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Tag: putin

Il ritorno degli Euromissili in Germania avvicina l’armageddon nucleare

SM-6, Tomahawk, Dark Eagle, OpFires, PrSM: la lista delle nuove sigle da imparare è corposa, ma mi sa che ci toccherà cominciare a familiarizzarci un pochino. Quelli elencati sopra, infatti, sono i nomi in codice dei nuovi missili a raggio intermedio più o meno pronti a invadere la Germania e far precipitare definitivamente il vecchio continente nel conflitto aperto contro il gigante russo; lo hanno annunciato in un brevissimo comunicato congiunto i governi tedesco e statunitense mercoledì scorso, quasi come se niente fosse: “Gli Stati Uniti” si legge “inizieranno il dispiegamento episodico delle capacità di fuoco a lungo raggio della loro task force multi-dominio in Germania nel 2026, come parte della pianificazione per lo stazionamento duraturo di queste capacità in futuro. Una volta completamente sviluppate” continua la dichiarazione “queste unità convenzionali per il fuoco a lungo raggio includeranno” appunto “SM-6, Tomahawk e armi ipersoniche in via di sviluppo, che hanno una portata significativamente più lunga rispetto agli altri sistemi d’arma lanciati da terra attualmente presenti in Europa. L’esercizio di queste capacità” conclude la dichiarazione “dimostrerà l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della NATO e il suo contributo alla deterrenza integrata europea”. Insomma: bentornati Euromissili.

Sergey Ryabkov

A 5 anni dall’uscita unilaterale degli USA dal Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF per gli amici) che nel 1987 aveva messo fine a quella che probabilmente è stata la più pericolosa corsa al riarmo dell’intera storia dell’umanità, la guerra per procura provocata dagli USA in Ucraina contro la sicurezza nazionale russa e ogni velleità sovranista del vecchio continente fornisce la scusa perfetta per trasformarci, di nuovo, nell’avamposto della guerra imperialista contro ogni tentativo di emancipazione dei popoli dalla dittatura delle oligarchie finanziarie transnazionali: “Questa” ha commentato il viceministro degli esteri russo Sergey Ryabkov “è l’ennesima prova tangibile della politica di destabilizzazione intrapresa dagli USA nell’era post Trattato INF”; “Dopo che Washington ha deliberatamente distrutto il Trattato INF” ha ribadito Ryabkov “gli americani hanno chiaramente dichiarato la loro intenzione di posizionare armi precedentemente proibite dal trattato in diverse regioni del mondo. E con il sostegno incondizionato dei loro alleati, ora passano alla fase attiva dei loro piani”. Ryabkov ha poi sottolineato come, ovviamente, “Le azioni degli Stati Uniti e dei loro satelliti che creano ulteriori minacce missilistiche alla Russia non rimarranno senza la dovuta risposta da parte nostra” e ha ricordato come Putin abbia già parlato apertamente della necessità di “riconsiderare la moratoria unilaterale della Russia sullo schieramento di missili terrestri a raggio intermedio” che impegnava la Russia, almeno formalmente, a continuare a rispettare i parametri del trattato: “Le agenzie russe” ha continuato Ryabkov, sono state costrette ora a avviare “il lavoro sullo sviluppo di contromisure compensative, e continueranno questo lavoro in modo sistematico”; “La dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Germania” ha insisstito Ryabkov “avrà conseguenze distruttive per la sicurezza regionale e la stabilità strategica”, “ma purtroppo” ha concluso, era tutto ampiamente “previsto”. Per chi ancora si illude che il sempre più probabile cambio di guardia alla Casa Bianca il prossimo novembre potrebbe rappresentare una svolta nell’escalation bellicista di Washington e dei suoi vassalli, è bene ricordare che il ritiro unilaterale degli USA dal Trattato INF è stata proprio una scelta della prima amministrazione Trump; l’esigenza strutturale delle oligarchie USA di dichiarare guerra a chiunque anche solo accenni ad avanzare critiche alla dittatura globale del dollaro, delle differenze di narrazione utilizzate dalle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari, molto banalmente, se ne sbatte completamente i coglioni e continua a procedere con il pilota automatico qualunque sia il pupazzo temporaneamente elevato al ruolo di commander in chief.
Il ritorno ai missili a medio-lungo raggio precedentemente proibiti dal trattato stracciato da The Donald ha già un precedente: nell’aprile scorso, infatti, per la prima volta l’esercito statunitense aveva inviato all’estero elementi del suo nuovissimo sistema missilistico terrestre noto col nome di Typhon, in grado – appunto – di lanciare sia missili da crociera Tomahawk che missili multiuso SM-6; la destinazione, manco a dirlo, era stata The next Ukraine, la prossima Ucraina dell’Asia-Pacifico, la non tanto ex colonia USA delle Filippine. “L’arrivo di Typhoncommentava il 15 aprile The War Zone “invia un segnale forte a Pechino e in tutta la regione”; la corsa a riempire nuovamente il globo di sistemi d’attacco a medio e lungo raggio in grado di minacciare gli obiettivi sensibili delle grandi potenze ribelli del pianeta è talmente strategica che ha imposto una riorganizzazione complessiva delle forze armate USA, sintetizzata in un libro bianco pubblicato lo scorso 28 febbraio: al primo punto del piano c’è il completamento della creazione di 5 task force multi-dominio che dovranno includere unità di difesa aerea e missilistica nonché, appunto, “unità dotate di nuovi sistemi missilistici a lungo raggio, compresi quelli ipersonici”. “Per quasi vent’anni” sottolinea il libro bianco “la struttura delle forze dell’Esercito ha rispecchiato l’attenzione alle operazioni di contro-insurrezione e antiterrorismo che hanno dominato dopo gli attacchi dell’11 settembre… Ma alla luce del cambiamento del contesto di sicurezza e dell’evoluzione del carattere della guerra, l’Esercito si sta concentrando nuovamente sulla conduzione di operazioni di combattimento su larga scala contro potenze militari tecnologicamente avanzate”: il sistema Typhon inviato nelle Filippine è stato esattamente assegnato alla prima di queste task force; l’arrivo anche nel cuore del vecchio continente era, ovviamente, esclusivamente questione di tempo. Nel novembre del 2021 infatti, ben prima della fantomatica invasione dell’Ucraina da parte del plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino, l’esercito americano in Germania aveva ufficialmente riavviato il famigerato 56esimo comando di artiglieria; come ricostruisce The War Zone, si tratta dell’unità che, tra il 1963 e il 1991, aveva il mandato di comandare battaglioni armati con missili balistici con testate nucleari Pershing e Pershing II: L’esercito rilancia l’unità missilistica nucleare della Guerra Fredda per schierare nuove armi a lungo raggio in Europa, titolava allora la testata.

