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Tag: putin

Da Kharkiv a Belousov: Putin usa la grande guerra per trasformare la Russia in una nuova Cina

A corto di buone notizie, per qualche giorno le bimbe di Stoltenberg si sono esaltate con gli attacchi random ai civili di Belgorod, ma dalla scorsa settimana anche su quel fronte l’umore è leggermente cambiato: con appena 50 mila uomini, venerdì scorso le forze armate russe hanno varcato il confine che separa Belgorod dalla regione di Kharkiv; un dispiegamento di forze tutto sommato modesto, in grado, al massimo, di rosicchiare un po’ di terreno per creare la fantomatica zona cuscinetto invocata da Putin, già a fine marzo, dopo uno dei tanti attacchi alle strutture civili di Belgorod e ai villaggi lungo il confine – se solo dall’altra parte avessero trovato una qualche difesa. E, invece, campo libero: “Dove sono finite le fortificazioni?” si chiede sul giornale antirusso Urkainska Pravda Martyna Bohuslavets, presidente del centro anticorruzione Mezha. Se li sono infrattati: “L’oblast di Kharkiv” scrive la Bohuslavets “ha pagato milioni a società fittizie”, “con assegnamenti diretti e senza gare d’appalto” continua la Bohuslavets; “società di copertura si sarebbero accaparrate contratti per oltre 150 milioni di euro”. Durante l’estate del 2023, un manipolo di imprenditori locali (in buona parte con già diversi carichi pendenti) avrebbero aperto una serie di società ad hoc che, con la connivenza del Dipartimento per l’edilizia abitativa e lo sviluppo urbano dell’oblast di Kharkiv, sarebbero passate immediatamente all’incasso senza mai fare assolutamente nulla: “Secondo questo schema” scrive la Bohuslavets “membri degli uffici governativi hanno registrato nuove società utilizzando prestanome che in alcuni casi potrebbero anche non esserne nemmeno a conoscenza, e stanno continuando a guadagnare sul sangue altrui”.
Con i soldi dei bunker e delle strutture in legno e cemento volatilizzati, sono rimaste solo le care vecchie trincee (e non è andata proprio benissimo): come riportava l’ex vice sottosegretario della difesa USA Stephen Bryen ieri su Asia Times “La Russia sta introducendo più lanciafiamme e artiglieria per distruggere le trincee, e secondo quanto riferito, le truppe russe stanno entrando nelle fortificazioni e attaccando gli ucraini rimasti a difenderle”. Secondo quanto riportato già sabato scorso dal buon Billmon su Moon of Alabama, le truppe russe avrebbero “sconfitto uomini e mezzi della 23a e 43a brigata meccanizzata, della 120a e 125a brigata delle forze armate ucraine e della 15a forza di copertura del confine statale vicino a Volchansk, Vesyoloye, Glubokoye, Neskuchnoye e Krasnoye”; nell’arco di poche ore i russi, avrebbero preso il controllo dei villaggi di Borisovka, Ogurtsovo, Pletenevka, Pylanya e Strelechya e, nei due giorni successivi, l’avanzata si sarebbe estesa ad altri 6 insediamenti fino a lambire il principale centro urbano dell’area e, cioè, la cittadina di Vovchansk dove, dei circa 17 mila residenti, sono rimasti nei paraggi ormai soltanto alcune centinaia. Sempre secondo Stephen Bryen su Asia Times “La battaglia di Kharkiv mira a disintegrare l’esercito ucraino”: “L’idea” insiste Bryen “è di provocare pesanti perdite da parte ucraina e, se tutto va secondo i piani, di dividere l’esercito ucraino in due o di disintegrarlo del tutto. In questo modo non si mirerebbe semplicemente a conquistare territorio, ma di distruggere la capacità dell’Ucraina di resistere. E ci sono molti indicatori che la Russia sta avendo successo nell’operazione in corso”.
A lanciare un campanello d’allarme sul New York Times è lo stesso generale Budanov, che avrebbe affermato “di ritenere che gli attacchi russi nel nord-est abbiano lo scopo di estendere le già scarse riserve di soldati dell’Ucraina e distoglierli dai combattimenti altrove”; Budanov avrebbe inoltre confermato che “L’esercito ucraino sta cercando di reindirizzare le truppe da altre aree della linea del fronte per rafforzare le sue difese nel nord-est, ma che è stato difficile trovare il personale”: “Tutte le nostre forze sono qui o a Chasiv Yar” avrebbe detto. “Ho usato tutto quello che avevamo. Purtroppo non abbiamo nessun altro nelle riserve”. Zelensky ha provato a scaricare la responsabilità sugli uomini sul campo e, il 15 maggio, ha immediatamente dato il benservito al generale di brigata Yuriy Halushkin; i burattinai di Washington, però, ovviamente temono che di questo passo – nonostante il pacchetto di aiuti approvato due settimane fa – il fronte rischi di crollare ben prima delle elezioni presidenziali di novembre: ed ecco così che Blinken, ieri, ha improvvisato una visita a Kiev “per sostenere il morale”, commenta Billmon. La realtà però, sottolinea ancora Billmon, è che “Il sostegno militare concreto all’Ucraina nei prossimi mesi sottoforma di artiglieria e munizioni per le difese anti-aeree, sarà minuscolo”. Come ricorda il Wall Street Journal, negli ultimi 3 mesi, in media, l’efficacia dell’antiaerea ucraina è crollata dal 73 al 46%, per precipitare a un disastroso 30% nel mese di aprile; insomma: i missili russi intercettati ormai sono una esigua minoranza e in arrivo, continua Billmon, “Non c’è nulla che possa aiutare gli ucraini a difendersi dalle bombe plananti FAB che l’esercito russo sta utilizzando in numero sempre crescente per smantellare le posizioni ucraine”. Ed ecco così che “Negli ultimi tre giorni si sono registrate perdite ucraine di circa 1.500 persone al giorno – il doppio del conteggio abituale” e il bello è che la maggior parte di queste perdite, in realtà, si è verificata sul fronte orientale, non in direzione di Kharkiv perché, come ricorda sempre Bryen su Asia Times, “mentre è in corso questa vasta operazione russa focalizzata sull’area di Kharkiv, i russi continuano ad attaccare anche altrove, soprattutto nel Donbass, ma anche a Zaporizhia” e sono tutti uomini che non c’è verso di rimpiazzare: sempre secondo Billmon, infatti, al momento “Il tasso di sostituzione attraverso la mobilitazione ucraina sarebbe pari solo al 25% delle perdite che si stanno effettivamente verificando”; “Tutti sanno che la guerra sta per finire” continua Billmon e “che ci sarà un vincitore, la Russia, e molti perdenti. E gli Stati Uniti, così come l’Ue, stanno ora cercando di trovare un modo per salvare la faccia per riconoscerlo senza ammetterlo. E il modo più semplice sarà incolpare l’Ucraina e, soprattutto, il suo presidente Zelensky” – che se la sta vedendo bruttina. Nei prossimi giorni arriverà la scadenza del suo mandato regolare, protratta solo dalla decisione di non effettuare nuove elezioni, contrariamente a quanto promesso nell’inverno scorso: allora venne spacciata come la prova che l’Ucraina era così democratica da avere il coraggio di tenere regolari elezioni anche in mezzo a questo disastro, ma quando, giorno dopo giorno, è emerso che – come ampiamente prevedibile – era tutta una cazzata, è calato il solito silenzio stampa; e ora Zelensky è ridotto ad arrestare almeno due colonnelli delle forze di protezione del palazzo governativo e a licenziare il capo della squadra addetta alla sua sicurezza perché, a detta dello stesso Zelensky, stavano progettando di uccidere lui e altri alti funzionari su mandato russo.

