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ESCLUSIVA OTTOLINA: mentre gli USA armano il mondo, la Cina costruisce la pace – ft. Fabio Mini

A pochi giorni dall’inizio dello storico summit dei BRICS di Kazan, torniamo a fare una lunga chiacchierata con l’icona sexy di tutti gli Ottoliner: il Generale Fabio Mini. Mentre Zelensky ammette che l’unico modo per non non perdere platealmente la guerra per procura contro la Russia è scatenare la Terza Guerra Mondiale, gli USA – incapaci di produrre armi a sufficienza anche solo per contrastare la Russia – si vanno a impantanare di nuovo in una guerra regionale in Medio Oriente e la Cina, con una delle più grandi esercitazioni di sempre, dimostra chiaramente che la sua sovranità e la sua sicurezza strategica non possono essere messe in discussione da nessuna fantomatica NATO del Pacifico, i Paesi non allineati si apprestano a segnare un passo epocale nella costruzione di un’architettura finanziaria multilaterale in grado di mettere fine per sempre alla dittatura del dollaro e all’unipolarismo dell’imperialismo finanziario USA.

Ucraina, Libano, Cina: l’incredibile fenomeno editoriale che racconta la sconfitta dell’Occidente

“Perché l’Occidente non accetta la propria sconfitta?”; eh, già: perché? A porsi la domanda nella prefazione della sua ultima fatica, La sconfitta dell’Occidente, è Emmanuel Todd, uno degli intellettuali francesi più originali e controversi degli ultimi decenni; celebre per aver previsto l’implosione dell’universo sovietico nel suo Il crollo finale del 1976 – come, d’altronde, di essersi completamente illuso sul crollo dell’impero USA e la rinascita europea nel suo Dopo l’Impero del 2003 – Todd ha l’innegabile pregio di porsi le domande fondamentali e di avere il coraggio di proporre delle risposte che, anche quando non sono del tutto condivisibili, danno un contributo fondamentale al dibattito. E lo fa da vero ottoliner: “La pace alle condizioni imposte dai russi” scrive infatti Todd “significherebbe una caduta di prestigio per gli Stati Uniti, il che significherebbe la fine dell’era americana nel mondo, il declino del dollaro, e quindi della capacità statunitense di vivere del lavoro complessivo del pianeta”, un lusso che gli USA, oggettivamente, non si possono concedere; secondo Todd, infatti, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008 “Gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo” e da allora “l’obiettivo principale è stato quello di rafforzare il controllo sugli alleati: dall’Europa occidentale al Giappone, passando per la Corea del Sud e Taiwan”. Dopo anni di tentato disaccoppiamento dall’economia cinese, infatti, gli USA importano ormai più dagli alleati vassalli che non dalla Cina e, ancor più che per i beni materiali, per i capitali che sostengono la finanza USA via paradisi fiscali, tutti rigorosamente sotto giurisdizione statunitense o, al limite, britannica. Ecco, così, che “La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende dal controllo dei propri vassalli”: “dal punto di vista statunitense quindi, la guerra deve continuare non per salvare la democrazia ucraina, ma per mantenere il controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente”. Ma prima di addentrarci nei meandri di quest’opera, vi ricordo di mettere un like a questo video e aiutarci, così, a combattere (anche oggi) la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi, che sono un altro degli strumenti che l’imperialismo statunitense usa per controllare i propri vassalli e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali, su tutte le piattaforme o, ancora meglio, di prendere la buona abitudine di seguire il nostro sito, unica àncora di salvataggio mano a mano che le piattaforme ci oscurano (o, ancora più subdolamente, ci demonetizzano la qualsiasi): a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un qualsiasi governo europeo a sacrificare la sua economia per fare contenta Washington, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di far conoscere a sempre più persone i veri motivi per i quali le élite europee hanno deciso di suicidarsi e che non sentirete mai citare nei media mainstream.