La base del comando ha il suo centro operativo a Mainz-Kastel, il castello di Magonza, dove appunto sta prendendo forma anche la seconda divisione multi-dominio dell’esercito e sin da subito è stato chiaro che, oltre ai sistemi Typhon, l’obiettivo era equipaggiarli con il Precision Strike Missile, l’ultimo arrivato della famiglia dei missili balistici e, soprattutto, con il Dark Eagle, l’arma ipersonica a lungo raggio che l’esercito sta sviluppando come parte di un programma congiunto con la marina americana; secondo The War Zone “La Dark Eagle dovrebbe essere in grado di colpire obiettivi ad almeno 1.725 miglia di distanza” che percorrerebbe “lungo una traiettoria di volo atmosferica, ad una velocità fino a Mach 17”. E la Germania è solo la punta dell’iceberg: tra i vari eventi secondari tenutesi durante l’ultimo Summit NATO, particolare rilevanza – anche se non da parte dei media mainstream – ha avuto il quadrilaterale tra Francia, Germania, Italia e Polonia durante il quale è stata firmata una lettera di intenti per lo sviluppo dell’ELSA, lo European Long Range Strike Approach, la risposta tutta europea al ritorno – appunto – al dispiegamento di missili a lungo raggio che mira a “sviluppare, produrre e fornire capacità nell’area degli attacchi a lungo raggio, che sono estremamente necessarie per scoraggiare e difendere il nostro continente”, come recita il thread su X pubblicato per l’occasione dall’ambasciata francese negli USA. Insomma: finalmente l’era post Trattato INF, inaugurata dal compagno Trump ben prima che la guerra per procura in Ucraina deflagrasse definitivamente, si sta concretizzando in una corsa al riarmo missilistico generalizzato nel vecchio continente e ora, come sottolinea The War Zone, rimane solo da attendere “di vedere esattamente che tipo di risposta arriverà dalla Russia”. A lanciare l’allarme, sempre interrogato da The War Zone, ci pensa Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project presso il think tank della FAS, la federazione degli scienziati americani, che sottolinea come “è inevitabile che la Russia reagisca con annunci sui propri missili a lungo raggio, compresi missili potenzialmente balistici”; l’idea, infatti, è che la reazione russa non preveda solo l’installazione di nuovi sistemi d’arma in grado di raggiungere i punti sensibili di tutto il vecchio continente, ma anche direttamente “obiettivi simili negli Stati Uniti” e “in questo caso, l’arma preferita sarebbero probabilmente i missili balistici intercontinentali con testate nucleari, potenzialmente multiple”: come sottolinea sul suo profilo X l’analista militare filo-atlantista Pavel Podvig “Se vi piacevano gli SS-20, amerete gli RS-26”.
Gli SS-20, appunto, sono i missili balistici sovietici a raggio intermedio che rappresentavano il cuore della deterrenza nucleare durante la Guerra Fredda, prima dell’entrata in vigore del Trattato INF che aveva acceso una luce di speranza decretandone la distruzione; l’RS-26, invece, è sostanzialmente il suo erede diretto: come ricorda sempre The War Zone “Il recente status dell’RS-26 è piuttosto poco chiaro, con rapporti risalenti al 2018 secondo i quali il programma sarebbe stato sospeso a favore di altre armi strategiche, comprese quelle ipersoniche”, ma “i recenti sviluppi potrebbero portare a un ripensamento”. “Un’arma del genere” conclude The War Zone “reintrodurrebbe nel teatro europeo una dinamica ben nota, con un missile balistico russo con capacità nucleare, la cui gittata è ottimizzata per colpire le capitali dell’Europa occidentale e obiettivi militari chiave. In questo modo, l’RS-26 potrebbe diventare un analogo dell’SS-20 e potrebbe avere lo stesso impatto sulla situazione di sicurezza strategica del continente”. E se questo bel quadretto non vi basta, eccovi la ciliegina: Robert C. O’Brien è stato uno dei più ascoltati consiglieri per la sicurezza nazionale della seconda parte dell’amministrazione Trump e tra gli architetti del ritiro unilaterale dal Trattato INF e dalle pagine di Foreign Affairs fa una proposta inquietante; “Si vis pacem, para bellum” – se vuoi la pace, preparati alla guerra – rilancia nell’incipit dell’articolo e, per prepararsi alla guerra, suggerisce che “Gli Stati Uniti devono mantenere la superiorità tecnica e numerica rispetto agli arsenali nucleari cinesi e russi combinati” e “per fare ciò, Washington deve testare l’affidabilità e la sicurezza delle nuove armi nucleari nel mondo reale per la prima volta dal 1992, non solo utilizzando modelli computerizzati”. “Un’idea terribile” ha commentato sul New York Times Ernest Moniz, che da segretario per l’energia durante l’amministrazione Obama aveva l’incarico di supervisionare l’arsenale nucleare a stelle e strisce: “Nuovi test ci renderebbero meno sicuri” avrebbe affermato, perché “Non possono essere separati dalle ripercussioni globali”; “Una detonazione statunitense” ricorda il Times “violerebbe il Trattato sul divieto totale degli esperimenti nucleari, a lungo considerato una delle misure di controllo degli armamenti di maggior successo. Firmato dalle potenze atomiche del mondo nel 1996, mirava a frenare una costosa corsa agli armamenti che era andata fuori controllo”.
Negli ultimi mesi mi sono scontrato spesso con persone che sostenevano che la certezza della mutua distruzione in caso di escalation nucleare continuava ad essere un deterrente sufficientemente potente da tenerci al sicuro; sarò catastrofista, ma mi sembra una gigantesca puttanata, il classico bias che ci impedisce di ragionare razionalmente su scenari eccessivamente catastrofici. Al contrario, a me sembra palese che, giorno dopo giorno, la necessità dell’impero fondato sul dollaro e sullo schema Ponzi della finanza speculativa di arrestare la transizione a un nuovo ordine multipolare renda verosimili anche gli scenari più catastrofici; se volete approfondire le ragioni profonde che ci hanno portato a questa lettura della fase che stiamo attraversando, abbiamo provato a ricostruirle in questo breve pamphlet che riassume oltre due anni del nostro sforzo quotidiano per orientarci tra – come dice sempre Xi Jinping – “trasformazioni che non vedevamo da 100 anni”. Secondo la nostra analisi, in realtà, l’unico modo per mettere al sicuro la sopravvivenza della nostra specie è cacciare a pedate (una volta per tutte) dai posti di comando tutti i fedeli servitori del partito unico della guerra e degli affari e, per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un vero e proprio media che smonti la retorica suprematista e guerrafondaia delle oligarchie e dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Daniele Capezzone

Preoccupazioni cinesi per il viaggio di Putin in Corea del Nord e Vietnam?

video a cura di Davide Martinotti

La settimana scorsa c’è stato il viaggio di Putin in Corea del Nord e in Vietnam, un viaggio piuttosto interessante visto da Pechino, dal quale potranno derivare conseguenze favorevoli ma anche sfavorevoli per la Cina. Ne parliamo in questo video!