Andrej Belousov

Insomma: l’Ucraina come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 2 – 3 anni sembra ormai una storia archiviata, ma – come abbiamo sottolineato millemila volte – a nostro avviso, pensare che la situazione si possa risolvere semplicemente con una presa d’atto della vittoria sul campo della Russia rischia di essere una forma di wishful thinking uguale e opposta a quella dei nostri amici NAFO; e così, a occhio, sembra pensarla allo stesso modo pure il plurimorto dittatore del Cremlino che, come sottolinea, sembra piuttosto “pronto a giocare lungo” mentre “propone un economista come nuovo capo della difesa”. A corto di buone notizie, la propaganda suprematista infatti ha cercato di vedere nel benservito al ministero della difesa di Shoigu un segnale di chissà quali tensioni interne. Ma chi è davvero il suo sostituto? Andrej Belousov è un taciturno e riservato fedele servitore della macchina pubblica russa, uno dei pochissimi a non essere mai incappato in nessun modo in sospetti di corruzione di nessun tipo – e sicuramente questa componente può aver giocato un ruolo: l’apparato militare russo è sempre stato accusato di essere un enorme porto delle nebbie dove i quattrini venivano agilmente dirottati nei conti correnti degli amici degli amici; e Shoigu, accusano in molti, era parte integrante di questo Stato nello Stato tanto da venir accusato direttamente da Prigozhin di essere il massimo responsabile delle inefficienze della macchina bellica russa, e tanto da vedersi arrestare sotto gli occhi, giusto un paio di settimane fa, il suo vice e sodale di lunga data Timur Ivanov -soprannominato anche il portafoglio di Shoigu – appunto, per corruzione. Un uomo fidato e senza macchia come Belousov, privo di un suo gruppo di potere, potrebbe essere l’uomo giusto per dare un taglio netto a sperperi e ruberie in una fase dove la spesa militare pesa per poco meno del 7% del PIL e per circa un terzo della spesa pubblica complessiva. D’altronde, sembra essere in atto un discreto repulisti: come riportava ieri il nostro caro Andrea Lucidi sul suo canale telegram, poche ore dopo l’annuncio del cambio al ministero della difesa è stato annunciato anche l’arresto del capo della direzione principale del personale, il tenente generale Yury Kuznetsov, “sospettato di aver preso una tangente particolarmente ampia”, come ha dichiarato martedì la portavoce del Comitato investigativo russo Svetlana Petrenko in un comunicato; durante le perquisizioni nelle proprietà di Kuznetsov sono stati scoperti e sequestrati valuta russa e straniera, monete d’oro, orologi da collezione e altri oggetti di lusso per un valore superiore a 1 milione di dollari.
Ma la necessità di tagliare i rami secchi della corruzione endemica è solo una parte della storia perché Belousov, prima ancora di essere uomo considerato tanto onesto quanto fedele e malleabile, è un economista di un certo spessore e con una sua visione piuttosto coerente da decenni; in molti, giustamente – a partire dal Global Times, ma anche nei media mainstream occidentali – hanno sottolineato che ad aver spinto il Cremlino a puntare su di lui come capo della difesa nel bel mezzo dell’operazione militare speciale è la necessità di coniugare lo sforzo bellico con la tenuta economica: “Alcuni osservatori russi” ricorda il Global Times “hanno affermato che Belousov è anche uno degli alti funzionari russi che” in veste di vice primo ministro, ha avuto un ruolo di primissimo piano nell’“aiutare la Russia a superare con successo le difficoltà derivanti dalle sanzioni occidentali e a garantire la crescita economica del paese dallo scoppio del conflitto”. Ma c’è un altro aspetto che in pochi hanno sottolineato: Belousov non è e non è mai stato un neoliberista; si è formato come economista ai tempi dell’Unione Sovietica ed è sempre rimasto attaccato all’idea che a dirigere l’economia, in qualche modo, deve essere lo Stato. “Uno statista keynesiano” lo definisce Politico, che ricorda come già “alla fine degli anni ‘90” – quando imperversava la religione della shock therapy imposta dalle oligarchie criminali al servizio dell’imperialismo – “Belousov era uno dei rari sostenitori del controllo statale nell’economia” e, nonostante fosse scientificamente una spanna sopra la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, veniva regolarmente marginalizzato dagli analfoliberali e dai finto-progressisti; come ricorda Foreign Policy, nel 2000 Belousov “ha fondato il Centro per l’analisi macroeconomica e le previsioni a breve termine, il primo think tank macroeconomico russo”. A partire dal 2006, mentre, sotto la guida di Putin, gradualmente la Russia cerca una sua via di uscita dal declino assicurato dalla folle ricetta neoliberista imposta dai vincitori occidentali come risarcimento di guerra, Belousov comincia a ricoprire ruoli di governo sempre più importanti, fino a diventare ministro dello sviluppo economico; ma per diventare un volto noto anche al grande pubblico dovrà aspettare fino al 2018 quando, come ricorda il Washington Post, prova a proporre a Putin la creazione di “un meccanismo che consentisse al governo di raccogliere fondi extra dalle imprese che hanno ottenuto profitti elevati”: “7,6 miliardi di dollari di reddito in eccesso” da prelevare per la fiscalità generale dalle principali “aziende metallurgiche, chimiche e petrolchimiche che hanno ottenuto un buon risultato in seguito ai cambiamenti nelle condizioni del mercato esterno, a partire dal rublo debole e da un’elevata domanda globale per i loro beni”. Insomma: una tassa sugli extraprofitti tipo quella che aveva promesso Meloni la svendipatria, ma che ha ritirato subito dopo – giusto il tempo di far guadagnare qualche centinaia di milioni di euro in borsa a qualche amico speculatore che, nel frattempo, aveva scommesso al ribasso sui titoli delle banche coinvolte. Anche nel caso di Belousov la sua proposta iniziale è stata ridimensionata, ma comunque ha imposto alle aziende un contributo straordinario per finanziare alcuni progetti infrastrutturali ritenuti di massima rilevanza strategica e soprattutto, come riconosce il Washington Post, “ha consolidato la sua reputazione di vero statista che dà priorità ai bisogni del governo rispetto agli interessi dei privati e che sostiene un forte controllo statale sull’economia e una spinta alla crescita attraverso gli investimenti statali”; un profilo che, come sottolinea il Global Times, cade proprio a fagiuolo ora che la Russia deve cercare “di combinare i suoi obiettivi militari con le esigenze dello sviluppo economico, per fare in modo che la crescita economica sostenga l’operazione militare e che l’operazione militare dia slancio allo sviluppo e guidi lo sviluppo scientifico-tecnologico”: Belousov, sottolinea il Washington Post, è un promotore dell’indipendenza tecnologica e ha, a più riprese, avanzato proposte per “lo sviluppo di propri chip, macchine ad alta precisione, aerei, droni, attrezzature mediche e software per porre fine alla dipendenza da importazioni occidentali”.
Insomma: come sosteniamo da tempo, Putin sta cercando di approfittare della guerra per imporre un’accelerazione decisiva al processo di modernizzazione della Russia – fino ad oggi ostacolato dai feudatari e dagli oligarchi che lo hanno sempre circondato – e la nomina di Belousov è l’ennesima conferma che ha intenzione di farlo sempre più con caratteristiche cinesi; come abbiamo sottolineato innumerevoli volte, la Cina, con i suoi incredibili successi al netto delle millemila specificità, è ormai – sempre più chiaramente – un modello di riferimento per i Paesi che vogliono portare a termine il loro complesso processo di decolonizzazione e di indipendenza nazionale e questa, per l’imperialismo neoliberista, probabilmente è una sconfitta ben più grande anche delle umiliazioni che continua a raccogliere sul campo di battaglia in Ucraina.
In attesa di avere anche noi uno Stato e un governo in grado di umiliare l’imperialismo neoliberista, per portarci avanti, intanto, sarebbe il caso – perlomeno – di costruire un vero e proprio media che dà voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Gramellini

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“Sono finiti i soldi”. La confessione di Giorgetti, mentre Putin si attrezza per la lunga guerra

Rassegna stramba del martedì: il meglio del peggio delle notizie nazionali ed internazionali a cura di Giuliano Marrucci e Matteo Bernabè. Vi aspettiamo, come sempre, alle 08.30 sui canali social di Ottolina Tv.

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Ucraina: l’orso russo è inarrestabile – Ft. Stefano Orsi

Oggi i nostri Gabriele e Clara intervistano un grande amico di Ottolina Tv, il nostro Stefano Orsi, analista geopolitico e militare d’eccezione. Stefano ci conduce nei meandri della formazione del nuovo governo russo, nei possibili scenari che i nuovi ministri imprimeranno all’azione di governo e al conflitto ucraino. Prosegue lenta e implacabile l’avanzata delle truppe russe, mentre l’Occidente è il grande assente, sempre più isolato e allo sbando.

#Russia #Putin #Ucraina #war

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Putin e Shoigu: cosa significa la sostituzione del ministro della difesa russo?

Un nuovo appuntamento di inizio settimana con l’immancabile Matteo Lupetti.

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LA BOLLA – Offensiva di Kharkiv: gli ucraini hanno definitivamente perso l’est del paese?

Edizione speciale de La Bolla con Clara Statello, Gabriele Germani, Alberto Fazolo e il Marru per la consueta panoramica domenicale sui fronti caldi.

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Global Southurday – L’Occidente, terrorizzato, è alle strette – Ft. Alberto Fazolo

Oggi i nostri Clara e Gabriele intervistano Alberto Fazolo per il consueto appuntamento del sabato con prospettiva post-coloniale. Chi siamo? Dove stiamo andando? Russia e Medio Oriente evolvono e diventano gli scenari globali del tracollo complessivo dell’impero americano e dell’ordine unipolare. Israele sempre più contestato in Europa e in Nord America nelle università e nelle strade, dove si assiste alla radicalizzazione del movimento pro-Pal. Buona visione!

#ProPal #Gaza #Palestina #MedioOriente #Guerra #Russia #Ucraina #Putin

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Lo strano complotto che lega Putin, Toti e Khodorkovsky

Cosa tiene insieme l’insediamento della quinta presidenza Putin, lo scandalo che ha travolto l’amministrazione Toti e il sistema Genova e lo spazio e la visibilità che i media e i politici italiani hanno concesso, ancora una volta, a un vero e proprio pirata del volto più feroce del capitalismo globale come Khodorkovsky? Un bel pippone, ovviamente! Provo a riassumere brevissimamente la mia tesi: da Toti a Khodorkosvky, la politica nelle colonie non è altro che una forma di criminalità organizzata; nel caso di Khodorkovsky – emblema per eccellenza degli oligarchi che hanno rapinato i paesi dell’ex Unione Sovietica quando gli USA hanno vinto la guerra fredda e li hanno trasformati, appunto, in colonie dell’imperialismo – quel sistema criminale e paramafioso è stato spazzato via quando è tornato al potere un leader nazionalista che ha cominciato un processo di decolonizzazione, per quanto lungo, tortuoso e ricco di contraddizioni. Nel caso di Toti, invece, siamo in un Paese che ancora deve essere liberato e, quindi, il collasso del suo sistema criminale non è dovuto a un processo di decolonizzazione, ma molto più semplicemente alla sostituzione di un sistema criminale perdente e in declino con un altro vincente: nella guerra per il controllo delle vie del mare e della logistica della colonia italica, infatti, Toti si era legato a doppio filo alla squadra perdente, quella di Spinelli, mentre in Italia si andava imponendo l’impero di Aponte, il proprietario e fondatore di MSC che, oltre a essere il primo armatore al mondo, sarebbe pure il quarto uomo più ricco d’Italia se non fosse che, in realtà, è andato in culo all’Italia e sta in Svizzera.
Se con questa supercazzola vi ho incuriosito, continuate a vedere questo video; ma prima, ricordatevi di mettere un like per aiutarci a combattere la nostra battaglia quotidiana non solo contro i Toti, gli Spinelli, gli Aponte e i Khodorkovsky, ma anche contro gli algoritmi e, se non l’avete ancora fatto, iscrivetevi ai nostri canali social e attivate le notifiche: un piccolo gesto che, però, è indispensabile per aiutarci a costruire un media che, invece che dalla parte dei parassiti del sistema mafioso della colonia, sta da quella del 99%.
Ieri sono andate in scena contemporaneamente due idee di Russia diametralmente opposte e inconciliabili: da un lato la Russia che vorrebbero le nostre classi dirigenti che ieri hanno accolto, come un Nelson Mandela qualsiasi, in audizione alla commissione esteri della Camera l’odiatissimo oligarca pluricondannato Mikhail Khodorkovsky, reo di aver approfittato del disfacimento del potere statale sovietico per impossessarsi, a suon di truffe e raggiri, di una fetta enorme di ricchezza nazionale e essersi costruito un impero personale paramafioso di dimensioni gigantesche sul quale, poi, ha cercato di fondare una carriera politica che ne garantisse gli interessi e l’impunità di fronte alla legge; dall’altro la Russia che vogliono i cittadini russi che ieri hanno partecipato alla cerimonia di insediamento di Putin, che ha inaugurato il suo quinto mandato presidenziale con un maxidecreto omnibus che traccia “Obiettivi di sviluppo nazionale della federazione russa per il periodo fino al 2030 e per il futuro fino al 2036” che, pur con tutti i limiti e le criticità possibili immaginabili, vanno in direzione diametralmente opposta agli interessi della cleptocrazia in esilio rappresentata, appunto, da Khodorkovsky.

