Il ritorno degli Euromissili in Germania avvicina l’armageddon nucleare
SM-6, Tomahawk, Dark Eagle, OpFires, PrSM: la lista delle nuove sigle da imparare è corposa, ma mi sa che ci toccherà cominciare a familiarizzarci un pochino. Quelli elencati sopra, infatti, sono i nomi in codice dei nuovi missili a raggio intermedio più o meno pronti a invadere la Germania e far precipitare definitivamente il vecchio continente nel conflitto aperto contro il gigante russo; lo hanno annunciato in un brevissimo comunicato congiunto i governi tedesco e statunitense mercoledì scorso, quasi come se niente fosse: “Gli Stati Uniti” si legge “inizieranno il dispiegamento episodico delle capacità di fuoco a lungo raggio della loro task force multi-dominio in Germania nel 2026, come parte della pianificazione per lo stazionamento duraturo di queste capacità in futuro. Una volta completamente sviluppate” continua la dichiarazione “queste unità convenzionali per il fuoco a lungo raggio includeranno” appunto “SM-6, Tomahawk e armi ipersoniche in via di sviluppo, che hanno una portata significativamente più lunga rispetto agli altri sistemi d’arma lanciati da terra attualmente presenti in Europa. L’esercizio di queste capacità” conclude la dichiarazione “dimostrerà l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della NATO e il suo contributo alla deterrenza integrata europea”. Insomma: bentornati Euromissili.
A 5 anni dall’uscita unilaterale degli USA dal Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF per gli amici) che nel 1987 aveva messo fine a quella che probabilmente è stata la più pericolosa corsa al riarmo dell’intera storia dell’umanità, la guerra per procura provocata dagli USA in Ucraina contro la sicurezza nazionale russa e ogni velleità sovranista del vecchio continente fornisce la scusa perfetta per trasformarci, di nuovo, nell’avamposto della guerra imperialista contro ogni tentativo di emancipazione dei popoli dalla dittatura delle oligarchie finanziarie transnazionali: “Questa” ha commentato il viceministro degli esteri russo Sergey Ryabkov “è l’ennesima prova tangibile della politica di destabilizzazione intrapresa dagli USA nell’era post Trattato INF”; “Dopo che Washington ha deliberatamente distrutto il Trattato INF” ha ribadito Ryabkov “gli americani hanno chiaramente dichiarato la loro intenzione di posizionare armi precedentemente proibite dal trattato in diverse regioni del mondo. E con il sostegno incondizionato dei loro alleati, ora passano alla fase attiva dei loro piani”. Ryabkov ha poi sottolineato come, ovviamente, “Le azioni degli Stati Uniti e dei loro satelliti che creano ulteriori minacce missilistiche alla Russia non rimarranno senza la dovuta risposta da parte nostra” e ha ricordato come Putin abbia già parlato apertamente della necessità di “riconsiderare la moratoria unilaterale della Russia sullo schieramento di missili terrestri a raggio intermedio” che impegnava la Russia, almeno formalmente, a continuare a rispettare i parametri del trattato: “Le agenzie russe” ha continuato Ryabkov, sono state costrette ora a avviare “il lavoro sullo sviluppo di contromisure compensative, e continueranno questo lavoro in modo sistematico”; “La dichiarazione congiunta di Stati Uniti e Germania” ha insisstito Ryabkov “avrà conseguenze distruttive per la sicurezza regionale e la stabilità strategica”, “ma purtroppo” ha concluso, era tutto ampiamente “previsto”. Per chi ancora si illude che il sempre più probabile cambio di guardia alla Casa Bianca il prossimo novembre potrebbe rappresentare una svolta nell’escalation bellicista di Washington e dei suoi vassalli, è bene ricordare che il ritiro unilaterale degli USA dal Trattato INF è stata proprio una scelta della prima amministrazione Trump; l’esigenza strutturale delle oligarchie USA di dichiarare guerra a chiunque anche solo accenni ad avanzare critiche alla dittatura globale del dollaro, delle differenze di narrazione utilizzate dalle diverse fazioni del partito unico della guerra e degli affari, molto banalmente, se ne sbatte completamente i coglioni e continua a procedere con il pilota automatico qualunque sia il pupazzo temporaneamente elevato al ruolo di commander in chief.