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Attacco ai civili: bombe a grappolo USA su una spiaggia di Sebastopoli – ft. Stefano Orsi

Kiev ha attaccato con 5 missili statunitensi ATACMS: quattro sono stati colpiti dalla contraerea, uno è finito su una spiaggia di Sebastopoli, gremita di bagnanti nella prima domenica d’estate. Cinque persone sono rimaste uccise dall’esplosione della testata a grappolo, tra cui due bambini di due e nove anni; altre 150 circa sono rimaste ferite, tra cui quasi una trentina di minori. Mentre si consumava questa strage di civili, il cielo sul mar Nero era attraversato da FORTE10, nominativo di un UAV della flotta di Global Hawke RQ-4N della Northrop Grumman di stanza a Sigonella. Fino a che punto il drone spia ha coordinato l’attacco? Con Stefano Orsi approfondiamo i fatti e cerchiamo di capire quale potrebbe essere la risposta di Mosca, che ha già riconosciuto pubblicamente la responsabilità di Washington.

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Il Vietnam con Putin spezza il cuore di Biden mentre gli USA preparano la guerra dei droni alla Cina

E meno male che il Vietnam era il grande alleato regionale dell’impero contro i campioni del nuovo ordine multipolare… L’accoglienza riservata a Putin ad Hanoi distrugge il wishful thinking della narrazione imperialista e segna un passo avanti fondamentale nell’affermazione di un nuovo ordine multipolare in Asia, mentre a Washington si divertono a giocare con gli aeroplanini telecomandati.

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Putin va in Corea del Nord e Vietnam: l’Asse della resistenza alla riscossa- ft. Giulio Chinappi

Oggi i nostri Clara e Gabriele hanno intervistato Giulio Chinappi dal Vietnam per parlare dell’odierna visita di Putin in Corea del Nord e Vietnam. Il viaggio diplomatico è foriero di molti accordi: dal petrolio alle armi fino alla mutua difesa tra Russia e Corea del Nord in caso di conflitto militare. Sullo sfondo il gigante cinese e l’importanza strategica del Mar Cinese Meridionale per permettere a Pechino di aggirare un eventuale blocco navale nell’area organizzato dagli USA, con la complicità degli alleati locali (Filippine, Taiwan, Giappone e Corea del Sud). L’alternativa c’è ed esiste già: la Siberia, in cui Pechino e Mosca sono saldamente intenzionate a collaborare, e la costa siberiana che affaccia sull’Oceano Pacifico, fino alla rotta artica della Via della Seta sempre più favorita dallo scioglimento dei ghiacci. Buona visione!

#Putin #CoreadelNord #Vietnam #Asia #Cina #BRICS

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Trump non regalerà a Putin la vittoria in Ucraina – ft. Federico Petroni

La corsa alla Casa Bianca procede a colpi di tribunale, con la condanna di Hunter Biden che arriva a meno di due settimane di quella a Donald Trump. Le decisioni dei giudici quanto determineranno le decisioni degli elettori? E nel caso di una vittoria, Trump metterebbe davvero fine alla guerra in Ucraina? Cosa farà l’Ue? Ne abbiamo discusso con Federico Petroni, analista di Limes. Buona visione   

#USA #Trump #HunterBiden #Putin #Russia #Ucraina

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Ha stato Putin: la grande competizione tra i media Italiani a chi è più kazzaro

Colonna portante di Ottolina Tv e canonica compagnia mattutina della rassegna stramba del giovedì, a leggere fatti e misfatti del mainstream, c’è Clara Statello.

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“Confiscate i beni russi per finanziare Zelenskij!!!” – L’ordine di Washington che inginocchia l’Ue