Lia Quartapelle Squartapalle

A fare da maestro di cerimonie dell’ennesima figura imbarazzante dell’Occidente suprematista in declino di fronte al popolo russo non poteva che essere lei, la sempre più impresentabile Lia Squartapalle, l’impersonificazione stessa del peggior dirittumanismo imperialista e bombarolo, sempre pronta a inventarsi ogni genere di vaccata, a partire da un’idea di diritti umani all’altezza di una scolaresca di prima elementare per attaccare, in modo sguaiato e inconcludente, qualsiasi soggetto inviso alle oligarchie dell’impero. La sequenza di figure di merda colossali che la Squartapalle ha collezionata nel corso della sua lunga carriera di cane da guardia inferocito dell’impero è difficile da riassumere in poche parole; la mia preferita, comunque, è questa quando, un anno fa, aveva pubblicato la foto di questa telecamera all’esterno dell’ambasciata iraniana a Roma denunciando che era stata “montata su una forca” ad hoc come forma d’”intimidazione contro chi manifesta fuori dall’ambasciata” e aveva invitato il governo italiano a “non tollerare questo sfregio”. Peccato che, come rivelò subito dopo l’insospettabile sito Pagella Politica, in realtà la telecamera era lì “da più di 11 anni”; sarebbe stato bello poter dire che, a questo giro, s’è superata, ma con un curriculum del genere stabilire nuovi record è un’impresa tutt’altro che semplice. Senz’altro, però, possiamo dire che ce l’ha messa tutta: la compagna Lia, infatti, esordisce ricordando come il dottor Khodorkovsky “sia stato uno dei primi sostenitori del cambiamento democratico”, intendendo con cambiamento democratico la shock therapy imposta dall’imperialismo USA all’ex Unione Sovietica con la complicità di quell’alcolizzato di Eltsin e della sua corte che, in pochi anni, ha comportato più danni di una guerra civile moltiplicando, per diversi ordini di grandezza, il numero di poveri assoluti, riducendo di una decina di anni l’aspettativa di vita alla nascita e radendo completamente al suolo l’intero sistema produttivo mentre, appunto, creava un nuovo ceto di oligarchi parassiti; la compagna Lia, poi, ricorda come il dottor Khodorkovsky nel 2003 – quando, grazie alle aziende letteralmente scippate allo Stato, secondo Forbes era di gran lunga l’uomo più ricco della Russia e il sedicesimo più ricco al mondo – era stato così coraggioso da “aver criticato la corruzione endemica del Paese in un incontro televisivo con il presidente Putin” e che da allora, povera stella, è stato perseguitato da un regime che ha un cassonetto al posto del cuore e che, per meri motivi politici, ha deciso di accusarlo e poi addirittura di condannarlo per evasione fiscale e frode.
Secondo la giustizia russa, infatti, il paladino della libertà Khodorkovsky si era appropriato illecitamente di circa 12 miliardi di euro di soldi dei contribuenti; quello che la nostra cara Squartapalle si dimentica di ricordare, però, è che da allora Khodorkovsky ha impiegato una quantità di risorse inimmaginabile per riuscire a strappare una condanna per violazione dei diritti fondamentali di fronte alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo: come è noto, la legislazione sul rispetto dei diritti umani è così ampia e variegata che, con un impiego adeguato di risorse, non c’è sostanzialmente processo in Russia (come, d’altronde, anche in Italia, che viene regolarmente sanzionata – ad esempio – per il mancato rispetto delle scadenze temporali entro le quali ogni cittadino avrebbe il diritto di veder concludere il suo processo, per il quale non venga sollevata una qualche irregolarità); ciononostante, la Corte di Strasburgo, dopo aver – appunto – a più riprese sanzionato alcune violazioni relative, in particolare, alle condizioni e alla lunghezza della detenzione, ha respinto l’accusa che “la persecuzione fosse politicamente motivata” non una, non due, ma ben tre volte. La Corte ha affermato, infatti, “di non aver trovato evidenze del fatto che l’azione contro la Yukos” e, cioè, il colosso petrolifero di proprietà di Khodorkovsky, “sia stata arbitraria e ingiusta, che la Corte di Mosca abbia emesso un giudizio senza studiare in modo adeguato le prove o che alla Yukos sia stato impedito di fare ricorso in modo ingiusto”; la Corte ha inoltre affermato che “gli accertamenti fiscali per il periodo 2000 – 2003 erano legittimi e proporzionati” e che “Nessuna delle accuse contro i ricorrenti avevano riguardato le loro attività politiche, e gli atti di cui sono stati accusati non lo erano direttamente legati alla loro partecipazione alla vita politica”. E quindi “Anche nel caso vi fosse stata una motivazione impropria alla base del procedimento giudiziario, questo non esime gli accusati dal rispondere alle accuse”. Insomma: la realtà, come sempre, è l’esatto opposto di quella che la Squartapalle ha cercato di imporre approfittando del suo ruolo istituzionale; Khodorkovsky non è stato perseguitato per le sue posizioni politiche, ma – piuttosto – è diventato un oppositore politico per cercare di delegittimare la doverosa azione giudiziaria contro la sua colossale evasione fiscale.
Quando, dall’introduzione della Squartapalle, si passa alla testimonianza del povero perseguitato multimiliardario paladino della libertà, il viaggio nel mondo della post verità continua: nonostante la stessa intelligence USA abbia affermato più volte che la morte di Navalny non è attribuibile a una volontà diretta del governo, Khodorkovsky approfitta del diritto di tribuna garantitogli da Lia la svendipatria per affermare che “Putin non solo ha precluso la possibilità di partecipare a queste elezioni a qualsiasi oppositore, ma ha anche ucciso il suo oppositore politico Alexei Navalny”; ed è solo l’antipasto. Da ex capo di un impero criminale, Khodorkovsky accusa Putin di “non essere un capo di Stato, ma il capo di un raggruppamento mafioso”: “Nella maggior parte dei Paesi, tra cui l’Italia” afferma “ai gruppi mafiosi non è stata data la possibilità di prendere in mano lo Stato. Purtroppo invece in Russia ci sono riusciti. Un gruppo mafioso ha preso lo Stato, o meglio: c’è lo Stato, e poi un gruppo mafioso che lo controlla” e quindi, suggerisce, “i negoziati vanno portati avanti come si fa con dei gruppi mafiosi che hanno preso degli ostaggi” – a partire dalla questione dei fondi russi congelati che, sostiene Khodorkovsky, “non va percepito come denaro dei pensionati e dei cittadini russi”, ma come “soldi del gruppo mafioso”. E, infine, dà un terzo suggerimento prezioso: in Russia ci sono tanti dissidenti con altissime professionalità; non ci sono prove che siano dissidenti, perché hanno paura; ma garantisce Khodorkovsky. Il regime, però, anche se non sa che sono dissidenti (perché, per paura, se lo sono tenuto dentro e l’hanno confessato solo a Khodorkovsky) li tiene in ostaggio e non gli rinnova i documenti. Ecco allora che l’Europa dovrebbe accoglierli a braccia aperte anche senza documenti, che è sostanzialmente un invito ad accogliere a braccia aperte i peggio criminali perché tanto, secondo Khodorkovsky, in Russia non ci sono veri criminali, ma solo oppositori del regime dormienti; e, ovviamente, la compagna Lia gli dà ragione e sottolinea come lo stesso ragionamento andrebbe esteso anche a chi viene dalla Bielorussia e dalla Turchia, che devono godere di diritti che a tutti gli altri migranti che provengono anche da paesi dove davvero si rischia la morte per un tozzo di pane, sono ovviamente preclusi.
Che è un po’ la logica che sottolineavamo in quest’altro video a proposito dei filosionisti: le élite democratiche, sostanzialmente, stanno cercando di costruire una sorta di moderno sistema di apartheid dove chi la pensa come loro rappresenta una categoria sociale a parte, che gode di tutele e di privilegi speciali; nel caso specifico della Russia, l’obiettivo della Quartapelle è proprio quello di “fare del nostro Paese, uno di quei Paesi dove effettivamente si investe su un’idea diversa per il futuro della Russia” e, cioè, dove sostanzialmente – appunto – si riconoscono privilegi speciali a quelli che crediamo potranno rappresentare, in futuro, le nostre quinte colonne per un cambio di regime finanziato e fomentato dall’estero. Dopodiché ecco che interviene un’altra campionessa dei doppi standard e delle bombe umanitarie: la mitica Laura Boldrini che tra l’altro, negli scorsi due anni di deliri persecutori, è apparsa pure in qualche lista di proscrizione in quota putiniani di ferro; la Boldrini ringrazia Khodorkovsky il cleptomane perché “per il suo vissuto, per il ruolo che ha svolto nel suo paese e per quello che oggi sta svolgendo all’estero” ci aiuta a sensibilizzare il popolo vittima della propaganda putiniana sulle reali “condizioni di vita dei russi e delle russe”. La Boldrini che, evidentemente, nel tempo deve aver subito qualche bella strigliata, sottolinea come “molti russi non sono Vladimir Putin. Sono sinceri e democratici e rischiano la loro vita in nome di questa libertà, proprio come lei, che ne è un esempio”.

Mikhail Khodorkovsky

Segue, poi, il compagno Vincenzo Amendola, che compie un altro intervento rivelatore sulla psicologia della nostra classe politica: Amendola, infatti, sottolinea come la recente nazionalizzazione del braccio russo del gruppo Ariston rappresenti un altro episodio di quella tendenza illiberale del regime distopico del Cremlino che si era già manifestata nel 2003, quando – appunto – ad essere nazionalizzata era stata la Yukos di Khodorkovsky. Peccato che nella storia della Yukos di Khodorkovsky, appunto, non ci sia mai stato assolutamente niente di cosiddetto liberale: l’azienda, infatti – ribadiamo – era stata sostanzialmente regalata a Khodorkovsky ai tempi della shock therapy esclusivamente in base ai legami criminali con il Cremlino di allora, che era guidato da veri e propri amministratori coloniali dell’impero che avevano l’unico mandato di distruggere l’economia russa, in modo da minarne alle fondamenta la possibilità di rivendicare una qualche forma di sovranità e di consegnare quel poco che era rimasto nelle mani di una nuova classe di oligarchi totalmente subalterni all’agenda neocoloniale dell’impero che, mentre si arricchivano a dismisura, contribuivano – appunto – a sottrarre allo Stato la base economica necessaria nel futuro per emanciparsi, in qualche modo, da questa nuova forma di colonialismo; in quest’ottica, quindi, quando Amendola parla di regimi illeberali involontariamente ci rivela cosa intendono oggi i nostri politici svendipatria quando parlano di ordine liberale e, cioè, regimi politici incapaci di esercitare una qualche forma di sovranità e che operano attivamente per facilitare l’appropriazione privata di beni pubblici nelle mani di una classe di oligarchi con interessi contrapposti all’interesse nazionale, che portano avanti un vero e proprio piano eversivo anticostituzionale in nome degli interessi generali dell’imperialismo.
Nel frattempo, intanto, a Mosca il dittatore plurimorto inaugurava il suo quinto mandato con un decreto omnibus che effettivamente – se questa è l’idea di liberalismo della classe politica del giardino ordinato – è autoritario che più autoritario non si può: se durante l’epoca d’oro del liberalismo post sovietico caratterizzata dall’ascesa di Khodorkovsky – come ricorda la famosa rivista scientifica rossobruna British Medical Journal – si era registrato infatti “il più grande calo dell’aspettativa di vita in tempo di pace della storia”, ora il regime illiberale di Putin vuole costringere i suoi cittadini a campare di più e “aumentare l’aspettativa di vita a 78 anni entro il 2030 e a 81 anni entro il 2036, compresa la rapida crescita degli indicatori di aspettativa di vita in buona salute”; il decreto, inoltre, introduce l’obiettivo di “aumentare entro il 2030 il numero di cittadini anziani e di persone con disabilità che ricevono servizi di assistenza a lungo termine ad almeno 500 mila persone”, di “ridurre il livello di povertà al di sotto del 7% entro il 2030 e al di sotto del 5% entro il 2036”, di “ridurre il coefficiente Gini (che indica il livello di concentrazione dei redditi) a 0,37 entro il 2030 e a 0,33 entro il 2036” e di “garantire un aumento del salario minimo a un ritmo accelerato, compresa la sua crescita entro il 2030 di oltre il doppio rispetto all’importo stabilito per il 2023”. Il decreto, inoltre, prevede di “aumentare entro il 2030 il numero di studenti stranieri che studiano nei programmi di istruzione superiore negli istituti di istruzione superiore e nelle organizzazioni scientifiche russe a non meno di 500 mila persone”; più avanti si parla, inoltre, di “fornire ai cittadini alloggi con una superficie totale di almeno 33 metri quadrati per persona entro il 2030 e almeno 38 metri quadrati entro il 2036”, di “garantire che il tasso di crescita del prodotto interno lordo del Paese sia superiore alla media mondiale e raggiunga, entro il 2030, il quarto posto mondiale in termini di prodotto interno lordo, calcolato a parità di potere d’acquisto, anche attraverso la crescita della produttività del lavoro, mantenendo la stabilità macroeconomica ad un basso livello di disoccupazione e riducendo il livello di disoccupazione strutturale” e anche di “garantire nel periodo 2024 – 2030 che la crescita reale del reddito per dipendente di una piccola e media impresa sia 1,2 volte superiore alla crescita del prodotto interno lordo”. E la lista continua: aumentare la quota di PIL derivante dalla manifattura, aumentare l’automazione, raggiungere il 2% del PIL destinato a ricerca e sviluppo, raggiungere l’indipendenza tecnologica in una bella fetta dei settori più importanti dell’economia del futuro prossimo e remoto e via dicendo; insomma: dal welfare alla formazione, dall’industria all’ambiente, alla cura del territorio, un piano ambizioso di rilancio della Russia che “rafforzi la sovranità statale, aumenti il tenore di vita dei cittadini sulla base dei valori della giustizia sociale e delle pari opportunità” garantendo, al contempo, “l’apertura al mondo esterno e lo sviluppo economico”. E se, per ottenerlo, sarà necessario ingabbiare qualche altro Khodorkovsky, vorrà dire che i cittadini russi se ne dovranno fare una ragione; ovviamente è tutta e solo propaganda e, come la Cina, anche la Russia – da qui al 2036 – fallirà più o meno una volta l’anno (almeno lo stesso numero di volte che Putin è già morto e che il battaglione Azov ha conquistato Vladivostock).
Il punto è, tutto sommato, molto semplice: la Russia in particolare, ma – chi più, chi meno – anche tutti gli altri paesi (per quanto ognuno abbia tutti i suoi problemi), fondamentalmente sono enormemente più ricchi di quanto non si creda; messe un po’ a cuccia le oligarchie che proliferano quando si instaurano i regimi cosiddetti liberali (che di liberale non c’hanno ormai assolutamente più nulla e assomigliano sempre di più a vecchi sistemi feudali), sviluppare le forze produttive in modo da garantire una crescita consistente di tutti i principali indicatori di benessere – quando più, quando meno – è più semplice di quanto ci vogliono far credere. Putin, da nazionalista, sta approfittando della guerra che gli ha dichiarato l’Occidente collettivo per accelerare questo processo e usarlo, invece che per arricchire i Khodorkovsky, per rendere più potente la nazione russa; e se, giustamente, ci preoccupiamo del fatto che una nazione potente può essere anche molto pericolosa (perché l’appetito, comunque, mangiando viene sempre), invece che vivere nel mondo parallelo delle Squartapalle di ogni genere e pensare di spezzare le reni alla Russia a suon di fake news provocandola finché non si rigira – e senza manco avere la capacità di tenerle testa perché tutto quello che avevamo l’abbiamo raso al suolo per ingrassare il conto in banca del Khodorkovsky di turno – sarebbe il caso, magari, di tornare anche noi a occuparci dello sviluppo delle nostre forze produttive cacciando i Khodorkovsky vari e di tornare a dialogare razionalmente con i russi da pari a pari. Insomma: la questione della pace e quella dello sviluppo sono intimamente interconnesse e a ostacolarle non sono i Putin, ma i Khodorkovsky e gli analfoliberali che li trattano come dei paladini della libertà. Mandiamoli tutti a casa! Per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che alle loro vaccate, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Putin prepara l’opzione nucleare