Emmanuel Todd

“Per molti anni la Russia ci ha avvisati che non avrebbe tollerato l’ingresso dell’Ucraina nella NATO” scrive Todd, parafrasando il pensiero di Mearsheimer; “L’Ucraina però, il cui esercito era stato preso in carico dai consiglieri militari dell’Alleanza, stava per diventare un membro de facto. Perciò i russi hanno agito coerentemente a quanto annunciato: sono entrati in guerra. L’unica cosa che dovrebbe sorprenderci, sinceramente, è la nostra sorpresa”. Nei confronti di Mearsheimer e, più in generale, dei realisti, Todd avanza però una critica che sottoscriviamo in pieno: “Al pari dei nostri esegeti televisivi, che nell’atteggiamento di Putin non hanno saputo cogliere null’altro che una follia omicida” commenta infatti Todd, “nelle azioni della NATO Mearsheimer rileva solamente irrazionalità e irresponsabilità”; Mearsheimer, insiste Todd, “tratta i neoconservatori, che sono arrivati ad assumere il controllo dell’establishment geopolitico americano, come noi trattiamo Putin: li psichiatrizza”. Quello che a Todd non convince, in particolare, è che Mearsheimer si immagina “un mondo fatto di Stati-nazione” sovrani, dove con sovranità si intende “la capacità dello Stato di definire le proprie politiche interne ed estere in maniera indipendente, senza alcuna ingerenza o influenza esterna”, ma Todd sottolinea come questa sovranità sia in realtà “un bene raro a disposizione solamente di pochi Stati, primi tra tutti gli Stati Uniti, la Cina e la stessa Russia. D’altra parte, gli scritti e i discorsi più ufficiali menzionano con toni sprezzanti il vassallaggio dei paesi dell’Unione europea nei confronti di Washington o descrivono l’Ucraina come un protettorato americano”. Todd, anzi, fa anche un passo ulteriore che, anche se non ci sentiamo di sottoscrivere del tutto, apre una riflessione importante: “La verità è semplice” sostiene: “in Occidente lo Stato-nazione ha cessato di esistere”; secondo Todd, infatti, “Il concetto di Stato-nazione presuppone che il territorio in questione goda di un minimo di autonomia economica. Tale autonomia non esclude, ovviamente, gli scambi commerciali, tuttavia questi dovrebbero essere, perlomeno nel medio o nel lungo termine, più o meno equilibrati. Un deficit sistematico rende obsoleta la nozione di Stato-nazione, giacché l’entità territoriale in questione è in grado di sopravvivere solamente attraverso la riscossione di un tributo o di una prebenda proveniente dall’estero, senza alcuna contropartita. E quindi, da questo punto di vista, Paesi come la Francia, il Regno Unito e gli stessi Stati Uniti, i cui commerci esteri non sono mai in equilibrio ma sempre in deficit, non sono più del tutto Stati-nazione”. “Il tenore di vita degli statunitensi” ad esempio, insiste Todd, “dipende da un numero di importazioni che le esportazioni non riescono più a coprire” e, aggiungiamo noi, il tenore di vita degli statunitensi non è manco il problema principale: ancora più importante è la concentrazione di capitale nelle mani delle sue oligarchie, che non ha precedenti nella storia umana e che dipende integralmente dal dominio imperiale degli USA e del dollaro; e, proprio per questo, il semplice ripiegamento che sarebbe non solo auspicabile, ma anche possibile nel caso fossimo di fronte a un normale Stato-nazionale (come d’altronde già avvenuto non solo in Vietnam, ma anche in Iraq e in Afghanistan), sarebbe oggi, nel contesto della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, piuttosto inverosimile.
E’ alla luce di questo che, invece del “realismo strategico degli Stati-nazione”, per capire gli sviluppi futuri dobbiamo fare nostra piuttosto “la mentalità post-imperiale, emanazione di un impero in disfacimento”: una delle caratteristiche fondamentali di questo Stato post-imperiale, sottolinea Todd, è che “rende ormai impossibile continuare a utilizzare il termine democrazia”; è invece ancora del tutto legittimo continuare a utilizzare il termine liberale, “giacché nell’Ovest la protezione delle minoranze è divenuta un’ossessione”. Ma se, solitamente, con minoranze ci riferiamo a “coloro che sono oppressi, dai neri agli omosessuali”, “la minoranza meglio protetta nel mondo occidentale è senza dubbio quella dei ricchi, a prescindere che essi rappresentino l’1% della popolazione, lo 0,1, o lo 0,01”, motivo per cui lo Stato post-imperiale, suggerisce Todd, andrebbe definito oligarchia liberale: “Le leggi però non sono mutate. Formalmente sono ancora democrazie liberali, con tanto di suffragio universale, di parlamenti e talvolta presidenti eletti, nonché di una stampa libera. A sparire piuttosto sono stati quelli che potremmo definire i costumi democratici. Le classi più istruite si ritengono intrinsecamente superiori e le élite si rifiutano di rappresentare il popolo, le cui rivendicazioni vengono bollate come populismo”. Rimanendo l’istituto delle libere elezioni ancora in vigore, ma dovendo categoricamente tenere il popolo “fuori dalla gestione economica e dalla distribuzione della ricchezza”, il popolo quindi, molto banalmente, “deve essere ingannato”. Sistematicamente. Anzi, sottolinea Todd: ingannare il popolo è “diventato il lavoro a cui le élite riservano l’assoluta priorità”. Dall’altra parte della barricata, invece, si trovano paesi – come la Russia – che non sono liberali e non proteggono nessuna minoranza, “né gli omosessuali, né gli oligarchi”, però sono maggiormente rappresentativi della maggioranza e quindi, da un certo punto di vista, sono paradossalmente più democratici e, per questo, possono essere definite democrazie autoritarie. Lo scontro tra modelli contrapposti quindi, secondo Todd, effettivamente c’è, ma non c’entra niente lo scontro tra democrazie e regimi autoritari: è, appunto, uno scontro tra oligarchie liberali e democrazie autoritarie.
Ma se sono chiari (e perfettamente razionali) i motivi che hanno spinto lo Stato post-imperiale a ingaggiare una guerra totale tra oligarchie liberali e democrazie autoritarie, quello che rimane da capire è come abbiano fatto a convincere anche noi: “L’Europa” infatti, sottolinea Todd, “si trova impegnata in una guerra profondamente contraria ai suoi interessi e autodistruttiva, e questo nonostante i suo promotori ci abbiano venduto per almeno 30 anni l’idea di un’unione sempre più profonda che, grazie all’euro, sarebbe diventata una potenza autonoma, nonché un contrappeso ai giganti rappresentati da Cina e Stati Uniti”; e, invece, “l’Unione europea è scomparsa appresso alla NATO, oggi più che mai asservita agli Stati Uniti”. Il punto è che “L’Europa, contemporaneamente oligarchica e anomica, è stata raggiunta e invasa dai meccanismi sotterranei della globalizzazione finanziaria, la quale non è una forza cieca e impersonale, ma un fenomeno diretto e controllato dagli Stati Uniti”: in un sistema oligarchico, spiega Todd, la ricchezza si accumula ai vertici della struttura sociale e questo patrimonio deve andare da qualche parte. Fino a qualche anno fa, fondamentalmente, andava nel paradiso fiscale e bancario per eccellenza delle élite europee: la Svizzera, prima nelle valute nazionali e poi, quando è arrivato l’euro, in euro; “Certo” sottolinea Todd: “quando la Svizzera era un paradiso fiscale per i ricchi europei rappresentava un problema di non poco conto per i governi di sinistra di tutta Europa. Tuttavia” paradossalmente “la confederazione elvetica allo stesso tempo assicurava l’indipendenza delle nostre oligarchie dagli Stati Uniti”. Dopodiché gli USA hanno convinto la Svizzera a rivedere il segreto bancario che, a prima vista, sembrava una cosa più che buona se non fosse che i capitali, invece che tornare in superficie e andare a contribuire allo sviluppo economico dei Paesi di provenienza, hanno preso la via di altri paradisi fiscali ancora più opachi e irraggiungibili e tutti controllati, direttamente o indirettamente, dagli USA o dalla Gran Bretagna: dalle Isole Vergini alle isole Marshall, passando per le Bahamas e Panama; e prima di prendere la strada di questi lidi esotici, sono stati tutti trasformati in dollari. Questo processo di trasferimento – più o meno forzato – dei fondi neri delle oligarchie europee dal paradiso svizzero a quelli esotici sotto controllo angloamericano, in particolare, ha subito un’accelerazione spaventosa a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, causata dagli USA e pagata dai cittadini europei; risultato: il dollaro s’è rivalutato sull’euro del 25%. Ma, soprattutto, “Se, come suggeriscono alcuni studi, il 60% del denaro dei ricchi europei dà i suoi frutti sotto l’occhio benevolo di autorità superiori situate negli Stati Uniti, si può ritenere che le classi elevate europee abbiano perduto la propria autonomia mentale e strategica”. Ma non solo: se fino a quando stavano nei conti cifrati in svizzera, infatti, questi patrimoni se ne stavano buoni buoni col solo scopo di sfuggire alla tassazione, da quando si sono trasferiti nei paradisi fiscali governati dagli USA sono stati rimessi in circolazione e sono andati a gonfiare ulteriormente la bolla speculativa; quindi non solo hanno rafforzato il dollaro, ma hanno rafforzato in maniera esorbitante il prezzo delle azioni e dei prodotti finanziari scambiati sui mercati finanziari USA. Insomma: hanno contribuito, in maniera fondamentale, a far crescere il gigantesco schema Ponzi che sta alla base dello strapotere finanziario globale degli USA.
E, forse, anche ben oltre le intenzioni iniziali delle oligarchie europee; se infatti, inizialmente, sono state attratte dalla possibilità di mettere a frutto i loro capitali, c’è un prezzo da pagare che forse non avevano tenuto in dovuta considerazione: tutti questi passaggi di capitali infatti, sottolinea Todd, avvengono attraverso mezzi telematici e tutti gli spostamenti telematici sono monitorati dalla National Security Agency. “Quando si pensa al potere di controllo statunitense” scrive Todd “la prima cosa che viene in mente è quella di un gendarme del mondo, che interviene in piccoli paesi quali l’Iraq, o gli Stati dell’America Centrale. Non si considera invece l’elemento forse più importante: la sorveglianza compiuta dall’NSA sulle oligarchie dei paesi alleati/vassalli”: come Epstein organizzava baccanali illegali per i VIP in combutta con i servizi per poi ricattarli, sostanzialmente lo stesso avrebbe fatto l’NSA con i trasferimenti di capitali illegali dei nostri ultra-ricchi e “gli obiettivi prioritari della NSA” sottolinea Todd “non sono i nemici degli Stati Uniti, ma i loro alleati: europei, giapponesi, coreani e latinoamericani”. Insomma: sostituendo i paradisi fiscali sotto giurisdizione angloamericana alla Svizzera, gli USA non hanno solo alimentato a dismisura la dittatura del dollaro e il predominio di Wall Street, ma hanno anche teso una trappola agli amici più stretti trasformandoli tutti in dei piccoli Marcos junior, il presidente delle Filippine che gli USA tengono per le palle attraverso il controllo dell’accesso ai fondi neri accumulati dal padre dittatore e nascosti nei paradisi fiscali. Per fare questo lavoro strategicamente fondamentale, ricorda Todd, l’NSA impiega 30 mila tecnici direttamente e altri 60 mila attraverso gli appaltatori privati: “Se i cittadini europei possono ignorare dove si trovino i soldi dei propri leader” commenta sarcastico Todd, “l’NSA lo sa, e quei dirigenti sanno che lei lo sa”; “Vladimir Putin quindi” continua Todd “può ben ironizzare quando suggerisce che se gli Stati Uniti chiedessero ai leader europei di impiccarsi, questi lo farebbero, ma con la preghiera di poter utilizzare delle corde prodotte da loro. Richiesta che poi tra l’altro verrebbe anche respinta, ovviamente per proteggere gli interessi dell’industria tessile americana”. Sotto ricatto, le nostre oligarchie quindi, quando gli USA hanno architettato la guerra per procura in Ucraina, non hanno avuto il coraggio di obiettare, magari anche perché – completamente dedite al parassitismo più decadente e completamente scollegate dalla realtà come sono – manco avevano gli strumenti per capire in cosa si stavano imbarcando: “Una delle grandi sorprese della guerra” sottolinea Todd “è stata la solidità della Russia” nonostante fosse “facile da prevedere”; “Perché mai” si chiede Todd “gli occidentali hanno sottovalutato a tal punto il proprio avversario, dal momento che non c’era nulla di segreto riguardo alle sue risorse?”. Nonostante un esercito di oltre 100 mila persone coinvolte nella “intelligence community occidentale, come si è potuto credere che l’esclusione dal sistema SWIFT e l’imposizione di sanzioni avrebbero ridotto in miseria un Paese di 17 milioni di chilometri quadrati, che possiede tutte le risorse naturali possibili e che dal 2014 si è preparato certosinamente ad affrontare simili misure ritorsive?”.
La Russia che si è trovata ad affrontare la guerra per procura a partire dal 2022, infatti, rispetto alla famosa pompa di benzina con la bomba atomica del post Eltsin, a ben vedere qualche piccolo progresso l’aveva fatto: per fare degli esempi terra terra, “Tra il 2000 e il 2017, ovvero, nella fase centrale della stabilizzazione intrapresa da Putin” ricorda Todd, “il tasso di decessi legati all’alcol è passato dal 25,6 all’8,4%, quello di suicidi dal 39,1 al 13,8, e quello di omicidi dal 28,2 al 6,2 %, per poi ridursi ancora al 4,7 l’anno successivo”; la mortalità infantile, nel frattempo, invece è passata dai 19 casi ogni 1000 bambini entro i primi 5 anni di vita del 2000, ai 4,8 casi del 2023, contro i 6,3 degli Stati Uniti. Nel frattempo, la Federazione Russa non solo raggiungeva l’autosufficienza alimentare, ma si affermava come uno dei maggiori esportatori di prodotti agricoli al mondo, con un giro d’affari superiore ai 30 miliardi di dollari, “una cifra superiore alle entrate derivanti dalle esportazioni di gas naturale, che hanno raggiunto quota 26 miliardi”: se nel 2012 la produzione di grano ammontava a 37 milioni di tonnellate, nel 2022 aveva raggiunto quota 80 milioni; per fare un confronto, “Nel 1980, quando Reagan salì al potere, la produzione statunitense di grano era pari a 65 milioni di tonnellate. Nel 2022, era scesa a 47”. La Russia si è affermata anche come il “primo esportatore mondiale di centrali nucleari, superando la Francia”, per non parlare del fatto che la Russia era l’unica potenza al mondo che, per quanto riguarda internet, “pur essendo rimasta largamente aperta alle soluzioni occidentali” aveva “equivalenti locali che facevano la concorrenza al monopolio delle GAFAM” e, cioè, Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Paradossalmente, a dare un’accelerata erano state proprio le sanzioni introdotte a partire dell’annessione della Crimea nel 2014 che, come ormai accade sempre più spesso, “l’hanno costretta a trovare dei sostituti per le sue importazioni e a riorganizzarsi internamente”; e idem con quelle on steroids introdotte nel 2022 che, come scriveva l’economista James Galbraith, si sono “rivelate manifestamente un dono”: “Senza le sanzioni” spiegava in un articolo dell’aprile 2023 “è difficile immaginare come si sarebbero potute presentare le opportunità oggi a disposizione delle aziende e degli imprenditori russi. Da un punto di vista politico, amministrativo, legale e anche ideologico, se si considera la profonda presa che l’idea di economia di mercato aveva sui decisori politici, l’influenza degli oligarchi e la natura tutto sommato limitata dell’operazione militare speciale, ancora all’inizio del 2022 il governo russo avrebbe avuto la massima difficoltà a introdurre misure paragonabili, quali dazi doganali, quote ed espulsioni di imprese”.
Insomma: come abbiamo sottolineato mille volte in passato, le sanzioni hanno permesso a Putin di accelerare quel processo di concentrazione e di ammodernamento dell’apparato produttivo che, fino ad allora, era stato ostacolato dalle oligarchie e dalle élite politiche cresciute a pane e liberalismo; il punto, sottolinea Todd, è che Russia e Bielorussia assieme rappresentano appena il 3,3 per cento del PIL nominale globale e, quindi, in molti si sono illusi che si trattasse di nani economici. In realtà però, al contrario di tanti concorrenti occidentali ultra-finanziarizzati (a partire dagli USA), “Il PIL della Russia rappresenta la produzione di beni tangibili piuttosto che di attività non meglio precisate”. Il PIL USA invece, sostiene Todd, è una mezza truffa: nel 2022 ammontava a circa 76 mila dollari pro capite; “Il 20%, poco più di 15 mila dollari” calcola Todd “corrisponde a settori dell’economia che definirei fisici: industria, edilizia, trasporti, miniere, agricoltura”, ma i restanti 60 e passa mila, continua Todd, sono tutti servizi e, secondo alcune stime, sarebbero realmente produttivi per non oltre il 40%. Il resto, appunto, sarebbe fuffa: come spiega sempre Michael Hudson, vanno a contribuire al PIL, per fare un esempio, anche i debiti che contrai per studiare, ma il valore d’uso della tua laurea è lo stesso di uno studente italiano che magari, in tutto, invece che 3-400 mila dollari ne ha spesi 10 mila scarsi; nominalmente, il tuo PIL è 390 mila dollari più alto del mio, ma quando poi c’è da curare un appendicite o da costruire un trattore o da combattere in una trincea, quei 390 mila dollari di PIL in più, tutto sommato, te li metti abbastanza al culo. Una misura un po’ più tangibile e meno astratta della capacità di produrre ricchezza materiale concreta, spiega Todd, può essere la stima di quanti ingegneri l’intero sistema è in grado di sfornare l’anno: nel 2020, ricorda Todd, il 23,4% degli studenti che raggiungevano un’istruzione superiore in Russia erano ingegneri; negli USA il 7,2 che, tradotto, significa 1,35 milioni di ingegneri negli USA contro oltre 2 milioni in Russia, nonostante abbia meno della metà della popolazione. I lavoratori specializzati gli USA li importano direttamente, così che i costi per la loro formazione sono a carico di altri Stati; il 30% dei fisici sono stranieri, come addirittura il 39% dei programmatori software e, in larghissima maggioranza, asiatici: saranno tutti disposti a contribuire allo sforzo bellico contro i loro Paesi di origine? E saranno in grado gli USA, invece, di impedire che magari tornino a casa con qualche informazione sensibile? I nativi, invece, si dedicano fondamentalmente al diritto e alla finanza; insomma: invece che per contribuire alla creazione di ricchezza, studiano per acquisire “una superiore capacità di predazione della ricchezza prodotta dal sistema”. Tutte le statistiche indicano che le persone più istruite hanno redditi maggiori, ma “I redditi più alti delle persone con un livello di istruzione maggiore, in realtà, riflettono più che altro il fatto che gli avvocati, i banchieri e molte altre figure che trovano posto nel terziario sono, se in branco, eccellenti predatori. E’ l’ultima perversione dello stato post-imperiale: la moltiplicazione dei laureati crea una moltitudine di parassiti”.
Una vasta manodopera ultra-qualificata, insieme a una base industriale sicuramente non all’ultimissima moda, ma (con qualche ritocchino qua e là) ancora ampiamente efficiente e produttiva, è una delle eredità che Russia e Bielorussia si sono ritrovate del mondo sovietico che, dopo decenni di propaganda, siamo abituati a considerare una roba da età della pietra, ma che, in realtà, prima dell’invasione coloniale e della guerra civile sotterranea imposta dall’invasore USA subito dopo il crollo, aveva ottenuto anche risultati di tutto rispetto: ad esempio superare la quota fatidica di un quarto della popolazione complessiva che riceve, appunto, un’istruzione superiore; se da un lato, quindi, era piuttosto facile prevedere la capacità di tenuta dell’economia russa di fronte alle sanzioni occidentali, dall’altro, allo stesso tempo, la minaccia rappresentata dalla Russia in termini di sicurezza è stata decisamente esagerata, a prescindere dall’idea che uno si sia fatto sulle sue reali intenzioni. Il punto, sostiene Todd, è proprio strutturale: come ripete in ogni occasione lo stesso Putin, la Russia ha un enorme problema demografico. Sono pochini e in calo e “Con una popolazione in calo e una superficie di 17 milioni di chilometri quadrati, più che ambire a conquistare nuovi territori, in realtà, si domanda come potrà continuare a occupare quelli che già possiede”. Il problema demografico, poi, ha influenzato alla radice anche la dottrina militare che in Russia, appunto, “si fonda sulla constatazione che gli uomini a disposizione sono diventati rari”; ed è proprio per questo motivo, sostiene Todd, che “la Russia è entrata in Ucraina con appena 120 mila soldati”: altro che blitzkrieg fallito fantasticato dai NAFO alla ricerca di una sconfitta immaginaria di Putin nel regno della loro fantasia suprematista! E ancora oggi, continua Todd, “La priorità dei russi non è quella di conquistare il maggior numero possibile di territori, ma di perdere il minor numero possibile di soldati”, come hanno ampiamente dimostrato durante la controffensiva Ucraina dell’autunno 2022 quando “hanno preferito abbandonare a est la parte dell’oblast di Charkiv sotto il loro controllo, e a sud ritirarsi senza combattere sulla riva sinistra del Dnepr”. “Proviamo a sottrarci per un attimo all’emozione che, giustamente” continua Todd “ci suscita la violenza della guerra. Il problema non è la Russia: è un paese troppo vasto per una popolazione in calo, e non sarebbe mai in grado di assumere il controllo del pianeta né tantomeno ambisce a farlo. E’ una potenza del tutto normale, la cui evoluzione non ha assolutamente niente di misterioso. Non è in atto alcuna crisi russa che sta destabilizzando l’equilibrio globale. A mettere a rischio l’equilibrio del pianeta è invece una crisi tutta occidentale” conclude Todd: “la crisi terminale degli Stati Uniti”.
Purtroppo, quei pezzi di élite che sono sotto ricatto USA perché c’hanno i fondi neri nei paradisi fiscali (con magari tutti i movimenti belli tracciati nelle mani dell’NSA che può far saltare qualsiasi testa voglia quando vuole), sono anche gli editori dei giornali e delle Tv di merda che siete costretti a guardare normalmente: non saranno loro a darci gli strumenti per capirci qualcosa e, magari, anche per reagire; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte. Quella del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Gli USA appaltano l’escalation nucleare ai vassalli europei e preparano la guerra contro l’Iran