Confiscate tutti i beni russi e utilizzateli per finanziare l’esercito ucraino: sarebbe questo il folle ordine arrivato da Washington ai paesi europei nelle scorse settimane e che, invece di essere immediatamente rispedito al mittente senza lasciare scampo ad equivoci, i leader vassalli e traditori delle nazioni del vecchio continente stanno davvero prendendo in considerazione; e durante il prossimo G7 di giugno in Italia dovranno decidere come muoversi. Dalla prospettiva americana, la confisca dei beni da parte delle autorità europee sancirebbe l’unica vera grande vittoria strategica dall’inizio del conflitto in Ucraina, spendibile dall’attuale amministrazione anche in funzione elettorale: la definitiva e, forse, irrecuperabile rottura dei rapporti tra Europa e Russia su tutti i fronti, con annesso impoverimento del nostro continente. Ma andiamo con ordine: qualche settimana fa, il Congresso degli Stati Uniti ha adottato una legge che autorizza la confisca e il reindirizzamento degli asset dello Stato russo a vantaggio del governo ucraino; i fondi depositati negli USA dovranno essere prelevati non oltre 180 giorni dalla firma del provvedimento da parte di Biden, dunque prima del 5 novembre prossimo, il giorno delle elezioni americane. “La legge” come scrive giustamente il professore di economia Vladislav Inozemstev su Il Sole 24 Ore “scuote le basi delle relazioni economiche internazionali: nessun governo si è mai impadronito delle risorse di un altro Paese con cui non si trovi in guerra.”
Ma il vero problema, in realtà, è ancora un altro e, cioè, che dei circa 300 miliardi delle riserve della Banca centrale russa bloccate in Occidente, solo l’1 per si trova negli Stati Uniti; tutti gli altri, invece, sono depositati presso la belga Euroclear dato che, per ironia della sorte, i russi si sentivano più tutelati a tenerli da noi piuttosto che in America proprio rispetto all’eventualità di possibili confische e sequestri. Inutile dire che se passasse la linea americana e quei beni venissero veramente confiscati e reindirizzati in missili e carri armati per l’esercito ucraino, oltre a violare qualunque regola base del diritto internazionale che tutela l’immunità sovrana dei beni di uno Stato, questa decisione creerebbe un gravissimo precedente che, di fatto, sputtanerebbe per sempre le istituzioni politiche e finanziarie europee facendoci perdere definitivamente qualsiasi credibilità e affidabilità di fronte al mondo intero; qualunque altro paese al mondo, infatti, saprebbe che eventuali riserve straniere depositate in Europa sono costantemente a rischio: basta non adeguarsi sistematicamente all’agenda geopolitica USA ed ecco fatto. E questo, in primis, creerebbe un problema con la Cina. Per queste ragioni, la BCE i governi europei si sono dimostrati, ad oggi, restii a compiere questo passo e sinora è passata una linea molto più morbida: il sequestro dei soli interessi che maturano su questi asset – circa 3 miliardi di euro l’anno – che verranno destinati all’Ucraina, ma che non sono certo in grado di cambiare le sorti del conflitto. Anche Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, ha affermato che, ad oggi, non ci son le condizioni per la confisca in quanto questo “scardinerebbe lo stato di diritto con conseguenze imprevedibili” e, rivolgendosi agli USA, ha aggiunto che loro “dall’alto del ruolo del dollaro come moneta dominante negli scambi mondiali potrebbero anche permettersi di violare le regole, cosa ben più difficile per l’Europa”. Tutto risolto allora? Neanche per sogno, perché le pressioni nordamericane stanno continuando e gli stati europei, in passato, si sono sempre mostrati disponibili al suicidio dei propri interessi quando si trattava di soddisfare le mire politiche del centro dell’impero.
Negli scorsi giorni, in preparazione del vertice del G7 di giugno (durante il quale la cosa verrà probabilmente definita in un senso o nell’altro) si sono incontrati il ministro Giorgetti e la segretaria al Tesoro USA Janet Yellen e, alla fine dell’incontro, Giorgetti ha rilasciato dichiarazioni che fanno – al tempo stesso – ben sperare Washington e disperare i noi europei: “Io devo essere ottimista” ha detto il ministro leghista; “è una questione complicata, dobbiamo trovare una solida base legale. Ma sono sicuro che saremo in grado di fare dei progressi”. Staremo a vedere. Nel frattempo, il presidente russo Vladimir Putin ha firmato un decreto nel quale si sancisce che le aziende russe, la Banca Centrale e le singole persone colpite dalla confisca possono rivolgersi ai tribunali russi per dichiarare ingiustificato il sequestro dei loro beni negli USA e, se il tribunale è d’accordo, una commissione governativa offrirà asset in compensazione che potrebbero includere proprietà di cittadini o società USA in Russia, nonché titoli e azioni in società russe; ma la cosa più importante, come vedremo in questa puntata, è che tutto questo si inserisce in un contesto di sempre maggiore ostilità occidentale nei confronti della Russia, proprio in un momento in cui Putin ha più volte pubblicamente dichiarato di essere disposto a sedersi al tavolo con l’Ucraina per riprendere le trattative sulla base degli accordi di Istanbul.
La rottura dei rapporti politici ed economici tra Russia ed Europa è l’unico grande obiettivo strategico raggiunto dagli Stati Uniti dall’inizio del conflitto in Ucraina e il prolungarsi il più possibile della guerra è la condizione necessaria per consolidare questa rottura a lungo termine. È anche soprattutto per questo che nonostante Putin sia tornato a parlare pubblicamente di trattative e tavoli negoziali, partendo dalla bozza di accordo di Istanbul del marzo 2022 (accordo a cui abbiamo dedicato un video), i nordamericani non sembrano volerne sapere della pace, anzi! Europei e russi, dalla prospettiva di Biden, non dovranno mai più tornare a parlarsi e dovranno, anzi, vivere in un perenne stato di conflitto e di guerra che giustifichi una nuova corsa agli armamenti e la presenza sine die delle truppe di occupazione americana sul nostro continente; e quindi, noncuranti delle continue sconfitte ucraine sul campo di battaglia, da una parte gli USA hanno lanciato un nuovo pacchetto di aiuti militari a Kiev di 60 miliardi di dollari promettendole di sostenerla fino alla vittoria e, dall’altra, vogliono costringerci a fare altrettanto confiscando i beni russi congelati in Europa per trasformarli in aiuti militari per Zelenskij. Rilancio, rilancio, rilancio. Escalation, escalation, escalation: queste le parole d’ordine che continuano ad arrivare anche dalla stampa di regime, pronta a qualsiasi manipolazione della realtà e al sacrificio di nuove centinaia di migliaia di giovani ragazzi ucraini pur di mettersi sull’attenti e non scontentare il padrone.