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“Fino all’ultimo ucraino!” – Quando la NATO fece fallire i colloqui di pace tra Ucraina e Russia.

“Volete la pace o il condizionatore acceso?” ha chiesto una volta lo statista Draghi all’opinione pubblica italiana per convincerci della bontà delle sanzioni economiche contro la Russia. Ecco, russi ed ucraini, dopo appena due mesi dallo scoppio del conflitto e dopo lunghi e complicati colloqui di pace, avevano scelto la pace; peccato che i governi occidentali, invece, scelsero la guerra. Non è una novità: i professionisti della disinformazione al soldo di Putin avevano provato a insinuare nel dibattito pubblico italiano un’ipotesi simile sin dall’inizio, provando così a inquinare la purezza del messaggio trasmesso a reti unificate sul sostegno incondizionato del mondo libero alle libere scelte del popolo libero e sovrano di Ucraina. La novità è che, da qualche tempo a questa parte, la stessa tesi complottista hanno cominciato a sostenerla anche alcuni media mainstream, portando scompiglio nel partito unico dei sostenitori della tesi dello scontro insanabile tra i valori del mondo libero e democratico e la ferocia barbarica dell’autoritarismo che arriva da Oriente; un senso di smarrimento generalizzato al quale gli alfieri della libertà di parola e di espressione, in nome della quale sono pronti a combattere la loro guerra contro l’autoritarismo fino all’ultimo ucraino, hanno deciso di reagire voltando la testa dall’altra parte e fischiettando spensierati.
Purtroppo per loro, le armi di distrazione di massa hanno le gambe corte e la verità, nonostante tutti gli ostacoli, torna sempre ostinata a bussare la porta: a questo giro, ha bussato alla porta di Foreign affairs, la testata del Council on Foreign Relations, probabilmente il think tank dell’impero più autorevole e influente in assoluto, da sempre luogo nevralgico per l’elaborazione dell’agenda bellicista dei neoconservatori di entrambi gli schieramenti politici; I colloqui che avrebbero potuto porre fine alla guerra in Ucraina titolano: la lunga inchiesta ricostruisce nel dettaglio i colloqui di pace tra ucraini e russi tenutisi prima in Bielorussia e poi in Turchia tra il marzo e il maggio del 2022, colloqui durante i quali le due parti erano arrivate a un passo da un accordo prima che gli iniziali successi militari ucraini sul campo di battaglia e la promessa a Zelensky di sostenerlo fino alla vittoria totale facessero saltare tutto per aria. Per ricostruire tutto questo, due fedeli atlantisti come Samuel Charap della RAND Corporation e e Sergey Radchenk della John Hopkins University hanno esaminato i progetti di accordi scambiati tra le due parti, condotto interviste con diversi partecipanti ai colloqui ed esaminato numerose interviste e dichiarazioni a funzionari ucraini e russi. Quello che emerge è che – come i complottisti sobillavano da tempo – a nessuno dei nostri governi è mai importato un bel nulla della sovranità territoriale dell’Ucraina e che la guerra in Ucraina è sempre stata solamente un tassello della terza guerra mondiale a pezzi condotta contro chiunque metta in discussione il dominio globale dell’impero.
Alla fine di marzo 2022, a un mese dallo scoppio del conflitto, russi e ucraini – dopo una serie di incontri in Bielorussia e in Turchia – producono il cosiddetto Comunicato di Istanbul, che descrive un quadro di massima per un possibile accordo di pace futuro; da quel momento, negoziatori ucraini e russi iniziano a lavorare a un trattato di pace compiendo progressi sostanziali verso un accordo. A inizio maggio però, inspiegabilmente, tutto d’un tratto, i colloqui si interrompono; cos’è successo? E quanto vicini erano arrivati a porre fine alla guerra? È a queste domande che vuole rispondere l’inchiesta di Foreign affairs: “Quando abbiamo messo insieme tutti questi pezzi, quello che abbiamo scoperto è sorprendente e potrebbe avere implicazioni significative per i futuri sforzi diplomatici per porre fine alla guerra” scrivono gli autori dell’inchiesta; “Nel bel mezzo dell’aggressione senza precedenti di Mosca” sottolineano i due ricercatori atlantisti “i russi e gli ucraini hanno quasi concluso un accordo che avrebbe posto fine alla guerra e fornito all’Ucraina garanzie di sicurezza multilaterali, aprendo la strada alla sua neutralità permanente e, in seguito, alla sua adesione all’UE”.

