiratini promettono di riversare negli USA per finanziare il debito e per continuare a gonfiare la bolla speculativa. E così alla fine sono tutti contenti: i grandi monopoli della finanza continuano a gestire patrimoni sempre più grandi rafforzando, così, la loro posizione monopolistica; le petromonarchie continuano a coltivare le proprie ambizioni di diversificazione economica e di sviluppo tecnologico, e pure Trump può millantare qualche altro successo immaginario, a partire dalle mega-commesse di armi come quella da oltre 140 miliardi di dollari siglata dai sauditi, che però, sottolinea Bloomberg, “suscita molti interrogativi, ma poche risposte”. Poco male: vorrà dire che Trump si dovrà accontentare di aver curato al meglio almeno gli affari di famiglia, a partire dai 2 miliardi che il fondo sovrano di Abu Dhabi ha concesso di investire nella World Liberty Financial, la società della famiglia Trump che si occupa di criptovalute.
Gli unici che proprio non sembrano impazzire di gioia sono Israele e i vari sponsor dello sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi: le prime perplessità erano emerse una decina di giorni fa, quando, dopo aver speso qualche miliardo invano e aver sprecato una quantità imponente di armamenti difficilmente rimpiazzabili, gli USA hanno firmato un cessate il fuoco con gli Houthi, nonostante si siano rifiutati categoricamente di interrompere le ostilità nei confronti di Israele. Ed era solo l’antipasto: a questo giro, Trump ha deciso di snobbare completamente Tel Aviv escludendola del tutto dal suo tour; d’altronde, sarebbe stato imbarazzante. Durante il suo discorso al business forum di Riad, Trump, infatti, ha ribadito il desiderio che l’Arabia Saudita sigli gli accordi di Abramo, ma la condizione posta dai sauditi rimane la solita di sempre: la fine dello sterminio a Gaza e la creazione di uno Stato palestinese. Che sia la volta buona che gli interessi di famiglia e la necessità di mantenere in vita con l’ossigeno il capitalismo finanziario USA riescano a prendere il sopravvento addirittura sulla fedeltà incondizionata al progetto coloniale sionista?
Di sicuro c’è che le contraddizioni dell’imperialismo a guida USA non sono mai state così evidenti e così palesemente irrisolvibili e che non c’è mai stata un’opportunità migliore per mandarli davvero #tuttiacasa. Ma per mandarceli, serve una grande mobilitazione popolare: l’occasione d’oro arriva sabato 24 maggio alle ore 16 in piazza San Babila a Milano, la manifestazione nazionale organizzata da Ottolina e Multipopolare insieme a un sacco di amicici per una Costituente contro il sistema guerra e per mandare a casa il partito unico delle armi e degli affari. Ma per scatenare, prima, e sostenere, poi, una vera mobilitazione popolare, serve un media: un vero e proprio media, indipendente, ma di parte, che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal. E poi, per mandarli #tuttiacasa, da oggi c’è anche un codice segreto: 92054980450. È il codice fiscale di Multipopolare, il codice segreto per dichiarare guerra al pensiero unico: inseriscilo nella tua dichiarazione dei redditi e contribuisci concretamente col tuo 5 per 1000 a costruire un vero e proprio media indipendente, ma di parte. La tua.
E chi non firma è Benjamin Netanhyau