Andriy P. Zagorodnyuk

Davvero emblematico, in questo senso, è il delirante articolo uscito ieri su Foreign Affairs dal titolo Una teoria della vittoria per l’Ucraina; gli autori dell’articolo Andriy P. Zagorodnyuk, membro del Center of defense strategy ed ex ministro della difesa ucraino dal 2018 al 2020, ed Eliot Cohen, membro del Center of international studies, hanno prodotto forse una delle migliori prove di spudorata – e, quindi, involontariamente comica – propaganda di guerra dall’inizio del conflitto: la tesi dei due lucidi analisti è che, fino a questo momento, l’unico vero grande problema dell’Ucraina e dell’Occidente in questo conflitto è stata la paura della vittoria. Forse nessuno ci aveva ancora pensato, ma “Per raggiungere la vittoria, basta smettere di temerla” si legge impressionati nell’articolo. La tesi dei due autori è sorprendente: “Al momento, i subordinati di Putin credono che la guerra sia vincibile. Solo rompendo questa convinzione attraverso le sconfitte russe, l’Ucraina e l’Occidente potranno aprire la porta al ritiro o all’eventuale rovesciamento di Putin.” Aspetta, aspetta, aspetta: quindi, praticamente, solo se l’Ucraina riuscirà a vincere allora la Russia potrà perdere? Pare di sì. Ma per raggiungere questo obiettivo, sostengono decisi Cohen e Zagorodnyuk, è finalmente arrivato il momento di elaborare una seria teoria della vittoria: “Gli Stati Uniti” si legge “non hanno mai pianificato il loro sostegno a Kiev al di là di qualche mese alla volta. […] Si è concentrata su manovre a breve termine, come la tanto attesa controffensiva del 2023, piuttosto che su strategie o obiettivi validi a lungo termine, tra cui un potenziale trionfo sulla Russia.” Ma adesso basta! “È ora che le cose cambino”: “L’Occidente deve infatti dichiarare esplicitamente che il suo obiettivo è una vittoria decisiva dell’Ucraina e una sconfitta della Russia, e deve impegnarsi a fornire a Kiev aiuti militari diretti e a sostenere la fiorente industria della difesa del Paese.” Basta tentennamenti! E “Le forze ucraine, nel frattempo, devono lavorare per avanzare fino a espellere le forze russe da tutto il territorio occupato, compresa la Crimea. Mentre l’Ucraina progredisce verso questo obiettivo, alla fine diventerà chiaro ai cittadini russi che stanno perdendo non solo terreno in Ucraina, ma anche vaste risorse umane ed economiche e le loro future prospettive di prosperità e stabilità”; “A quel punto” scrivono a conclusione di questo inattaccabile ragionamento “il regime del presidente russo Vladimir Putin potrebbe subire notevoli pressioni, sia dall’interno che dall’esterno, per porre fine alla guerra a condizioni favorevoli all’Ucraina.” E dimostrando di padroneggiare con grazia e maestria la nobile arte dell’argomentazione, Cohen e Zagorodnyuk anticipano anche le possibili obiezioni alle loro tesi: “Minacciare il controllo russo della Crimea – e infliggere gravi danni alla sua economia e alla sua società – sarà ovviamente difficile. Ma è sicuramente una strategia più realistica dell’alternativa proposta: un accordo di negoziato mentre Putin è in carica.”
Insomma, finitela con questa storia del negoziato! Anche perché, come tutti sanno – e come solo i nostri traditori filoputiniani occidentali cercano vergognosamente di nascondere, magari virando l’attenzione della stampa su Netanyahu – è Putin che sta commettendo un genocidio: “Nessuna pace sostenibile e a lungo termine può emergere dai negoziati con un aggressore che ha intenzioni genocide.” Non resta quindi che la vittoria: “L’Ucraina e l’Occidente devono vincere o affrontare conseguenze devastanti” anche perché, come appare sempre più chiaro a tutte le persone di buon senso che si oppongono al genocidio ucraino, “La Russia sta già minacciando altri suoi vicini, compresi gli Stati della NATO, e potrebbe fare una mossa se riuscisse a sottomettere prima l’Ucraina.” Siamo i prossimi. E, per chi avesse dei dubbi in proposito, basta ascoltare le fonti autorevoli: “Alti dirigenti militari e funzionari dell’intelligence dei Paesi europei stanno lanciando l’allarme su questa prospettiva.” Infine, come se non bastasse, “Una vittoria russa alimenterebbe anche le ambizioni territoriali della Cina nell’Indo-Pacifico, poiché rivelerebbe i limiti dell’impegno dell’Occidente a salvaguardare la sovranità dei suoi partner. Il conflitto russo-ucraino non si svolge nel vuoto. Un esito negativo si farebbe sentire in tutto il mondo.” Ma forse in tutto l’universo. Insomma: per chi fosse stato forse fin qui un po’ distratto, è il caso di ribadirlo: “Il fatto che l’Ucraina e i suoi partner non abbiano una strategia per la vittoria, a tre anni dall’inizio della guerra, è un problema serio. L’Ucraina può ottenere così solo successi locali, ma non una sconfitta completa del nemico”. Fratelli occidentali, basta vincere localmente! E sembra, qui, quasi di sentirla la voce dei due analisti: le vostre paure sono tutte nella vostra testa, e dipende solo dalla vostra convinzione e forza di volontà sconfiggere definitivamente il nemico. “Non bisogna avere paura!” – è questa la buona novella che Cohen e Zagorodnyiuk sembrano volere portare in tutto il mondo, anche perché il nemico è molto più debole di quello che sembra: “La dottrina di Mosca per la guerra terrestre è ancora poco sofisticata. Si basa sull’utilizzo di piccoli gruppi di fanteria con il supporto di alcuni veicoli blindati per attaccare vari punti di una linea del fronte che si estende per oltre 1.000 miglia. Queste tattiche hanno permesso a Mosca di ottenere limitati guadagni territoriali, ma solo dopo aver perso enormi quantità di truppe e armi.” Visto? Basterebbe pochissimo: “Se l’Ucraina riesce ad aumentare la precisione dei colpi dell’artiglieria a lungo raggio, può ribaltare l’aritmetica della guerra contro la Russia e imporre a Mosca un tasso di logoramento inaccettabile”; “e a quel punto” concludono i due, estasiati come se già potessero toccare quasi con mano le feste e i canti di vittoria delle truppe occidentali dirette verso Mosca, “la Russia non sarà in grado di sostituire la sua forza lavoro e i suoi materiali abbastanza velocemente. L’economia del Paese semplicemente non sarà in grado di sostenere questa guerra di fronte alle continue perdite.” Ovviamente – e questo è forse il nocciolo della questione ed anche il vero motivo per il quale questo articolo è stato scritto – la Russia perderà ancora più velocemente di quanto già non stia facendo “se gli Stati Uniti permetteranno all’Ucraina di colpire obiettivi legittimi all’interno della Russia utilizzando le sue armi.”
Insomma: è già l’ora di dare un occhio al calendario e fare due conti. “Il processo di ammorbidimento delle posizioni russe e di indebolimento della determinazione russa durerà probabilmente circa un anno, dopo il quale l’Ucraina dovrebbe recuperare l’iniziativa. Se questo assalto avrà successo, il regime di Putin potrebbe affrontare una crisi causata da pesanti perdite e fallimenti sul campo di battaglia. Il sistema politico russo, del resto, sta già mostrando delle crepe. Se l’Ucraina avanza fino a un punto in cui la Russia non può più mantenere le sue conquiste, Putin si troverà in guai seri”; naturalmente, ma forse è anche un po’ inutile sottolinearlo, “Il successo dell’Ucraina su terra, aria e mare deve essere accompagnato da un’ampia pressione sul fronte economico.”