Carissimi Ottoliner, come saprete tutti benissimo la minaccia di escalation che ci ha tenuto sulle spine per tutta la scorsa settimana è stata sventata: il via libera di Washington all’utilizzo dei missili a lungo raggio USA per colpire dentro al cuore della Russia alla fine non è arrivato; purtroppo, però, non si tratta di un capitolo chiuso, ma di un semplice rinvio. Un teatrino che abbiamo già visto enne mila volte e che c’avrebbe anche abbondantemente rotto i coglioni. Ve lo ricordate il tira e molla sui carri armati? Mandagli prima gli Abrams te; no, prima i Leopard te. E poi gli F-16 mandaglieli te. No, te. Il tutto immancabilmente accompagnato da decine e decine di articoli che ci raccontavano la leggenda metropolitana dell’Occidente pieno zeppo di armi capaci di mettere fine alla guerra in un battibaleno, se solo non fosse stato per le opinioni pubbliche manipolate dalla potentissima macchina propagandistica del Cremlino. Poi alla fine, come ampiamente previsto, arrivavano i carri armati sia dell’uno che dell’altro; e pure gli F-16 e tutto quello che l’Occidente ha davvero a disposizione, ma sul campo non cambiava una seganiente. E tutte le volte il solito identico copione: qualche giorno di silenzio stampa per assestare un po’ il colpo, durante il quale la guerra scompariva dalle prime pagine della propaganda, e poi riborda, una nuova arma immaginaria e un nuovo teatrino; una sceneggiata che ormai gli italiani hanno capito alla perfezione: e così, oggi, è favorevole all’invio di nuove armi in Ucraina meno di un italiano su tre. Se ci levi quelli che campano di incarichi pubblici (che hanno bisogno della benedizione di Washington e di Bruxelles), i giornalisti del gruppo GEDI e i loro parenti, la percentuale scende a uno su dieci; alla fine ne rimarranno solo due e si chiameranno Iacopo Jacoboni e il suo ex direttore Maurizio Sambuca Molinari, che si rimette un po’ in sesto e ci riprova: Ucraina, le autocrazie armano Mosca titolava il suo esilarante editoriale di domenica su La Repubblichina. Si sentiva un po’ scalzato: negli ultimi giorni, il primo gradino del podio di leader incontrastato del suprematismo metafisico gli era stato strappato da Federico bretella Rampini e dal suo Grazie, Occidente. Si doveva rimettere in pari, anche perché l’ordine di scuderia – almeno da qui a novembre – è chiaro: Ignorate i disfattisti titola il Wall Street Journal; La strategia americana sta funzionando. Certo, “Kiev è ancora lontana dalla vittoria” ammettono, “ma gli Stati Uniti stanno raggiungendo il loro obiettivo primario: contenere il potere russo”. D’altronde, nella vita, si sa: chi s’accontenta gode. Ma mentre i pennivendoli di tutto l’Occidente collettivo si inventano tesi strampalate per accontentarsi e per godere, purtroppo c’è chi si prepara in silenzio ad affrontare quello che ci stanno preparando, che non credo ci farà godere molto: Servizi per la modellazione degli effetti delle armi nucleari sui sistemi agricoli; così si intitola l’annuncio pubblicato dallo ERDC, la divisione ingegneristica delle forze armate USA; i candidati dovranno sviluppare un modello per valutare l’impatto dell’utilizzo di armi nucleari distruttive per l’ambiente e la produzione agricola nei paesi dell’ex blocco sovietico, ma tranquilli eh? “Gli Stati Uniti stanno raggiungendo il loro obiettivo”. Ma prima di addentrarci nei meandri di questa escalation rinviata, vi ricordo di mettere un like a questo video e permetterci così di combattere (anche oggi) la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali prima che chiudano quello che sta proprio sulla piattaforma che più amavate, com’è è successo di nuovo anche domenica con il canale Youtube di RED, Revolutionary Educational Documentaries, un piccolo canale di approfondimento chiuso, con tanto di annuncio in pompa magna in conferenza stampa, da Blinken stesso.