Il ritorno ai missili a medio-lungo raggio precedentemente proibiti dal trattato stracciato da The Donald ha già un precedente: nell’aprile scorso, infatti, per la prima volta l’esercito statunitense aveva inviato all’estero elementi del suo nuovissimo sistema missilistico terrestre noto col nome di Typhon, in grado – appunto – di lanciare sia missili da crociera Tomahawk che missili multiuso SM-6; la destinazione, manco a dirlo, era stata The next Ukraine, la prossima Ucraina dell’Asia-Pacifico, la non tanto ex colonia USA delle Filippine. “L’arrivo di Typhon” commentava il 15 aprile The War Zone “invia un segnale forte a Pechino e in tutta la regione”; la corsa a riempire nuovamente il globo di sistemi d’attacco a medio e lungo raggio in grado di minacciare gli obiettivi sensibili delle grandi potenze ribelli del pianeta è talmente strategica che ha imposto una riorganizzazione complessiva delle forze armate USA, sintetizzata in un libro bianco pubblicato lo scorso 28 febbraio: al primo punto del piano c’è il completamento della creazione di 5 task force multi-dominio che dovranno includere unità di difesa aerea e missilistica nonché, appunto, “unità dotate di nuovi sistemi missilistici a lungo raggio, compresi quelli ipersonici”. “Per quasi vent’anni” sottolinea il libro bianco “la struttura delle forze dell’Esercito ha rispecchiato l’attenzione alle operazioni di contro-insurrezione e antiterrorismo che hanno dominato dopo gli attacchi dell’11 settembre… Ma alla luce del cambiamento del contesto di sicurezza e dell’evoluzione del carattere della guerra, l’Esercito si sta concentrando nuovamente sulla conduzione di operazioni di combattimento su larga scala contro potenze militari tecnologicamente avanzate”: il sistema Typhon inviato nelle Filippine è stato esattamente assegnato alla prima di queste task force; l’arrivo anche nel cuore del vecchio continente era, ovviamente, esclusivamente questione di tempo. Nel novembre del 2021 infatti, ben prima della fantomatica invasione dell’Ucraina da parte del plurimorto sanguinario dittatore del Cremlino, l’esercito americano in Germania aveva ufficialmente riavviato il famigerato 56esimo comando di artiglieria; come ricostruisce The War Zone, si tratta dell’unità che, tra il 1963 e il 1991, aveva il mandato di comandare battaglioni armati con missili balistici con testate nucleari Pershing e Pershing II: L’esercito rilancia l’unità missilistica nucleare della Guerra Fredda per schierare nuove armi a lungo raggio in Europa, titolava allora la testata.
La base del comando ha il suo centro operativo a Mainz-Kastel, il castello di Magonza, dove appunto sta prendendo forma anche la seconda divisione multi-dominio dell’esercito e sin da subito è stato chiaro che, oltre ai sistemi Typhon, l’obiettivo era equipaggiarli con il Precision Strike Missile, l’ultimo arrivato della famiglia dei missili balistici e, soprattutto, con il Dark Eagle, l’arma ipersonica a lungo raggio che l’esercito sta sviluppando come parte di un programma congiunto con la marina americana; secondo The War Zone “La Dark Eagle dovrebbe essere in grado di colpire obiettivi ad almeno 1.725 miglia di distanza” che percorrerebbe “lungo una traiettoria di volo atmosferica, ad una velocità fino a Mach 17”. E la Germania è solo la punta dell’iceberg: tra i vari eventi secondari tenutesi durante l’ultimo Summit NATO, particolare rilevanza – anche se non da parte dei media mainstream – ha avuto il quadrilaterale tra Francia, Germania, Italia e Polonia durante il quale è stata firmata una lettera di intenti per lo sviluppo dell’ELSA, lo European Long Range Strike Approach, la risposta tutta europea al ritorno – appunto – al dispiegamento di missili a lungo raggio che mira a “sviluppare, produrre e fornire capacità nell’area degli attacchi a lungo raggio, che sono estremamente necessarie per scoraggiare e difendere il nostro continente”, come recita il thread su X pubblicato per l’occasione dall’ambasciata francese negli USA. Insomma: finalmente l’era post Trattato INF, inaugurata dal compagno Trump ben prima che la guerra per procura in Ucraina deflagrasse definitivamente, si sta concretizzando in una corsa al riarmo missilistico generalizzato nel vecchio continente e ora, come sottolinea The War Zone, rimane solo da attendere “di vedere esattamente che tipo di risposta arriverà dalla Russia”. A lanciare l’allarme, sempre interrogato da The War Zone, ci pensa Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project presso il think tank della FAS, la federazione degli scienziati americani, che sottolinea come “è inevitabile che la Russia reagisca con annunci sui propri missili a lungo raggio, compresi missili potenzialmente balistici”; l’idea, infatti, è che la reazione russa non preveda solo l’installazione di nuovi sistemi d’arma in grado di raggiungere i punti sensibili di tutto il vecchio continente, ma anche direttamente “obiettivi simili negli Stati Uniti” e “in questo caso, l’arma preferita sarebbero probabilmente i missili balistici intercontinentali con testate nucleari, potenzialmente multiple”: come sottolinea sul suo profilo X l’analista militare filo-atlantista Pavel Podvig “Se vi piacevano gli SS-20, amerete gli RS-26”.