Eliot Cohen

Ci hanno beccato: tra la pace e il condizionatore acceso, gli europei hanno finora fatto i furbi e scelto il condizionatore acceso. Adesso, però, è arrivato il momento di prenderci le nostre responsabilità: “Gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero introdurre una campagna di sanzioni molto più aggressiva, che includa sanzioni secondarie su qualsiasi azienda che operi in Russia. I russi devono vedere la loro ricchezza nazionale dissiparsi e la loro economia andare incontro a un arresto permanente, perché le conseguenze dell’invasione di Putin si facciano sentire.” E infine, sembrano dichiarare Cohen e Zagorodonyiuk un pò indignati, è arrivato il momento di dire basta a questa stampa ambigua che sembra dare voce un po’ a tutti; in momenti di crisi e di sofferenza, anche i giornalisti e i mezzi di informazione devono fare la loro parte: “L’Occidente deve anche organizzare una campagna di informazione aggressiva – paragonabile a quella condotta contro la Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale o contro l’Unione Sovietica durante l’apice della Guerra Fredda – per intensificare le divisioni sulla percezione della guerra all’interno e all’esterno della Russia. I russi hanno accettato la guerra passivamente: occorre ricordare loro, attraverso una serie di tecniche che includono la propaganda sia palese che occulta, i suoi intollerabili costi umani e sociali.” Se lo sono giurati l’un altro: questa sarà, quindi, l’ultima volta che i due autori scrivono articolo per puro amore della verità; da oggi in poi, infatti, dobbiamo tutti rinunciare a qualcosa e anche i seri analisti mettersi a servizio delle democrazie e dei valori occidentali. E per concludere, da Kiev, passando per Atene, Roma, Londra, Madrid e Washington, lo sappiamo che vi state controllando – affermano i due autori – e comprendiamo perché avete paura di sprigionare tutta la vostra forza: voi avete paura per “l’autodistruzione di Putin e del suo apparato di controllo”, ma non temete; “non è compito dell’Occidente salvare un regime criminale dal crollo. La Russia di oggi è uno Stato che commette abitualmente omicidi di massa, torture e stupri; conduce operazioni di sabotaggio e uccisioni sul territorio della NATO; porta avanti campagne di disinformazione e interferenza politica. Si è dichiarato ostile all’Occidente non per quello che l’Occidente ha fatto, ma per quello che è. In altre parole, il regime di Putin ha lasciato da tempo la comunità delle nazioni civilizzate. L’unica possibilità che la Russia ha di tornare alla normalità è la sconfitta, che stroncherà le ambizioni imperiali di Putin e permetterà al Paese di rivalutare sobriamente il proprio percorso e di rientrare infine nella società delle nazioni civilizzate.”
Che dire… Tutti i popoli della terra dovrebbero essere per sempre grati a Cohen e Zagorodoniuk per questo articolo che è, al tempo stesso, un necessario bagno di realtà e un invito a superare tutte le nostre più intime paure. Anche noi di Ottolina Tv, nel nostro piccolo, cerchiamo sempre di fare altrettanto. E se anche te non fa più paura il regime USA, le sue oligarchie e i suoi pennivendoli da quattro soldi perché hai capito che tanto, prima o poi, la verità viene a galla e che, in fondo, non abbiamo nulla da perdere, aiutaci a costruire un media veramente libero e indipendente che sia di esempio a tutti gli altri e che contribuisca a creare un mondo migliore in cui articoli come quelli di Cohen e Zagorodoniuk non verranno mai più pubblicati. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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l’Amicizia Senza Limiti tra Putin e Xi costringe Rimbambiden a rinunciare all’egemonia USA

Di fronte alla debacle ucraina, gli USA da mesi stanno cercando di minacciare la Cina con ogni mezzo possibile immaginabile per indurla a ripensare alla sua amicizia senza limiti con Mosca e l’amministrazione Putin: hanno lavorato per mesi al rafforzamento delle alleanze nel Pacifico come forma di deterrenza geopolitica ed economica, hanno rafforzato le sanzioni e ora hanno annunciato una delle più imponenti svolte protezionistiche degli ultimi decenni. Insomma: hanno sostanzialmente messo fine alla retorica che ha accompagnato la globalizzazione neoliberista, sancendo così il collasso dell’ordine economico mondiale sul quale avevano fondato la loro egemonia senza però riuscire a scalfire minimamente l’asse sino-russo che, in mondovisione, continua a ribadire che stiamo attraversando cambiamenti di dimensioni mai viste negli ultimi 100 anni e che Cina e Russia sono determinate a guidarle. Ne abbiamo parlato in questa lunga puntata di MondoCina con Francesco Maringiò di Marx21 e Davide Martinotti di Dazibao.

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L’Occidente in preda al panico di fronte all'”amicizia senza limiti” tra Xi e Putin

Fra una notizia e una dritta sul cavallo migliore del giorno, torna l’appuntamento del venerdì con il formidabile, imprevedibile ed inossidabile Nencio.

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L’asse Russia – Cina per la costruzione di Stati sovrani e indipendenti fa tremare l’imperialismo

Non ha manco finito di mettere in piedi il nuovo governo che ecco che Putin è già in visita a Pechino! D’altronde, che la prima visita ufficiale di Stato dopo una rielezione veda coinvolti i due paesi è ormai un’usanza da oltre 10 anni, da quando cioè Xi, nel 2013, inaugurò la sua presidenza con una visita a Mosca che vide i due leader intrattenersi in un faccia a faccia a porte chiuse durato la bellezza di 5 ore. Ora Putin non vuole certo essere da meno e in una lunga intervista pubblicata dall’agenzia cinese Xinhua – “una delle più importanti e affidabili al mondo” secondo le parole dello stesso Putin – il 5 volte presidente della Russia prova a delineare le direttrici fondamentali di questa amicizia senza limiti tra i due paesi, come viene definita nelle comunicazioni diplomatiche ufficiali. In questa fase di feroce revisionismo storico dove, piano piano, si fa spazio la narrazione che in realtà la seconda guerra mondiale è stata la guerra del mondo libero contro i due totalitarismi alleati tra loro, Putin decide di partire proprio dalla grande alleanza anticoloniale e antinazifascista tra Cina e Unione Sovietica cementata in quegli anni: “I nostri popoli” sottolinea Putin “sono legati da una lunga e forte tradizione di amicizia e cooperazione”; “Durante la seconda guerra mondiale” sottolinea “soldati sovietici e cinesi si opposero insieme al militarismo giapponese e noi oggi ricordiamo e celebriamo il contributo che il popolo cinese ha dato alla vittoria comune, perché fu la Cina a trattenere le principali forze militariste giapponesi, consentendo all’Unione Sovietica di concentrarsi sulla sconfitta del nazismo in Europa”. Ora gli eredi dei nazifascisti in Europa e in Giappone sono impegnati a terminare l’opera interrotta dalla gloriosa resistenza di cinesi e russi, come braccio armato dell’impero. Putin ricorda anche come l’URSS fu, in assoluto, il primo paese al mondo a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese nata dalla guerra anticoloniale; ricorda anche che, in questi tre quarti di secolo, il rapporto tra i due paesi ha attraversato momenti decisamente difficili, ma sottolinea come tutto questo sia servito da insegnamento e come oggi entrambi i Paesi siano pienamente consapevoli che “La sinergia di forze complementari fornisce un potente impulso per uno sviluppo rapido e globale”.
La complementarietà delle economie russe e cinesi, a questo stadio di sviluppo, è piuttosto palese: da una parte il paese più ricco di materie prime al mondo e, dall’altro, l’unica vera grande superpotenza manifatturiera globale che produce, da sola, circa un terzo di tutto quello che viene prodotto oggi in tutto il pianeta e che di quelle stesse materie prime ha una sete inesauribile; attenzione però, perché – ovviamente – questa complementarietà è anche il prodotto di uno squilibrio. Un’economia fondata sull’estrazione delle materie prime si colloca strutturalmente a uno stadio di sviluppo inferiore rispetto a un’economia trasformatrice e, se il rapporto fosse fondato esclusivamente sull’evoluzione spontanea delle dinamiche capitalistiche, con l’approfondirsi dell’integrazione economica questo squilibrio, nel tempo, necessariamente non farebbe che accentuarsi: la ragione è molto semplice e consiste nel fatto che nel capitalismo il più forte vince sempre e cannibalizza il più debole; quindi in regime di libero scambio puro, senza l’intervento di quelli che vengono definiti fattori esogeni (e quindi, in soldoni, della politica e dello Stato), quando due economie che hanno – in virtù delle dimensioni delle rispettive manifatture – due livelli di produttività così lontani come quella cinese e quella russa aumentano il livello di integrazione, alla fine del giro quella che è partita avvantaggiata non farà altro che aumentare il suo vantaggio sempre di più. Che è esattamente il motivo per cui nel mondo, anche dopo i processi di decolonizzazione (e, quindi, una volta terminata la sottomissione di un paese ad un altro tramite l’esercizio della forza bruta), invece di emanciparsi dai rapporti di dipendenza, i paesi sottosviluppati hanno spesso ulteriormente aggravato la loro subordinazione, in particolare laddove alla lotta di liberazione non ha fatto seguito la costruzione di uno Stato sovrano minimamente funzionante in grado, appunto, di intervenire e apportare dei correttivi sostanziosi.