Maurizio Molinari

Il primo atto del lungo ed estenuante cerimoniale che accompagna immancabilmente ogni nuova escalation s’è concluso sostanzialmente con un nulla di fatto, ma anche se il via libero definitivo dalla Casa Bianca per l’utilizzo dei suoi ATACMS per colpire direttamente il territorio russo per ora non è arrivato, la macchina s’è messa definitivamente in moto: secondo il Financial Times infatti, anche a questo giro Biden avrebbe chiesto ai vassalli europei di fare il primo passo e di assumersi tutti i rischi; si accoderanno più avanti, se e quando saranno sicuri che la risposta di Mosca sarà, anche a questo giro, tutto sommato modesta. D’altronde, per continuare a rimandare la disfatta definitiva dell’Ucraina, l’impiego dei missili a lungo raggio per colpire direttamente il suolo russo è tra le pochissime carte che rimangono prima dell’ingresso vero e proprio di truppe NATO in guerra – o meglio, diciamo che ne sono l’antipasto; a cosa servano lo ha spiegato bene Zelensky stesso in una lunga intervista di ieri alla CNN, dove ha chiarito un po’ di aspetti che, probabilmente, non sono stati particolarmente apprezzati dai NAFO più sfegatati: forse pure troppo, nella solita logica – anche comprensibile – di piangere il più forte possibile quando c’è da chiedere armi nuove per poi inventarsi, per qualche giorno, successi mirabolanti quando arrivano e poi ricominciare sempre tutto da capo. Zelensky, in pratica, ha dato ai suprematisti che seguono le cose militari la stessa quantità di sberle a quattro mani che pochi giorni fa SanMarioPio da Goldman Sachs ha dato a quelli che seguono le faccende economiche: in entrambi i casi, si è trattato di un risveglio piuttosto traumatico; Zelensky ricorda come, negli otto mesi che il congresso USA ha impiegato per approvare il nuovo pacchetto di aiuti, “Abbiamo dato fondo a tutto quello che avevamo a disposizione, sia in termini di riserve, che di equipaggiamento”. Ed ecco, così, che quando finalmente le nuove armi sono arrivate, erano messi così male che invece di riuscire ad equipaggiare adeguatamente quattordici brigate (come avevano previsto e richiesto), sono stati a malapena in grado di equipaggiarne quattro: “Non importa quante brigate riusciamo a impiegare in un settore, se metà di queste brigate non sono equipaggiate” ha sottolineato; “Non facciamo che perdere una marea di uomini, perché ad esempio mancano i veicoli corazzati”. E oltre ai mezzi corazzati, ovviamente, a mancare è anche l’artiglieria: “Per fare un confronto” dichiara Zelensky, probabilmente anche calcando un po’ la mano, quando “i russi hanno dodici munizioni, non ne abbiamo una. Uno a dodici, questo è il rapporto”. Ora, mentre loro davano fondo a tutto, i russi per otto mesi hanno avuto (e ancora hanno) mano libera nell’utilizzo della loro aviazione, dalla quale lanciano “ogni mese quattromila bombe guidate” che “hanno distrutto tutta la nostra rete elettrica: l’80%”. Le basi di partenza di questi aerei, continua Zelensky, nel tempo sono state allontanate dal confine: da 100/150 chilometri, a 300 chilometri e passa e ora “per colpirli abbiamo bisogno di nuovi permessi”; “Abbiamo bisogno di utilizzare queste armi a lunga gittata per attaccare i jet nelle basi militari” conclude.
Quindi sicuramente sarebbe un passo avanti molto utile per Kiev, ma come tutti gli altri passetti avanti, pensare possa rappresentare un svolta, così, a occhio, sembra una discreta cazzata; lo sottolineava ieri, con inusitata lucidità, anche Carlo Nicolato su Libero: “L’eventuale utilizzo di tali missili, sia quelli britannici che quelli americani” scriveva “non avrebbero un impatto significativo sulla guerra”. Il motivo principale, come sempre, è che alla fine “si parlerebbe comunque di forniture decisamente limitate, del tutto insufficienti per ribaltare le sorti del conflitto, soprattutto” sottolinea giustamente “dal momento che in questi due anni Mosca ha preso tutte e contromisure necessarie per ridurre significativamente l’efficacia degli Himars ed eventualmente degli stessi ATACMS lanciati da terra”; ciononostante, la reazione di Putin è stata piuttosto drastica: perché? Il primo punto ovviamente ha a che vedere con gli equilibri interni alla Russia: nonostante, tutto sommato, la tanto celebrata offensiva del Kursk alla Russia gli abbia fatto come il cazzo alle vecchie, cionondimeno ha rafforzato le critiche alla supposta moderazione di Putin, che viene accusato di non fare abbastanza per far rispettare le linee rosse; contro l’ipotesi di altri attacchi in territorio russo, battere i pugni sul tavolo è il minimo sindacale per non far esplodere quella sacca consistente di malcontento. E poi c’è un aspetto un po’ più delicato: come è emerso già mesi fa dalle intercettazioni tra personale militare tedesco (trapelate non si sa bene come), i sistemi d’arma che l’Ucraina va elemosinando per essere utilizzati hanno bisogno di uomini NATO sul campo; il loro utilizzo, quindi, sottintende la partecipazione diretta al conflitto di personale degli eserciti degli Stati che hanno fornito quegli armamenti e quindi, in soldoni, del loro ingresso in guerra. Ora, uomini dei paesi NATO che partecipano al conflitto sotto mentite spoglie di varia natura ce ne sono da sempre, ma fino ad oggi tutti hanno sostanzialmente preferito fare finta di niente, nascondendosi dietro a un po’ di sana ambiguità e plausible deniability che però, a questo punto, diventerebbe difficile da sostenere; e di fronte all’evidenza, non reagire indebolirebbe la credibilità (e quindi anche la deterrenza) russa, senza contare che – visto che se l’intenzione è quella di continuare il pantano anche dopo le elezioni di novembre, prima o poi qualcuno a dare manforte agli ucraini che, se non sono letteralmente finiti, poco ci manca, ci dovrà andare – questo sarebbe un pericoloso passo intermedio che avvicina anche quella soluzione. Ora, la necessità oggettiva di Putin di rispondere adeguatamente a questa eventuale ulteriore escalation, sia per motivi interni che per motivi strategici pone un problemino non da poco, perché il problema è anche (ovviamente) che non è che di questi missili a lunga gittata in Occidente ci siano i magazzini che scoppiano: quindi, se ne dai pochini fai incazzare Putin per niente; se ne dai tanti (diciamo un numero sufficiente per incidere almeno un po’ sull’andamento del conflitto) non solo fai incazzare Putin ancora di più, ma poi significa anche che hai svuotato i magazzini e, per difenderti, t’è rimasto poco o niente. La strada quindi è, come al solito, piuttosto strettina: d’altronde – e non smetteremo mai di ripeterlo – sono inconvenienti che succedono quando per 40 anni ti convinci che puoi dominare il resto del mondo a suon di dollari e di piccole guerre asimmetriche e poi, tutto d’un tratto, ti ritrovi a combattere una guerra vera; e per imporre una svolta dell’economia in direzione di una vera e propria economia di guerra, anche volendo, ti mancano proprio gli strumenti concreti.
Il quadro, poi, si complica ancora di più quando realizzi che Putin, per reagire, non deve necessariamente colpirti direttamente – che può essere un livello di scontro che anche lui per ora ancora non prende in considerazione; il problema è che siccome non sei un paesino che difende i suoi confini, ma un impero globale la cui sopravvivenza è legata necessariamente a un dominio che si estende su tutti i continenti, di fronti aperti ne hai più d’uno: e, in particolare, ce n’è uno dove un intervento più deciso da parte di Mosca potrebbe trasformarsi rapidamente in una debacle totale. Quel fronte, ovviamente, è il Medio Oriente; ed ecco così che, come per magia, il primo genocidio in diretta streaming della storia passa subito nel dimenticatoio e si torna a prendere di mira l’Iran; il La l’ha dato Blinken quando è passato a prendere con la sua Torpedo blu il collega britannico la scorsa settimana per portarlo in gita a Kiev: “La Russia sta condividendo tecnologie richieste dall’Iran” ha affermato durante la conferenza stampa, “inclusa quella nucleare e spaziale, per generare ancora più insicurezza nel mondo”. Nel frattempo, la scorsa settimana i tre paesi europei coinvolti nei negoziati con Teheran sul nucleare (prima che Donald Trump ne uscisse unilateralmente) hanno dichiarato che le riserve di uranio arricchito dell’Iran “sono cresciute significativamente, e ciò non può essere giustificato da un programma per scopi civili”; Mosca sparge tra le dittature il virus tecnologico della distruzione di massa titola il suo sproloquio quotidiano su La Repubblichina Di Feo. Secondo Di Feo, ovviamente, Mosca è alla canna del gas, al punto che è costretta, in cambio di armi “molto poco sofisticate”, a condividere le sue tecnologie più preziose: Di Feo riconosce, infatti, che in tema di missili a lungo raggio e di tecnologia nucleare la Russia abbia “un primato che custodisce gelosamente”, ma da quando s’è ritrovata a combattere con le pale e i chip delle lavatrici, per tutto il resto s’è dovuta arrangiare con i “droni low cost e i missili balistici imprecisi” che gli potevano fornire quei tre beduini che gli erano rimasti amici, mentre tutto il mondo civilizzato si tatuava Zelensky col lupetto color cachi sul bicipite; ed ecco, così, che “come per i virus, oggi siamo davanti a uno spillover di tecnologie di morte, e nelle fabbriche di Teheran si è a un passo dal rendere operativo un missile che vola e compie manovre a ottomila chilometri orari”, una tecnologia che “i laboratori iraniani non potrebbero mai sviluppare senza l’aiuto dei tecnici russi, che da due anni perfezionano i loro ipersonici Kinzhal e Zircon nei bombardamenti delle città ucraine”. Ma ancora “Più dei missili” allerta Di Feo, “a far paura è la condivisione dei progetti nucleari, che verrebbero messi a disposizione non solo degli Ayatollah ma anche di Kim Jong Un”: “Entrambi i Paesi” insiste “possono bruciare le tappe grazie ai consigli di Mosca e ottenere nel giro di pochi anni arsenali mostruosi in grado di destabilizzare non solo il Medio e l’Estremo Oriente ma l’intero pianeta”; “Una minaccia senza precedenti” conclude “con una proliferazione di testate in mano a Nazioni che disprezzano le convenzioni internazionali”.
Assurdo: il nucleare in mano a nazioni che disprezzano le convenzioni internazionali! Proprio ora che Israele il suo di arsenale, invece, l’aveva convertito a uso civile per creare energia gratis per i bambini di Gaza; siamo braccati dagli incivili con – come scrive Sambuca Molinari – “le autocrazie che armano Mosca”. Anche se io avevo capito il contrario, ma va bene; è La Repubblichina: scriviamo un po’ cosa cazzo ci pare. Sambuca Molinari, forte della consulenza di uno specialista di rango come il suo vice Di Feo, credo faccia un po’ di casino: definisce gli Ababil missili a corto raggio “che consentono di colpire obiettivi con estrema precisione”; a quanto mi ricordo, però, gli Ababil sono droni che l’Iran usa da sempre, e non mi pare siano particolarmente avanzati. Forse Sambuca Molinari si riferisce, invece, ai missili balistici Fath-360 che, in effetti, sì Teheran sembra abbia fornito a Mosca; Sambuca ricorda come Borrell abbia definito questa fornitura addirittura “una minaccia diretta alla sicurezza europea” anche se non si capisce in che mondo, visto che hanno una gittata di poco superiore ai 100 chilometri, ma poco importa: visto che a Mosca direttamente non c’è verso di fargli danni, ora tocca concentrarsi su Teheran, e ogni vaccata è un’occasione imperdibile per assestare un colpo a questo asse delle autocrazie. Per questo nuovo scontro di civiltà, Sambuca individua anche un nuovo paladino, uno che non le manda a dire e che, finalmente, ha avuto il coraggio di denunciare apertamente il pericolo della “collaborazione militare fra le autocrazie, accomunate dalle volontà di indebolire le nostre democrazie”; quel paladino si chiama Lindsay Graham, quel Lindsay Graham:

What did Trump do to get the weapons flowing? He created a loan system. They’re sitting on 10 to $12 trillion of critical minerals in Ukraine. They could be the richest country in all of Europe. I don’t want to give that money and those assets to Putin to share with China. If we help Ukraine now, they can become the best business partner we ever dreamed of. That 10 to $12 trillion of critical mineral assets could be used by Ukraine and the West, not given to Putin and China. This is a very big deal. How Ukraine ends. Let’s help them win a war we can’t afford to lose. Let’s find a solution to this war. But they’re sitting on a gold mine to give Putin 10 or $12 trillion, or critical minerals that he will share with China is ridiculous.


Cosa ha fatto Trump per far circolare le armi? Ha creato un sistema di prestito. In Ucraina si trovano da 10 a 12 trilioni di dollari di minerali critici. Potrebbero essere il paese più ricco d’Europa. Non voglio dare quei soldi e quei beni a Putin perché li condivida con la Cina. Se aiutiamo l’Ucraina adesso, potrà diventare il miglior partner commerciale che abbiamo mai sognato. Quei 10-12 trilioni di dollari di risorse minerarie critiche potrebbero essere utilizzati dall’Ucraina e dall’Occidente, non dati a Putin e alla Cina. Questo è un grosso problema. Come finisce l’Ucraina. Aiutiamoli a vincere una guerra che non possiamo permetterci di perdere. Troviamo una soluzione a questa guerra. Ma essere seduti su una miniera d’oro per dare a Putin 10 o 12 trilioni di dollari, o minerali fondamentali che condividerà con la Cina, è ridicolo.

Ora, intendiamoci: io non credo assolutamente che la guerra per procura in Ucraina abbia a che vedere con queste risorse; credo che la guerra per procura in Ucraina abbia a che vedere con qualcosa di molto più grosso e strutturale e, cioè, il panico che si è scatenato nell’Occidente collettivo da quando hanno realizzato che ci sono Paesi che non hanno più nessuna intenzione di obbedire alle regole dell’ordine internazionale che le ex potenze coloniali hanno costruito a immagine e somiglianza dei loro interessi, e che questi paesi sono attrezzati per imporre a tutto il pianeta la fine del dominio dell’uomo bianco e un nuovo ordine multipolare. Le affermazioni di Graham sono un tentativo disperato di convincere principalmente la sua audience di suprematisti bianchi che però, realisticamente, pensa che contro la Russia vincere militarmente sia piuttosto inverosimile; la cosa interessante è che uno spregiudicato affarista guerrafondaio profondamente razzista come Graham diventi il riferimento di uno come Sambuca Molinari, che infarcisce sempre le sue riflessioni di una quantità inverosimile di vaccate sui valori democratici e la minaccia totalitaria, un po’ come quando il pluri-criminale ultra-reazionario Dick Cheney dichiara il suo sostegno a Kamala Harris. Insomma: il re è nudo e i sondaggi lo dimostrano; “Nell’ultimo anno” scrive Ilvo Diamanti su La Repubblichina a commento del suo ultimo sondaggio, “il consenso verso gli aiuti militari all’Ucraina continua a scendere in modo continuo. E, negli ultimi mesi, si assiste a una vera caduta, quasi un crollo”. Secondo il sondaggio, la percentuale di persone che si dichiara favorevole al sostegno militare all’Ucraina è crollata sotto il 30%: “Un anno fa” ricorda Diamanti “raggiungeva il 47. E oltre il 60 i primi mesi dell’invasione”. Purtroppo, però, c’è un’eccezione: quei pochi che ancora oggi dichiarano che alle elezioni voterebbero un partito di centro-sinistra; ovviamente, su tutti svettano gli elettori di +Europa e Azione, che potremmo proprio definire i talebani del suprematismo occidentale, ma anche tra le fila del PD la voglia di guerra è ancora consistente e – cosa che tra chi non ha perso completamente ogni forma di lucidità non dovrebbe sorprendere troppo – ancora più che tra le fila del PD, tra quelle di Alleanza Verdi Sinistra. Ben il 48% degli elettori di AVS si dichiarano infatti favorevoli all’invio di aiuti militari in Ucraina: tutta colpa della propaganda putiniana, ovviamente, che è onnipotente e onnipresente; sta proprio dappertutto, anche dove non te lo aspetteresti. Dall’Argentina alla Moldavia, titolava domenica La Stampa, la rete della propaganda russa nel mirino di Washington: secondo l’inviato da Washington de La Stampa infatti, in Argentina “i russi stanno tentando di dirottare la politica del governo e creare frizioni con i paesi limitrofi”. Ma te senti cosa viene fuori, alle volte… E io che ero rimasto che in Argentina, con il sostegno degli USA, avevano fatto un golpe giudiziario per mandare a casa i peronisti; e che avevano fatto vincere le elezioni a un caso umano che, come prima uscita pubblica, s’era fatto una foto con Netanyahu e Zelensky e le bandiere ucraina e israeliana e poi aveva fatto uscire il paese dei BRICS: accidenti a questa maledetta propaganda putiniana, che ci riempie di fake news!
Contro il mondo alla rovescia dei pennivendoli di fine impero alla canna del gas, ci serve come il pane un vero e proprio media che dia voce al 99% e, già che c’è, magari che rispetti un minimo l’intelligenza di chi lo guarda. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Gennaro Sangiuliano

Palestina nei BRICS – Come il Sud globale costruisce concretamente un mondo più democratico

Mentre il comandante in capo del mondo libero e democratico Genocide Joe approvava l’ennesimo pacchetto di forniture militari da 20 miliardi di dollari per permettere a Israele di continuare a sterminare pacificamente i bambini palestinesi, il plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino optava per una strategia decisamente meno rispettosa dei diritti umani: invitava ufficialmente il Presidente dell’autorità palestinese Mahmoud Abbas a partecipare al prossimo summit dei BRICS che si terrà nella cittadina russa di Kazan il prossimo ottobre, un summit potenzialmente di portata storica: la Russia, infatti, che in quanto sporca e cattiva è giustamente sanzionata dai difensori del diritto internazionale e dei diritti umani a stelle e strisce, è forse in assoluto il Paese al mondo che sente con maggiore urgenza la necessità di emanciparsi dalla dittatura globale del dollaro e quindi, con ogni probabilità, approfitterà della sua presidenza di turno dei BRICS per provare in ogni modo ad accelerare il più possibile il complicatissimo ma rivoluzionario processo verso l’emancipazione dalla dittatura globale del dollaro, che rappresenta il vero pilastro fondamentale dell’imperialismo – e quindi di un sistema di relazioni internazionali ancora oggi intollerabilmente antidemocratico che ricorda molto da vicino il vecchio colonialismo. Insomma: anche a questo giro, mentre l’Occidente collettivo a guida USA si riempie la bocca di slogan vuoti su democrazia, diritto e progresso mentre commette ogni sorta di crimine possibile immaginabile, i Paesi del Sud globale – a partire proprio da quelli più sporchi e cattivi che tanto sdegno generano nei salotti buoni della sinistra progressista de noantri– al netto di tutte le contraddizioni lavorano concretamente giorno e notte alla costruzione di un mondo più pacifico e democratico. E voi, da che parte state?