Gli SS-20, appunto, sono i missili balistici sovietici a raggio intermedio che rappresentavano il cuore della deterrenza nucleare durante la Guerra Fredda, prima dell’entrata in vigore del Trattato INF che aveva acceso una luce di speranza decretandone la distruzione; l’RS-26, invece, è sostanzialmente il suo erede diretto: come ricorda sempre The War Zone “Il recente status dell’RS-26 è piuttosto poco chiaro, con rapporti risalenti al 2018 secondo i quali il programma sarebbe stato sospeso a favore di altre armi strategiche, comprese quelle ipersoniche”, ma “i recenti sviluppi potrebbero portare a un ripensamento”. “Un’arma del genere” conclude The War Zone “reintrodurrebbe nel teatro europeo una dinamica ben nota, con un missile balistico russo con capacità nucleare, la cui gittata è ottimizzata per colpire le capitali dell’Europa occidentale e obiettivi militari chiave. In questo modo, l’RS-26 potrebbe diventare un analogo dell’SS-20 e potrebbe avere lo stesso impatto sulla situazione di sicurezza strategica del continente”. E se questo bel quadretto non vi basta, eccovi la ciliegina: Robert C. O’Brien è stato uno dei più ascoltati consiglieri per la sicurezza nazionale della seconda parte dell’amministrazione Trump e tra gli architetti del ritiro unilaterale dal Trattato INF e dalle pagine di Foreign Affairs fa una proposta inquietante; “Si vis pacem, para bellum” – se vuoi la pace, preparati alla guerra – rilancia nell’incipit dell’articolo e, per prepararsi alla guerra, suggerisce che “Gli Stati Uniti devono mantenere la superiorità tecnica e numerica rispetto agli arsenali nucleari cinesi e russi combinati” e “per fare ciò, Washington deve testare l’affidabilità e la sicurezza delle nuove armi nucleari nel mondo reale per la prima volta dal 1992, non solo utilizzando modelli computerizzati”. “Un’idea terribile” ha commentato sul New York Times Ernest Moniz, che da segretario per l’energia durante l’amministrazione Obama aveva l’incarico di supervisionare l’arsenale nucleare a stelle e strisce: “Nuovi test ci renderebbero meno sicuri” avrebbe affermato, perché “Non possono essere separati dalle ripercussioni globali”; “Una detonazione statunitense” ricorda il Times “violerebbe il Trattato sul divieto totale degli esperimenti nucleari, a lungo considerato una delle misure di controllo degli armamenti di maggior successo. Firmato dalle potenze atomiche del mondo nel 1996, mirava a frenare una costosa corsa agli armamenti che era andata fuori controllo”.
Negli ultimi mesi mi sono scontrato spesso con persone che sostenevano che la certezza della mutua distruzione in caso di escalation nucleare continuava ad essere un deterrente sufficientemente potente da tenerci al sicuro; sarò catastrofista, ma mi sembra una gigantesca puttanata, il classico bias che ci impedisce di ragionare razionalmente su scenari eccessivamente catastrofici. Al contrario, a me sembra palese che, giorno dopo giorno, la necessità dell’impero fondato sul dollaro e sullo schema Ponzi della finanza speculativa di arrestare la transizione a un nuovo ordine multipolare renda verosimili anche gli scenari più catastrofici; se volete approfondire le ragioni profonde che ci hanno portato a questa lettura della fase che stiamo attraversando, abbiamo provato a ricostruirle in questo breve pamphlet che riassume oltre due anni del nostro sforzo quotidiano per orientarci tra – come dice sempre Xi Jinping – “trasformazioni che non vedevamo da 100 anni”. Secondo la nostra analisi, in realtà, l’unico modo per mettere al sicuro la sopravvivenza della nostra specie è cacciare a pedate (una volta per tutte) dai posti di comando tutti i fedeli servitori del partito unico della guerra e degli affari e, per farlo, abbiamo prima di tutto bisogno di un vero e proprio media che smonti la retorica suprematista e guerrafondaia delle oligarchie e dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Daniele Capezzone