Xi Jinping e Vladimir Putin

Che è, appunto, il nocciolo della faccenda: cresciuti ed educati in un sistema dove gli Stati, scientemente, sono Stati privati della loro capacità di intervenire per apportare dei correttivi – e, anzi, dopo la parentesi democratica del dopoguerra sono tornati ad essere sempre di più essi stessi veri e propri agenti del capitale (e cioè strutture il cui unico scopo è velocizzare e rendere ancora più efficaci e inarrestabili i meccanismi interni del capitalismo), i pennivendoli della propaganda neoliberista, spesso anche in perfetta buona fede, non possono che vedere nel rafforzamento dei rapporti tra due economie così diverse, come quella russa e quella cinese, un inevitabile processo di subordinazione dell’una nei confronti dell’altra. Ed ecco così che da anni, un giorno sì e l’altro pure, le pagine dei giornalacci cercano di convincerci che la Russia ha ben poco da festeggiare perché se, dopo essere stata isolata dall’Occidente democratico e liberale, è costretta ad andare in ginocchio a Pechino alla ricerca di un’alternativa, questo non potrà che renderla un paese vassallo, col petto gonfio di retorica, ma totalmente incapace di esercitare una qualsivoglia sovranità reale; d’altronde, se cane mangia cane e sono scomparse tutte le museruole in circolazione, che alla fine quello più grosso e allenato prevalga è del tutto normale e inevitabile. Fortunatamente, però, in realtà esistono parecchie più variabili di quelle che solitamente è in grado di prendere in considerazione il pensiero binario dell’uomo neoliberale ed è su questo che insiste Putin che, nell’intervista, torna più volte in particolare su due semplici ma essenziali concetti: il perseguimento dei rispettivi interessi nazionali e il rispetto della sovranità. “Vorrei sottolineare” dichiara ad esempio Putin subito all’inizio dell’intervista, che il rapporto tra i nostri due Paesi “si è sempre basato sui principi di uguaglianza e fiducia, di rispetto reciproco della sovranità e di considerazione degli interessi reciproci”.
Al di là della retorica e del politichese, cosa significa in soldoni? Per capirlo bene facciamo un controesempio: i trattati di libero scambio e di libera circolazione dei capitali promossi dall’Occidente, in piena osservanza dei dogmi neoliberali; in questo caso si tratta, appunto, di limitazioni della sovranità degli Stati, che rinunciano a controllare la fuga dei capitali verso l’estero e l’ingresso di merci verso l’interno. Risultato: invece che gli interessi nazionali, a trionfare sono gli interessi specifici dei capitalisti. Il giochino lo conosciamo tutti (è il funzionamento di base della globalizzazione neoliberista): il primo punto è che i capitalisti possono andare liberamente a caccia dei posti più redditizi per i loro investimenti scatenando, così, una concorrenza al ribasso tra i vari paesi per offrire le condizioni migliori per attrarli, sforzandosi di contenere i salari dei propri lavoratori oppure adottando regole sempre più permissive in termini di standard ambientali o di sicurezza – che, in soldoni, significa sempre meno soldi che vanno in salari e sempre di più in profitti; il secondo è che i Paesi (o i pezzi di oligarchia) che partono avvantaggiati dividono il processo produttivo in tanti pezzetti diversi e mentre relegano il lavoro povero ai paesi che offrono vantaggi salariali e regolativi, si tengono la testa per loro. Si va così a consolidare una divisione internazionale del lavoro con una gerarchia ben precisa dove i paesi periferici perdono completamente il controllo della filiera produttiva a favore di quelli più avanzati, che continuano ad ampliare la loro superiorità tecnologica; insomma: prima magari producevi dei trattori che non si possono vedere, ma li producevi come volevi te e potevi decidere quanti produrne, come e quanto pagare i lavoratori, quante tasse far pagare ai proprietari della fabbrica o magari, addirittura, la fabbrica nazionalizzarla. Ora, magari, i trattori che contribuisci a costruire possono anche essere il top di gamma, ma della tua vecchia indipendenza non c’è più traccia e a determinare tutti i fattori è la concorrenza imposta da chi sta in cima alla piramide, tra tutti i suoi sottoposti: sei una specie di gladiatore in un’arena che si deve prendere a sciabolate con gli altri, mentre chi detiene la testa di tutta la catena sta sugli spalti a godersi lo spettacolo e a incassare il cash; e da questa spirale, finché ti affidi alle magnifiche sorti e progressive del mercato, non c’è verso di uscire.
E non abbiamo manco ancora introdotto il terzo punto, che è forse quello più rilevante in assoluto e, cioè, l’aspetto finanziario: chi ha il potere di decidere dove vanno i soldi per fare cosa. Ecco: quella è, in assoluto, la cima della piramide e che – grazie alla globalizzazione neoliberista – si stacca sempre di più da tutto il resto diventando irraggiungibile; grazie alla piena libertà di circolazione dei capitali garantita dalla globalizzazione neoliberista, i capitali hanno subìto un processo di concentrazione senza precedenti e chi detiene questi monopoli finanziari privati (e, quindi, decide dove vanno i soldi per farci cosa) ha il vero potere, ben al di sopra dei singoli Stati. Ecco: una cooperazione e un’integrazione economica fondata sul riconoscimento dei rispettivi interessi nazionali e della sovranità è, sostanzialmente, l’opposto di questo meccanismo; uno Stato sovrano, quindi, è uno Stato che decide politicamente le condizioni alle quali le merci possono entrare e i capitali uscire. Ed è per questo che nella neolingua dell’Occidente neoliberale, al termine sovrano abbiamo sostituito autoritario: per l’Occidente democratico, è autoritario ogni Stato abbastanza forte da limitare la libertà delle oligarchie di concentrare nelle loro mani il potere finanziario e trasformarlo, poi, in un potere politico superiore a quello dello Stato stesso; democratico, invece, è ogni Stato che lascia alle oligarchie il potere di fare un po’ cosa cazzo gli pare e le istituzioni possono accompagnare solo.