Vladimir Putin

La contrapposizione non potrebbe essere più chiara ed evidente: di fronte al primo genocidio della storia in diretta streaming, il mondo si divide nettamente in buoni e cattivi, con i buoni che però accolgono tra innumerevoli standing ovation i carnefici e i cattivi, invece, che si schierano dalla parte della resistenza. L’ufficializzazione dell’invito da parte di Mosca all’autorità palestinese a partecipare al prossimo Summit dei BRICS, che si terrà in ottobre nella prestigiosa capitale del Tartastan, rischia di creare l’ennesimo irrisolvibile cortocircuito cognitivo nella mente delle anime belle della sinistra progressista occidentale; i benpensanti dell’Occidente collettivo, infatti, fino ad oggi hanno sempre cercato disperatamente di giustificare il sostegno incondizionato dei loro Paesi e delle loro forze politiche di riferimento allo sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi, trincerandosi dietro la formula dei due popoli, due Stati che, ancora oggi, viene indicata come l’unica soluzione possibile per soddisfare contemporaneamente due principi che ritengono (almeno a parole) inviolabili: il diritto di Israele a difendersi, da un lato, e il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e al rispetto dei diritti umani fondamentali. Purtroppo però – recita la formula giustificazionista più in voga – la costruzione dei due Stati è un processo incredibilmente complesso e, ovviamente, è reso ancora più complesso dagli opposti estremismi che la sinistra benpensante vuole sempre necessariamente vedere ovunque: c’è un regime di apartheid? No, macché: lo Stato democratico di Israele rispetta i diritti di tutti, solo che poi gli estremisti palestinesi ne approfittano per terrorizzare i giovani che vanno ai rave e ai pride e, dall’altra parte, alcuni estremisti israeliani, nell’esercitare il loro sacrosanto diritto all’autodifesa, si lasciano andare a qualche eccesso di troppo. E’ in corso un genocidio? Ma figurati! E’ solo che gli estremisti palestinesi usano la popolazione civile come scudi umani e, dall’altra parte, qualche estremista israeliano si fa un po’ troppo pochi scrupoli a massacrare una trentina di civili per colpire ogni presunto miliziano. Se già, invece di 30, fossero 25, ci si potrebbe stare.
D’altronde si sa, appunto: gli estremisti son da tutte le parti; l’importante però è che si continui ad affermare che l’obiettivo rimane quello di creare due Stati per due popoli anche se, nel frattempo, si continua ad armare e a sostenere economicamente una delle due parti in causa come se non ci fosse un domani. E continuare ad affermare che l’obiettivo è creare due Stati costa abbastanza poco; anzi, si può fare anche molto di più: si potrebbero anche proprio riconoscere davvero due Stati, tanto – alle condizioni attuali – anche se formalmente arrivi a riconoscerlo sul serio uno Stato palestinese, un vero Stato palestinese, in realtà non può esistere. Il punto è che affinché uno Stato possa esistere, non basta scriverlo su un foglio di carta: uno Stato esiste sul serio se e solo se ha gli strumenti concreti per esercitare una qualche forma di sovranità; non voglio dire esercitare piena sovranità in tutti gli ambiti di sua competenza perché, dopo 40 anni di globalizzazione neoliberista, questo significherebbe sostanzialmente dire che non possono esistere gli Stati tout court, ma almeno qualche forma sostanziale di sovranità sì. Ora, che forma di sovranità potrebbe mai esercitare uno Stato che si ritrovasse a governare la Palestina per come è stata ridotta? Il cibo dovrebbe comunque arrivare dall’esterno sotto forma di aiuti alimentari, l’acqua dovrebbe arrivare per gentile concessione degli israeliani, che negli anni si sono impossessati manu militari di ogni singola fonte di approvvigionamento; anche l’energia elettrica dovrebbe arrivare per gentile concessione degli israeliani e anche per la sicurezza una vera sovranità sarebbe palesemente impensabile, soprattutto in quello spezzatino privo di ogni continuità territoriale nel quale centinaia di insediamenti totalmente illegali da parte dei coloni sionisti hanno trasformato la Cisgiordania. Ciononostante, un pezzo consistente della politica dell’impero ritiene comunque troppo rischioso fare qualche passo avanti nel riconoscimento di uno Stato formalmente indipendente per i palestinesi e quindi, da decenni, lavora senza sosta per fare in modo che anche all’interno della Palestina stessa non vi siano le condizioni politiche minime necessarie per garantire in prospettiva una qualche forma di governo minimamente sostenibile.
Lo strumento è quello classico: divide et impera, dividere la popolazione tra fazioni politiche e riconoscerne una come interlocutore più o meno affidabile e l’altra come capro espiatorio di ogni male possibile immaginabile. La fazione individuata come interlocutore – che, nel caso specifico, è l’OLP di Mahmoud Abas – a questo punto viene sottoposta a un semplice ricatto: visto che sei totalmente dipendente da noi per qualsiasi cosa, per ricevere un po’ di elemosina devi soddisfare supinamente ogni nostra richiesta. Ovviamente, questa sottomissione totale ai voleri della forza occupante viene vista di cattivo occhio dal grosso della popolazione dal momento che, da che mondo è mondo, ai popoli – chissà poi perché – essere sottomessi alle occupazioni straniere gli sta leggerissimamente sui coglioni; questa cosa, ovviamente, non fa che alimentare la fazione di quelli che nel progetto di divide et impera dell’occupante sono finiti nel team cattivi. Allora nel contratto di ricatto stipulato col team buoni diventa sempre più grande la parte che prevede che gli interlocutori debbano consegnare agli occupanti la testa dei membri del team cattivi e così ovviamente, giustamente, il team buoni diventa sempre più minoritario e isolato all’interno della sua stessa popolazione, fino a che gli occupanti non hanno tutti gli elementi per sostenere (con qualche ragione) che la creazione dello Stato indipendente degli occupati non si può fare perché la fazione individuata come unico interlocutore possibile è troppo debole e non sarebbe in grado di governarlo. E per i progressisti da apericena e gli analfoliberali, a questo punto, il ragionamento non fa un piega: insomma, gli imperialisti e i coloni sono criminali, ma non sono mica scemi. Ora, l’invito da parte di quel perfido tiranno di Putin a partecipare al summit dei BRICS stravolge totalmente questo intero paradigma, soprattutto alla luce di quanto è stato fatto nei mesi precedenti nei confronti della Palestina in particolare proprio da Cina e Russia. L’ingresso dello Stato palestinese nel salotto buono del nuovo ordine multipolare, infatti, ha un obiettivo molto evidente: aiutare lo Stato palestinese a ottenere gli strumenti concreti che gli garantiscano in prospettiva di esercitare, almeno da alcuni punti di vista, proprio quella sovranità che la pantomima dell’imperialismo occidentale vuole negare alla radice; d’altronde, i BRICS e le altre istituzioni del nuovo ordine multipolare sono nate tendenzialmente proprio per questo.
L’imperialismo – e, in particolare, quello che definiamo spesso il superimperialismo (e cioè l’imperialismo nella forma specifica che ha assunto nell’era della globalizzazione neoliberista) – può essere definito come quel sistema mondo che aspira a minare alla radice la capacità di tutti gli Stati di esercitare la loro sovranità tranne che per lo Stato del centro imperiale (e, cioè, gli USA) e questa è esattamente la condizione che hanno accettato passivamente tutti gli Stati che oggi definiamo liberi e democratici: la cessione della loro sovranità alle oligarchie finanziarie e alla macchina bellica del centro imperiale. Per emanciparsi da questa condizione di sottomissione strutturale, però, a un certo punto i Paesi del Sud globale si sono cominciati a dotare di istituzioni multilaterali che, in mezzo a mille contraddizioni, potessero permettergli di provare a tornare a conquistare un po’ di sovranità; e di queste istituzioni multilaterali, i BRICS sono probabilmente la più importante in assoluto, soprattutto dal momento che è proprio in questa sede che si dovrebbe discutere il singolo aspetto che – probabilmente più di ogni altro – negli ultimi 40 anni ha limitato la sovranità dei singoli Stati, e cioè la dittatura del dollaro.
L’emancipazione dal dollaro come valuta di riserva globale è una sfida titanica: in 5 secoli di vita, il capitalismo globale ha sempre avuto una valuta di riserva di ultima istanza che veniva utilizzata per il grosso delle transazioni commerciali internazionali e questa valuta è sempre stata la valuta emessa dal Paese che, in quella fase storica, stava in cima alla gerarchia dei Paesi capitalistici: la potenza egemone, come è stato l’impero britannico per buona parte del XIX secolo e quello a stelle e strisce per buona parte del XX fino ad oggi. Il fatto è che al sistema, per come ha funzionato fino ad oggi, per gli scambi internazionali serve una moneta stabile e sicura, universalmente accettata da tutti e che possa circolare liberamente attraverso i confini (in particolare, attraverso i confini del Paese che la emette), ma permettere ai capitali di fluire liberamente attraverso i propri confini significa, in soldoni, rinunciare agli strumenti di controllo del flusso dei capitali che sono indispensabili per rendere efficaci le politiche economiche scelte dal governo e questo, a sua volta, significa solo due cose: o che rinunci anche tu ad esercitare una parte fondamentale della tua sovranità, oppure che di default la tua politica economica coincide perfettamente con gli interessi dei detentori del grosso di quei capitali che attraversano i tuoi confini; e questa condizione è soddisfatta solo ed esclusivamente dalla potenza egemone. Emanciparsi dalla dittatura del dollaro quindi, stando così le cose, significherebbe necessariamente trovare un degno sostituto e, quindi, anche riconoscere a un’altra potenza – che non potrebbe (per ovvie ragioni) che essere la Cina – lo status di nuova potenza egemone del capitalismo globale, ma a quel punto si sarebbe di nuovo punto e a capo perché i problemi che derivano dall’avere una superpotenza che gerarchicamente sta sopra a tutti gli altri, limitandone considerevolmente la sovranità, si ripresenterebbero più o meno uguali spiaccicati, solo con un altro nome. Fortunatamente, però, questo rischio non sembra tutto sommato molto realistico: la totale simbiosi che si è verificata nei precedenti imperi tra detentori del capitale e macchina statale, infatti, nella Repubblica Popolare cinese che – piaccia o non piaccia – continua ad essere uno Stato socialista (eccome), molto semplicemente non c’è, proprio manco lontanamente; e lo Stato cinese non ha nessunissima intenzione di rinunciare al controllo del flusso dei capitali che le garantisce di potersi dare obiettivi di politica economica che non coincidono con gli interessi particolari di chi detiene il capitale. Per superare la dittatura del dollaro, allora, l’unica possibilità è superare tout court l’idea stessa dell’esistenza di una valuta di riserva di ultima istanza, il che – in soldoni – equivale a dire che l’unica possibilità è superare l’imperialismo in quanto tale e, cioè, la forma specifica che si è data il capitalismo per tentare di superare le sue contraddizioni intrinseche pur di continuare a garantire il dominio dell’1% sul resto della popolazione; insomma: non esattamente un giochetto da ragazzi.
L’ultima volta che qualcuno c’aveva provato era il 1944, quando a Bretton Woods John Maynard Keynes aveva cercato di approfittare di un momento politico contingente particolarmente favorevole – dove le storture intrinseche dell’imperialismo, dopo l’ascesa del nazifascismo e due guerre mondiali, erano evidenti anche alle capre di montagna – per proporre un’architettura finanziaria globale rivoluzionaria che al posto di una valuta di riserva di ultima istanza, prevedeva l’istituzione di uno strumento monetario ad hoc chiamato Bancor che sarebbe dovuto servire per regolare le transazioni internazionali e che avrebbe dovuto permettere di intervenire per correggere le asimmetrie nelle bilance commerciali dei vari Paesi ed evitare così il riemergere delle tensioni strutturali che avevano portato al disastro dei decenni precedenti. I BRICS oggi, sostanzialmente, stanno lavorando proprio in quella direzione e, per quanto la gestazione sia troppo lunga e tortuosa per i tempi dettati dall’era dell’iper-informazione, stanno facendo importanti passi avanti: il primo step consiste nel favorire gli scambi bilaterali tra i diversi Paesi nelle valute locali e qui, a mostrare la strada, sono indubbiamente Cina e Russia. E il bello è che sono proprio gli USA stessi ad aver accelerato in maniera esponenziale il processo: come conseguenza della guerra per procura degli USA in Ucraina e della montagna di sanzioni anti-russe che l’hanno accompagnata sin dagli esordi, nel 2023 l’interscambio commerciale tra i due Paesi leader del nuovo ordine multipolare è cresciuto di circa il 25% e per il 90% è avvenuto in rubli e yuan. Anche una bella fetta dell’interscambio tra Russia e India ormai avviene nelle rispettive valute e nel 2024, per la prima volta, la maggioranza dei pagamenti internazionali che hanno coinvolto la Cina sono avvenuti in yuan invece che in dollari; e calcolando che la Cina è di gran lunga la prima potenza commerciale al mondo e l’unica vera grande superpotenza manifatturiera del pianeta, non è proprio pochissimo. Anche il commercio internazionale del petrolio, che fino al 2022 avveniva in dollari per poco meno del 100%, nel 2023 è avvenuto per almeno un quarto del suo valore complessivo in valute locali. Ovviamente tutto questo è ben lontano da mettere in discussione il predominio del dollaro, soprattutto dal momento che le transazioni commerciali internazionali rappresentano soltanto una piccola frazione dei movimenti valutari globali che, ovviamente, per la stragrande maggioranza dei volumi hanno a che vedere con transazioni di carattere meramente finanziario, totalmente scollegate dall’economia reale; ciononostante, la fine della dittatura del dollaro potrebbe essere più vicina di quanto si possa pensare perché – come a ogni dittatura – per stare in piedi anche a quella del dollaro non basta essere semplicemente maggioranza: deve essere totalizzante, come dimostrano plasticamente i fallimenti che lo strumento delle sanzioni unilaterali sta accumulando uno dietro l’altro. Affinché le sanzioni funzionino, infatti, non è necessario che le alternative al dollaro siano chissà quante e chissà quanto diffuse: basta che ci siano delle alternative, anche marginali; ora quindi si tratta – mentre, da un lato, si continua ad allargare il ricorso all’utilizzo delle valute locali per le transazioni bilaterali – di cominciare a ragionare su un’architettura più complessiva (sulla falsariga di quella proposta da Keynes a Bretton Woods) che permetta di regolare le transazioni internazionali di tutti quei Paesi del Sud globale – ma non solo – che si sono stufati di pagare dazio all’egemonia USA.
Uno degli ostacoli principali fino ad oggi è stato rappresentato proprio dall’India, che se da un lato persegue una sua agenda nazionale incompatibile con il dominio incontrastato del superimperialismo finanziario USA, dall’altro teme di favorire troppo l’ascesa della Cina; ed ecco così che quando nel 2023, al summit di Johannesburg, il tema dell’utilizzo delle valute locali per l’interscambio tra i BRICS era stato posto sul tavolo, l’India si era dichiarata non favorevole, ma – a quanto pare – le cose sono cambiate. E’ quanto rivela la pagina economica di The Hindu in vista del vertice di Kazan: L’India potrebbe prendere in considerazione la proposta di utilizzare le valute nazionali titola, anche se a condizione però, continua il titolo, che non sia vincolante; “Nuova Delhi”, avrebbe dichiarato a The Hindu una fonte governativa di primo livello che avrebbe voluto però mantenere l’anonimato, “sta esaminando una risposta adeguata in base alla misura in cui trarrebbe beneficio economicamente e diplomaticamente dalle proposte senza aumentare le sue vulnerabilità nei confronti della Cina”. Il compromesso, avrebbe affermato la fonte anonima, consisterebbe nel fatto che “All’interno dei BRICS anche se sei d’accordo per il regolamento valutario, puoi comunque scegliere di non applicarlo con alcuni Paesi, mentre lo applichi con altri. Se l’India sceglie di non trattare con la Cina in yuan e rupie, va bene. Ma potrebbe riguardare altri Paesi, ad esempio il rublo o il rand”; “Il regolamento valutario all’interno del blocco BRICS” commenta l’articolo “darà ai membri la flessibilità di utilizzare una particolare valuta accumulata in un Paese per commerciare con un altro. Ad esempio, la Russia potrebbe spedire la rupia in eccedenza raccolta nei suoi conti in India e convertirla in pesos brasiliani per pagare il Brasile per alcune transazioni. Oppure in rand sudafricani per effettuare pagamenti in Sudafrica”.
Ovviamente, da qui alla creazione della famigerata valuta dei BRICS ce ne corre, ma l’idea sostanzialmente è che una volta rodato questo meccanismo si possa dare vita – appunto – a una valuta fittizia simile al Bancor di Keynes con la quale regolare l’interscambio commerciale e il cui valore è determinato da un paniere contenente tutte le valute dei Paesi coinvolti. Insomma: al di là della propaganda, i BRICS continuano a lavorare per restituire concretamente spazi di sovranità ai diversi Paesi e, invece della strategia del divide et impera, lavorano per la riconciliazione e il dialogo, anche sul fronte interno, anche se costa una fatica enorme e una pazienza certosina; già in marzo Putin aveva organizzato un importante incontro con le varie fazioni palestinesi – dall’OLP ad Hamas, passando per la Jihad Islamica Palestinese e il Fronte Popolare di Liberazione – nel tentativo di promuovere un governo di unità nazionale. Dopo aver ottenuto una dichiarazione congiunta, il dialogo era completamente naufragato a causa dell’ennesimo infame atto di tradimento da parte dell’OLP di Abu Mazen. Ma la storia si fa con quel che c’è, non quello che ci piacerebbe ci fosse, ed ecco così che grazie anche ai veri e propri deliri delle fazioni più dichiaratamente razziste e fascistoidi del governo israeliano – che sono riuscite a far passare alla Knesset una risoluzione che rifiuta categoricamente ogni ipotesi di Stato palestinese, minando così alla radice il ruolo dell’OLP di interlocutore e, quindi, costringendolo a venire a più miti consigli – a luglio a riprovarci è stata la Cina, che ha portato a casa la ratifica da parte di 14 fazioni palestinesi di un accordo che prevede l’istituzione “di un governo di unità nazionale che gestisca gli affari del popolo palestinese sia a Gaza che in Cisgiordania, supervisioni la ricostruzione e prepari le condizioni per le elezioni”.
Che strano mondo che è un mondo dove i buoni firmano i missili diretti contro i bambini e ci scrivono sopra Uccidili tutti e i cattivi sono l’unica speranza che i diseredati della terra hanno per un futuro un po’ più pacifico e democratico… Contro il mondo al contrario della propaganda di fine impero, abbiamo bisogno come il pane di un vero e proprio media che dia voce agli interessi e ai diritti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