Aljaksandr Lukašenko con Vladimir Putin

I colloqui sono iniziati il 28 febbraio in una delle ampie residenze di campagna di Lukashenko, a circa 30 miglia dal confine tra Bielorussia e Ucraina; sul campo di battaglia, Putin – sostengono i due autori – non era riuscito a far cadere il regime di Zelensky in poco tempo come sperava mentre il governo ucraino, ancora sotto shock per l’attacco russo su tutti i fronti, era ben disposto a riconoscere a Mosca quello che non gli aveva riconosciuto nei quasi dieci anni precedenti di trattative: tutto questo creava le condizioni adatte affinché si arrivasse a un cessate il fuoco e a un compromesso accettabile per tutti. La delegazione ucraina, riportano gli autori, era guidata da Davyd Arakhamia, leader parlamentare del partito politico di Zelensky, e comprendeva il ministro della difesa Oleksii Reznikov, il consigliere presidenziale Mykhailo Podolyak e altri alti funzionari; la delegazione russa era guidata da Vladimir Medinsky, un consigliere senior del presidente russo che, in precedenza, aveva ricoperto il ruolo di ministro della cultura. Ai russi, si legge nell’inchiesta, importava soprattutto la neutralità ucraina, mentre Kiev voleva chiare garanzie di sicurezza che avrebbero obbligato altri Stati a venire in difesa dell’Ucraina se la Russia avesse attaccato di nuovo in futuro. “Il 10 marzo” ricostruiscono i due autori “il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba – allora ad Antalya, in Turchia, per un incontro con il suo omologo russo Sergey Lavrov – ha parlato di una soluzione sistematica e sostenibile per l’Ucraina, aggiungendo che gli ucraini erano pronti a discutere delle garanzie che speravano di ricevere dagli Stati membri della NATO e dalla Russia”. A riprova di questo, il 14 marzo, proprio mentre le due delegazioni si incontravano via Zoom, Zelensky pubblica un messaggio sul suo canale Telegram chiedendo “garanzie di sicurezza normali ed efficaci”. Secondo l’inchiesta, anche Naftali Bennett, primo ministro israeliano all’epoca dei colloqui, avrebbe mediato attivamente tra le due parti mentre, per tutto il mese di marzo, i combattimenti continuavano pesantemente su tutti i fronti.
La svolta nelle trattative, nella ricostruzione di Foreign affairs, sarebbe arrivata il 29 marzo a Istanbul: dopo l’incontro nella capitale turca, le parti annunciano un comunicato congiunto e i termini vengono descritti a grandi linee durante le dichiarazioni alla stampa. Foreign affairs ha ottenuto la bozza completa del testo dell’accordo, che avrebbe previsto per l’Ucraina di diventare “uno Stato permanentemente neutrale e non nucleare rinunciando ad aderire ad alleanze militari o di consentire basi militari o truppe straniere sul suo territorio” e, come garanzia della sua sicurezza, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU insieme a Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia in caso di attacco all’Ucraina sarebbero stati obbligati a fornire assistenza, obblighi, sottolinea l’articolo, “enunciati con molta maggiore precisione rispetto” addirittura anche “all’articolo 5 della NATO”. La Russia non chiedeva, quindi, carta bianca per riorganizzarsi e tornare a invadere impunita, con ancora maggior forza, l’Ucraina in futuro per brama di territori e di ricchezze da depredare, ma – molto semplicemente – la garanzia che l’alleanza aggressiva della NATO non fosse in condizione di utilizzare il protettorato ucraino per minare la sua sicurezza strategica; e, cioè, esattamente la tesi che per anni è stata etichettata come complottismo e propaganda putinista. Il comunicato di Istanbul, continuano gli autori, invitava poi le due parti “a cercare di risolvere pacificamente la controversia sulla Crimea nei prossimi 15 anni”; infine, la Russia avrebbe accettato di facilitare la piena adesione dell’Ucraina all’UE. Di confini e territori, invece – a riprova del fatto che era davvero l’ultimo dei problemi sia per Putin che per Zelensky – avrebbero parlato da ultimo i due presidenti in persona: “La bozza finale del 15 aprile” continuano gli autori “suggerisce che il trattato sarebbe stato firmato entro due settimane”; “A metà aprile 2022 eravamo molto vicini alla conclusione della guerra con un accordo di pace” avrebbe infatti confermato uno dei negoziatori ucraini, Oleksandr Chalyi, in un’apparizione pubblica nel dicembre 2023. Tutto sembrava fatto.
Ma cosa sarebbe stato, quindi, a far fallire i negoziati? “La risposta occidentale a questi negoziati” sono costretti ad ammettere i due autori “è stata certamente tiepida. Washington e i suoi alleati erano profondamente scettici riguardo alle prospettive del percorso diplomatico”; al contrario, sottolineano, i cosiddetti alleati scelsero di intensificare gli aiuti militari a Kiev e aumentare quello che definiscono espressamente il tasso di aggressività respingendo qualsiasi ipotesi di accordo. Sicuramente vi ricorderete la famosa missione ucraina dell’improbabile premier inglese Boris Johnson all’inizio dell’aprile del 2022, caratterizzata dal motto Combattere la Russia fino alla vittoria; in un’intervista dell’ormai lontano 2023, l’ex capo delegazione ucraina Arakhamia affermò chiaramente che “Quando siamo tornati da Istanbul, Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo dovuto firmare nulla con i russi e di continuare a combattere”. Anche il segretario di Stato americano Antony Blinken e il segretario alla difesa Lloyd Austin visitarono Kiev due settimane dopo Johnson e in conferenza stampa annunciarono: “La strategia che abbiamo messo in atto – un sostegno massiccio all’Ucraina, una pressione massiccia contro la Russia, la solidarietà con più di 30 Paesi impegnati in questi sforzi – sta avendo risultati concreti”.
Nell’articolo, Foreign affairs cerca, in tutti modi, di sminuire il peso della decisione occidentale nell’interruzione dei colloqui di pace e nella decisione ucraina di continuare la guerra, quasi come si vergognasse dei risultati della propria stessa inchiesta, ma non avevamo poi così tanto bisogno di loro per capirlo.
Oltre al buonsenso, ci sono anche le parole più volte pronunciate dall’ex primo ministro israeliano Naftali Bennet a dimostrarlo: in un’intervista del febbraio scorso, Bennet ricordava come tra la linea dei francesi e tedeschi, decisamente più pragmatici e propensi alla pace, e la linea oltranzista di Johnson, gli Stati Uniti alla fine scelsero la seconda e convinsero gli ucraini a fare altrettanto. La decisione fu, insomma, quella di “continuare a colpire Putin e non negoziare” dice Bennet. Insomma: una guerra che poteva finire con un bilancio di un migliaio di morti, con l’Ucraina in possesso di una parte dei territori oggi occupati dai russi, con milioni di sfollati in meno è stata trasformata dalla NATO in una guerra strategica per logorare la Russia, indebolire uno dei pezzi fondamentali del fronte che si batte per un nuovo ordine multipolare e rimandare, così, l’inevitabile collasso del progetto imperialistico statunitense, sulla pelle degli ucraini e dell’economia europea; una strategia, oltre che cinica e disumana, da molti punti di vista – e sempre più chiaramente – anche fallimentare e che, nei libri di storia del prossimo futuro, verrà probabilmente ricordata come il vero inizio del tramonto dell’ordine unipolare a guida americana che, ormai, sembra sempre più inarrestabile.
“L’Ucraina si avvia verso la sconfitta” ribadiva, ancora una volta, Jamie Dettmer su Politico mercoledì scorso; ed ecco che a tornare all’attacco è lo stesso Johnson, che così tanto impegno aveva messo nel far naufragare le trattative che avrebbero evitato tutto questo – garantendo vittoria sicura agli Ucraini – e che oggi si chiede sorpreso “Perché diavolo siamo così lenti nel fornire all’Ucraina le armi di cui ha bisogno?” per poi sottolineare con rara chiarezza cosa c’è davvero in ballo: “Se l’ucraina cade” afferma “per l’Occidente sarà una catastrofe. Sarà la fine dell’egemonia occidentale”. Tra tanti difetti, gli esaltati suprematisti come Johnson hanno sicuramente un grande pregio: dicono le cose come stanno. Chi vede la guerra come una difesa del diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina e, quindi, pensa che la sua sconfitta sia una cosa triste e grave, ma che, alla fine del giro, stringi stringi, tutto sommato siano anche un po’ stracazzi loro, vive in un mondo parallelo: una vittoria russa significherebbe la fine dell’egemonia occidentale e, cioè, del diritto delle élite occidentali bianche – che sostanzialmente sono, con qualche rara eccezione qua e là, le stesse identiche persone e famiglie da 5 secoli a questa parte che, con la violenza delle armi e della finanza, si arricchiscono a dismisura sfruttando tutto il resto del pianeta. Da questo punto di vista, il caso di Boris Johnson è emblematico: è addirittura discendente diretto di Giorgio II.
Che questi siano terrorizzati per la fine del vecchio ordine fondato sui loro privilegi, ci sembra solo una buona notizia, sinceramente, e visto che chi nasce e cresce tra gli allori e s’è sempre ritrovato la tavola apparecchiata difficilmente sviluppa qualche talento particolare, il fatto che dei personaggi così abbiano, ancora oggi, voce in capitolo non può che avvicinare l’ora della loro fine; ed ecco così che il caro Johnson ha contribuito alla sua fine imponendo la volontà delle oligarchie occidentali di non firmare gli accordi a suo tempo e, ora, continua a dare il suo contributo. E invece di proporre una qualche exit strategy che faccia i conti con la realtà, rilancia la solita vecchia litania: sempre di mandare più armi all’Ucraina si tratta, solo che, due anni dopo, l’obiettivo al massimo non è certo vincere la guerra, ma tentare perlomeno di non perderla rovinosamente e, nel frattempo, di fare più danni possibili alla Russia, così impara.

Boris Johnson

Ma il rischio che, ormai, sia troppo tardi anche per questo obiettivo non particolarmente ambizioso sembra sempre più concreto: come ricorda Simplicius The Thinker sul suo profilo Substack, infatti “Ricordate il presunto milione di proiettili che la Repubblica Ceca avrebbe trovato per l’Ucraina? Ora il presidente ceco Peter Pavel ha confermato di aver stretto accordi solo per 180 mila, e forse di averne trovati altri 120 mila, anche se non sono stati ancora acquistati. L’intero numero” sottolinea Simplicius “è fondamentalmente ciò che la Russia produce al mese”; d’altronde, di paesi che hanno munizioni da dar via in un mondo che, grazie alla lotta contro la fine dell’egemonia dell’Occidente dei vari Boris Johnson si ritrova ormai impelagato in questa guerra mondiale a pezzi, non è che ne rimangano molti. Per arginare in minima misura questo gigantesco gap, allora, l’Occidente collettivo sembra aver deciso di far produrre di più agli stessi identici stabilimenti di prima, oltre ogni limite; risultato: nell’arco di un paio di settimane, due fabbriche dedicate alla produzione di munizioni da 155 millimetri negli USA e una in Gran Bretagna hanno preso fuoco. “L’urgente aumento dei programmi di produzione” commenta sempre Simplicius “ha semplicemente sovraccaricato l’invecchiamento e lo stress delle infrastrutture e della forza lavoro in questi siti, il che si traduce comprensibilmente in elevati rischi di incidenti industriali” e l’Ucraina, appunto, è soltanto uno dei fronti che richiede sempre più armi: di fronte all’impotenza dimostrata dall’impero contro l’Iran in Medio Oriente, gli USA hanno annunciato un nuovo pacchetto bello ciccione di armi a sostegno dello sterminio dei bambini palestinesi e per provare a evitare che la Cina si metta in testa che, visto che gli USA e i suoi vassalli stanno prendendo schiaffi contemporaneamente su ben due fronti diversi, magari è arrivata l’ora di chiudere definitivamente la partita anche nel Pacifico, anche nei confronti di Taiwan gli aiuti militari non fanno che aumentare. Risultato: ecco che i repubblicani, finalmente, sembrano aver deciso di approvare il megapacchetto di nuovi aiuti su tutti i fronti, che giace al congresso ormai da 4 mesi. “Sto cercando di fare la cosa giusta” ha detto lo speaker repubblicano della camera Mike Johnson per provare a giustificare il suo repentino cambio di rotta: “Sono convinto del fatto che Xi, Putin e l’Iran costituiscano davvero l’asse del Male e credo che si stiano coordinando. E credo che Putin, se glielo permettiamo, finita questa partita andrà sicuramente oltre e che, dopo l’Ucraina, verranno i paesi del Baltico e anche la Polonia”.
L’ironia è che, degli oltre 90 miliardi in questione tra Ucraina, Israele, Mar Rosso e Pacifico, il 60% – in realtà – non andrà direttamente in armi ai proxy per tentare di non perdere rovinosamente le diverse guerre, ma a rifornire gli arsenali svuotati del dipartimento della difesa USA. Dalla guerra per procura in Ucraina a quella contro gli stati sovrani del Medio Oriente, passando per la guerra economica alla Russia e alla Cina a suon di sanzioni illegali, l’impressione sempre più concreta è che l’impero sia ormai sostanzialmente impotente di fronte ai suoi avversari e che l’unica cosa che lo tenga ancora in vita è la volontà degli alleati vassalli di dissanguare i loro cittadini, per impedire che il difensore universale del diritto delle élite sanguisughe di vivere sulle spalle altrui crolli come un castello di carte; tutti i subalterni del pianeta, dai paesi del Sud globale alle masse popolari sfruttate dell’Occidente collettivo, hanno di fronte un’occasione senza precedenti di mettere fine al vecchio ordine fondato sullo sfruttamento e la violenza. Ma a raccontarvi il nuovo mondo che avanza non saranno certo i vecchi media: ci serve un vero e proprio nuovo media che dichiari guerra ai privilegi dei Boris Johnson e dia voce agli interessi e ai diritti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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L’Europa lascia cadere l’ultimo tabù e dichiara apertamente guerra alla Russia

“E’ tempo di adottare misure radicali e mettere l’Unione Europea sul piede di guerra”; la lettera di invito di Charles Michel ai leader del vecchio continente per il Consiglio Europeo iniziato ieri a Bruxelles non poteva essere più esplicita: “A due anni dall’inizio della guerra” aveva anticipato con un editoriale pubblicato dalla crème de la crème della propaganda guerrafondaia europea “è ormai chiaro che la Russia non si fermerà in Ucraina. Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare a una modalità di economia di guerra”.