Da questo punto di vista, la Cina (di sicuro) e la Russia (in buona misura) sono senz’altro Stati autoritari e, quindi, la loro relazione è una relazione tra Stati autoritari, con nessuno dei due che è in grado di imporre niente all’altro e, men che meno, le rispettive oligarchie; per questo è un tipo di relazione che non ha niente a che vedere con quelle a cui siamo abituati nel giardino ordinato, sia perché – a differenza del rapporto tra impero e vassalli che regola le relazioni all’interno dell’Occidente collettivo – non c’è un rapporto gerarchico a livello militare e i due Paesi sono autonomi e indipendenti dal punto di vista prettamente geopolitico (e questo viene riconosciuto anche dagli analfoliberali), ma soprattutto perché, appunto, entrambi hanno mantenuto un discreto livello di sovranità rispetto allo strapotere delle rispettive oligarchie e quindi, di conseguenza, ognuno rispetto alle oligarchie dell’altro. Insomma: sotto tanti punti di vista, nonostante le enormi differenze e gli enormi squilibri che abbiamo già sottolineato, si tratta molto banalmente di un rapporto tra pari che per noi, nati e cresciuti nelle periferie dell’impero, è una cosa quasi inconcepibile ed ha molte conseguenze, anche contraddittorie. A differenza dei rapporti dove vige una gerarchia precisa, ad esempio, i rapporti tra pari sono incredibilmente complicati; lo sono all’interno di una coppia o tra amici: figurarsi tra Stati – e ancor di più tra due superpotenze del genere. E gli esempi abbondano: basti pensare a Forza della Siberia II, il gasdotto da 2600 chilometri che dovrebbe trasportare 50 miliardi di metri cubi di gas russo ogni anno in Cina, un’infrastruttura strategica che più strategica non si può; eppure, nonostante l’aria che tira e l’amicizia senza limiti, i negoziati sono ancora abbastanza in alto mare (come è giusto e normale che sia quando due enti autonomi e indipendenti devono trovare una quadra per una partita così complessa). Per fare un confronto, basta pensare alla vicenda dei due Nord Stream, quando uno Stato formalmente sovrano ha accettato che un suo supposto alleato compisse un atto terroristico di portata gigantesca sul suo territorio senza battere ciglio; oppure quando, in seguito allo scoppio della seconda fase della guerra per procura contro la Russia in Ucraina, i Paesi europei hanno aderito a delle sanzioni economiche progettate più per distruggere la loro economia che non quella dell’avversario. Ecco: se come parametro per capire la solidità di un’alleanza prendiamo questo, effettivamente no, l’alleanza tra Russia e Cina non è minimamente comparabile, ma da quando in qua il rapporto tra un imperatore e i suoi sudditi si chiama alleanza? E che fine hanno fatto tutte le filippiche degli analfoliberali sulla democrazia che è sì faticosa, ma, alla fine, è l’unica strada per stabilire legami sociali stabili e duraturi?
Ora, è proprio questo modello di rapporti democratici tra Stati autonomi e indipendenti che Russia e Cina stanno proponendo al resto del mondo; e uno degli organi multilaterali che dovrebbe servire da piattaforma per questo nuovo modello di relazioni internazionali sono ovviamente i BRICS che, quest’anno, vedono la presidenza di turno affidata proprio alla Russia che – afferma Putin – vuole utilizzare, appunto, il suo ruolo per “promuovere un’architettura più democratica, stabile ed equa delle relazioni internazionali”: Putin sottolinea che “la cooperazione all’interno dei BRICS si basa sui principi di rispetto reciproco, uguaglianza, apertura e consenso” ed è proprio per questo che, insiste, “i Paesi del Sud e dell’Est del mondo vedono nei BRICS una piattaforma in cui le loro voci possono essere ascoltate e prese in considerazione e trovano la nostra associazione così attraente”. La creazione di enti multilaterali fondati sulle relazioni paritarie e democratiche tra Paesi, però, è più complicata da fare che da dire perché il presupposto – appunto – è che gli Stati coinvolti siano davvero sovrani e quindi, appunto, autoritari (e, cioè, abbastanza forti da tenere a bada il potere delle loro oligarchie); ma molti dei paesi coinvolti hanno tutt’altro che terminato questo processo di emancipazione dal potere delle oligarchie, come è il caso – ad esempio – del Brasile o dell’India che, di fronte alle loro oligarchie perfettamente integrate nella finanza globale, sono in grado di esercitare soltanto una sovranità parziale. Per non parlare, poi, dei Paesi come l’Arabia Saudita, che sono premoderni e che esercitano una loro sovranità soltanto nella misura in cui lo Stato coincide esattamente con le loro oligarchie.
Se quindi, da un lato, l’imperialismo – che è, appunto, il sistema su cui si fonda il dominio dell’Occidente collettivo sul resto del pianeta e che annienta ogni sovranità in nome dello strapotere delle oligarchie finanziarie – è un sistema, oltre che barbaro e inaccettabile, anche oggettivamente in declino (e contro il quale la rivolta è ormai inarrestabile), la costruzione dell’alternativa è ancora lunga e piena di ostacoli; l’amicizia senza limiti tra Russia e Cina, però, costituisce un nucleo centrale per questo nuovo modello di relazioni internazionali più democratico, di una potenza senza precedenti, ed è per questo che rappresentano (e continueranno a rappresentare) il nemico principale dell’imperialismo, che vede nella loro disfatta l’unica possibilità di continuare a rimanere in piedi, costi quel che costi. A noi non rimane che fare la nostra parte contro la guerra finale dell’imperialismo e, per trasformare anche l’Italia e l’Europa in un insieme di Stati sovrani e indipendenti, pronti a dare il loro contributo per la costruzione di un mondo nuovo senza il quale la distruzione reciproca, più che un’ipotesi, diventa – giorno dopo giorno – una certezza; per farlo, nel nostro piccolo, come minimo ci serve un media che non faccia da megafono alla propaganda dell’impero, ma che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Victoria Nuland

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Putin da Xi per rilanciare la guerra antimperialista, mentre Biden arma lo sterminio dei gazawi

Rassegna stramba del mercoledì eccezionalmente con un Giuliano solo (il nostro). Buona visione!

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