Pioggia di fuoco sull’Ucraina: la risposta russa allo schiaffo di Kursk – ft. Francesco Dall’Aglio

I nostri Clara e Alessandro hanno intervistato Francesco Dall’Aglio in un approfondimento sulla guerra ucraina dopo l’offensiva su Kursk. Kiev ha scioccato il mondo con l’audace operazione in territorio russo, ma Mosca continua a guadagnare terreno in Donbass e risponde con una pioggia di fuoco sull’Ucraina. Il fuoco dell’artiglieria e i droni mettono a rischio le centrali nucleari di Enerdogar e Kurchatov, dove l’AIEA mette in guardia dal pericolo di un incidente atomico. Quali prospettive ci sono ancora per i negoziati? #ucraina #russia #nato #guerra #zelensky #putin #biden

Il ritorno degli Euromissili in Germania avvicina l’armageddon nucleare

SM-6, Tomahawk, Dark Eagle, OpFires, PrSM: la lista delle nuove sigle da imparare è corposa, ma mi sa che ci toccherà cominciare a familiarizzarci un pochino. Quelli elencati sopra, infatti, sono i nomi in codice dei nuovi missili a raggio intermedio più o meno pronti a invadere la Germania e far precipitare definitivamente il vecchio continente nel conflitto aperto contro il gigante russo; lo hanno annunciato in un brevissimo comunicato congiunto i governi tedesco e statunitense mercoledì scorso, quasi come se niente fosse: “Gli Stati Uniti” si legge “inizieranno il dispiegamento episodico delle capacità di fuoco a lungo raggio della loro task force multi-dominio in Germania nel 2026, come parte della pianificazione per lo stazionamento duraturo di queste capacità in futuro. Una volta completamente sviluppate” continua la dichiarazione “queste unità convenzionali per il fuoco a lungo raggio includeranno” appunto “SM-6, Tomahawk e armi ipersoniche in via di sviluppo, che hanno una portata significativamente più lunga rispetto agli altri sistemi d’arma lanciati da terra attualmente presenti in Europa. L’esercizio di queste capacità” conclude la dichiarazione “dimostrerà l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della NATO e il suo contributo alla deterrenza integrata europea”. Insomma: bentornati Euromissili.

Sergey Ryabkov

A 5 anni dall’uscita unilaterale degli USA dal Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF per gli amici) che nel 1987 aveva messo fine a quella che probabilmente è stata la più pericolosa corsa al riarmo dell’intera storia dell’umanità, la guerra per procura provocata dagli USA in Ucraina contro la sicurezza nazionale russa e ogni velleità sovranista del vecchio continente fornisce la scusa perfetta per trasformarci, di nuovo, nell’avamposto della guerra imperialista contro ogni tentativo di emancipazione dei popoli dalla dittatura delle oligarchie finanziarie transnazionali: “Questa” ha commentato il viceministro degli esteri russo Sergey Ryabkov “è l’ennesima prova tangibile della politica di destabilizzazione intrapresa dagli USA nell’era post Trattato INF”; “Dopo che Washington ha deliberatamente distrutto il Trattato INF” ha ribadito Ryabkov “gli americani hanno chiaramente dichiarato la loro intenzione di posizionare armi precedentemente proibite dal trattato in diverse regioni del mondo. E con il sostegno incondizionato dei loro alleati, ora passano alla fase attiva dei loro piani”. Ryabkov ha poi sottolineato come, ovviamente, “Le azioni degli Stati Uniti e dei loro satelliti che creano ulteriori minacce missilistiche alla Russia non rimarranno senza la dovuta risposta da parte nostra” e ha ricordato come Putin abbia già parlato apertamente della necessità di “riconsiderare la moratoria unilaterale della Russia sullo schieramento di missili terrestri a raggio intermedio” che impegnava la Russia, almeno formalmente, a continuare a rispettare i parametri del trattato: “Le agenzie russe” ha continuato Ryabkov, sono state costrette ora a avviare “il lavoro sullo sviluppo di contromisure compensative, e continueranno questo lavoro in modo sistematico”; “La dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Germania” ha insisstito Ryabkov “avrà conseguenze distruttive per la sicurezza regionale e la stabilità strategica”, “ma purtroppo” ha concluso, era tutto ampiamente “previsto”. Per chi ancora si illude che il sempre più probabile cambio di guardia alla Casa Bianca il prossimo novembre potrebbe rappresentare una svolta nell’escalation bellicista di Washington e dei suoi vassalli, è bene ricordare che il ritiro unilaterale degli USA dal Trattato INF è stata proprio una scelta della prima amministrazione Trump; l’esigenza strutturale delle oligarchie USA di dichiarare guerra a chiunque anche solo accenni ad avanzare critiche alla dittatura globale del dollaro, delle differenze di narrazione utilizzate dalle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari, molto banalmente, se ne sbatte completamente i coglioni e continua a procedere con il pilota automatico qualunque sia il pupazzo temporaneamente elevato al ruolo di commander in chief.
Il ritorno ai missili a medio-lungo raggio precedentemente proibiti dal trattato stracciato da The Donald ha già un precedente: nell’aprile scorso, infatti, per la prima volta l’esercito statunitense aveva inviato all’estero elementi del suo nuovissimo sistema missilistico terrestre noto col nome di Typhon, in grado – appunto – di lanciare sia missili da crociera Tomahawk che missili multiuso SM-6; la destinazione, manco a dirlo, era stata The next Ukraine, la prossima Ucraina dell’Asia-Pacifico, la non tanto ex colonia USA delle Filippine. “L’arrivo di Typhoncommentava il 15 aprile The War Zone “invia un segnale forte a Pechino e in tutta la regione”; la corsa a riempire nuovamente il globo di sistemi d’attacco a medio e lungo raggio in grado di minacciare gli obiettivi sensibili delle grandi potenze ribelli del pianeta è talmente strategica che ha imposto una riorganizzazione complessiva delle forze armate USA, sintetizzata in un libro bianco pubblicato lo scorso 28 febbraio: al primo punto del piano c’è il completamento della creazione di 5 task force multi-dominio che dovranno includere unità di difesa aerea e missilistica nonché, appunto, “unità dotate di nuovi sistemi missilistici a lungo raggio, compresi quelli ipersonici”. “Per quasi vent’anni” sottolinea il libro bianco “la struttura delle forze dell’Esercito ha rispecchiato l’attenzione alle operazioni di contro-insurrezione e antiterrorismo che hanno dominato dopo gli attacchi dell’11 settembre… Ma alla luce del cambiamento del contesto di sicurezza e dell’evoluzione del carattere della guerra, l’Esercito si sta concentrando nuovamente sulla conduzione di operazioni di combattimento su larga scala contro potenze militari tecnologicamente avanzate”: il sistema Typhon inviato nelle Filippine è stato esattamente assegnato alla prima di queste task force; l’arrivo anche nel cuore del vecchio continente era, ovviamente, esclusivamente questione di tempo. Nel novembre del 2021 infatti, ben prima della fantomatica invasione dell’Ucraina da parte del plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino, l’esercito americano in Germania aveva ufficialmente riavviato il famigerato 56esimo comando di artiglieria; come ricostruisce The War Zone, si tratta dell’unità che, tra il 1963 e il 1991, aveva il mandato di comandare battaglioni armati con missili balistici con testate nucleari Pershing e Pershing II: L’esercito rilancia l’unità missilistica nucleare della Guerra Fredda per schierare nuove armi a lungo raggio in Europa, titolava allora la testata.

La base del comando ha il suo centro operativo a Mainz-Kastel, il castello di Magonza, dove appunto sta prendendo forma anche la seconda divisione multi-dominio dell’esercito e sin da subito è stato chiaro che, oltre ai sistemi Typhon, l’obiettivo era equipaggiarli con il Precision Strike Missile, l’ultimo arrivato della famiglia dei missili balistici e, soprattutto, con il Dark Eagle, l’arma ipersonica a lungo raggio che l’esercito sta sviluppando come parte di un programma congiunto con la marina americana; secondo The War Zone “La Dark Eagle dovrebbe essere in grado di colpire obiettivi ad almeno 1.725 miglia di distanza” che percorrerebbe “lungo una traiettoria di volo atmosferica, ad una velocità fino a Mach 17”. E la Germania è solo la punta dell’iceberg: tra i vari eventi secondari tenutesi durante l’ultimo Summit NATO, particolare rilevanza – anche se non da parte dei media mainstream – ha avuto il quadrilaterale tra Francia, Germania, Italia e Polonia durante il quale è stata firmata una lettera di intenti per lo sviluppo dell’ELSA, lo European Long Range Strike Approach, la risposta tutta europea al ritorno – appunto – al dispiegamento di missili a lungo raggio che mira a “sviluppare, produrre e fornire capacità nell’area degli attacchi a lungo raggio, che sono estremamente necessarie per scoraggiare e difendere il nostro continente”, come recita il thread su X pubblicato per l’occasione dall’ambasciata francese negli USA. Insomma: finalmente l’era post Trattato INF, inaugurata dal compagno Trump ben prima che la guerra per procura in Ucraina deflagrasse definitivamente, si sta concretizzando in una corsa al riarmo missilistico generalizzato nel vecchio continente e ora, come sottolinea The War Zone, rimane solo da attendere “di vedere esattamente che tipo di risposta arriverà dalla Russia”. A lanciare l’allarme, sempre interrogato da The War Zone, ci pensa Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project presso il think tank della FAS, la federazione degli scienziati americani, che sottolinea come “è inevitabile che la Russia reagisca con annunci sui propri missili a lungo raggio, compresi missili potenzialmente balistici”; l’idea, infatti, è che la reazione russa non preveda solo l’installazione di nuovi sistemi d’arma in grado di raggiungere i punti sensibili di tutto il vecchio continente, ma anche direttamente “obiettivi simili negli Stati Uniti” e “in questo caso, l’arma preferita sarebbero probabilmente i missili balistici intercontinentali con testate nucleari, potenzialmente multiple”: come sottolinea sul suo profilo X l’analista militare filo-atlantista Pavel Podvig “Se vi piacevano gli SS-20, amerete gli RS-26”.
Gli SS-20, appunto, sono i missili balistici sovietici a raggio intermedio che rappresentavano il cuore della deterrenza nucleare durante la Guerra Fredda, prima dell’entrata in vigore del Trattato INF che aveva acceso una luce di speranza decretandone la distruzione; l’RS-26, invece, è sostanzialmente il suo erede diretto: come ricorda sempre The War Zone “Il recente status dell’RS-26 è piuttosto poco chiaro, con rapporti risalenti al 2018 secondo i quali il programma sarebbe stato sospeso a favore di altre armi strategiche, comprese quelle ipersoniche”, ma “i recenti sviluppi potrebbero portare a un ripensamento”. “Un’arma del genere” conclude The War Zone “reintrodurrebbe nel teatro europeo una dinamica ben nota, con un missile balistico russo con capacità nucleare, la cui gittata è ottimizzata per colpire le capitali dell’Europa occidentale e obiettivi militari chiave. In questo modo, l’RS-26 potrebbe diventare un analogo dell’SS-20 e potrebbe avere lo stesso impatto sulla situazione di sicurezza strategica del continente”. E se questo bel quadretto non vi basta, eccovi la ciliegina: Robert C. O’Brien è stato uno dei più ascoltati consiglieri per la sicurezza nazionale della seconda parte dell’amministrazione Trump e tra gli architetti del ritiro unilaterale dal Trattato INF e dalle pagine di Foreign Affairs fa una proposta inquietante; “Si vis pacem, para bellum” – se vuoi la pace, preparati alla guerra – rilancia nell’incipit dell’articolo e, per prepararsi alla guerra, suggerisce che “Gli Stati Uniti devono mantenere la superiorità tecnica e numerica rispetto agli arsenali nucleari cinesi e russi combinati” e “per fare ciò, Washington deve testare l’affidabilità e la sicurezza delle nuove armi nucleari nel mondo reale per la prima volta dal 1992, non solo utilizzando modelli computerizzati”. “Un’idea terribile” ha commentato sul New York Times Ernest Moniz, che da segretario per l’energia durante l’amministrazione Obama aveva l’incarico di supervisionare l’arsenale nucleare a stelle e strisce: “Nuovi test ci renderebbero meno sicuri” avrebbe affermato, perché “Non possono essere separati dalle ripercussioni globali”; “Una detonazione statunitense” ricorda il Times “violerebbe il Trattato sul divieto totale degli esperimenti nucleari, a lungo considerato una delle misure di controllo degli armamenti di maggior successo. Firmato dalle potenze atomiche del mondo nel 1996, mirava a frenare una costosa corsa agli armamenti che era andata fuori controllo”.
Negli ultimi mesi mi sono scontrato spesso con persone che sostenevano che la certezza della mutua distruzione in caso di escalation nucleare continuava ad essere un deterrente sufficientemente potente da tenerci al sicuro; sarò catastrofista, ma mi sembra una gigantesca puttanata, il classico bias che ci impedisce di ragionare razionalmente su scenari eccessivamente catastrofici. Al contrario, a me sembra palese che, giorno dopo giorno, la necessità dell’impero fondato sul dollaro e sullo schema Ponzi della finanza speculativa di arrestare la transizione a un nuovo ordine multipolare renda verosimili anche gli scenari più catastrofici; se volete approfondire le ragioni profonde che ci hanno portato a questa lettura della fase che stiamo attraversando, abbiamo provato a ricostruirle in questo breve pamphlet che riassume oltre due anni del nostro sforzo quotidiano per orientarci tra – come dice sempre Xi Jinping – “trasformazioni che non vedevamo da 100 anni”. Secondo la nostra analisi, in realtà, l’unico modo per mettere al sicuro la sopravvivenza della nostra specie è cacciare a pedate (una volta per tutte) dai posti di comando tutti i fedeli servitori del partito unico della guerra e degli affari e, per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un vero e proprio media che smonti la retorica suprematista e guerrafondaia delle oligarchie e dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Daniele Capezzone

Preoccupazioni cinesi per il viaggio di Putin in Corea del Nord e Vietnam?

video a cura di Davide Martinotti

La settimana scorsa c’è stato il viaggio di Putin in Corea del Nord e in Vietnam, un viaggio piuttosto interessante visto da Pechino, dal quale potranno derivare conseguenze favorevoli ma anche sfavorevoli per la Cina. Ne parliamo in questo video!

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Attacco ai civili: bombe a grappolo USA su una spiaggia di Sebastopoli – ft. Stefano Orsi

Kiev ha attaccato con 5 missili statunitensi ATACMS: quattro sono stati colpiti dalla contraerea, uno è finito su una spiaggia di Sebastopoli, gremita di bagnanti nella prima domenica d’estate. Cinque persone sono rimaste uccise dall’esplosione della testata a grappolo, tra cui due bambini di due e nove anni; altre 150 circa sono rimaste ferite, tra cui quasi una trentina di minori. Mentre si consumava questa strage di civili, il cielo sul mar Nero era attraversato da FORTE10, nominativo di un UAV della flotta di Global Hawke RQ-4N della Northrop Grumman di stanza a Sigonella. Fino a che punto il drone spia ha coordinato l’attacco? Con Stefano Orsi approfondiamo i fatti e cerchiamo di capire quale potrebbe essere la risposta di Mosca, che ha già riconosciuto pubblicamente la responsabilità di Washington.

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Il Vietnam con Putin spezza il cuore di Biden mentre gli USA preparano la guerra dei droni alla Cina

E meno male che il Vietnam era il grande alleato regionale dell’impero contro i campioni del nuovo ordine multipolare… L’accoglienza riservata a Putin ad Hanoi distrugge il wishful thinking della narrazione imperialista e segna un passo avanti fondamentale nell’affermazione di un nuovo ordine multipolare in Asia, mentre a Washington si divertono a giocare con gli aeroplanini telecomandati.

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Putin va in Corea del Nord e Vietnam: l’Asse della resistenza alla riscossa- ft. Giulio Chinappi

Oggi i nostri Clara e Gabriele hanno intervistato Giulio Chinappi dal Vietnam per parlare dell’odierna visita di Putin in Corea del Nord e Vietnam. Il viaggio diplomatico è foriero di molti accordi: dal petrolio alle armi fino alla mutua difesa tra Russia e Corea del Nord in caso di conflitto militare. Sullo sfondo il gigante cinese e l’importanza strategica del Mar Cinese Meridionale per permettere a Pechino di aggirare un eventuale blocco navale nell’area organizzato dagli USA, con la complicità degli alleati locali (Filippine, Taiwan, Giappone e Corea del Sud). L’alternativa c’è ed esiste già: la Siberia, in cui Pechino e Mosca sono saldamente intenzionate a collaborare, e la costa siberiana che affaccia sull’Oceano Pacifico, fino alla rotta artica della Via della Seta sempre più favorita dallo scioglimento dei ghiacci. Buona visione!

#Putin #CoreadelNord #Vietnam #Asia #Cina #BRICS

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Trump non regalerà a Putin la vittoria in Ucraina – ft. Federico Petroni

La corsa alla Casa Bianca procede a colpi di tribunale, con la condanna di Hunter Biden che arriva a meno di due settimane di quella a Donald Trump. Le decisioni dei giudici quanto determineranno le decisioni degli elettori? E nel caso di una vittoria, Trump metterebbe davvero fine alla guerra in Ucraina? Cosa farà l’Ue? Ne abbiamo discusso con Federico Petroni, analista di Limes. Buona visione   

#USA #Trump #HunterBiden #Putin #Russia #Ucraina

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Ha stato Putin: la grande competizione tra i media Italiani a chi è più kazzaro

Colonna portante di Ottolina Tv e canonica compagnia mattutina della rassegna stramba del giovedì, a leggere fatti e misfatti del mainstream, c’è Clara Statello.

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