Pierre Schill

Dalle dichiarazioni sull’invio di truppe NATO in Ucraina di Macron in poi, l’escalation verbale non ha fatto che procedere inesorabile e i vecchi tabù stanno rapidamente crollando uno dopo l’altro; giovedì Le Monde ha pubblicato un editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill (che non si capisce bene se c’è o ci fa): “La Francia” ha annunciato “ha la capacità di impegnare una divisione, ovvero circa 20.000 uomini, nell’arco di 30 giorni” e potrebbe “comandare un corpo fino a 60 mila uomini in coalizione, combinando una divisione francese e capacità nazionali all’estremità superiore dello spettro militare con una o più divisioni alleate”. Due ore dopo, su TF1 il colonello Vincent Arabaratier era già intento a spiegare nei dettagli dove andrebbero impiegate; le opzioni, sostiene, sarebbero sostanzialmente due: la prima che, con ogni probabilità, a breve ci verrà presentata come il male minore, prevede di posizionarle al confine con la Bielorussia per liberare truppe ucraine che potrebbero, così, raggiungere la linea di contatto sul fronte. La seconda, invece, più spregiudicata, prevede di posizionarle direttamente sulla sponda occidentale del fiume Dnepr: “Ma colonnello” gli chiede la giornalista, “il solo fatto di ammassare delle truppe lungo il Dnepr, anche se chiariamo che non spareremo mai per primi, non potrebbe essere considerata dalla Russia come una provocazione?”; “Assolutamente no” risponde il colonnello. Eh già, quando mai… “Si tratta solo di forzare la Russia a discutere, garantendo però l’equilibrio sul campo”; “I nostri soldati” ribadisce poi il colonnello a sostegno delle dichiarazioni del suo superiore a Le Monde “possono essere impiegati rapidamente, ed è uno dei vantaggi principali delle nostre forze armate rispetto ad altre, a partire dalla Germania. E non è solo una questione di qualità dei nostri soldati, ma anche perché il presidente ha i potere di dispiegare le forze immediatamente, cosa che invece non può fare il cancelliere Scholz, che deve riferire al parlamento e raccogliere il consenso del parlamento”, particolare non da poco – direi – dal momento che, ovviamente, in entrambi i casi l’invio di truppe rappresenterebbe un vero attentato alla volontà popolare: secondo un sondaggio di Elab, infatti, il 79% dei francesi si sarebbe detto contrario all’invio di truppe da combattimento in Ucraina e il 57% riterrebbe che il presidente Emmanuel Macron abbia fatto un errore madornale anche solo a esternare questa ipotesi.
Discorso diverso, invece, per le élite di svendipatria al governo in tutti i vari protettorati di Washington del vecchio continente: in soccorso a Macron, ad esempio, è arrivato subito Ben Wallace, l’ex ministro della difesa britannico del governo Johnson, quello responsabile del naufragio dei primi negoziati subito nella primavera del 2022; imitando la formula di Macron, ha affermato che l’invio di truppe britanniche in Ucraina “non può essere escluso” e, nel frattempo, ha invitato i leader di tutte le forze politiche a unirsi al suo appello per far crescere la spesa militare oltre il 3% del PIL, e di farlo subito. “Non si investe quando mancano 5 minuti a mezzanotte” ha affermato; “devi cominciare a farlo subito”. “Putin” ha sottolineato “si deve rendere conto subito che questa volta facciamo sul serio” perché, ha concluso, “credo sia la persona più vicina ad Adolf Hitler che abbiamo avuto in questa generazione”. Gli ha fatto eco l’ex capo dell’MI6, un novello dottor Stranamore di fatto e di nome: si chiama Richard Dearlove, Riccardo Stranamore, e su Politico ha tuonato “Se fermassi qualcuno per strada qui nel Regno Unito e gli chiedessi se pensa che la Gran Bretagna sia in guerra, ti guarderebbero come se fossi pazzo. Ma noi siamo in guerra, siamo impegnati in una guerra grigia con la Russia, e io non faccio altro che provare a ricordarlo alla gente”.
Per gli altri leader, invece, stringi stringi il problema è esclusivamente di public relation; in soldoni, si tratta solo di capire modi e tempi per comunicare a una popolazione che, di questo suicidio, non ne vuole più sapere, quello che ormai in molti ritengono sostanzialmente inevitabile: la grande guerra dell’Occidente collettivo contro il resto del mondo per impedire che si metta finalmente termine a 5 secoli di dominio dell’uomo bianco sul resto del pianeta è appena all’inizio. Nella complicata gestione contemporaneamente di 3 fronti, per liberare energie da impiegare per il fronte principale del Pacifico gli USA hanno delegato ai servitori obbedienti del vecchio continente il fronte occidentale della Russia e, da bravi cagnolini obbedienti, non c’è valutazione razionale possibile che possa condurli a desistere dal portare avanti la loro missione: un tempo era fino all’ultimo ucraino; ora, però, gli ucraini sono finiti e tocca a noi. Siamo davvero disposti a far trucidare i nostri figli per permettere a questi svendipatria di assolvere ai loro doveri? Prima di continuare questo racconto, però, come sempre vi invito a mettere un like a questo video per aiutarci a combattere la nostra piccola guerra contro la dittatura degli algoritmi e anche ad attivare le notifiche ed iscrivervi a tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese.
“È questa primavera, quest’estate, prima dell’autunno che si deciderà la guerra in Ucraina”: a sottolineare l’urgenza della situazione, la settimana scorsa, era stato il compagno Josep Borrell; “I prossimi mesi saranno decisivi” aveva affermato, e “qualunque cosa debba essere fatta, deve essere fatta rapidamente”. E’ il mandato che ha ricevuto dal suo superiore diretto, il segretario di stato USA Antony Blinken, che era andato a omaggiare mercoledì scorso: ormai, in piena campagna elettorale, è ormai palese che – almeno da qua a novembre – gli USA non saranno più in grado di assistere l’Ucraina non dico tanto per invertire le sorti del conflitto (che è sempre stata, e continua ad essere, una chimera buona solo per gli allocchi analfoliberali), ma manco per evitare il collasso definitivo e la vittoria a tutto campo di Mosca.
A metterci una toppa dovranno essere le nostre élite contro il volere dei loro cittadini, una missione particolarmente ardua: decenni di dipendenza dall’apparato militare industriale USA non si invertono in pochi mesi, soprattutto dopo due anni di guerra economica a tutto campo degli USA contro l’Europa che hanno polverizzato tutte le risorse; e, infatti, il nocciolo principale ora sembra essere proprio quello. Michel parla di “economia di guerra”, ma chi sarà a finanziarla – e come – rimane un mistero; finanziarla a debito, dopo 30 anni che non fai altro che dire che ogni forma di debito, qualsiasi sia la finalità, è un peccato mortale, potrebbe non essere così banale: se ripeti continuamente una formuletta magica per decenni, inevitabilmente va a finire che poi la gente ci crede e quando, di punto in bianco, devi confessare che era tutta una messinscena per permettere alle oligarchie di fottere la gente comune, potresti incontrare qualche resistenza – soprattutto se, di lì a poco, devi pure tornare a chiedere di votarti. E’ esattamente il nodo che potrebbe impantanare le farneticazioni di Michel sull’economia di guerra ancora prima di partire: l’idea di Michel, infatti, è di emettere debito comune europeo per finanziare il riarmo, ma i frugali che, da decenni, basano il loro consenso sulla religione dell’austerity, di perdere voti per fare un favore a Washington non sembrano avercene particolarmente voglia.
In cima all’agenda, allora, torna l’idea della supertassa sui profitti che derivano dagli asset russi congelati per le sanzioni: peccato che, nella più ottimistica delle stime, potrebbe fruttare al massimo 10 miliardi l’anno, lo 0,05% del PIL; ne servirebbero almeno 10 volte tanti. L’unica soluzione allora, come sempre, rimane provare a richiamare all’ordine i capitali privati che in cambio, ovviamente, chiedono una cosa molto semplice: una garanzia a lungo termine che gli ordini continueranno ad arrivare copiosi per molti anni a venire. E l’unico modo per garantire davvero che gli ordini continueranno a venire a lungo è convincerli che, d’ora in poi, l’Europa sarà in guerra a tutto campo; dichiarare apertamente che l’Europa si sta attrezzando per mandarci tutti al macello, però, dal punto di vista dell’opinione pubblica non è esattamente una carta vincente e, quindi, riecco la favola della deterrenza: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra” cita Michel nel suo editoriale, ma ovviamente è una vaccata, sia perché non è che puoi accumulare arsenali all’infinito (a un certo punto, qualcosa con le armi che compri ce lo dovrai fare, e le armi non è che abbiano tanti utilizzi alternativi, diciamo), sia anche perché, se ti armi fino ai denti, quello che ti sta a un tiro di schioppo magari non è che si senta esattamente rassicurato. Soprattutto se, per giustificare proprio il fatto che ti stai armando fino ai denti, sei costretto a dire ai 4 venti che quello ti sta per invadere e che per te è una minaccia esistenziale e, allora, magari va a finire che la tua diventa una delle classiche profezie che si autoavverano (soprattutto se il tuo nemico, in quel momento, ha un vantaggio che – mano a mano che ti riarmi – potrebbe diminuire): ora, è anche vero che le nostre classi dirigenti sono formate da scappati di casa inadeguati a qualsiasi altra attività, ma – sinceramente – che siano così dementi da non capire questa banale sequenza logica mi sembra un po’ improbabile; cioè, Lia Squartapalle o Maurizio Gasparri magari sì, ma che siano messi tutti così non ci credo. E quindi non ne possiamo che dedurre che quando Michel parla di un’Europa sul piede di guerra non sia solo uno scivolone: l’Occidente collettivo sta premendo volontariamente e consapevolmente l’acceleratore verso la terza guerra mondiale e a noi tocca occuparci della Russia, tanto che sarà mai… “Putin porta avanti una narrazione fondata sulla paura” ha sottolineato il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron, ma noi “Non dobbiamo lasciarci intimidire” perché, in realtà, “di fronte, non abbiamo una grande potenza”: “La Russia” sottolinea infatti “è una potenza media il cui PIL è molto inferiore a quello degli europei”; il problema quindi, molto banalmente, è superare le divisioni politiche che rimangono al nostro interno e, soprattutto, smetterla di fare i paciocconi e la Russia non avrà scampo, anche senza il supporto degli USA. Anzi: per noi è un’opportunità da cogliere al balzo, un incentivo a costruire finalmente l’unità politica del continente troppo a lungo rimandata.
E’ esattamente questa incrollabile fiducia sul proprio potenziale inespresso che permea tutto l’editoriale del capo delle forze armate francesi Pierre Schill su Le Monde: per Schill, infatti, il nostro problema è che veniamo da diversi anni di pace “punteggiati qua e là da limitati dispiegamenti di forze di spedizione in missioni di gestione delle crisi”; è il sogno che abbiamo coltivato dalla fine della guerra fredda, sottolinea Schill, “marginalizzare la guerra fino a metterla fuori legge, concentrare gli eserciti sulla gestione della crisi e mettere da parte della violenza” perché – si sa – fino a che a morire sono i popoli delle colonie, le guerre si chiamano gestione di crisi, e gli stermini sono umanitari e non violenti. Ora però, sottolinea Schill, “Contrariamente alle aspirazioni pacifiche dei paesi europei” dove per pace, ovviamente, si intende l’incapacità dei popoli inferiori aggrediti di opporre troppa resistenza, “i conflitti che si stanno diffondendo ai margini del nostro continente testimoniano il ritorno alla guerra come modalità di risoluzione dei conflitti”; il più grande rammarico di Schill è che “La fantasia di una guerra moderna combattuta interamente a distanza” – dove l’uomo bianco sta comodamente seduto al sicuro da una stanza di controllo e comando e, con la semplice pressione di un ditino, stermina interi villaggi – “si è dissipata” e “sono finiti i giorni in cui si poteva cambiare il corso con 300 soldati”.
Poco male, però: alla fine, si tratta – appunto – solo di cambiare atteggiamento; in particolare, la Francia “ha una serie di importanti vantaggi per quanto riguarda l’equilibrio di potere e le nuove forme di guerra. A causa della sua geografia e prosperità all’interno dell’Unione Europea” sottolinea “nessun avversario minaccia i suoi confini continentali” e “al di fuori della Francia continentale, le sfide alla sovranità dei territori francesi rimangono marginali”. Ciononostante, “La Francia ha la capacità di impiegare nell’arco di 30 giorni” nientepopodimeno che un’intera divisione, “ovvero circa 20 mila uomini” e senza contare che, poi, c’è sempre “la deterrenza nucleare” che “salvaguarda gli interessi vitali della Francia”; l’unica cosa che le manca, sostiene Schill, è un po’ di spavalderia in più: “Per difendersi dalle aggressioni e difendere i propri interessi” sottolinea Schill “l’esercito francese” non solo si deve preparare “agli scontri più duri”, ma lo deve dimostrare e far sapere al mondo intero. Non per rompere le uova nel paniere al simpatico Schill, ma ho come l’impressione che le caratteristiche elencate, per incutere timore sulla Russia potrebbero non essere esattamente sufficienti: i suoi 20 mila uomini non sembrano poter troppo intimorire gli oltre 600 mila che Putin ha dichiarato di aver mandato in Ucraina e le sue 290 testate nucleari potrebbero non essere esattamente sufficienti a disincentivare la Russia, che ne ha oltre 6000.
Anche sul fronte della potenza economica, la storiella trita e ritrita della Russia stazione di servizio con la bomba nucleare si è abbondantemente rivelata essere poco più di una leggenda metropolitana – e la spettacolare resilienza di fronte a due anni del più vasto regime di sanzioni di sempre dovrebbe avercelo abbondantemente dimostrato; d’altronde, in qualche misura, era prevedibile: a parità di potere d’acquisto, la Russia – come ha ricordato recentemente lo stesso Putin – è la quinta economia mondiale. Ora, su quanto pesi il calcolo del prodotto interno lordo a parità di potere d’acquisto ci sono molte scuole di pensiero diverse (e tutte hanno una parte di ragione, anche quelle che lo considerano un parametro poco significativo), a meno che un paese non abbia un surplus commerciale significativo: nel caso un paese esporti, nel complesso, molto più di quello che importa, il prodotto interno nominale in dollari significa poco o niente e, guarda caso, è esattamente il caso della Russia; una prova su tutte? Quando, nel 2014, scoppiò la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, nell’arco di pochi mesi il rublo precipitò: se prima, per comprare un dollaro, bastavano 37 rubli, ora ne servivano oltre 70; risultato? il PIL nominale in dollari passò dagli oltre 2.000 miliardi del 2014 a meno di 1.400 nel 2015, per poi diminuire ancora sotto soglia 1.300 nel 2016, dimezzato. Ora, immaginatevi se domani, dal giorno alla notte, si dimezzasse il PIL italiano: sarebbe una catastrofe; eppure, in Russia, praticamente manco se ne accorsero. Il loro PIL, a parità di potere d’acquisto, era rimasto inalterato e se sei un paese che esporta più di quello che importa, alla fine – tagliando tutto con l’accetta – è quello che misura la tua potenza economica: l’idea, quindi, che sul fronte europeo sia solo questione di superare le divisioni politiche e di riaggiustare un po’ il tiro dopo decenni di fantomatica utopia pacifista – ammesso e non concesso che sia così semplice – potrebbe rivelarsi un po’ troppo ottimistica.

Charles Michel

Questa deriva drammatica, comunque, potrebbe avere anche un paio di conseguenze positive: la prima è che, finalmente, i leader europei, per dare una parvenza di sovranismo alla scelta del riarmo per mandato e in conto di Washington, ammettono candidamente che – fino ad oggi – si sono fatti dettare la politica estera; prima è stato il turno di Michel che ha ammesso candidamente che, fino ad oggi, siamo sempre stati “in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti” e poi l’ha ribadito pure la nostra Giorgiona la madrecristiana. “Occorre smettere di essere ipocriti” ha dichiarato di fronte al senato: “Se chiedi a qualcuno di occuparsi della tua sicurezza, devi prendere in considerazione che quel qualcuno avrà grande voce in capitolo quando si tratterà di discutere di dinamiche internazionali”. La seconda, invece, è che ormai si fa avanti la consapevolezza che se vuoi fare contemporaneamente la guerra alla Cina e alla Russia, per lo meno in Medio Oriente una qualche soluzione la devi trovare; ed ecco, così, che anche la Giorgiona, dopo aver chiaramente ricordato che la colpa del genocidio in corso a Gaza è tutta di Hamas, che “Non possiamo dimenticare chi ha scatenato questo conflitto” e che i civili a Gaza sono prima di tutto “vittime di Hamas, che le utilizza come scudi umani”, “nell’interesse di Israele” ci ha tenuto a ribadire la contrarietà del nostro governo “a un’azione militare di terra a Rafah”: d’altronde, a parte le considerazioni geopolitiche, Giorgia è prima di tutto una madrecristiana e alle piccole creature ci tiene. Ed è per questo che ribadisce che l’Italia, su indicazione di Israele, non riprenderà a finanziare l’UNRWA, il che, però, “non vuol dire non occuparsi dei civili di Gaza, perché i medici dei nostri ospedali pediatrici hanno curato finora almeno 40 bambini palestinesi”, cioè uno ogni 400 bimbi trucidati.
E se, alla fine, si scoprisse che il motivo di tutte queste incomprensioni e valutazioni sballate è, semplicemente, che quei casi umani che guidano il nostro paese e l’Europa tutta hanno dei problemi irrisolvibili con la matematica più elementare? Viviamo nella peggiore delle distopie, con l’armageddon che si avvicina e le classi dirigenti – e la propaganda che le sostiene – che sembrano vivere in un universo parallelo; organizzare la resistenza non è più semplicemente un dovere morale: è puro spirito di sopravvivenza. Per farlo, abbiamo bisogno prima di subito di un vero e proprio media che smonti i deliri della propaganda suprematista pezzo dopo pezzo e dia voce alla pace e al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Lia Squartapalle

L’Occidente in panico per il trionfo di Putin reagisce a suon di fake news e leggende metropolitane

I media occidentali non sembrano avere dubbi: sapete chi è stato il vero vincitore delle elezioni in Russia? Alexander Navalny! Lo sapevo! Hai presente quando ti ritrovi a un megapranzo di famiglia e c’è il parente scemo – e anche un po’ antipatichello – e non si capisce bene per quale motivo sei un po’ in apprensione perché temi si metta in imbarazzo da solo con qualche discorso a cippadicazzo? Ecco, il mio mood per tutto il weekend è stato esattamente quello: speravo che i nostri giornali, per elaborare il lutto del trionfo elettorale di Putin, non si inventassero qualche megastronzata galattica delle loro che ci fa apparire sempre di più lo zimbello dell’universo mondo, ma la speranza è durata pochino. Il primo episodio, che ormai conoscerete già tutti, è quello di questo video; tra i primi a ripostarlo in Italia è l’infallibile Daniele Angrisani, uno dei più brillanti e acuti giornalisti d’inchiesta della penisola, firma di punta della sempre puntualissima e scrupolosissima Fanpage e arcinoto nel microcosmo dei NAFO più intransigenti per il suo incrollabile ottimismo che, in passato, l’ha portato ad affermare che “La Russia ha già perso la guerra”(maggio 2022), che “La Russia può e deve essere sconfitta militarmente” (settembre 2022)

e che ci sono ben “Otto motivi per cui l’Ucraina può vincere la guerra nel 2023 (dicembre 2022). Il video condiviso da Angrisani riprenderebbe un militare russo che entra in fretta e furia in un seggio e poi si affaccia in due cabine elettorali “chiedendo cortesemente”, sottolinea Angrisani, “di vedere il voto”, ma così a occhio non sembra esattamente convincentissimo, diciamo: solo per rimanere alle cose più eclatanti, infatti, si nota immediatamente che dentro le cabine manca un piano dove appoggiarsi per scrivere sulla scheda e, all’arrivo del militare, le persone che stanno votando non hanno nessunissima reazione; manco si girano. Nonostante il controllo poliziesco, chi sta riprendendo inquadra la scena in maniera perfetta, senza muoversi di un millimetro e quindi, si presume, è perfettamente visibile dal militare che, però, non ha niente da ridire e che entra in scena esattamente al momento giusto dal lato giusto; manca solo una vocina che dica ciak, si gira: potevano fare di meglio, diciamo, ma tanto – avranno pensato – con tutti st’invasati che girano su Twitter un Angrisani che se la beve, in Occidente, lo troviamo di sicuro lo stesso.
Il problema è che, oltre a un Angrisani qualsiasi, a crederci – o a sperare che ci creda chi li segue – sono anche parecchi altri e il video, così, viene trasmesso da tutti i principali tg nazionali, da La7 a RAI 1, e quando è montata l’indignazione ecco che, immancabile, è arrivato anche il MacGiver del debunking, David 7cervelli Puente che, irreprensibile come sempre, ha denunciato come “La propaganda russa si sta impegnando per far passare il video come falso e fabbricato da parte degli ucraini, ma le prove fornite risultano deboli”. Quelle a sostegno dell’autenticità, invece, sono inossidabili: “Diversamente da altri casi verificati” ammette lo stesso Puente “il video non risulta geograficamente individuabile” e “non si conosce” né “l’esatta ubicazione del seggio”, né “in quale giorno sia accaduto il presunto episodio”; inoltre, riporta sempre Puente, l’account che ha caricato il video per primo sul social VK non è più presente, ma sono tutti dettagli che per alzare un polverone a caso sullo svolgimento del voto russo, evidentemente, possono essere trascurati e, purtroppo, questa trashata era destinata a non essere altro che un piccolo antipastino del delirio che sarebbe seguito.
Carissimi Ottoliner, ben ritrovati: oggi vi allieteremo con un altro entusiasmante racconto della cripta della post verità; prima di andare oltre, però, ricordatevi di mettere un like per aiutarci nella nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e anche di iscrivervi e di attivare le notifiche su tutti i nostri canali, compreso quello in lingua inglese – e così vediamo se insieme riusciamo a rompere l’oscurità della propaganda che ci circonda.
Durante tutto il weekend, mano a mano che cominciavano ad arrivare i primi dati che facevano odorare un’affluenza record alle urne in tutta la Russia, passo dopo passo la propaganda suprematista metteva le basi per la sua sceneggiata da oscar ricalcando la tecnica propagandistica sviluppata in mesi e mesi di sconfitte eclatanti sul fronte ucraino e che affonda le sue radici nella teoria della macchina del fango dell’FBI di Hoover: di fronte a un evento dall’esito scontato e di un’entità che rende impossibile ignorarlo tout court, si tenta di creare una narrazione ad hoc che miri perlomeno a ridurre la portata e l’impatto dell’evento stesso; una realtà parallela costruita ad hoc dove una cacatina ininfluente, sufficientemente gonfiata, distoglie l’attenzione dall’evento che si vuole dissimulare e permette di creare una cortina fumogena all’interno della quale è possibile continuare a sostenere una narrazione palesemente irrealistica, almeno di fronte al pubblico più distratto o ideologicamente più favorevolmente orientato. E’ esattamente quello che si è cercato di ottenere con le varie operazioni mediatiche sul fronte ucraino – dallo sbarco di qualche disperato a bordo di qualche barchino sulla riva orientale dello Dnepr spacciata per potenziale testa di ponte, agli attacchi suicidi dei lettori di Kant in quel di Belgorod. A questo giro, a mettere le basi della brillante strategia che avrebbe permesso alla gigantesca macchina propagandistica dell’Occidente collettivo di negare il trionfo di Putin qualsiasi fosse stato il risultato, c’aveva pensato lo stesso Navalny nella sua ultimissima apparizione: si chiamava Mezzogiorno contro Putin e consisteva, molto banalmente, nel recarsi alle urne alle 12 di domenica. A fare cosa? Assolutamente niente. E come si sarebbero riconosciuti? Ma in nessunissimo modo, ovviamente: un po’ come se io ora organizzassi un boicottaggio contro Carrefour, accusata di commerciare prodotti che arrivano direttamente dai territori occupati illegalmente da Israele, e dessi appuntamento ai protestatari in qualche catena concorrente nell’ora di punta di un giorno che precede una festività importante senza indicare, appunto, nessuna azione da fare e nessun segno distintivo; poi, all’ora X, faccio un po’ di foto alle code che si formano inevitabilmente a quell’ora (protesta o non protesta) e con la connivenza dei media le spaccio per la prova del grande successo della mia protesta. Gli italiani boicottano Carrefour. Alla vigilia di Natale migliaia di persona in fila alla Conad e alla Coop in sostegno alla campagna lanciata da Ottolina Tv: come presa per il culo sembra un po’ troppo spregiudicata; eppure è esattamente quello che è successo con queste elezioni.
A dare il la, già domenica, c’aveva pensato l’Economist: La farsa della rielezione di Vladimir Putin – titolavaè degna di nota solo per le proteste; in serata, Reuters riportava le parole di Leonid Volkov, l’”aiutante di Navalny in esilio che è stato attaccato con un martello la scorsa settimana a Vilnius” e che, sottolinea Reuters, “stima che centinaia di migliaia di persone si siano recate ai seggi elettorali a Mosca, San Pietroburgo, Ekaterinburg e in altre città”. “Reuters” però, purtroppo – sottolinea l’articolo con una forma davvero apprezzabile di autoironia british involontaria – “non ha potuto verificare in modo indipendente tale stima”, però, aggiunge, “giornalisti Reuters hanno notato code di diverse centinaia di persone, in alcuni luoghi anche migliaia”; peccato si fossero dimenticati il telefonino a casa e, alla fine, la foto più esplicativa che sono riusciti a recuperare è questa. Ciononostante, ieri mattina sui giornali italiani la grande mobilitazione delle bimbe di Navalny dominava la scena in modo totalmente bipartisan: Migliaia di persone si sono radunate davanti ai seggi per il mezzogiorno contro Putin titolava Il Domani; Code per Navalny – rilanciava Libero – “I sostenitori dell’attivista in massa ai seggi alla stessa ora”. “Le immagini che Vladimir Putin e i suoi sodali non avrebbero mai voluto vedere” riporta concitato Roberto Fabbri sul Giornanale “hanno fatto il giro del mondo”: “Code di centinaia di metri” insiste, “nonostante rischino perfino anni di carcere”; ma che dico anni, millenni! E che dico centinaia di metri di coda: decine di migliaia di chilometri, che dimostrano chiaramente “il coraggio di chi resiste nel regime che uccide l’opposizione”. “Un sassolino nella macchina da guerra del trionfo annunciato di Vladimir Putin” rilancia sempre sul Giornanale Andrea Cuomo che, di solito, quando parla di sassolino si riferisce al liquore (visto che si occupa di enogastronomia), ma – d’altronde – per fare un po’ di propaganda spiccia con vaccate del genere non è che serva un master in relazioni internazionali, diciamo; basta un po’ di estro creativo che a Cuomo, onestamente, non manca: questo, continua infatti ispiratissimo, “è un sassolino che fa rumore”, un rumore che “per lo Zar che, salute permettendo, resterà al Cremlino fino al 2030 è fastidioso”, ma che “per i russi e per buona parte del mondo” è “una sottile melodia di libertà”.
Anche Marco Imarisio sul Corriere della serva era partito col caricatore della retorica bello pieno; strada facendo, però, gli deve essere montato qualche dubbio e dalle centinaia di migliaia di persone citate da Reuters, passa a un più modesto e realistico “Piccolo incremento di presenze ai seggi attorno alle 12” per poi ammettere che le immagini divulgate dall’opposizione “mostrano assembramenti di dimensione contenuta che solo con un notevole sforzo di fantasia possono essere definiti una moltitudine”. Fantasia che, evidentemente, al nostro esperto di enogastronomia del Giornanale non manca: “Una forma di obiezione non illegale, ma comunque clamorosa” – sottolinea – e per la quale, continua con la solita enfasi poetica, “ci voleva coraggio, ma questo al fiero popolo russo non manca di certo”.
Ora, non so se si possa parlare di coraggio, ma che siano fieri mi pare indubbio: come spesso capita ai popoli che si sentono accerchiati, i russi, invece che arretrare, sembrano piuttosto aver voluto rilanciare con decisione e, per farlo, hanno dato un mandato pieno al loro presidente che più pieno non si può perché, ovviamente, sull’esito del voto dubbi non ce ne erano; ma sminuire il fatto che si sia recato alle urne il maggior numero di elettori in assoluto dalla fine dell’Unione Sovietica, ho come l’impressione che potrebbe impedire, ancora una volta, di farci un’idea minimamente sensata di cosa stia accadendo in Russia. Con l’88% del 78% degli aventi diritto che si è recato alle urne, Putin conferma di essere uno dei leader contemporanei con in assoluto il maggior sostegno popolare al mondo, soprattutto se confrontato con la stragrande maggioranza dei leader occidentali, dove non solo quel livello di consenso non viene nemmeno sfiorato da nessun leader, ma nemmeno dalla somma dei consensi di tutte le varie fazioni del partito unico della guerra e degli affari. I consensi per i leader al governo nei vari paesi occidentali, infatti, sono ormai praticamente sistematicamente al di sotto della maggioranza (e, spesso, manco di poco): secondo i dati di Morning Consult, a parte Berset in Svizzera e Tusk in Polonia (che gode ancora dei fasti delle ormai sempre più brevi lune di miele tra elettorato e leader neoeletti), quella messa meno peggio sarebbe proprio la nostra Giorgia Meloni con il 44% di approvazioni; Biden sarebbe al 37, Sunak al 27, Macron al 24 e Scholz addirittura sotto al 20 che, a ben vedere, è una situazione meno paradossale di quanto possa apparire; come sottolinea sempre il nostro guru Michael Hudson, infatti, da quando è finita la democrazia moderna e siamo entrati nell’era della distopia neoliberista, abbiamo imparato a definire autocratici tutti i regimi che hanno ancora abbastanza potere da tenere a bada gli appetiti delle oligarchie, mentre definiamo democrazie tutti quei regimi dove le oligarchie dettano legge incontrastate e i rappresentanti politici sono relegati al ruolo di utili idioti che si prendono gli insulti dalla gente per aver messo la faccia nelle varie azioni di rapina condotte in nome dei loro datori di lavoro. Da questo punto di vista, quindi, i leader occidentali sono i rappresentanti dell’1% contro il 99 e, quindi, che riescano comunque ad avere tassi di approvazione a doppia cifra è già un mezzo miracolo, in buona parte dovuto al ruolo che continuano a svolgere la propaganda e i mezzi di disinformazione di massa.
Discorso diametralmente opposto, invece, per i leader dei paesi che definiamo autocratici, che non derivano il loro potere dalle oligarchie, ma – in qualche misura – si potrebbe dire, appunto, dal popolo contro le oligarchie; e quindi, da questo punto di vista, che i leader che noi definiamo autocratici – da Putin a Xi Jinping, da Maduro a Raisi – registrino un sostegno, appunto, non solo maggiore rispetto a qualche singolo leader occidentale, ma – più in generale – alla somma di tutti i leader occidentali, sembra essere un dato piuttosto normale e strutturale.
Ma se ancora servisse un’altra prova provata della strutturale debolezza delle opposizioni filo occidentali (e quindi, volenti o nolenti, filo oligarchiche) all’interno delle autocrazie, in generale – e di quella russa, in particolare – basta vedere il risultato dell’unica new entry della politica russa, il giovane Vladislav Davankov, candidato presidenziale del piccolo partito liberale Nuova Gente, un liberale con caratteristiche russe che non si presta, in realtà, a rappresentare davvero il voto dei dissidenti, ma che, ciononostante – proprio in quanto quarto parzialmente incomodo – era stato indicato proprio dai dissidenti come la meno peggio delle alternative; che su di lui siano confluiti i voti dei giovani liberali cosmopoliti lo dimostra il fatto che nelle grandi metropoli europee, sia Mosca che San Pietroburgo, ha ottenuto i risultati di gran lunga migliori con, rispettivamente, il 6,6 e il 7%. A livello nazionale, però, si è fermato al 3,9, appena una manciata di voti in più rispetto a quelli ottenuti dal suo partito alle elezioni parlamentari del 2021. Insomma: il peso della dissidenza filo occidentale antiputin si pesa, ad essere generosi, in qualche centinaio di migliaia di voti quasi tutti concentrati nelle grandi metropoli europee, ma ciononostante, insiste Vittorio Da Rold sul Domani, “Il segnale per il Cremlino è forte e chiaro: c’è un forte malcontento verso Vladimir Putin che cerca solo un catalizzatore politico interno o una crisi esterna per esplodere”; non a caso Da Rold, come sottolinea orgoglioso in ogni sua biografia che si trova online, è Media Leader del World Economic Forum, che vuol dire essersi dimostrato sufficientemente allineato con gli interessi delle oligarchie da godere della loro fiducia per moderare gli eventi più importanti del loro salotto buono.
“La folla, e quindi le immagini feticcio dall’effetto balsamico per le illusioni occidentali” conclude amaramente Imarisio sul Corriere della Serva “c’è stata, ma altrove, lontano dalla Russia”: quando davvero ci sbarazzeremo definitivamente della nostra supponenza coloniale e impareremo a conoscere e a rispettare gli altri popoli per quello che sono realmente – e non per quello che dovrebbero essere per permettere alle nostre oligarchie e ai loro leccapiedi di continuare a vivere al di sopra delle loro possibilità – una bella fetta della grande rivoluzione verso un nuovo ordine multipolare sarà già fatta; per arrivarci, prima di tutto abbiamo bisogno di un vero e proprio media nuovo di zecca che, invece che all’arroganza del miliardo d’oro, dia voce agli interessi concreti del 99% del pianeta. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari