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Tag: putin

Putin e il disastroso rapporto segreto francese dal fronte ucraino che ha fatto sbroccare Macron

Macron ha farfugliato mezz’ora a reti unificate davanti ai francesi per provare a convincerli (con scarsissimi risultati) che l’Eliseo è più che attrezzato per ribaltare le sorti della guerra per procura in Ucraina e per difendere Odessa; Putin, però, non sembra poi troppo intimorito e, di fronte a un adulante Kiselev, sottolinea come “I militari dei paesi occidentali sono presenti in Ucraina da molto tempo”, addirittura da ben “prima del colpo di stato”, “in veste di consiglieri e di mercenari, che stanno subendo gravi perdite” e che se ora vogliono passare a “contingenti militari ufficiali stranieri”, questa cosa “non cambierà minimamente la situazione sul campo di battaglia” come non l’ha mai cambiata “la fornitura di nuove armi”. Piuttosto, sottolinea Putin, fossi un ucraino mi preoccuperei perché “Se, ad esempio, le truppe polacche entrassero in territorio ucraino per, come sembra, coprire il confine ucraino – bielorusso, o in qualsiasi altro luogo, per consentire ai contingenti militari ucraini di partecipare alle ostilità sulla linea di contatto, poi penso che le truppe polacche non se ne andrebbero mai più via” perché “rivogliono indietro i territori che gli sono stati sottratti da Stalin” e “Il loro esempio potrebbe essere seguito da altri paesi che hanno perso parte dei loro territori a seguito della seconda guerra mondiale”; “Dal punto di vista della preservazione della sua statualità nella sua forma moderna”, “le conseguenze geopolitiche” di questa escalation per l’Ucraina “si presenteranno in tutto il loro splendore”.
Nel frattempo, il gabinetto di guerra dello Stato genocida di Israele non sembra essere troppo impensierito dagli USA – che, per motivi elettorali, provano a recitare la parte del poliziotto buono – e approva il piano per la soluzione finale della questione gazawi attraverso l’invasione via terra dell’inferno di Rafah e, nonostante tutti gli sforzi dell’operazione Propserity Guardian e del sostegno sotto copertura da parte dei cagnolini da compagnia europei con l’operazione Aspides, l’asse della resistenza, a sua volta, non sembra essere troppo impensierito dal sostegno incondizionato al genocidio che, al di là delle chiacchiere, l’Occidente collettivo continua a garantire, e rilancia: Hezbollah intensifica gli attacchi a nord ostacolando l’assembramento di forze necessario per passare dalle parole ai fatti a Rafah; la resistenza irachena inaugura l’inizio della seconda fase delle operazioni a sostegno della resistenza palestinese attaccando con i droni direttamente l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv e Ansar Allah, invece che ridurre le sue operazioni nel Mar Rosso e nel Mar Arabico, annuncia che, d’ora in poi, le operazioni si estenderanno anche all’Oceano Indiano. Ma non è mica ancora finita, perché mentre nei due fronti che si sono già incendiati non si vede via di uscita, anche nel terzo – in prospettiva il più inquietante di tutti – si scaldano i motori: uomini delle forze operative speciali statunitensi, infatti, sono stati assegnati permanentemente alle isole taiwanesi di Kinmen, a meno di 10 chilometri dalle coste del mainland.
Nel frattempo, le Filippine continuano spedite il loro riposizionamento come principale avamposto della minaccia imperiale alla sovranità cinese, dando ufficialmente il via al nuovo Comprehensive Archipelagic Defense Concept, che segna un riorientamento complessivo del focus strategico dai turbolenti confini meridionali all’estremità settentrionale, a un tiro di schioppo da Taiwan, mentre per aprile è stato annunciato il primo vertice trilaterale tra il presidente Marcos Jr, Biden e il premier giapponese Kishida. Nel dicembre scorso, Giappone e Filippine avevano annunciato la finalizzazione dell’accordo di accesso reciproco che semplificherà enormemente il processo di dispiegamento di truppe, armi e munizioni tra i due paesi, Insomma, carissimi ottoliner: buon inizio settimana e benvenuti a questo nuovo appuntamento con i nostri simpaticissimi aggiornamenti sulla Guerra Ibrida che gli USA combattono contro il Resto del Mondo, fino all’ultimo alleato.
Uno sforzo necessario: giovedì scorso, infatti, la Reuters ha pubblicato uno scoop che rivelava come, durante l’amministrazione Biden, la CIA avesse messo insieme un team operativo che utilizzava una serie di false identità su internet per diffondere un po’ di fake news anticinesi, in particolare rivolte ai paesi del Sud globale che hanno aderito alla Nuova Via della Seta, che venivano bombardati di minchiate su sprechi immaginari e fantomatici patrimoni da nababbi nascosti nei paradisi fiscali dai dirigenti comunisti cinesi; come dicono i nostri amici dell’Antidiplomatico, un’altra prova che è davvero arrivato il tempo di spegnere i fake media e di accendere Ottolina Tv. Prima di andare oltre, ricordatevi di mettere un like a questo video per aiutarci nella nostra lotta contro gli algoritmi e, soprattutto, ricordatevi di iscrivervi ai nostri canali – anche a quello inglese – e attivare tutte le notifiche: noi che per provare a dire le cose come stanno dobbiamo rinunciare al sostegno delle oligarchie e della CIA, ci dobbiamo arrangiare un po’ così.

Manuelino Macaron

“Di fronte ai russi, siamo un esercito di cheerleader” (rapporto confidenziale della difesa francese sulla situazione in Ucraina); la settimana scorsa, il blocco che sostiene la guerra per procura contro la Russia in Ucraina era stato scosso dalle dichiarazioni del pimpantissimo Manuelino Macaron che, nonostante abbiano sollevato numerosi mal di pancia, sono state ribadite di nuovo anche giovedì scorso a reti unificate in una delle interviste più imbarazzanti che un capo di stato abbia mai rilasciato a una TV pubblica: grazie alle rivelazioni del magazine francese Marianne, oggi forse sappiamo cos’avrebbe scatenato così tanto panico. I giornalisti di Marianne, infatti, sarebbero entrati in possesso di 3 rapporti altamente confidenziali destinati all’amministrazione francese per descrivere la situazione sul fronte ucraino e il bilancio sembra peggiore del più catastrofista dei video di Scott Ritter.
Il primo risalirebbe addirittura a novembre e fa un bilancio del “fallimento dell’offensiva ucraina” che “A poco a poco si è impantanata nel fango e nel sangue e non ha prodotto alcun vantaggio strategico”, frutto, tra l’altro, di una pianificazione da parte di Kiev e dei quartieri generali occidentali definita “disastrosa”. “I pianificatori credevano che non appena le prime linee di difesa russe fossero state varcate, l’intero fronte sarebbe crollato… senza tener conto della forza morale del nemico sulla difensiva”, ma non solo: le vecchie armi sovietiche si sono rivelate particolarmente resilienti grazie alla “facile manutenzione” e al fatto che continuano a essere “utilizzabili anche quando sono degradate” e “la linea di fortificazione russa s’è rivelata inespugnabile”, anche perché Mosca dispone di mezzi pesanti che le hanno permesso di costruire opere difensive in gran quantità, mentre “da parte ucraina” si sottolinea l’”assenza quasi totale di questi mezzi” e l’”impossibilità da parte occidentale di fornirli rapidamente”. Un bel contributo, poi, l’avrebbe dato anche l’”arcidominio russo nel campo dei disturbi elettronici, che penalizza l’uso di droni e sistemi di comando da remoto da parte ucraina” ma soprattutto, enfatizza il rapporto, “I russi sapevano come gestire le loro truppe di riserva, per garantire la resistenza operativa”; “Secondo il rapporto” commentano i giornalisti di Marianne “Mosca rinforza le sue unità prima che siano completamente logore, mescola reclute con truppe esperte, garantisce spesso periodi di riposo regolari nelle retrovie… e ha sempre avuto una riserva coerente di forze per gestire eventi imprevisti”. Altro che l’idea diffusa oggi in Occidente di un esercito russo che manda le sue truppe al massacro”. Ed ecco così che, sottolinea il rapporto, l’esercito russo può essere considerato oggi nientepopodimeno che “il riferimento tattico e tecnico per pensare e attuare la modalità difensiva” ed “è chiaro, date le forze presenti, che l’Ucraina non può vincere militarmente questa guerra”. Ed è solo l’inizio.
Il secondo rapporto risale a dicembre e, in un mese, la situazione s’è fatta piuttosto grave: la fallita offensiva del 2023, rivela, avrebbe “tatticamente distrutto” metà delle 12 brigate da combattimento di Kiev e “Zelensky avrebbe bisogno di 35 mila uomini al mese”, cifre che confermerebbero, rivendendole al rialzo, le stime comunicate da Shoigu per il 2023 che parlavano di 215 mila uomini persi dagli ucraini, tra morti e feriti, e che rappresenta un’emorragia incontenibile, dal momento che di questi 35 mila uomini al mese necessari per rimpiazzare le perdite, “Zelensky non ne recluta la metà”. Ed ecco così che arriviamo al terzo – disastroso – rapporto che risale a pochi giorni prima le dichiarazioni del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron sull’invio di truppe NATO in Ucraina: secondo il rapporto, la definitiva caduta di Adviivka – che, per la propaganda occidentale (esattamente come Bakhmut poco prima), era fondamentale fino a che gli ucraini riuscivano in qualche modo a difenderla e, poi, diventata magicamente un insignificante villaggetto di campagna appena conquistata dalle truppe nemiche – potrebbe rappresentare un punto di non ritorno non solo perché “era il cuore e il simbolo della resistenza ucraina nel Donbass di lingua russa”, ma soprattutto perché “la repentinità e l’impreparazione” che hanno portato alla “decisione di ritirarsi” dimostrerebbe che “le forze armate ucraine… tatticamente non hanno le capacità umane e materiali per mantenere un settore del fronte soggetto allo sforzo dell’attaccante”, anche quando siamo di fronte a un “bastione fortificato”. Neanche quando, per proteggerlo, si decide di tentare il tutto per tutto: “Il fallimento ucraino ad Adviivka” sottolinea infatti il rapporto “dimostra che, nonostante l’invio d’emergenza di una brigata d’élite come la 3a brigata d’assalto aereo Azov, Kiev non è in grado di ristabilire localmente un settore del fronte che sta crollando”; a fare la differenza sarebbe stato, in buona parte, l’impiego “per la prima volta di bombe sospese su larga scala” in grado di “perforare strutture di cemento di oltre 2 metri”. Superata Adviivka, ora il rischio è che i russi decidano di “irrompere nelle profondità” visto che “il terreno alle spalle di Adviivka lo consente”: “E’ questa nuova situazione strategica” si chiedono i giornalisti di Marianne “che ha portato Macron dinamicamente, come ha affermato, a prendere in considerazione l’invio di truppe?”
Difficile dirlo con sicurezza: quello che, invece, possiamo affermare con sicurezza è che se, fino ad oggi, abbiamo bullizzato Rimbambiden, oggi dobbiamo ammettere di aver probabilmente sbagliato obiettivo perché lo spettacolo che ha dato Macron giovedì sera in televisione è di un livello superiore; solo Matteo Renzi, in passato, aveva raggiunto tali vette di plateale inadeguatezza. Il non più pimpantissimo Manuelino la prende larga e riparte – addirittura – dagli accordi di Minsk, nella speranza che nel flusso dell’iperinformazione la gente, nel frattempo, si sia completamente dimenticata della confessione di Angelona Merkel; poi arriva una rivelazione: gli ucraini, svela il non più pimpantissimo Manuelino, “hanno dei limiti in termini di uomini, perché la Russia è più grande”. Lo vedi cosa vuol dire la gioventù… Non gli sfugge niente! Di fronte a questa sconvolgente realtà, Macron ripete poi per 20 minuti che il nostro obiettivo è impedire che la Russia vinca la guerra e che, per impedirglielo, qualora fosse necessario non possiamo escludere niente, compreso inviare uomini; sia chiaro, sottolinea: “Io non lo voglio”, “io voglio che Putin cessi questa guerra e si ritiri dalle sue posizioni” e “torni alle frontiere internazionalmente riconosciute, compresa la Crimea”, ma dire già oggi che noi non siamo disposti a mandare gli uomini “non porterà alla pace, ma alla sconfitta”. Invece, dicendogli che se fa ancora il cattivo noi gli faremo totò sul culetto, lui si terrorizzerà, e vedrai che nell’arco di un paio di settimane si ritira anche dalla Crimea.
L’unica cosa interessante da sottolineare dell’intervista annunciata in pompa magna dell’aspirante novello Napoleone è che era talmente insignificante e inconcludente da lasciare un po’ interdetti anche i due ossequiosi intervistatori; l’altra cosa interessante, invece, è la reazione di Domenique de Villepin, conservatore illuminato che, prima di diventare primo ministro nel 2005, era stato ministro degli esteri dal 2002 al 2004, un periodo non a caso: fu proprio grazie alla cazzimma di de Villepin, infatti, che nel 2003 la Francia si oppose all’aggressione militare criminale degli USA e della coalizione dei volenterosi contro l’Iraq (e fu grazie a lui che la Germania fece altrettanto). Fu l’ultimo barlume di sovranità da parte delle principali potenze europee, che gli costò carissimo: una volta nominato primo ministro dal presidente Chirac, mentre inanellava una serie di risultati positivi con l’economia francese in crescita e la disoccupazione e il debito pubblico in calo, venne bersagliato dai giudici per il processo fuffa noto come Clearstream 2 e, cioè, una supposta macchinazione contro il rivale Sarkozy (che, visti i danni che ha fatto Sarkozy, sarebbe stata cosa encomiabile, se solo fosse stata vera); nel 2011 de Villepin, infatti, viene assolto con formula piena, ma ormai è troppo tardi. Con Sarkozy, quel che rimaneva dell’indipendenza francese dai dictat della NATO è stato definitivamente azzerato e, con la crisi finanziaria del 2009, pure quello che rimaneva – se mai c’è stato davvero – dell’idea di una moneta indipendente dal dollaro che permettesse una qualche indipendenza economica. Da allora, de Villepin, come spesso accade ai membri delle élite europee una volta che si trovano di fronte all’arroganza senza limiti degli USA e delle élite compradore che li sostengono, non ha fatto che radicalizzare le sue posizioni, arrivando a contestare tout court la politica estera imperiale a stelle e strisce e venerdì, sempre dagli schermi di TF1, ha letteralmente asfaltato il pimpantissimo Manuelino: “Prima di parlare dell’ipotesi di inviare truppe di terra” ha sottolineato de Villepin “ci siamo chiesti se, in tal caso, ci sarebbero anche altri paesi disposti a mandare anche le loro, ma sul lato opposto? Abbiamo pensato all’ipotesi di ritrovarci di fronte combattenti africani? O asiatici? O mediorientali? In mezzo mondo non aspettano altro che una resa dei conti con l’Occidente. Se gli occidentali, se gli europei, se i francesi mandassero truppe di terra, credete davvero che non ci sarebbe nessun gesto di solidarietà nei confronti della Russia? Io credo che sarebbe l’ora di cominciare a porsele queste domande. Perché sul piano diplomatico noi non abbiamo fatto niente di quello che era necessario per provare a isolare la Russia. E io credo che oggi a essere isolati siamo molto più noi che la Russia stessa” .
A tornare sul motivo di fondo del perché la Russia sia, almeno da un certo punto di vista, meno isolata dell’Occidente collettivo è lo stesso Putin nell’intervista di Kyselov: “Il punto” sottolinea Putin “è che il cosiddetto golden billion” – il miliardo dorato e, cioè, l’Occidente collettivo – “per 500 anni ha parassitato le altre nazioni. Hanno fatto a pezzi gli sfortunati popoli dell’Africa, hanno sfruttato l’America Latina, hanno sfruttato i paesi dell’Asia e, ovviamente, nessuno se ne è dimenticato. E non parlo tanto delle leadership, anche se anche questo è un aspetto importante, ma dei cittadini comuni. Io credo associno la nostra lotta per una vera indipendenza e una vera sovranità alle loro aspirazioni per una vera sovranità e una vera indipendenza. E questo è aggravato dal fatto che le élite occidentali a livello di relazioni internazionali, fanno di tutto per congelare questo stato di cose profondamente ingiusto. Sono abituati da secoli a riempirsi la pancia di carne umana e le tasche di soldi, ma devono capire che il ballo dei vampiri sta finendo”: da questo punto di vista, insiste Putin, “Forse una reazione così emotiva da parte del presidente francese è collegata proprio a ciò che sta accadendo in alcuni stati africani”; “Penso ci sia una sorta di risentimento”, come se avessimo “cacciato la Francia”. “Il problema” però, “è diverso”: noi “non abbiamo spinto fuori nessuno”. Putin ricorda come la Wagner abbia fornito sicurezza ad alcuni operatori economici russi in Siria, per poi fare altrettanto anche in Africa: “Il ministero della difesa russo” sottolinea Putin “fornisce sostegno, ma come lo forniamo a qualsiasi gruppo russo, niente di più”; sono alcuni “leader africani che hanno voluto aprire collaborazioni con operazioni economici russi, e che non volevano più in alcun modo avere a che fare con i francesi. Non è stata una nostra iniziativa, è stata un’iniziativa dei nostri amici africani”. “Conosco molti paesi africani” continua Putin “dove sono tranquilli riguardo alla presenza francese, e si dicono volenterosi di continuare ad averci a che fare. Molti altri invece, molto semplicemente, no. E noi non abbiamo niente a che fare con questo”; “Forse” conclude “i francesi trovano più conveniente scaricare la responsabilità su qualcun altro invece che affrontare i propri problemi”.
E, al di là della debacle africana, i problemi francesi (e non solo) sono piuttosto eclatanti: “Nel 2022” avrebbe dichiarato al Fatto Quotidiano Gianandrea Gaiani “un rapporto della commissione difesa del parlamento francese ha stimato che le scorte di munizioni avrebbero consentito all’esercito di Parigi di sostenere tre o quattro giorni di conflitto in Ucraina” e, continua Gaiani, “l’ultimo rapporto della Camera dei Comuni del Regno Unito sostiene che il Paese potrebbe combattere un conflitto convenzionale per un massimo di due mesi”, ma pensare che le provocazioni di Macron siano esclusivamente parole al vento di un megalomane sarebbe sbagliato. In realtà, sono un primo passettino per cominciare piano piano a sdoganare un esito che, a meno di qualche deciso cambio di rotta, rischia di essere inevitabile; è la tesi della rana bollita e, a spiegarla, c’ha pensato Macron stesso: “2 anni fa dicevamo che non avremmo mai mandato i carri armati, e poi l’abbiamo fatto. 2 anni fa dicevamo che non avremmo mai mandato missili a medio – lungo raggio, e poi l’abbiamo fatto”. Ora, intanto, la boutade macroniana sulle truppe ha come primo obiettivo sbloccare la querelle sui Taurus che, a questo punto, sarebbero il male minore: Paura per l’Ucraina titolava ieri, in prima pagina, La Repubblichina: “Le difese scarseggiano, e ora la primavera fa paura”; ma, appunto, c’è un’“ultima spiaggia: missili a lungo raggio per bloccare i rifornimenti russi”. Anche in questo caso, come per i carri armati e i missili citati da Macron, non saranno certo i Taurus a cambiare l’esito della guerra: come ricorda sempre Gaiani sul Fatto, “Adesso si parla dei Taurus come della nuova arma miracolosa, com’era già successo per gli Scalp e gli Storm Shadow. E’ due anni che andiamo avanti così. Ma il corso della guerra non cambia, l’Unione Europea non ha più nulla da dare all’Ucraina in grado di cambiare l’esito del conflitto”; molto semplicemente – come, in qualche modo, ha ammesso lo stesso Macron – la nostra strategia è esclusivamente quella di metterci in condizione di continuare a sostenere pubblicamente – arrampicandosi sugli specchi e con il sostegno di un’informazione ridotta a mera propaganda – che “non permetteremo a Putin di vincere la guerra”, anche quando, sostanzialmente, l’ha già vinta. L’obiettivo è quello di rimandare l’accordo diplomatico per continuare a fare leva sul terrore putiniano, che non invaderebbe l’Europa solo perché gli stiamo ancora opponendo resistenza – per giustificare il fatto che, mentre tagliamo il welfare e regaliamo la nostra industria al padrone d’oltreoceano, aumentiamo a dismisura la spesa militare. Contro gli escamotage della propaganda del partito unico degli affari e della guerra, la nostra prima linea di difesa non può che essere un vero e proprio media che racconti il mondo per quel che è e non per quello che vorrebbero fosse le oligarchie e gli svendipatria sul loro libro paga. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Sergio Mattarella

Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sangunario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez” sottolinea infatti Frattini l’irriducibile “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Anan Yaeesh

E’ l’incredibile caso di Anan Yaeesh, Il terrorista palestinese vezzeggiato da sinistra e 5s come titolano i paladini del garantismo del Giornanale – un garantismo che vale solo per la razza ariana e per i redditi da 100 mila euro in su; sulla testa di Yaeesh, infatti, incombe una richiesta di estradizione da parte del regime fondato sull’apartheid di Tel Aviv, che il procuratore ha deciso di fare sua: Yaeesh sarebbe accusato di aver collaborato con le Brigate Tulkarem in attività che avrebbero “finalità terroristiche” che, per gli israeliani, significa qualsiasi cosa che uno fa per resistere alla pulizia etnica. L’articolo 3 della CEDU, ovviamente, impedirebbe di consegnare una persona a un paese che pratica la tortura, ma siccome Israele è una l’unica democrazia del Medio Oriente, lì la tortura la chiamano metodi avanzati di interrogatorio e alla propaganda suprematista a sostegno del genocidio tanto basta. Tornando all’articolo di Frattini, bisogna concedergli che anche lui, a un certo punto, ammette che “La situazione per la popolazione di Gaza continua ad essere disastrosa”; peccato la colpa sia tutta di Hamas che non solo, con il suo pogrom ingiustificato del 7 ottobre, ha scatenato l’offensiva dei pacifici israeliani, ma ora ostacola anche l’arrivo degli aiuti a 2 stelle Michelin: grazie anche al supporto della sempre generosissima Unione Europea, infatti, è stato stabilito un corridoio marittimo che da Cipro sfocia direttamente in un nuovo molo in costruzione al nord di Gaza ed è qui che sbarcheranno gli aiuti della “World Central Kitchen, l’organizzazione creata dallo chef ispano – americano José Andrés”: volevano il pane; gli abbiamo dato la cucina molecolare (e si lamentano pure). In questo contesto, scrive il Giornanale, “essere sulla lavagna nera delle milizie finanziate dall’Iran costituisce un motivo di orgoglio”.
Alcuni, infatti, si limitano a parlare di autodifesa della nostra Caio Duilio, ma – ovviamente – in ballo qui c’è molto di più: lo rivendica con orgoglio l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, già capo di stato maggiore della marina militare: “Finiamola di parlare di autodifesa” avrebbe affermato al Giornanale; “qui difendiamo gli interessi europei e nazionali” e per difenderli adeguatamente, le regole d’ingaggio, che prevedono una missione meramente difensiva, cominciano già a stare strette. “Le informazioni della Caio Duilio” sottolinea, infatti, Rinaldo Frignani sempre sul Corriere della Serva “comprendono la posizione di chi lancia e manovra i droni” e – indovina indovinello – “vengono comunicate agli alleati, come gli USA, che potrebbero usarle”; così, en passant, come se nulla fosse, Frignani ammette candidamente che la nostra Aspides non è ancora iniziata e già la favoletta della missione difensiva non regge più: la nostra presenza nel Mar Rosso è, a tutti gli effetti, parte della missione offensiva dei padroni a stelle e strisce, che continua ad allargarsi.
All’alba di martedì, infatti, Ansar Allah avrebbe preso di mira il cargo americano Pinocchio con una serie di missili: nel gioco delle tre carte che le portacontainer legate a Israele stanno cercando di fare dall’inizio delle operazioni di Ansar Allah per dissimulare i loro legami con il genocidio, la nave risultava battere bandiera liberiana e legata alla compagnia USA Oaktree Capital Management, ma c’era qualcosa che aveva insospettito l’intelligence yemenita; la nave infatti, riporta Al Akhbar, “portava sopra il logo della compagnia israeliana Zim, e tra i vecchi nomi dell’imbarcazione risultavano nomi come Zim San Francisco. Ad aumentare i sospetti – poi – il fatto che la nave, che era partita domenica dal porto di Gedda in direzione del canale di Suez, non avesse menzionato nelle sue dichiarazioni la destinazione finale”. “Le navi americane e britanniche dirette verso i porti della Palestina occupata” continua Al Akhbar “falsificano deliberatamente sistematicamente i loro dati nel tentativo di attraversare il Mar Rosso”. La reazione USA è stata feroce: oltre 20 raid aerei in cinque aree diverse e non tutte con chiari obiettivi militari, come l’attacco nel Governatorato di Saada che, sempre secondo Al Akhbar, sarebbe giustificato soltanto dal fatto che “è la roccaforte del leader di Ansar Allah, Abdul Malik Al Houthi”. L’efficacia di questi attacchi rimane comunque piuttosto dubbia, ed ecco così che gli USA stanno cercando un’alternativa: secondo Al Akhbar, infatti, “Gli Stati Uniti hanno fornito imbarcazioni militari al Consiglio di Transizione Meridionale affiliato agli Emirati, nel tentativo di coinvolgerlo in una guerra per procura”; si tratta dell’organizzazione politica secessionista yemenita guidata dall’ex governatore di Aden, Aidarus al-Zoubaidi che, nata nel 2017 per rivendicare la separazione dello Yemen del Sud dal resto della nazione, è sostenuta da Abu Dhabi. “Aidarus al-Zoubaidi che, in precedenza, aveva espresso la volontà di normalizzare le relazioni con l’entità israeliana” scrive Al Akhbar “è apparso a bordo di una delle barche americane in una parata navale, e insieme a lui c’erano numerosi comandanti militari fedeli agli Emirati Arabi Uniti”: secondo Al Akhbar avrebbero ricevuto l’incarico dagli USA di accompagnare le navi legate a Israele mentre si avvicinano al porto di Aden e allo stretto di Bab el-Mandeb. A emettere un appello ad affiancare le forze USA e britanniche contro Ansar Allah sarebbe stato anche Abu Zara’a Al-Muharrami, comandante delle Forze dei giganti – le milizie fedeli ad Abu Dhabi – e vicepresidente del Consiglio di Transizione, una macchinazione che, però, avrebbe fatto infuriare la popolazione locale: contro l’appello, infatti, “Gli studiosi e i predicatori di Aden” riporta Al Akhbar “hanno emesso una fatwa, che riconosce che esiste una disputa con chi è al governo a Sanaa” e cioè, appunto, Ansar Allah, “ma che non è assolutamente consentito schierarsi dalla parte di Israele e dell’America”; “Questa fatwa” continua Al Akhbar “indica che esiste un diffuso rifiuto tra le milizie di transizione di qualsiasi escalation contro Sana’a, e che le opzioni di Washington per mobilitare queste fazioni sono diventate così più limitate”.

Hicham Safieddine

Fortunatamente però, dopo tante delusioni, per gli occidentali a sostegno del genocidio è arrivata anche una buona notizia; l’ha annunciata su Telegram Nasr El-Din Amer, il vice presidente dell’agenzia dei media di Ansar Allah: “La prima vittoria ottenuta da America e Gran Bretagna” ha annunciato “è la rimozione delle spunte blu dagli account Twitter dei leader statali di Sana’a. Per quanto riguarda invece le forze armate yemenite, dai razzi, ai droni a tutte le capacità militari, non sono state scalfite. Si scopre che l’America è una forza da non sottovalutare, fratelli”. Quella di bullizzare i colonialisti e gli aspiranti tali, in Yemen, effettivamente, è una vecchia tradizione: come ricorda su Middle East Eye lo storico canadese di origini libanesi Hicham Safieddine, nonostante i britannici abbiano mantenuto il controllo della città costiera di Aden per oltre 125 anni, non sono mai riusciti ad “espandere il loro dominio nell’entroterra” fino a quando “Nel 1963, il Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) lanciò una lotta armata con il sostegno rurale della regione montuosa di Radfan. Gli inglesi designarono l’FNL come un’organizzazione terroristica e risposero bruciando villaggi e altri atti di violenza collettiva. Le campagne punitive britanniche, tuttavia, fecero ben poco per smorzare la resistenza yemenita”; “Le forze radicali della resistenza dello Yemen del Sud” continua Safieddine “adottarono un’ideologia marxista – leninista che prevedeva un futuro socialista per uno Yemen liberato. La loro posizione intransigente nei confronti dell’occupazione britannica portò a una vittoria spettacolare nel 1967. E i tentativi britannici di negoziare un ruolo economico o militare nello Yemen post indipendenza, simile a quello francese in Algeria, furono di breve durata e in gran parte infruttuosi, con gli inglesi che alla fine furono costretti a pagare oltre 15 milioni di dollari come indennità. Questo” sottolinea Safieddine “ha lasciato un ricordo doloroso tra i funzionari britannici che perdura ancora oggi”. A differenza di altre lotte di liberazione nazionale che hanno conquistato fama e riconoscimento internazionale – da quella algerina a quella cubana – la vicenda yemenita è stata sistematicamente snobbata dal pubblico occidentale, ma per alcuni storici, sottolinea Safieddine, “Lo Yemen è stato il Vietnam della Gran Bretagna”, una storia gloriosa che continua a ispirare Ansar Allah: in un recente discorso televisivo, riporta Safeiddine, “Abdel-Malik al-Houthi ha messo in guardia il Regno Unito da qualsiasi illusione nutrisse di ricolonizzare lo Yemen. Tali illusioni, ha detto, “sono i segni di una malattia mentale la cui cura è nelle nostre mani: missili balistici che bruciano le navi in mare”. Anche a questo giro, la tendenza è stata subito quella di minimizzare e descrivere un gruppo di terroristi scappati di casa che attentano, con la loro barbarie, il giardino ordinato salvo poi, nella provincia dell’impero, dedicare titoloni a 6 colonne all’eroismo e alla professionalità dei nostri uomini per aver tirato giù un drone da ricognizione con un cannoncino.
La verità, però, potrebbe essere un po’ meno confortevole: “Quanti marinai USA ci sono adesso nel Mar Rosso?” ha chiesto la giornalista Norah O’Donnell al vice ammiraglio Brad Cooper durante una puntata del celebre programma televisivo statunitense 60 minutes; “Ne abbiamo circa 7.000 in questo momento. Si tratta di un impegno imponente”. “Quando è stata l’ultima volta che la Marina americana ha operato a questo ritmo per un paio di mesi?” ha chiesto ancora la giornalista; “Credo dovremmo tornare alla Seconda Guerra Mondiale” ha risposto il vice ammiraglio, “quando ci sono state navi impegnate direttamente nei combattimento. E quando dico impegnate in combattimento, intendo che ci sparano e noi rispondiamo al fuoco”. Il vice ammiraglio Cooper ricorda anche come “Gli Houthi sono la prima entità nella storia a utilizzare missili balistici antinave per colpire delle navi. Nessuno li ha mai usati prima contro navi commerciali, e tantomeno contro navi della marina americana”; come sottolinea il vice ammiraglio, parliamo di missili che viaggiano a circa 3 mila miglia orarie e, dal momento dell’avvistamento, il capitano di una nave ha dai 9 ai 15 secondi per decidere il da farsi e visto che è sempre meglio aver paura che prenderle, la tendenza a reagire sempre con il massimo della forza è inaggirabile. Risultato – sottolinea il servizio di 60 minutes -: “La marina ha lanciato circa 100 dei suoi missili terra – aria Standard, che possono costare fino a 4 milioni di dollari ciascuno”; l’unica via di uscita sostenibile, quindi, è questi benedetti missili balistici riuscire a colpirli con attacchi aerei in territorio yemenita prima che partano. Ed ecco allora che l’intelligence che forniamo, anche con la missione difensiva degli alleati europei, diventa fondamentale e la trasforma automaticamente in qualcosa che non è difensivo per niente e che potrebbe, a breve, dover affrontare uno scenario ben più complesso di quello attuale.

Maritime Security Belt

Lunedì scorso, nel Golfo di Oman, è iniziata un’esercitazione marittima congiunta di Iran, Russia e Cina; si chiama Maritime Security Belt ed è arrivata alla sua quinta edizione, un traguardo che hanno deciso di festeggiare alla grande: nella prima edizione, infatti, la Cina aveva partecipato con una sola nave; la seconda l’aveva saltata tout court e alle successive due si era presentata, di nuovo, sempre con una sola imbarcazione. Quest’anno, invece, non si raddoppia: si triplica e, ad affiancare il solito cacciatorpediniere, ci saranno anche una fregata e una nave di rifornimento che, insieme, costituiscono la 45esima task force di scorta. La 45esima task force era stazionata nel Golfo di Aden sin dall’ottobre scorso e, da allora, ha portato a termine ben 43 missioni durante le quali ha garantito il transito di 72 navi; ora quel compito è stato affidato alla 46esima task force che ha effettuato la sua prima missione appena 3 giorni fa: ed ecco così che la presenza cinese nell’area raddoppia. A ottobre la Cina aveva già condotto un’esercitazione congiunta con la marina pakistana, “la più grande di sempre tra i due paesi” aveva sottolineato il South China Morning Post e dove erano state coinvolte altre 6 imbarcazioni del dragone, comprese una fregata, due cacciatorpedinieri e una nave di rifornimento: anche a questo giro i pakistani sono nuovamente coinvolti, ma solo come osservatori al fianco di kazaki, indiani e sudafricani, lo stesso ruolo ricoperto anche dall’Oman e dall’Azerbaijan.
La prospettiva della grande guerra globale per il controllo del mare nell’era del declino della pax americana si fa sempre più minacciosa: magari se l’Italia, ogni tanto, avesse un piccolo moto se non proprio di orgoglio, perlomeno di opportunismo, e approfittasse del caos che ci circonda per farsi un attimino licazzisua invece che fare sempre da cavalier servente della potenza in declino del momento, non sarebbe proprio malissimo, diciamo; perché gli italiani tornino a fare un po’ anche i loro interessi, serve che prima imparino a riconoscerli e, per riconoscerli, serve un media che, invece che da ripetitore dei dictat atlantisti, dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Fabio Fazio

PUTIN vs CIA: la guerra delle spie

Il New york Times ha appena confutato uno dei tasselli fondamentali della propaganda occidentale sulla guerra in Ucraina; in una straordinaria inchiesta giornalistica condotta intervistando in condizioni di anonimato circa 200 funzionari americani, europei, e ucraini, i giornalisti Adam Entous e Michael Schwirtz hanno dimostrato, documenti alla mano, come la CIA e la NATO siano presenti in Ucraina fin dal 2014 e con il preciso scopo di spiare la Russia, destabilizzarla e condurre operazioni di intelligence sul suo territorio: La guerra delle spie: come la CIA aiuta segretamente l’Ucraina a combattere Putin è il titolo dell’inchiesta, e la conclusione a cui giungono i due giornalisti americani è che “Per oltre un decennio, gli Stati Uniti hanno coltivato una partnership segreta di intelligence con l’Ucraina”. Ma la guerra in Ucraina non era iniziata il 24 febbraio 2022 con la folle e ingiustificata decisione di Putin di invadere un paese sovrano? E non era evidente a tutti come la propaganda russa sulla presunta espansione della NATO ad est e sulle presunte provocazioni occidentali ai propri confini non fosse altro che il delirio di un perfido autocrate che si sentiva minacciato dalle nostre libertà e dai nostri valori democratici? Insomma: il New York Times ha fatto fare l’ennesimo bagno di realtà a tutti coloro che ancora, nel XXI secolo, si ostinano a credere a queste sceneggiature hollywoodiane da 4 soldi utili soltanto a non farci capire nulla di quello che succede e a prendere decisioni che vanno contro i nostri interessi nazionali.
Quello che emerge dall’inchiesta è che, dal 2014 in poi, la CIA e i servizi segreti britannici avevano allestito una fitta rete di basi segrete sotterranee in Ucraina al confine con la Russia – basi tutt’ora operative – e l’idea era quella di monitorare costantemente ciò che faceva il Cremlino tracciando le rotte dei satelliti, monitorando la logistica e, in generale, rubando ogni tipo di informazione che erano capaci di rubare. Non solo: lì la CIA addestrava spie che dovevano infiltrarsi in Russia e, in generale, in tutti cosiddetti Stati canaglia; il nome dell’operazione era Goldfish e tra coloro che sono stati addestrati c’è anche il generale Kyrylo Budanov, attuale capo dell’agenzia di intelligence militare ucraina. Insomma: avevano ragione i Draghi, i Letta e i Parenzo di turno; non si capisce proprio perché quel paranoico di Putin temesse così tanto un’imminente entrata dell’Ucraina nella NATO. La NATO e la CIA, infatti, sono già ben presenti in Ucraina dal 2014, ma la cosa forse più incredibile – e che confuta, una volta per tutte, anche la spudorata propaganda americana sul colpo di Stato del 2014, presentato al pubblico occidentale come l’ennesima rivoluzione arancione mossa dall’amore del popolo ucraino per l’Occidente e la libertà – è che, secondo l’inchiesta, la partnership tra la CIA e servizi segreti ucraini sarebbe iniziata proprio nella notte del 24 febbraio 2014, ossia due giorni dopo il golpe che cacciò il presidente filo – russo in carica Viktor Janukovyč.

Viktor Janukovyč

Insomma: negare il coinvolgimento diretto dei servizi segreti americani in quel colpo di Stato anti – democratico è diventato impossibile. “L’inchiesta del New York Times” scrive Michele Manfrin su L’Indipendente “non fa quindi che confermare le preoccupazioni più volte espresse nel corso degli anni da Putin e dalla Russia circa le azioni e le intenzioni occidentali, specie statunitensi, nei riguardi dell’Ucraina, Paese confinante con la Russia e con cui ha legami storici profondi, da sempre dichiarato la linea rossa da non oltrepassare da parte della NATO”, una linea rossa che gli americani hanno accuratamente, anno dopo anno, voluto oltrepassare; e tutto ciò per dar vita ad una guerra che, nonostante non possa portare a nulla di buono per il popolo ucraino, il governo Biden ha voluto prolungare il più possibile, in quanto – come confermano le parole del capo della CIA William J. Burns – per gli interessi americani questa guerra rappresenta “un investimento relativamente modesto con significativi ritorni geopolitici per gli Stati Uniti e notevoli ritorni per l’industria americana”. In questa puntata ripercorreremo, grazie al New York Times, le tappe principali dell’insediamento della CIA in Ucraina e delle principali operazioni di intelligence condotte; parleremo anche delle contromosse di Putin e di come il conflitto in Ucraina rappresenti ancora un pezzo fondamentale degli interessi nazionali americani. Lo stesso, naturalmente, non può dirsi per gli interessi nazionali europei, ma si sa: per usare le parole dell’americana Viktoria Nuland, Assistente Segretario di Stato e regista degli eventi di Euromaidan, “FUCK THE EUROPE”.
Dopo le dichiarazioni di Macron, in queste ore non si fa altro che parlare del possibile invio di truppe NATO in Ucraina e della possibile decisione di Putin di reagire utilizzando armi atomiche: per quanto riguarda l’ipotetica guerra atomica, si tratta della solita isteria apocalittica di massa utile solo a farci spegnere il cervello, e per quanto riguarda le truppe NATO in Ucraina, invece, come ha confessato anche Scholz pochi giorni fa, la verità è che sono presenti sul campo già da un bel pezzo. E non si tratta solo delle migliaia tra tecnici, funzionari e addestratori NATO mandati dal 2022 per insegnare all’esercito ucraino ad utilizzare le armi che gli mandiamo; si tratta di qualcosa di molto più radicato nel tempo: “Immersa in una fitta foresta” si legge nell’inchiesta del New York Times “la base militare ucraina sembra abbandonata e distrutta. Ma questo è in superficie. Non lontano, un passaggio discreto scende in un bunker sotterraneo dove squadre di soldati ucraini tracciano i satelliti spia russi e origliano le conversazioni tra i comandanti russi. Su uno schermo, una linea rossa seguiva il percorso di un drone esplosivo che attraversava le difese aeree russe da un punto dell’Ucraina centrale a un obiettivo nella città russa di Rostov.” La base qui descritta è solo una di una dozzina di postazioni segrete – quasi completamente finanziate ed equipaggiate dalla CIA – costruite negli anni lungo il confine russo, e risalgono ad un programma di partnership tra servizi segreti americani ed ucraini del 2014 e portato avanti sotto l’amministrazione di tre diversi presidenti statunitensi, un programma che anche prima dello scoppio del conflitto aveva reso l’Ucraina il più importante partner di Washington nelle operazioni di spionaggio contro Vladimir Putin. E così, mentre entriamo nel terzo anno di una guerra che ha fatto centinaia di migliaia di vittime e che si rivela, ogni giorno che passa, più inutile e disperata per l’esercito ucraino, la cooperazione di intelligence tra Washington e Kiev è diventata invece un pilastro della rete spionistica degli Stati Uniti e della loro guerra a tutto campo a Putin e rappresenta, pertanto, sia una delle ragioni per cui la guerra è scoppiata, sia del perché gli americani non vogliono in alcun modo farla finire.
I rapporti tra le due forze di intelligence cominciano nel 2014 dopo la cacciata di Janukovyč, e nel 2016 la CIA ha iniziato anche ad addestrare un commando d’élite ucraino – noto come Unità 2245 – che ha catturato i droni e le apparecchiature di comunicazione russe in modo che i tecnici americani potessero fare il reverse engineering e decifrare i sistemi di crittografia di Mosca: inizialmente, racconta il New York Times, la CIA era più prudente nel compiere operazioni apertamente aggressive e temeva di provocare troppo il Cremlino; gli ucraini allora, spazientiti per quella che consideravano un’indebita cautela di Washington, hanno iniziato a organizzare omicidi e altre operazioni letali violando apertamente i termini pattuiti con la Casa Bianca. Infuriati, si legge nell’inchiesta, i funzionari americani in un primo momento minacciarono di interrompere la collaborazione, ma in seguito, non vedendo alcuna reazione violenta da parte di Putin – che, invece, ancora sperava di poter costruire buoni rapporti con l’Occidente – aiutarono gli ucraini a calcare sempre di più la mano: “I rapporti si sono rafforzati sempre di più perché entrambe le parti ne hanno visto il valore, e l’ambasciata statunitense a Kiev è diventata la migliore fonte di informazioni, segnali e tutto il resto, sulla Russia” avrebbe dichiarato un ex alto funzionario americano al Times; “Non potevamo più farne a meno.” Venuto a conoscenza di quanto stava accadendo, Putin ha più volte pubblicamente incolpato le agenzie di intelligence occidentali di aver manipolato Kiev, di avere trasformato l’Ucraina in uno Stato nemico funzionale alla sete di sangue e dominio americano e di aver seminato tra la popolazione ucraina sentimenti anti – russi. Per questo – si legge nell’inchiesta – secondo un alto funzionario europeo, già nel 2021 il presidente russo avrebbe pensato ad un’invasione su larga scala, in particolare dopo aver incontrato il capo di uno dei principali servizi di spionaggio russi che gli avrebbe rivelato che la CIA, insieme all’MI6 britannico, avevano di fatto trasformato l’Ucraina in una testa di ponte per le operazioni contro Mosca.
Oltre alle basi, il New York Times riporta anche come la CIA avrebbe supervisionato un programma di addestramento, svolto in due città europee, per insegnare agli agenti dei servizi segreti ucraini come assumere, in modo convincente, false sembianze e rubare segreti in Russia e in altri Paesi non allineati; gli ufficiali di questa operazione, chiamata Operazione Goldfish, sarebbero stati poi dislocati in diverse basi operative costruite lungo il confine russo. Questa operazione avrebbe avuto un tale successo che la CIA avrebbe poi voluto replicarla anche con altri servizi segreti europei: il capo della Russia House, il dipartimento della CIA che supervisiona le operazioni contro la Russia, avrebbe organizzato per questo un incontro segreto all’Aja, dove i rappresentanti della CIA, dell’MI6 britannico, dell’HUR, dei servizi olandesi e di altre agenzie avrebbero concordato nel dar vita a una coalizione di intelligence segreta contro Putin. Insomma: l’inchiesta del New York Times ha messo altro un altro tassello nella lunga storia della guerra per procura della NATO in Ucraina e dell’imperialismo americano in Europa: che un giorno Putin si sia alzato dal letto, abbia indossato i baffetti da Hitler e abbia deciso di dichiarare guerra all’Occidente per viscerale odio nei confronti delle democrazie, è una storiella a cui neanche i più assidui lettori di Repubblica credono più; il problema, però, è che – come diceva anche Alberto Fazolo nell’intervista che ci ha recentemente rilasciato – lo scopo degli Usa non è la riconquista dei territori ucraini, dei quali non è mai importato un bel nulla a nessuno e che non verranno comunque mai riconquistati. Lo scopo è destabilizzare la Russia il più a lungo possibile, trascinarla in un’interminabile guerra di logoramento fino all’ultimo ucraino e in una corsa agli armamenti da cui alla lunga, come nel caso della guerra fredda, potrebbe uscire sconfitta.

Il signor Burns

“L’unico modo per sconfiggere l’Unione Sovietica” diceva una volta Reagan “è farle costruire carri armati al posto di trattori”. E nella stessa suicida corsa agli armamenti gli USA vorrebbero costringere noi europei a scapito di qualsiasi logica che non sia puramente capitalista e guerrafondaia, e il tutto costruito su una retorica russofobica e apocalittica priva di qualsiasi appiglio sulla realtà. Non permettiamoglielo: abbiamo il dovere di ribellarci a chi vorrebbe di nuovo mandarci in guerra per aumentare i propri profitti e salvaguardare i propri interessi imperialistici, ma per farlo, abbiamo bisogno di un media veramente libero e indipendente che stia dalla nostra parte, dalla parte dell’Italia, dell’Europa e del 99 per cento. Aiutaci a costruirlo – e iscriviti al nostro canale in inglese – e aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è William J. Burns

Lo scandalo Putin: se ne sbatte delle minacce europee e parla di asili, ospedali e salario minimo

Politico: “Putin minaccia la NATO con un attacco nucleare”; Bloomberg: “Putin avverte la NATO sui rischi di una guerra nucleare”; New York Times: “Putin afferma che l’Occidente rischia un conflitto nucleare”. Come sempre in questo periodo, ieri Putin ha ripetuto il rituale del suo lungo discorso annuale di fronte all’assemblea federale e, come ogni anno, la propaganda del partito unico della guerra e degli affari dell’Occidente collettivo fa di tutto affinché non ci si capisca una seganiente: ne avevamo già parlato a lungo l’anno scorso in questo video; anche quest’anno il copione è abbastanza simile. La propaganda occidentale, ormai assuefatta alle sparate a caso del sempre pimpantissimo Manuelino Macaron e alla ricerca disperata del titolone, scatena panico e si dimentica di dire che, anche a questo giro, la stragrande maggioranza del tempo Putin lo ha dedicato a parlare di welfare state e di sviluppo economico; d’altronde, farebbe strano: come lo giustifichi il fatto che tutto il mondo occidentale come un sol uomo è concentrato a fare la guerra per procura a un singolo Stato che continuano a spacciare come sull’orlo della bancarotta, e quello dedica più tempo agli asili, agli ospedali, al salario minimo, ai data center e al sostegno alle piccole medie aziende che non al rischio della scesa in campo direttamente di uomini della NATO?

Vladimir Putin

Un anno fa, Putin si prendeva gioco della propaganda senza capo né coda dei media e delle istituzioni occidentali ricordando come “inizialmente alcuni analisti avevano previsto un crollo del PIL russo superiore al 20%. Poi si sono corretti: saremmo dovuti crollare almeno del 10. Secondo gli ultimi dati, il nostro PIL si è contratto appena del 2,1%” e a partire dal terzo trimestre del 2022, continuava Putin, è tornato a crescere; un anno dopo, il bilancio è migliore delle più rosee aspettative: “Nel 2023” afferma Putin davanti all’Assemblea Federale “l’economia russa è cresciuta più della media mondiale”. Gli ingredienti di quella crescita li aveva anticipati, appunto, un anno fa e ora si cominciano a raccogliere i frutti; Putin, a questo giro, ricorda infatti come sono state avviate 1 milione di nuove attività imprenditoriali e commerciali di ogni genere: un record assoluto. Un bel traino è stato l’edilizia, come un daddy Conte qualsiasi: 110 milioni di metri quadrati di superficie residenziale solo l’anno scorso, “il 50% in più rispetto al livello più alto dell’era sovietica, raggiunto nel 1987” e che si vanno ad aggiungere agli oltre 4 milioni di metri quadri di superficie in più destinata alla produzione; “I nostri imprenditori” ha affermato Putin “credono in loro stessi, nelle loro capacità, e nel loro paese”.
E questo nonostante le sanzioni; anzi, in parte proprio grazie a loro: come ricorda Putin, infatti, nel 2023 “centinaia di nuovi marchi russi hanno fatto il loro esordio sul mercato”. “Nel 1999” sottolinea ancora “la quota delle importazioni nel nostro Paese ha raggiunto il 26% del PIL. L’anno scorso è stata pari al 19% del PIL e il nostro obiettivo è, prima del 2030, raggiungere un livello di importazioni non superiore al 17% del PIL”. Sempre nonostante le sanzioni, sottolinea ancora Putin, nel 2023 i porti russi hanno movimento oltre 5 volte la quantità di merce movimentata nell’anno del massimo splendore dell’ex Unione Sovietica: tutto questo, sottolinea Putin, è stato possibile grazie al fatto che il mondo finalmente sta attraversando cambiamenti di un’entità mai vista sino ad oggi. “Ad esempio” sottolinea Putin “nel 2028, i paesi BRICS, tenendo conto dei nuovi membri, creeranno circa il 37% del PIL globale, mentre i numeri del G7 scenderanno al di sotto del 28%”; nel 1992 i paesi del G7 pesavano per il 45,7 e i paesi BRICS per appena il 16,5: “Queste sono le tendenze globali” ha sottolineato Putin “e non è possibile allontanarsi da questa realtà oggettiva, che rimarrà tale qualunque cosa accada, anche in Ucraina”. Putin sottolinea poi come il segreto dei BRICS sta nel “rispetto per gli interessi reciproci che ci guida nell’interazione con i nostri partner, e questo è il motivo per cui sempre più paesi sono interessati a far parte di organizzazioni multilaterali come l’Unione Economica Eurasiatica o la Shanghai Cooperation Organization”: tutti vedono grandi opportunità,in particolare “nel progetto di costruzione di un Grande Partenariato Eurasiatico” e nell’adesione “all’iniziativa cinese della Nuova via della seta”. La Russia, continua Putin, ha approfondito il suo rapporto con l’ASEAN, con gli stati arabi e con l’America Latina e, ancora di più, con l’Africa, a partire dal vertice Russia – Africa che “ha rappresentato una vera svolta, con il continente africano che è diventato sempre più assertivo nel perseguire i propri interessi e nell’esercitare un’autentica sovranità. Aspirazioni che noi continueremo a sostenere sinceramente”: quindi il Mondo Nuovo che avanza, e la ferma volontà da parte della Russia di coglierne tutte le opportunità; altro che dittatore isolato e paranoico! Qui quelli isolati e paranoici siamo noi.
Ma la cosa forse più interessante del lungo discorso di Putin, in realtà, è ancora un’altra e l’ha sottolineata lui stesso: “Tutto quello che ho detto fino ad ora è importante, ma quello di cui parlerò ora è la questione più importante di tutte”; saranno i missili? I contingenti che la NATO minaccia di dispiegare direttamente in Ucraina? La Transnistria? Macché: la questione più importante di tutte, secondo Putin, sono “I bassi redditi, in particolare di molte famiglie numerose”; se leggi La Repubblichina ti aspetti Hitler e, invece, ti ritrovi di fronte Fanfani. “Nel 2000” ricorda Putin “42 milioni di russi vivevano al di sotto della soglia di povertà. Da allora la situazione è radicalmente cambiata. Alla fine dello scorso anno” continua con enfasi “il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è sceso a 13,5 milioni”; un dato clamoroso, ma – frena gli entusiasmi Putin – “ancora troppo elevato” e il nostro primo dovere è “concentrarsi costantemente sulla ricerca di una soluzione”. Una prima misura, sottolinea Putin, è stata introdotta il primo gennaio del 2023 e consiste in “un assegno mensile per le famiglie a basso reddito” che l’anno scorso ha riguardato “più di 11 milioni di persone”, ma “la povertà resta un problema acuto” in particolare per le famiglie numerose, che sono povere in circa un caso ogni 3: il nostro obiettivo, scandisce Putin, è che “entro il 2030 questa percentuale non sia superiore al 12%, meno della metà di oggi”, a partire dalle regioni della Russia centrale e nordoccidentale che, a partire dal prossimo anno, riceveranno circa 750 milioni di finanziamenti pubblici per cominciare ad affrontare il problema.
La questione demografica porta via un quarto d’ora buona di discorso, una carrellata di aiuti per incentivare i figli e la famiglia tradizionale che democrazia cristiana scansate, e poi tutto quello che serve affinché questi bambini crescano in salute e diventino adulti produttivi: 4 miliardi di euro per la manutenzione straordinaria di 18.500 edifici scolastici, a partire dagli asili, ai quali si aggiungono altri 4 miliardi per 40 nuovi campus universitari, 1 miliardo e mezzo per 800 strutture per la specializzazione professionale e non ho capito bene quanto per la nascita di 25 nuove università in tutto il paese; d’altronde, sottolinea Putin, “Nel 2035 avremo 2,4 milioni di cittadini in più con un’età compresa tra i 20 e i 25 anni” ed è su loro che la Russia deve puntare per aumentare in modo considerevole la produttività. E devono fare in fretta perché da qui al 2028, spiega Putin, avranno bisogno di 1 milione di giovani tecnici formati nei settori elettronico, farmaceutico e, soprattutto, in campo medico; ma, soprattutto, perché la Russia vuole raggiungere la sovranità tecnologica in una lunga serie di settori – dalla chimica all’aerospazio passando per l’energia nucleare e la new space economy.
“La percentuale di produzione ad alto contenuto energetico deve aumentare del 50% nei prossimi 6 anni” sottolinea Putin: per farlo, Stato e aziende private devono lavorare fianco a fianco; a questo fine, Putin offre agli imprenditori un patto fiscale. Le aziende russe infatti , come in tutto il resto del mondo, sono ricorse a ogni sorta di stratagemmi per pagare meno tasse possibili; questo ha comportato spesso un ostacolo alla crescita delle aziende stesse che, per evitare di passare da un regime fiscale agevolato a uno più gravoso, sono ricorse spesso a frammentare il loro business incorrendo in una sostanziosa perdita di produttività: “Queste aziende d’ora in avanti dovranno evitare la pratica della divisione artificiale, essenzialmente fraudolenta, delle attività e abbracciare modelli civili e trasparenti”. Per chi si adeguerà a questo new normal “non ci saranno multe, sanzioni, ricalcoli delle imposte per i periodi precedenti”; insomma: un bel condono, rafforzato anche da una bella “moratoria sulle ispezioni” perché “Le aziende che garantiscono la qualità dei loro prodotti e servizi e agiscono in modo responsabile nei confronti dei consumatori possono e devono godere della nostra fiducia”. E non è ancora finita; Putin, infatti, propone di rendere il condono stabile: una volta ogni 5 anni si azzera tutto perché “dobbiamo creare condizioni adeguate affinché le piccole e medie imprese possano crescere in modo dinamico e migliorare la qualità di questa crescita attraverso forme di produzione ad alta tecnologia. E per questo, in generale, il regime fiscale per le piccole e medie imprese manifatturiere dovrebbe essere allentato”.
Insomma: siamo di fronte a un piano complessivo a medio lungo termine per trasformare definitivamente la Russia in un moderno paese capitalista fondato sulla libertà di impresa e sul profitto e così, dopo la leggenda del pazzo dittatore isolato, cade anche quella del regime autocratico tenuto in piedi da una sorta di economia di guerra. Dove sta, allora, la differenza con noi? La parolina magica di Putin si chiama sovranità: in cambio, infatti, “Le imprese russe” continua Putin “devono investire le proprie risorse in Russia e nelle sue regioni, nello sviluppo delle imprese e nella formazione del personale”; in questo modo – è la ratio – l’economia reale crescerà e anche i salari ne beneficeranno, spinti anche dall’aumento del salario minimo. “A partire dal 2020” ricorda infatti Putin “il salario minimo è cresciuto del 50%. Entro il 2030 dovrà raddoppiare”; “Dobbiamo garantire” continua Putin “che il reddito medio dei lavoratori delle PMI superi la crescita del PIL nei prossimi sei anni. E ciò significa che queste imprese devono migliorare la propria efficienza e fare un salto di qualità nelle loro prestazioni”. Per farlo, servono i capitali: una complessiva riforma del mercato dei capitali che “permetta di aumentare gli investimenti nei settori chiavi del 70% entro il 2030” e senza ricorrere ai capitali internazionali; “In linea di principio” punzecchia Putin “le aziende russe dovrebbero operare all’interno della nostra giurisdizione nazionale e astenersi dal trasferire i propri fondi all’estero dove, a quanto pare, si può perdere tutto. Quindi ora, io e i miei colleghi della comunità imprenditoriale dobbiamo tenere sessioni di brainstorming per trovare modi per aiutarli a recuperare i loro soldi. Ma il metodo migliore, appunto, sarebbe semplicemente non trasferire i tuoi soldi lì. In questo modo non dovremo pensare a come recuperarli”. Quindi stop alla fuga dei capitali: lo Stato, tra investimenti in infrastrutture sia materiali che immateriali e un impianto regolatorio a maglie larghe, vi permette di fare tutti i soldi che volete, ma voi dovete rimanere qui a investire e sostenere la crescita economica generale. Insomma: lo dipingono come un feroce dittatore ma, in realtà, sembra uno dei pochi autentici liberali rimasti, una bimba di Adam Smith che, da autentico seguace di Adam Smith, sa che una cosa è il capitalismo industriale e produttivo – con anche tutto lo sfruttamento che comporta, ma nel quale, per fare quattrini, si deve produrre qualcosa – e un’altra cosa è il ritorno al feudalesimo che l’imperialismo occidentale ha in serbo per la Russia sin dai tempi di quell’alcolizzato svendipatria di Eltsin.

Il sempre più pimpante Manuelino Macaron

Ed ecco, allora, che si arriva al tema della guerra: “Il cosiddetto Occidente, con le sue pratiche coloniali e la propensione a incitare conflitti etnici in tutto il mondo” sottolinea infatti Putin “non solo cerca di impedire il nostro progresso, ma immagina anche una Russia che sia uno spazio dipendente, in declino e morente dove possono fare ciò che vogliono”; niente di nuovo sotto il sole, continua: “Vorrebbero solo replicare in Russia ciò che hanno fatto in numerosi altri paesi, tra cui l’Ucraina: seminare discordia in casa nostra e indebolirci dall’interno. Ma si sbagliavano, e ciò è diventato evidente ora che si sono scontrati con la ferma determinazione e determinazione del nostro popolo multietnico” – e contro la forza del possente apparato militare russo. Putin ricorda come, nel conflitto in Ucraina, la Russia abbia potuto dimostrare la potenza e l’efficacia dei suoi missili ipersonici Kinzhal e Zircon, e la lista della spesa continua ancora a lungo: dagli “ICBM ipersonici Avangard” ai “complessi laser Peresvet”, dal “missile da crociera a portata illimitata Burevestnik” al “veicolo sottomarino senza pilota Poseidon”, per finire con “i primi missili balistici pesanti Sarmat prodotti in serie”; “Sistemi”, sottolinea Putin, che “hanno dimostrato di soddisfare gli standard più elevati e non sarebbe esagerato affermare che offrono funzionalità uniche”.
Dopo aver fatto un po’ lo sborone, Putin allora fa il diplomatico: “La Russia” afferma “è pronta al dialogo con gli Stati Uniti su questioni di stabilità strategica. Tuttavia” sottolinea “è importante chiarire che in questo caso abbiamo a che fare con uno Stato i cui ambienti dominanti stanno adottando azioni apertamente ostili nei nostri confronti”; insomma, “intendono discutere con noi questioni di sicurezza strategica, ma allo stesso tempo cercano attivamente di infliggere una sconfitta strategica alla Russia sul campo di battaglia”. Un caso eclatante di questa ipocrisia, sostiene Putin, sono state le “accuse infondate” mosse recentemente alla Russia “riguardo ai piani di dispiegamento di armi nucleari nello spazio”, una storiella che Putin non solo definisce “inequivocabilmente falsa”, ma che fa palesemente a cazzotti col fatto che “Nel 2008 abbiamo redatto una proposta di accordo sulla prevenzione dello spiegamento di armi nello spazio”, ma in oltre 15 anni “Non vi è stata alcuna reazione”. Il tentativo, suggerisce Putin, è quello di “trascinarci di nuovo in una corsa agli armamenti”, esattamente come fatto “con successo con l’Unione Sovietica negli anni ’80”, ma a ‘sto giro non ci fregate: “Il nostro attuale imperativo infatti” è che si rafforza l’industria della difesa, ma in modo che influisca direttamente in modo positivo sulle “capacità scientifiche, tecnologiche e industriali del nostro Paese”; insomma, mentre miglioriamo “la qualità delle attrezzature per l’esercito e la marina russa”, “Per noi rimane fondamentale accelerare la risoluzione dei problemi sociali, demografici e infrastrutturali che abbiamo di fronte”. “L’Occidente”, continua Putin, “ha provocato conflitti in Ucraina, Medio Oriente e in altre regioni del mondo, diffondendo costantemente falsità. Ora hanno l’audacia di dire che la Russia nutre l’intenzione di attaccare l’Europa” ma, ovviamente, “Sappiamo tutti che le loro affermazioni sono del tutto infondate”, eppure le usano come scusa per cominciare a “ parlare della possibilità di schierare contingenti militari della NATO in Ucraina”. Ora, ricordate “cosa è successo a coloro che già una volta hanno inviato i loro contingenti nel territorio del nostro Paese ?” Ecco: “Oggi, qualsiasi potenziale aggressore dovrebbe affrontare conseguenze molto più gravi” perché “disponiamo anche di armi capaci di colpire obiettivi sul loro territorio”; ora stanno “spaventando il mondo con la minaccia di un conflitto che coinvolga armi nucleari”, ma si rendono conto che “potenzialmente significa la fine della civiltà”? Il problema, continua Putin è che “proprio come qualsiasi altra ideologia che promuove il razzismo, la superiorità nazionale o l’eccezionalismo, la russofobia è in grado di acciecare”. “Il problema”, conclude, “è che si tratta di persone che non hanno mai affrontato avversità profonde, e non hanno idea degli orrori della guerra”. Insomma: in soldoni, il Putin che s’è presentato di fronte all’assemblea federale è un De Mita che ce l’ha fatta; conservatore e liberale, ha capito che nel mondo dell’unipolarismo USA, anche solo per portare avanti un’agenda moderata e interclassista – ma non platealmente al soldo delle peggiori oligarchie transnazionali – ti devi armare fino ai denti.
La palla ora, in buona parte, sta a noi: fino a che punto i fanatici al soldo dell’impero neofeudale di Washington che governano i nostri paesi saranno intenzionati a mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa dei loro popoli per compiacere le oligarchie di turno? Putin, dal tono del suo lungo discorso, sembra essere ottimista: nessuno è così stupido da andare verso l’autodistruzione certa per fare gli interessi del suo padrone. Noi rimaniamo moderatamente agnostici: non sarebbe la prima volta che ripone una fiducia ingiustificata sulla peggiore classe dirigente della storia dell’Occidente. Di sicuro, quello che ci dovremmo impegnare a fare noi qui e ora, senza aspettare di vedere come va a finire questa partita, sarebbe mandarli tutti a casina, anche perché questa è una di quelle partite che non è detto che gli spettatori riescano a vedere fino al fischio finale; per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media un po’ strambo che, ad esempio, quando parla per due ore il presidente della più grande potenza nucleare del pianeta, invece che ascoltarlo per i primi 30 secondi perché poi c’ha judo e inventarsi i virgolettati, cerca un po’ di capire cos’ha detto sul serio – anche se non vive nel giardino ordinato. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è (di nuovo) il pimpante Manuelino Macaron

I paesi della NATO si stanno preparando a dichiarare guerra alla Russia?

Lunedì 26 febbraio. Dopo l’ennesima disfatta ad Adviivka e la situazione drammatica su tutto il fronte ucraino, una ventina di leader europei in preda al panico si riuniscono a Parigi; ad aprire le danze è, ovviamente, il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron: gli ultimi avvenimenti, ricorda, sono “un campanello d’allarme” e richiedono “decisioni forti”. Dobbiamo discutere insieme “come possiamo fare di più, sia in termini di supporto finanziario, sia in termini di supporto militare”: da che pulpito, avranno pensato dal pubblico; “Nonostante i propositi, infatti” sottolinea con un velo di ironia Politico “la Francia è stata la prima a non aver fatto la sua parte in termini di armamento di Kiev. Mentre i dati del Kiel Institute mostrano che la Germania ha dato 17,7 miliardi di euro all’Ucraina, e la Gran Bretagna 9,1 miliardi di euro, la Francia infatti ha fornito solo 635 milioni di euro”. Ma il bello doveva ancora arrivare; come ormai saprete abbondantemente tutti, a fine conferenza – infatti – il pimpante Macaron ha optato per il colpo di scena e ha messo sul tavolo il suo carico da 11: l’invio di truppe occidentali in Ucraina, ha dichiarato alla stampa, “non può essere escluso”. Non c’è stato “nessun accordo questa sera per inviare ufficialmente nostre truppe sul campo, ma non possiamo escludere niente” perché “faremo tutto quello che possiamo per impedire alla Russia di vincere questa guerra”; s’è svegliato prestino, diciamo: “Le dichiarazioni di lunedì” ha sottolineato la stessa Agence France-Presse “sembrano rappresentare una svolta per Macron, che per molti anni ha cercato di posizionarsi come principale mediatore tra Russia e Ucraina”. Come si spiega? Il nostro Francesco Dall’Aglio un’ideina se l’è fatta: “Macron” sottolinea il Bulgaro “rappresenta solo sé stesso, i suoi amici e l’industria bellica francese, tutti abbastanza inviperiti con la Russia non perché ha invaso l’Ucraina, ma perché ha cacciato la Francia dall’Africa Centrale”.
La linea morbida adottata da Macron sin dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina nei confronti di Putin era infatti giustificata dal tentativo di contenere il ruolo della Wagner nel Sahel sconvolto dai colpi di stato patriottici in Mali, nel Burkina Faso e, più avanti, in particolare nel Niger, fondamentale fornitore di uranio a basso costo per l’industria nucleare francese, un errore di prospettiva direttamente riconducibile alla cultura profondamente suprematista e coloniale del pimpante Macaron e del suo entourage: i golpe patriottici, infatti, non sono farina del sacco di Putin o di Prigozhin, ma gli esiti inevitabili della potente ondata anticoloniale che sta attraversando tutta l’area, dal Congo al Senegal. Il ruolo della Russia e, in particolare, della Wagner prima e ora l’Africa Corps, è consistito e consiste fondamentalmente nel garantire ai paesi liberati una sponda affidabile nel caso di reazioni militari da parte dell’ex occupante coloniale che, nel frattempo, è stato costretto a desistere e ha registrato l’ennesima clamorosa sconfitta su tutta la linea: dopo aver minacciato un intervento militare vero e proprio per rovesciare gli esiti del golpe patriottico in Niger attraverso l’ECOWAS, a 7 mesi di distanza la Francia non solo ha dovuto rinunciare a ogni sogno di rivalsa con le armi, ma ha dovuto anche ingoiare la fine di ogni ostilità; sabato scorso, infatti, il presidente della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale ha annunciato la sospensione delle sanzioni economiche introdotte nei confronti del Niger subito dopo il rovesciamento popolare del governo del presidente filo occidentale Mohamed Bazoum. “Lo smantellamento di tutte le principali sanzioni” ricorda Deutsche Welle “comprende la riapertura delle frontiere terrestri e aeree tra il Niger e gli Stati membri dell’ECOWAS, nonché la revoca della no-fly zone per i voli commerciali da e per il Niger”; insomma: nuovo ordine multipolare 1, vecchio ordine neocoloniale 0, palla al centro e, per Parigi, l’espulsione totale e definitiva dal torneo. Non gli rimangono che i bluff: “In questo braccio di ferro con la Russia” avrebbe affermato lo storico militare francese Michel Goya ad Agence France-Presse “non puoi fermarti davanti a nulla, questa è una partita di poker”; peccato che le fiches di Macron siano i nostri quattrini, e anche la nostra sicurezza.
D’altronde, non è certo l’unico a puntare alla cazzo di cane col culo degli altri; è quanto aveva denunciato prima del summit di Parigi il neo presidente slovacco Robert Fico, che è salito al potere pochi mesi fa proprio grazie alla sua opposizione a qualsiasi forma di escalation del conflitto: “Diversi membri della NATO e dell’Unione Europea” ha dichiarato alla stampa “stanno valutando la possibilità di inviare soldati in Ucraina su base bilaterale”. Secondo quanto riportato da Reuters, Fico avrebbe anche affermato di intravedere il rischio di un’escalation, ma di non poter rivelare altre informazioni al pubblico: “L’annuncio di Macron” sottolinea Agence France-Presse, contribuirà “solo a rafforzare la narrativa del Cremlino secondo cui la Russia sta lottando per la sopravvivenza contro le truppe di Kiev appoggiate dalla NATO in Ucraina” “e” sottolinea Fyodor Lukyanov, capo di uno dei think tank più autorevoli di Mosca, “darà alla Russia lo slancio per inasprire ulteriormente la sua posizione, intensificare la sua retorica nucleare e aumentare la dipendenza dalla deterrenza nucleare come mezzo di risposta”. Insomma: anche a questo giro cosa mai potrebbe andare storto?

Il pimpante Macaron

Le parole del pimpante Macaron a fine summit non sono state accolte proprio calorosamente, diciamo: “Ciò che è stato concordato tra noi fin dall’inizio vale anche per il futuro” ha dichiarato alla stampa un Olaf Scholz visibilmente irritato; “vale a dire che non ci saranno truppe di terra, né soldati inviati sul territorio ucraino dai paesi europei o dai paesi della NATO, e che i soldati schierati dai nostri paesi non prendono parte attivamente alla guerra”. Gli fa eco da Praga il vecchio nuovo presidente polacco, Donald Tusk, che – in una evidente frecciatina alla postura tutta chiacchiere e distintivo dell’Eliseo – sottolinea come “Se tutti i paesi dell’UE fossero impegnati in Ucraina allo stesso livello della Polonia e della Repubblica Ceca, probabilmente non avremmo bisogno di parlare di altre forme di aiuto”. Macron resta solo titolava a 4 colonne La Stampa ieri; “Non vogliamo uno scontro con l’esercito russo” ha dichiarato Tajani: “l’Ucraina si difende con armi e aiuti”. Il punto però, ovviamente, è che questa strategia ad oggi non sta funzionando proprio benissimo: dopo la rovinosa debacle di Adviivka infatti, sottolinea ad esempio Simplicius sulla suo profilo Substack, “l’avanzata precipitosa delle forze russe continua, con la caduta di altri territori che funge potenzialmente da catalizzatore per alcune escalation da panico”. Le forze armate ucraine hanno confermato martedì la caduta prima del piccolo villaggio Lastochkino e, poi, l’avanzata verso Tonenke, ad ovest di Adviivka; Simplicius riporta poi l’avanzata anche verso un terzo villaggio, quello di Orlovka. L’ultrà NAFO Julian Roepcke, inviato di Bild, sottolinea come “L’esercito ucraino continua a non riuscire a stabilizzare il fronte ovest di Adviivka. Sieverne è il terzo villaggio strategico a cadere nell’arco di una settimana. E’ ancora ignoto dove (e se) l’Ucraina abbia stabilito una seconda linea difensiva a ovest di Adviivka”; “Non ci sono parole” ha rilanciato Yuri Butusov, noto falco russofobo: “qui a Kiev il comandante in capo supremo dice una cosa, ma al fronte sta accadendo qualcosa di completamente diverso. Oltre Avdiivka fino ad oggi non sono state costruite linee di fortificazioni. Ho visto i nostri soldati nelle buche in mezzo a un campo attaccati dai droni russi”.
Per fermare l’avanzata, sottolinea Simplicius, sono riapparsi anche gli Abrams, ma non è stato esattamente un successone: qui si vede l’Abrams muoversi e qui, invece, non si muove più , “La prima distruzione di un Abrams pienamente confermata nel conflitto”. Ed ecco, così, che ai microfoni di Deutsche Welle Oleksandra Rada, presidente della commissione speciale temporanea parlamentare sul monitoraggio delle forniture di armi all’Ucraina, ha dichiarato apertamente che “Adviivka è solo un anticipo di cosa diventerà l’Ucraina. Dopo Adviivka sarà il turno di Kupyansk, e sfortunatamente dopo arriverà quello di Kharkiv, che è la seconda città dell’Ucraina. E siamo perfettamente consapevoli che se perderemo Kupyansk, che è uno snodo ferroviario fondamentale, sfortunatamente ci sono molte probabilità di perdere anche Kharkiv”; ora, ovviamente, queste dichiarazioni sono tutt’altro che disinteressate: l’obiettivo, esplicitamente e legittimamente, è semplicemente quello di spingere per l’arrivo di nuovi aiuti per continuare a combattere ancora un po’ e, al limite, quando continuare a combattere diventerà palesemente inutile, continuare comunque a fregarsi un po’ di quattrini per consolarsi dopo la capitolazione. Il punto, comunque, rimane: la disfatta è più ampia e più rapida di ogni più pessimistica previsione e l’Occidente collettivo è in preda al panico; e quindi hai voglia te di fare il pompiere per screditare le affermazioni di Macron… D’altronde, screditare Macron, di per se, è sempre cosa giusta (e anche facile); ciononostante, rimane comunque il fatto che – come sottolinea giustamente Quirico – “Le parole del leader francese ci dicono che un coinvolgimento diretto non è più un tabù” o, perlomeno, non è più un tabù parlarne apertamente.
In realtà, ovviamente, uomini dei paesi NATO in Ucraina ci sono sin dall’inizio della guerra, che non risale a due anni fa – come affermano gli Iacoboni di tutto il mondo uniti nel disagio – ma a 10 e, con buona pace di tutti i propagandisti, ormai ad affermarlo chiaramente si sono arresi pure i media mainstream: “Per più di un decennio” scrive il New York Times in un lungo e importante articolo del 25 febbraio scorso, “gli Stati Uniti hanno coltivato una partnership segreta a livello di intelligence con l’Ucraina che ora è fondamentale per entrambi i paesi nel contrastare la Russia”. Il New York Times parla chiaramente di almeno 12 basi segrete dell’intelligence USA al confine con la Russia che hanno promosso una serie infinita di attività, come nel 2016, quando “La CIA ha addestrato un élite di uomini ucraini che avevano il compito di catturare droni russi per consegnarli a tecnici USA in modo da permettergli di decodificarli e violare i sistemi di crittografia di Mosca”; “una relazione così solida” continua il Times “che gli ufficiali della CIA sono rimasti in una località remota nell’Ucraina occidentale anche quando l’amministrazione Biden ha evacuato il personale statunitense nelle settimane precedenti l’invasione russa nel febbraio 2022”. “Durante l’invasione” continua ancora l’articolo “gli ufficiali hanno trasmesso informazioni critiche, incluso dove la Russia stava pianificando attacchi e quali sistemi d’arma avrebbero utilizzato”; “Senza di loro”, avrebbe dichiarato Ivan Bakanov, allora capo della SBU, “non avremmo avuto modo di resistere ai russi o di batterli” (torneremo su questo articolo in un altro video ad hoc a breve).
Intanto, invece, vi volevo sbloccare un altro ricordino: il 20 marzo scorso, infatti, in questo video vi avevamo parlato in un importante articolo pubblicato da Asia Times: l’articolo parlava di un importante incontro che aveva coinvolto decine di alti funzionari dell’amministrazione USA che, sotto la protezione delle regole della Chatham House – che permettono di riportare cosa è stato detto, ma non chi lo ha detto – parlavano già chiaramente del sicuro fallimento della controffensiva futura, di come “L’intero esercito che la NATO ha addestrato tra il 2014 e il 2022 è morto e le reclute vengono gettate nelle linee di battaglia dopo tre settimane di addestramento” e, quindi, di come fosse necessaria “la formazione di una legione straniera di combattenti provenienti da altri paesi per integrare la sempre più ridotta riserva di manodopera addestrata dell’Ucraina”. Nei mesi successivi qualcosa si è mosso e, come ricorda sempre Simplicius, “sappiamo tutti dalle fughe di notizie del Pentagono che il Regno Unito, gli Stati Uniti e altri hanno già forze speciali nel paese. E recentemente, il colonnello generale russo Rudskoy ha confermato nuovamente che le truppe della NATO sono già nel paese sotto le mentite spoglie di mercenari”; “Tutti sanno che ci sono forze speciali occidentali in Ucraina” avrebbe dichiarato un alto funzionario della difesa europeo; “semplicemente non sono riconosciute ufficialmente”: da questo punto di vista, le parole di Macron avrebbero avuto lo scopo di alimentare quella che viene definita l’ambiguità strategica e rivelerebbe, ancora una volta, il fatto che – commenta Simplicius – “C’è probabilmente una fazione all’interno dello Stato profondo globale che milita per un ingresso forzato della NATO nel conflitto, in un modo o nell’altro” e prima ancora di conoscere gli sviluppi di ieri, Simplicius anticipava “Il casus belli potrebbe arrivare proprio dalle tensione in Moldavia per la questione Transnistria”.

Maia Sandu

Qualche giorno fa, infatti, l’analista politico Hans Hartmann aveva dichiarato pubblicamente che la premier moldava ultra – atlantista Maia Sandu “”avrebbe dato il via libera” per risolvere la questione della Transnistria con la forza “settimane fa”: la questione Transnistria è tornata a surriscaldarsi da quando, nel 2022, l’Ucraina ha deciso di chiudere il confine; da allora tutte le merci, per raggiungere la Transnistria, devono necessariamente passare dal territorio controllato da Chisinau e, come ricorda l’agenzia di stampa russa TASS, “Tiraspol ha accusato Chisinau di sfruttare la posizione vulnerabile della Transnistria per bloccare la fornitura di beni e per esercitare pressioni su di essa”. Per ieri, quindi, le autorità della Transnistria avevano convocato una specie di assemblea straordinaria plenaria per decidere il da farsi e, nel primo pomeriggio, è arrivata la risoluzione: “Facciamo appello al Consiglio della Federazione e alla Duma di Stato della Federazione Russa, chiedendo misure per proteggere la Transnistria di fronte alla crescente pressione della Moldavia”; “Queste denunce” scrive giustamente il New York Times, ricordano da vicino “quelle avanzate a suo tempo dalle regioni ucraine orientali di Donetsk e Luhansk”, ma il New York Times evita accuratamente di trarre qualche lezione dalla tragica vicenda del Donbass e incornicia il tutto in un modo che non fa prospettare niente di buono. Secondo il Times, infatti, le due repubbliche del Donbass “sostenute dalle truppe russe e da ufficiali dell’intelligence, si sono dichiarate Stati separati nel 2014 e hanno contribuito a fornire un pretesto per l’invasione russa del 2022”; nella ricostruzione del Times, quindi, 8 anni di guerra ucraina contro le province ribelli del Donbass, con le migliaia di morti e le sofferenze che hanno causato, devono essere liquidate con una battutina e l’importante, ora, è replicare esattamente lo stesso identico film nella speranza di poter allargare la guerra fino all’ultimo moldavo – dopo aver esaurito gli ucraini.
Oggi, comunque, sulla questione sono attese le dichiarazioni ufficiali di Putin alla Duma; nonostante le tensioni e la propaganda dei suprematisti, la situazione – al momento – comunque sembra ancora abbastanza sotto controllo: gli ultra – atlantisti più sfegatati nei giorni scorsi, infatti, avevano diffuso notizie infondate sulla volontà della Transnistria di richiedere direttamente una sorta di annessione a Mosca. La risoluzione dell’assemblea plenaria scongiura questa escalation diplomatica e getta acqua sul fuoco chiedendo l’intervento anche del parlamento europeo e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa per prevenire ogni ulteriore escalation tra le due capitali “e contribuire a rilanciare un dialogo a pieno titolo tra le sponde del Dniester”, e cioè il fiume che – appunto – separa la Transnistria dalla Moldavia; una ricerca di dialogo che, come per il Donbass, la propaganda suprematista del Times cerca di screditare in ogni modo: “I notiziari russi” scrive infatti il sempre pessimo Andrew Higgins “hanno citato Vadim Krasnoselsky, il presidente dell’enclave, che avrebbe chiesto aiuto a Mosca perché contro la Transnistria viene applicata una politica di genocidio”. Simili affermazioni incendiarie e prive di prove continua Higgins, “sono state avanzate per anni da rappresentanti russi nell’Ucraina orientale e utilizzate da Mosca per giustificare la sua invasione del 2022”. Aridaglie, limortaccisua: evidentemente, nonostante le disastrose notizie dal fronte, i pennivendoli di regime non sono usciti rinsaviti nemmeno da due anni di bagno di realtà; la speranza è che almeno i vertici militari dell’Occidente collettivo vivano in un mondo un po’ meno incantato.
Il punto, infatti, alla fine molto banalmente è – come si chiede Kenton White su Asia Times – “La NATO sarebbe davvero pronta per la guerra?” Steadfast defender, l’imponente esercitazione che da gennaio coinvolge tutti i 31 stati dell’alleanza e che “mira a migliorare le capacità e la prontezza della difesa collettiva dell’alleanza, con la più grande esercitazione dai tempi di Reforger nel 1988” rappresenta senz’altro un’imponente prova di forza, ma il problema più significativo che la NATO si trova ad affrontare, sottolinea White, “non è lo schieramento delle truppe di cui dispone, ma il loro rifornimento”: come infatti “è stato dimostrato dagli sforzi volti a fornire attrezzature e munizioni all’Ucraina”, continua White, “la NATO non ha né le scorte né la capacità produttiva per alimentare una lunga guerra moderna”; in sostanza, sostiene White, la “NATO ha pianificato da tempo quella che è conosciuta come una guerra come as you are”, che si può tradurre un po’ con metti indosso quel che capita, “il che significa che ha la capacità di combattere solo fino a quando durano le attrezzature e le forniture. Per questo motivo la strategia della NATO è sempre stata, in caso di conflitto, quella di portarlo a conclusione il più rapidamente possibile”. Indossare quel che capita, però, quando l’appuntamento è con una superpotenza militare, potrebbe non essere esattamente la scelta vincente: come ha affermato al Forum sulla sicurezza di Varsavia dello scorso ottobre l’ammiraglio olandese Rob Bauer, “L’economia just-in-time e just-enough che abbiamo costruito diligentemente negli ultimi 30 anni nelle nostre economie liberali va bene per molte cose, ma non per le forze armate quando c’è una guerra in corso”; per la guerra servono i grandi volumi e la pianificazione: in una parola, serve il socialismo. Invece che i discorsi a vanvera e i tira e molla a favore di telecamere, i leader europei dovrebbero piuttosto interrogarsi su questo: quanto socialismo sono disposti a introdurre nell’economia per provare a non essere selvaggiamente umiliati sul campo di battaglia? Il resto sono chiacchiere e la risposta, per adesso, non è certo delle più incoraggianti: mentre in Borsa i titoli delle aziende belliche europee, infatti, prendevano il volo – con Rheinmetall, giusto per fare un esempio, che in 2 anni ha quadruplicato il valore delle sue azioni – la capacità produttiva reale dell’Europa non si muoveva di un millimetro. Risultato? Vorrebbero discutere del coinvolgimento diretto della NATO, ma per raggiungere il misero obiettivo del milione di munizioni da fornire all’Ucraina, dopo un anno sono costretti a fare una cordata per provare ad andarsele a comprare in giro per il mondo, dall’India al Sudamerica, riempiendo così le tasche pure di potenziali avversari e pagandole una fortuna. Se se ne stessero a casina a compiacersi per le cazzate che scrive il New York Times sarebbero più felici e farebbero meno danni.
Contro la fuffa dei guerrafondai che poi la guerra manco sono capaci di farla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte della pace e che ci aiuti davvero a capire come farla. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il pimpante Manuelino Macaron

La strategia europea per permettere agli USA di scatenare la Terza Guerra Mondiale nel Pacifico

“Esiste un solo piano A, ed è la vittoria dell’Ucraina”: intervistato da La Stampa, Charles chihuahua Michel, come si confà alla sua specie, prova a dissimulare la sua vulnerabilità e la sua debolezza digrignando i denti e riassume in modo sintetico il nuovo equilibrio politico che, alla vigilia delle elezioni europee, sta maturando in un’Unione Europea che, con virtuosa tenacia, sta riuscendo a spostare il suo baricentro ancora più a destra. “Più autonomia dagli USA: urgente la difesa comune” che – di per sé – suona anche bene, ma in realtà può essere interpretata in due modi radicalmente diversi. Quello più ottimista: dopo 2 anni di schiaffi, l’egemonia USA è indebolita e l’Europa approfitta delle circostanze per procedere in direzione della sua tanto agognata indipendenza strategica – senza pestare troppo i piedi a Washington – con la scusa della difesa dalla minaccia immaginaria di Putin, pazzo dittatore che, dall’isolamento, farnetica di avanzare fino a Lisbona; e poi c’è quello più pessimista: la strategia USA ha funzionato benissimo, la rottura tra Europa e Russia non è più conciliabile e il muro contro muro non è più reversibile. Ne consegue che gli interessi geopolitici di USA ed Unione Europea si sono totalmente riallineati e, quindi, è finalmente possibile delegare in toto il lento logoramento dell’Orso Russo all’alleato europeo per poter tornare a concentrarsi sul vero avversario sistemico e, cioè, la Cina. Questa delega totale del fronte occidentale russo all’Europa sarebbe anche facilitata dal fatto che, dopo due anni di declino economico e di deindustrializzazione forzata – con la complicità del ritorno dell’austerità e dell’ordoliberismo nel vecchio continente che impediscono di sostenere la guerra economica ingaggiata dagli USA a forza di incentivi multimiliardari finanziati col debito pubblico per attrarre capitali europei – l’unica carta che rimane da giocare all’Unione Europea per non fallire definitivamente è quella di convertirsi a una specie di nuova economia di guerra, puntando tutto sul riarmo e sullo sviluppo della sua industria bellica. Ovviamente, come sempre accade nella vita reale, queste due interpretazioni radicalmente diverse non vanno pensate come mutuamente escludentesi, ma – da bravi materialisti – come compresenti e in eterno rapporto dialettico tra loro; insomma: sono entrambe vere, e l’esito finale del conflitto tra queste due tendenze non è determinato e prevedibile, ma cambierà a seconda di come si evolve concretamente la situazione reale al di là dei titoli dei giornali e della propaganda che continua a martellare. “Una sconfitta dell’Ucraina” secondo il pensiero magico di Michel “non può essere un’opzione”, e indovinate un po’ come ha intenzione di ribaltare il corso degli eventi? “Coinvolgendo il Sud globale” afferma, e cioè “spiegando che ciò che la Russia sta facendo è estremamente pericoloso per la stabilità del mondo”. E che ce vo’
Intanto martedì scorso, per la terza volta, gli Stati Uniti da soli contro il resto del mondo hanno posto il veto all’ennesima risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU che invocava il cessate il fuoco per il genocidio di Gaza; riuscirà il bravo Michel a convincere il Sud globale che lo Stato canaglia dell’ordine globale è la Russia – e non gli USA – in modo da permettergli di fornire agli USA la via d’uscita giusta per scatenare la terza guerra mondiale nel Pacifico?

Charles Michel con un bomba

Il problema della guerra totale che gli USA vogliono ingaggiare contro il resto del mondo – che vorrebbe liberarsi da 500 anni di dominio dell’uomo bianco e chiudere l’era del superimperialismo a stelle e strisce – è che questa guerra si sviluppa contemporaneamente su tre fronti distinti e gli USA, nonostante spendano in armi poco meno che tutto il resto del mondo messo assieme, la forza di vincere contemporaneamente su tre fronti non ce l’hanno, manco lontanamente; l’obiettivo che hanno perseguito negli ultimi anni, quindi, è stato delegare due di questi fronti agli alleati vassalli per concentrarsi interamente su quello fondamentale e, cioè, lo scontro nel Pacifico con l’unica vera grande altra superpotenza globale che loro stessi definiscono per primi, ufficialmente, il loro unico avversario sistemico: la Cina.
Prima ancora che iniziasse la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il fronte che gli USA avevano cercato di sbolognare agli storici alleati regionali, in realtà, era stato proprio il Medio Oriente che, in soldoni, significa l’Iran, l’unica potenza regionale di una qualche consistenza a non essere totalmente assoggettata agli interessi statunitensi. Dopo decenni di guerre di invasione dirette, che anche se non avevano avuto esattamente gli esiti sperati avevano, comunque, permesso di ridurre a un ammasso di macerie alcuni degli stati nazionali dell’area – dall’Iraq alla Siria, passando per la Libia -, con Trump gli Stati Uniti accelerano infatti in modo vistoso il ritiro del grosso delle loro truppe dalla regione; il piano è, appunto, quello di delegare il contenimento prima e lo scontro diretto poi contro l’Iran ai proxy regionali – ovviamente in primo luogo Israele, che è l’unica potenza nucleare della regione e che è un vero e proprio avamposto del superimperialismo USA nella regione, ma anche ad emiratini e sauditi, alleati storici degli USA e che, nel frattempo, sono stati armati fino ai denti: con oltre il 5,5% del PIL destinato alla difesa, infatti, da qualche anno gli Emirati Arabi Uniti sono tra i paesi che proporzionalmente spendono di più in armi al mondo e l’Arabia Saudita, stabilmente sopra il 7%, è il campione assoluto – e si tratta, ovviamente, per oltre l’80% di armi made in USA. Questi paesi, insieme al Bahrein e un altro paese che ama molto togliere il pane di bocca alla popolazione per metterlo nelle casse dell’apparato bellico industriale USA e, cioè, il Marocco, avrebbero dovuto cementare la loro alleanza attraverso gli accordi di Abramo, voluti da Trump nell’estate del 2020; nel frattempo, proprio come in Ucraina, Trump faceva di tutto per varcare le linee rosse dell’Iran e spingerlo a qualche azione che avrebbe giustificato una reazione militare vecchio stile da parte dell’alleanza: nel maggio del 2018 ritirava unilateralmente e senza nessuna giustificazione plausibile gli Stati Uniti dal JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano, raggiungendo così due obiettivi: grosse difficoltà per l’economia iraniana, a causa del ritorno al vecchio regime delle sanzioni, e un po’ di panico nella regione per il ritorno della minaccia nucleare di Teheran. Ma era solo l’antipasto: il 3 gennaio del 2020, infatti, con un vero e proprio atto criminale gli USA lanciano un attacco aereo contro l’aeroporto di Baghdad per assassinare il maggiore generale iraniano Qasem Soleimani, l’architetto dell’asse della resistenza, che si era recato in Iraq per un incontro distensivo con i rappresentanti sauditi; l’Iran, però, evita accuratamente di cadere nella trappola e invece di impantanarsi in una nuova escalation, continua a lavorare con pazienza al rafforzamento dell’asse della resistenza che, ancora oggi, sta dando del filo da torcere a Israele e agli USA in tutta la regione. Nel frattempo, visto che il sostegno americano nella guerra in Yemen non sta sortendo chissà quali effetti, i sauditi cominciano a pensare a un piano B anche perché, nel frattempo, è scoppiata la guerra in Ucraina e hanno avuto una prova provata di cosa succede ad affidarsi mani e piedi a Washington: sotto le pressioni anche dell’opinione pubblica – per quel poco che gliene può fregare a un regime feudale premoderno dell’opinione pubblica – continuano a tenersi a debita distanza dagli accordi di Abramo e, nel frattempo, continuano a fare piccoli passi verso una riappacificazione con l’Iran; a spingere verso questa soluzione ci si mette di buzzo buono pure la Cina che, nel frattempo, è diventata di gran lunga il primo partner commerciale e il primo acquirente di petrolio saudita. Gli USA continuano a cercare di seminare un po’ di panico e, nel novembre del 2022, lanciano un allarme su un possibile attacco iraniano in suolo saudita – così, alla cazzodecane, giusto per fa un po’ caciara –, ma anche qui ci prendono 10: pochi mesi dopo, il 10 marzo del 2023, assistiti dalla paziente mediazione cinese iraniani e sauditi si tornano a stringere la mano a Pechino e riavviano le relazioni diplomatiche formali; gli USA, però, non hanno ancora perso le speranze e continuano a sperare nella firma saudita degli accordi di Abramo fino al 7 ottobre, quando l’operazione Diluvio di al Aqsa scombussola nuovamente tutti i piani e – complice l’azione dell’asse della resistenza e, in particolare, di Ansar Allah – obbliga gli USA a rimpelagarsi anima e core nella polveriera mediorientale: un sostegno incondizionato a un massacro genocida di carattere platealmente neocoloniale che, tra l’altro, non fa che rinsaldare il Sud globale e isolare sempre più Washington, ormai sempre più percepita – anche dai paesi più conservatori – come un pericoloso Stato canaglia completamente estraneo a ogni minima idea di diritto internazionale.
Insomma: il primo tentativo di delegare a qualcun altro uno dei tre fronti, direi che non è andato proprio benissimo anche perché, inevitabilmente, non ha fatto che aumentare l’influenza nella regione di Russia e Cina – e senza che nessuna delle due ci dovesse impiegare chissà quali risorse; d’altronde, è esattamente quello che succede quando i tuoi piani egemonici sono in palese contrasto con gli interessi dei popoli: mentre te impieghi risorse ingenti – e senza manco lontanamente raggiungere i tuoi obiettivi – agli altri gli basta tenersi in disparte e non rilanciare per essere visti come dei veri e propri salvatori della patria e ampliare così la loro influenza a costo zero. Andare contro il corso naturale della storia ha un costo altissimo che solo un impero al massimo della sua forma è in grado di sostenere, e al massimo della sua forma l’impero USA – così, a occhio – non lo è più da qualche tempo.
La lotta contro il declino dell’insostenibile egemonia USA in Medio Oriente, a un certo punto, sembrava addirittura stesse indebolendo la presa degli USA su quelli che, più che alleati (in particolare negli ultimi 2 anni), si sono rivelati veri e propri vassalli e, cioè, i paesi europei che, almeno di facciata – a partire proprio dalle votazioni all’Assemblea Generale e anche al Consiglio di Sicurezza dell’ONU – sembravano cominciare a prendere le distanze; probabilmente non avevano alternative: a differenza degli USA, dove – nonostante si sia sviluppato un movimento di solidarietà alla Palestina senza precedenti – la lobby sionista tiene letteralmente in pugno entrambi i probabili candidati alle prossime presidenziali, in Europa, alla vigilia del voto per il parlamento di Strasburgo, pestare un merdone sulla questione palestinese potrebbe essere determinante. La pantomima, però, sembra essere durata poco: al Summit di Monaco la Davos della difesa, come è stata ribattezzata – a parte qualche slogan inconcludente, da parte dell’Europa sul genocidio si è deciso di stendere un velo pietoso; tutta l’attenzione, invece, si è rivolta verso il fronte ucraino e sulla volontà dei vassalli europei di non spezzare il cuore ai padroni di Washington, come hanno fatto quegli irriconoscenti dei sauditi. Come sosteniamo sin dall’ormai lontano febbraio del 2022, infatti, la guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina può essere letta proprio come il tentativo USA di appaltare ai vassalli europei una lunga guerra di logoramento che tenga occupata Mosca e le impedisca, qualora fosse necessario, di garantire all’amico cinese il suo sostegno in caso di escalation nel Pacifico; ci stanno riuscendo?
Sinceramente, se ce lo aveste chiesto anche solo poche settimane fa avremmo risposto, in soldoni, di no; le ultime dichiarazioni – sulla falsariga di quelle rilasciate al Corriere da Charles Michel – però, ci stanno facendo sorgere più di qualche dubbio: l’idea che ci eravamo fatti, infatti, era che di fronte alla sostanziale debacle della NATO in Ucraina, il piano USA di spezzare definitivamente il processo di integrazione economica tra Unione Europea e Mosca fosse probabilmente destinato – almeno nel medio – lungo periodo, dopo una prima fase di innegabile successo – a essere reinvertito. In questi due anni, infatti, l’economia europea ha pagato un prezzo gigantesco e gli USA, che sono anche alle prese con una faida interna di dimensioni mai viste, non hanno fatto assolutamente niente di niente per condividere l’onere, anzi! Non solo si sono fatti d’oro con l’export di gas naturale liquefatto e hanno garantito un vantaggio competitivo enorme alle loro aziende proprio a partire dalla diversa bolletta energetica, ma hanno anche rincarato la dose oltre ogni limite con un’ondata di politiche protezionistiche senza precedenti e con una quantità di quattrini pubblici spropositata per attirare sul suolo americano tutti gli investimenti che le aziende, invece, non hanno nessunissima intenzione di fare nel vecchio continente; un fuoco incrociato al quale non siamo in nessun modo in grado di reagire: mentre gli USA, infatti, fanno i neoliberisti col culo degli altri (ma si sono tenuti ben stretta una Banca Centrale che funziona da prestatore di ultima istanza e che è in grado di monetizzare il gigantesco debito USA ogni volta che serve), l’impianto ordoliberista dell’Unione Europea ci impedisce di provare a tornare a crescere facendo debito. I capitali – noi – li dobbiamo cercare su quelli che la propaganda chiama mercati ma che, in realtà, non sono altro che i grandi monopoli finanziari privati che sono tutti made in USA, e i risultati si vedono: da due anni a questa parte la crescita USA, alla prova dei fatti, si è sempre dimostrata migliore delle aspettative; quella europea e, in particolare, quella tedesca, peggiore, di parecchio.

Angela Merkel con Vladimir Putin

L’Europa, nel frattempo, ha cercato di tenere botta differenziando l’approvvigionamento energetico, ma con il Medio Oriente in fiamme e sull’orlo di una guerra regionale non è che sia esattamente una passeggiata; ora, in questo contesto, Putin in Ucraina ci sta asfaltando e piano piano la questione Ucraina era stata vistosamente allontanata dai riflettori, relegata in qualche trafiletto nelle pagine interne: sembrava la tempesta perfetta per imporre all’Europa di sconigliare senza dare troppo nell’occhio e tornare alle posizioni espresse di nuovo, nell’autunno scorso, da Angela Merkel sulla necessità di un nuovo assetto della sicurezza continentale concordato con la Russia, che facesse da apripista alla fine delle sanzioni e al ritorno a rapporti economici sensati. D’altronde, da qualche tempo a questa parte, sembrava si stesse preparando il terreno: il bilancio disastroso delle sanzioni – che era chiaro sin dal principio, ma veniva dissimulato dalla propaganda con millemila puttanate – era stato sostanzialmente sdoganato; nelle ultime settimane e, in particolare, negli ultimissimi giorni, questa traiettoria però sembra di nuovo allontanarsi – e non mi riferisco certo solo alla strumentalizzazione senza pudore fatta della vicenda Navalny, che probabilmente era del tutto inevitabile. Il punto principale, piuttosto, è tutta questa retorica sulla corsa al riarmo europeo che ha tenuto banco, in particolare, proprio al Summit di Monaco e che – fattore ancora più preoccupante – è stata cavalcata in particolare proprio dalla Germania: la Germania, infatti, è in assoluto il paese che è ha subìto le conseguenze economiche più pesanti e quello che avrebbe più interesse a ricercare un nuova distensione con Putin, come suggerito da Angelona Merkel; il fatto che sia quello che, più di tutti, spinge sull’acceleratore dell’escalation, a nostro modesto avviso segnala che, oltre alla propaganda alla Navalny, c’è probabilmente qualcosa di molto più profondo. Del rischio che la Germania veda in una sorta di nuova economia di guerra, tutta focalizzata sull’industria bellica, l’unica via di uscita dal suo inesorabile declino industriale abbiamo parlato già ieri in questo video; qui volevamo aggiungere giusto un altro spunto di riflessione perché, come afferma proprio Charles Michel al Corriere, noi europei “stiamo lavorando duramente per convincere gli Stati Uniti a fare ciò che è necessario. Ma le esitazioni del Congresso – e il fatto che l’ex presidente Trump partecipi alla campagna elettorale – ci devono far capire che in futuro dovremo contare molto di più sulla nostra capacità”. Ora, questo sforzo per poter fare a meno degli USA, ovviamente, parte dalla situazione Ucraina dove, sottolinea Michel, “esiste solo un piano A: il sostegno all’Ucraina”, ma questa potrebbe essere solo la scusa, diciamo; sinceramente, nonostante non ritenga né Michel né nessuno dei suoi colleghi esattamente una cima, mi voglio augurare che non siano così rintronati da pensare di ribaltare le sorti della guerra con armi che riusciranno a produrre tra 5 anni e, come ha detto Michel stesso senza senso del pudore, “coinvolgendo anche il Sud globale”; piuttosto, quella che temo si stia facendo strada in Europa è proprio quello che ventilava mercoledì scorso anche Il Manifesto parlando della Germania e cioè, appunto, l’idea che per salvare la nostra industria non ci rimanga che concentrare tutti gli sforzi nell’industria bellica e che, per finanziarla, non ci rimanga che intraprendere la strada che porta a una sorta di nuova economia di guerra. D’altronde, è anche l’architettura istituzionale delirante che ci siamo dati a imporcelo: senza Banca Centrale prestatrice di ultima istanza in grado di monetizzare il debito e in balìa dei monopoli finanziari privati USA, ci possiamo indebitare soltanto per finanziare quello che piace anche a loro e quindi, in ultima istanza, quello che rientra nell’agenda del superimperialismo a stelle e strisce; e, di sicuro, non gli piace se facciamo debito per sviluppare una nostra industria tecnologica o una nostra transizione green che metta a repentaglio il primato che stanno cercando di ricostruirsi a suon di incentivi miliardari. Invece se li buttiamo tutti in industria delle armi – che usiamo esclusivamente per tenere occupata e logorare la Russia – quello gli va bene, eccome, e quindi se po’ fa: è l’unico tipo di microrilancio economico che il nostro padrone ci concede.
Anzi, no, non è l’unico: ce n’è pure un’altra, che peggio mi sento; lo ricorda lo stesso Michel, sempre nella stessa intervista: per una nuova corsa agli armamenti, afferma, ovviamente serve “supporto finanziario” e per trovarlo, sottolinea, “stiamo lavorando per cercare di usare gli asset russi congelati”. Ora, intendiamoci, io non ho niente contro gli espropri, quelli proletari però: ogni asset preso da un oligarca e nazionalizzato manu militari per me è sempre una conquista – io, ad esempio, lo farei domattina con tutti gli stabilimenti Stellantis e l’avrei fatto, a suo tempo, con l’ex ILVA. Qui, però, la faccenda è un’altra: si tratta di rapinare un bene privato per consegnarlo a un altro privato, esattamente com’è successo con la raffineria della Lukoil a Priolo ed esattamente come sta facendo la Germania con la raffineria del Brandeburgo e con tutta la rete gestionale della Rosneft distribuita tra Germania, Polonia e Austria per un valore complessivo, riporta Hadelsblatt, di circa 7 miliardi di dollari; come commenta sarcasticamente John Helmer sul suo blog, “Finché possono rubare o distruggere le risorse russe a ovest dell’Ucraina, la guerra non finirà” e “Il partito tedesco che meglio garantirà di continuare questo furto per l’arricchimento dei dirigenti e degli azionisti tedeschi vincerà le prossime elezioni”.
Insomma: un’economia di guerra e di rapina, alla faccia del giardino ordinato; impossibilitati a recuperare il terreno economico e produttivo perduto, in questi mesi si stanno mettendo le basi per un’Europa completamente diversa da quella che abbiamo già conosciuta e – sembra difficile crederlo – incredibilmente peggiore. Per evitare che tutto salti per aria, allora, ovviamente c’è bisogno di un supporto propagandistico ed ideologico di tutto rispetto e questo supporto, questa giustificazione, non può che essere uno stato di guerra permanente a medio – bassa intensità sostenuto da tutta la propaganda sul grande pericolo immaginario che arriva da Est; cioè, per tenere in piedi l’Europa dell’industria bellica e dell’economia di guerra che ci stanno prospettando, la guerra alla Russia non è un’ipotesi, non è un’eventualità: è proprio una necessità vitale. Dall’alto del nostro suprematismo del tutto ingiustificato, prendevamo per il culo i popoli arabi e le condizioni di vita indecenti che si fanno imporre dai loro regimi autoritari, al punto da dichiarare unica democrazia dell’area un stato fondato sul genocidio e l’apartheid, e poi ci siamo fatti ingroppare senza vasellina come loro non hanno permesso. Sarebbe arrivata l’ora di ritrovare un po’ di dignità e rovesciare completamente il tavolo prima che sia troppo tardi; per farlo, abbiamo bisogno di lasciarci alle spalle la guerra di propaganda a suon di armi di distrazione di massa tra sinistra ZTL e destra negazionista e reazionaria e mettere in piedi un vero e proprio media popolare, ma autorevole, che dia una prospettiva alle aspirazioni concrete del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Charles Michel

L’Europa si sta preparando alla GUERRA TOTALE contro la Russia?

“Allarme a Washington”; “Una nuova arma russa minaccia gli Stati Uniti”: dopo la provocazione di Trump sul via libera alla Russia ad attaccare liberamente qualunque paese europeo si ostini a non raggiungere la quota del 2% del PIL di spesa militare e con lo stallo che va avanti, ormai, da oltre due mesi sull’approvazione del pacchetto di aiuti USA per l’Ucraina, alla vigilia del Summit di Monaco – noto anche come la Davos della Difesa – la propaganda del partito unico degli affari e della guerra, per cercare di scatenare un po’ di panico, le ha provate letteralmente tutte. La storia della novella alabarda spaziale termonucleare con la quale il dittatore pazzo ci sta minacciando tutti quanti di estinzione è una delle tante ed è piuttosto indicativa; il caso scoppia mercoledì scorso, quando il presidente della Commissione Intelligence della Camera, il repubblicano Mike Turner, volto pacioccoso del bellicismo neocon old school e grande supporter della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, in attesa del via libera per le bombe vere ne lancia una virtuale sul suo account X: “Oggi” scrive “il comitato permanente del Congresso per l’Intelligence ha informato i membri del congresso relativamente a una grave minaccia alla sicurezza nazionale” così, di botto, senza senso. Esattamente quello che la propaganda guerrafondaia stava aspettando per scatenare il finimondo: “Mosca supera un’altra linea rossa e punta a militarizzare lo spazio” rilancia gasatissima La Stampa; le prove sono schiaccianti e le elenca il nostro generale Tricarico, informatissimo. “Non è inverosimile” afferma “che la Russia possa attrezzarsi e sviluppare un’arma nucleare da lanciare nello spazio e farla esplodere con la potenza di megatoni”; non è inverosimile: quando si dice una pistola fumante. Il livello di fuffa ha raggiunto livelli tali che anche lo stesso Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, avrebbe dichiarato di essere “rimasto basito”, mentre un altro rappresentante della Commissione Intelligence prendeva anche per il culo e invitava alla calma -quando si dice lanciare il sasso e nascondere la mano. A 5 giorni di distanza, tutto quello che sappiamo è che, appunto, ci sarebbe una non meglio precisata minaccia russa che riguarda lo spazio e ha qualcosa a che fare con l’energia nucleare e con la disattivazione dei satelliti e che comunque, in nessun modo – parole della stessa Casa Bianca – rappresenta un pericolo immediato, ma qualcosa che “nel medio lungo termine” “può” condizionare la difesa degli States.

Aleksej Naval’nyj

A parte ai pennivendoli della propaganda guerrafondaia, è apparso evidente subito a tutti si trattasse di un’enorme vaccata buttata nella mischia a caso per creare un po’ di panico ad hoc, e i trumpiani hanno avuto gioco facile a perculare il tutto; i commenti al tweet di Turner sono emblematici: “Ci è appena stato detto” scrive il blogger cospirazionista Jeff Carlson “che la Russia… [riempi lo spazio vuoto]. E’ una minaccia molto reale di cui non possiamo dirti nulla. È molto seria. Dico sul serio. Quindi devi finanziare l’Ucraina per i prossimi dieci anni” – firmato Mike Turner. Manco più a montare le psyop sono buoni; fortunatamente per loro, poche ore dopo è arrivata la tragica notizia della morte in carcere di Navalny e la campagna russofoba per la corsa al riarmo si è potuta fondare su qualcosa di un attimino più solido: Torniamo a bomba, come ha titolato emblematicamente Il Manifesto, con tanto di foto di gruppo da Monaco. “Il mondo si riarma a passi forzati: Stoltenberg preme sull’acceleratore, l’Europa è in piena corsa in difesa dell’Ucraina, e la Germania si avvia verso l’economia di guerra e riapre il dibattito sull’atomica”. Il giorno dopo, Sirsky annunciava il ritiro definitivo delle truppe ucraine da Adveevka; cosa mai potrebbe andare storto?
“Dirò a Putin di attaccare i paesi europei che non spendono per la loro difesa”: con un colpo di scena degno del Berlusconi dei migliori tempi, dal palco di un’anonima cittadina della Carolina del Sud The Donald torna a imporre l’agenda del dibattito elettorale e a offrire un assist perfetto alle cancellerie più guerrafondaie del vecchio continente e alle industrie di armi, che si sfregano le mani all’idea di altri anni di succulenti extraprofitti; la necessità di armare fino ai denti tutto il continente in vista di una possibile ritirata USA dall’Europa nel caso, sempre più probabile, di una vittoria di Trump, è stato il tema per eccellenza del Summit di Monaco dove, riporta il New York Times, aleggiava un umore piuttosto asprino “in netto contrasto con quello di appena un anno fa, quando molti dei partecipanti pensavano che la Russia potesse essere sull’orlo della sconfitta”. Allora, ricorda sempre il Times, “si parlava di quanti mesi sarebbero potuti essere necessari per ricacciare i russi verso i confini che esistevano prima del 24 febbraio 2022. Ora” conclude amaramente l’articolo “quell’ottimismo appare prematuro nella migliore delle ipotesi, leggermente delirante nella peggiore” .
Finita la botta del delirio precedente, eccone uno tutto nuovo per l’occasione: l’assunto di base, a questo giro, è che Putin ora sarebbe in procinto di attaccare direttamente un paese NATO così, a cazzodicane; effettivamente, come per l’Ucraina, potrebbe essere un caso paradigmatico di profezia che si autoavvera. Ovviamente, a Putin di attaccare un paese NATO non gliene può fregare di meno, ma a forza di dirlo – e di comportarsi come se fosse un destino ineluttabile, armandosi fino ai denti e sfidando continuamente le linee rosse di Mosca – la fantasia potrebbe diventare davvero realtà; di sicuro ci stanno provando con ogni mezzo necessario: in Ucraina, ad esempio, mentre sul fronte terrestre la debacle è ormai totale, tutti gli sforzi della NATO sono concentrati a colpire la flotta russa, che secondo alcune stime, avrebbe registrato perdite vicino addirittura a un terzo del totale “che equivale”, sintetizza Andrew Korybko sul suo blog, “a 25 navi e un sottomarino”. La propaganda russofoba l’ha spacciata come una vittoria degli Ucraini, ma – in realtà – qui l’Ucraina non c’entra sostanzialmente niente: l’Ucraina manco ce l’ha una flotta; fa solo da prestanome. Si tratta, a tutti gli effetti, di una guerra della NATO contro la marina russa nel tentativo, come dice sempre Korybko, “di imporre costi militari asimmetrici alla Russia, andando a colpire obiettivi di alto profilo relativamente facili da colpire” e senza che la Russia possa in qualche modo reagire in modo simmetrico, dal momento – appunto – che l’Ucraina una marina, molto banalmente, non ce l’ha; e il tutto mentre, nel frattempo, nei mari del Nord la NATO sta svolgendo la più grande esercitazione dai tempi della Guerra Fredda: si chiama SteadFast Defender 2024 e coinvolge, in tutto, qualcosa come oltre 50 navi, un’ottantina tra jet, elicotteri e droni, oltre 1000 veicoli da combattimento e la bellezza di oltre 90 mila soldati. E dai mari del Nord si estende a tutto il continente: in coordinamento con SteadFast Defender, infatti, i tedeschi impiegheranno 12 mila uomini della decima divisione Panzer nell’esercitazione denominata Quadriga 2024, dove sperimenteranno la logistica necessaria per raggiungere Svezia, Lituania e Romania nella “prima esercitazione in cui la difesa del fianco orientale della NATO si coniuga con il ruolo della Germania come perno della difesa dell’Europa” (Carsten Breuer, capo delle forze armate tedesche). Nel frattempo, le forze armate polacche testeranno la capacità di movimento di 3.500 veicoli, compresi 100 carri armati statunitensi, nell’operazione denominata Dragon-24; insomma: prove di guerra totale alla Russia. Dopo aver decantato le lodi di questo sforzo ciclopico, per rispondere alla boutade di Trump Stoltenberg ha ricordato che, in realtà, “i paesi NATO non hanno mai speso così tanto”: come ricorda Tommaso di Francesco sul Manifesto, infatti, “In 9 anni, dal 2014, gli Stati europei più il Canada hanno aumentato di ben 600 miliardi i loro bilanci militari”; allora, i paesi NATO che rispettavano l’obiettivo del 2% erano appena 3. Quest’anno saranno 18, con alcune encomiabili eccellenze: i paesi baltici superano il 2,5%, la Grecia il 3, la Polonia addirittura il 4; “un caso istruttivo” come sottolinea l’Economist, perché oltre metà dei soldi polacchi andranno in acquisto di attrezzature – dai carri armati agli elicotteri, dagli obici ai razzi Himars – il tutto, continua l’Economist, “con una pianificazione poco coerente e con totale negligenza su come equipaggiare e sostenere tali attrezzature. I lanciatori Himars” ad esempio “possono sparare fino a 300 km, ma gli strumenti che hanno per l’intelligence non sono in grado di localizzare gli obiettivi a quella distanza e dovranno fare interamente affidamento sugli USA”.

Jens Stoltenberg

Altri paesi europei sono intenzionati a seguire le stesse orme: “Gli europei” ha affermato il ministro della difesa Pistorius a Monaco “devono fare molto di più per la nostra sicurezza”; l’obiettivo del 2% è solo l’inizio, e nel prossimo futuro “potremmo raggiungere il 3, o forse anche il 3,5%”. Più che sulla volontà di aumentare la spesa, quindi, i distinguo all’interno dell’imperialismo guerrafondaio dell’Occidente collettivo potrebbero giocarsi su dove vanno a finire questi quattrini: se la Polonia, infatti, è ben felice di riempire le tasche degli alleati d’oltreoceano, la Germania, infatti, potrebbe puntare piuttosto a sfruttare l’occasione per ridare un po’ di ossigeno al suo manifatturiero, che – nel frattempo – è stato raso al suolo; ed è solo l’antipasto. Come ricorda il Financial Times, infatti, “Le aziende tedesche si riversano negli Stati Uniti con impegni record di investimenti di capitale”; “Gli Stati Uniti” si legge nell’articolo “stanno attirando una quantità record di investimenti di capitale da parte di aziende tedesche attratte dalla loro forte economia e dai lucrosi incentivi fiscali, mentre Berlino è preoccupata per la deindustrializzazione”: in un solo anno, infatti, gli investimenti diretti tedeschi negli USA sono passati da 8,2 miliardi a 15,7 miliardi, distribuiti in 185 progetti, 73 dei quali nel settore manifatturiero – e potrebbe essere solo un primo assaggino. “Secondo un sondaggio condotto su 224 filiali di aziende tedesche negli Stati Uniti, pubblicato l’8 febbraio dalle Camere di commercio tedesco – americane” continua, infatti, l’articolo “il 96% prevede di espandere i propri investimenti entro il 2026”.
Il rilancio dell’industria bellica nostrana potrebbe essere la medicina giusta; le differenze tra Biden e Trump andrebbero forse analizzate anche da questo punto di vista: congelando la guerra per procura in Ucraina, infatti, Trump si troverebbe col fiato sul collo della sua industria bellica a corto di commesse e sarebbe portato a fare pressioni sull’Europa per alzare la spesa sì, ma solo per sostenere l’industria USA. Per tenere il fronte acceso, invece, Biden avrebbe bisogno dello sforzo industriale sia statunitense che europeo; da questo punto di vista, quindi, la scelta starebbe un po’ a noi: vogliamo morire di fame e di miseria o di guerra? E poi dicono che non c’è democrazia… Questo dilemma potrebbe caratterizzare anche l’agenda elettorale della Von Der Leyen, alla disperata ricerca di un secondo mandato alla guida del protettorato europeo: “La proposta di Von der Leyen per il secondo mandato” titola, ad esempio, Politico “più potenza militare e meno discorsi sul clima”; “Il mondo di oggi è completamente diverso rispetto al 2019” ha affermato, “e anche Bruxelles lo è” sottolinea Politico, “o lo sarà presto”. “L’attuale gruppo di deputati del Parlamento europeo” continua Politico “è stato eletto al culmine delle marce giovanili ispirate a Greta Thunberg che hanno catapultato il cambiamento climatico nel mainstream politico” e hanno influenzato la retorica del primo mandato di Ursulona. Nonostante la leggenda metropolitana sulle ecofollie di Bruxelles spacciata dall’alt right, però, al di là della retorica i risultati sono stati pochini e, per la gioia dei negazionisti climatici che hanno scambiato la lobby del fossile per il nuovo fronte di liberazione popolare, ora anche la retorica sembra essere arrivata al capolinea, e così “nella conferenza stampa di lunedì” riporta sempre Politico “il clima è stato appena menzionato e l’accento si è spostato tutto sulla difesa”; ma nella peggiore delle ipotesi, rilancia l’Economist, se davvero “l’America abbandonasse l’Europa” la nuova situazione “richiederebbe di fare molto di più che semplicemente aumentare la spesa”. “Quasi tutti gli eserciti europei” sottolinea l’Economist “fanno fatica per raggiungere i loro obiettivi di reclutamento”: a dicembre, Pistorius ha affermato che, col senno di poi, aver interrotto la leva obbligatoria in Germania nel 2011 è stato un tragico errore, mentre il generale britannico Patrick Sanders, capo dell’esercito britannico, ha usato l’esempio dell’Ucraina per ribadire che “Gli eserciti regolari iniziano le guerre; gli eserciti di cittadini le vincono”. Ma anche nei rari casi in cui gli obiettivi del reclutamento vengono raggiunti, mancano comunque “capacità di comando e controllo, come ufficiali di stato maggiore addestrati a gestire grandi quartier generali”.
L’altro nervo scoperto – fondamentale – è la questione nucleare: “L’America” sottolinea l’Economist “è impegnata a usare le sue armi nucleari per difendere gli alleati europei” e sarebbero quelle armi ad averci fornito una garanzia contro l’invasione russa; ora, però, chi può pensare che “un presidente americano che non è più disposto a rischiare le sue truppe per difendere un alleato europeo, sarebbe invece disposto a mettere a repentaglio le città americane in un conflitto nucleare?”. Francia e Gran Bretagna l’atomica ce l’hanno, ma si parla di 500 testate in totale contro le 5 mila degli USA e le 6 mila russe e, in buona parte, non sappiamo come gestirle: le armi nucleari britanniche, infatti, sono assegnate alla NATO; la Gran Bretagna può decidere di usarle come vuole “ma è totalmente dipendente dagli USA per la progettazione delle testate, per le quali attinge ad un pool comune di missili, conservato in Georgia”. “Se l’America dovesse interrompere ogni cooperazione” sottolinea l’Economist “le forze nucleari britanniche probabilmente avrebbero un’aspettativa di vita misurata in mesi anziché in anni”; e il problema della catena di comando va ben oltre il nucleare: la NATO, infatti, gestisce una complessa rete di quartieri generali – un quartier generale in Belgio, tre comandi in America, Paesi Bassi e Italia, e una serie di comandi più piccoli sotto. “Questi” sottolinea l’Economist “sono i cervelli che gestirebbero qualsiasi guerra con la Russia. E se Trump si ritirasse dalla NATO da un giorno all’altro, gli europei dovrebbero decidere come riempire questo vuoto” e in molti dubitano che gli Stati Membri dell’UE possano mettersi d’accordo nell’individuare l’equivalente di un comandante supremo tra di loro, in grado di sostituire il padrone di Washington.

The Donald

Insomma: l’obiettivo dell’Economist è chiaro: fare un po’ di terrorismo psicologico contro la possibilità di una nuova amministrazione Trump; l’Europa è sotto attacco russo, ovviamente deve spendere un sacco di quattrini per riarmarsi, ma che non gli venga in mente di vedere nelle minacce di Trump un opportunità per ritagliarsi uno spazio di autonomia strategica, perché senza la Pax Americana l’Europa è destinata a soccombere e, magari, anche a tornare a farsi la guerra vera al suo interno. Nel frattempo, in Italia – per tagliare la testa al toro – abbiamo approfittato del clima bellicista per fare un altro bel favore all’industria delle armi: la famosa legge 185 – che, anche se è stata spesso aggirata, permetteva al Parlamento di avere un controllo su dove autorizzavamo ad esportare le nostre armi – è sotto attacco; “L’obiettivo” titola Il Manifesto “è escludere il Parlamento dai controlli”. “Il senso dell’operazione che la maggioranza si appresta a varare” conclude l’articolo “è di ridare al governo il potere di decidere il da farsi in autonomia, togliendo alle Camere ogni potere di discussione”.
Forse di fronte all’offensiva propagandistica delle due correnti del partito unico degli affari e della guerra, il potere di discussione – invece – sarebbe il caso di riprendercelo per sul serio; per farlo, ci serve un vero e proprio media che che non si faccia infinocchiare dalla propaganda bellicista e che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Rimbambiden

BASTA SEGRETI – Dall’Aglio e Ziviello smentiscono tutte le bugie sul nucleare

“Da Los Alamos all’Ucraina, 80 anni di evoluzione del linguaggio e delle minacce nucleari. Politici e militari ricordano cos’è davvero il demone che giace nei missili intercontinentali? Un’antologia di operazioni, dichiarazioni e storie sull’atomica – da Oppenheimer, Einstein, Kubrick a Putin, Kim Jong Un e Liz Truss – per orientarsi e comprendere se il tabù della mutua distruzione resta intatto.” Questa la presentazione del libro “Oppenheimer, Putin e altre storie sulla bomba” scritto a quattro mani da Carlo Ziviello, giornalista ed editore, e dal nostro carissimo Francesco dall’Aglio.

L’INTERVISTA DI CARLSON: come Putin ha asfaltato la fuffa di Trump e il Suprematismo USA

La politica americana non smette mai di stupirci e anche la scorsa settimana ci ha regalato due perle preziose: la prima sono le dichiarazioni di Donald Trump che, durante un discorso pubblico in South Carolina, ha detto che se fosse rieletto presidente gli Stati Uniti non difenderebbe militarmente un paese europeo da un attacco russo a meno che il paese in questione non abbia speso almeno il 2 per cento del PIL nella difesa, “Anzi, incoraggerei i russi a fare quello che vogliono” ha intimato minaccioso agli europei; “Dovete saldare i vostri debiti!”. Queste dichiarazioni apparentemente folli rivelano in verità uno dei tasselli fondamentali della strategia politica di Trump e del partito Repubblicano: disimpegnarsi il più possibile in Europa in modo da poter concentrare tutte le risorse necessarie nel Pacifico nell’ottica di una futura guerra alla Cina. Naturalmente, all’idea che Trump possa addirittura smantellare la NATO costringendo gli Stati europei a difendersi da soli, tanti giornalisti italiani si sono lasciati andare ad urla isteriche e imprecazioni disperate; la reazione degli ottoliner, invece, pare che sia stata più o meno questa.

Vladimir Putin e Donald Trump

L’altro scandalo lo ha scatenato il giornalista americano Tucker Carlson il 6 febbraio scorso recandosi a Mosca per intervistare Vladimir Putin; era la prima volta che un giornalista occidentale faceva un’intervista al presidente russo dallo scoppio della guerra in Ucraina e, tanto per cambiare, dopo la pubblicazione dell’intervista le reazioni dell’opinione pubblica occidentale hanno dato prova di grande superficialità: tra chi ha dipinto Carlson come un traditore della democrazia e scagnozzo di Putin e chi, invece, guarda al giornalista americano come al nuovo messia della libera informazione e della lotta alla propaganda occidentale, è praticamente una gara a chi la spara più grossa. Basterebbe, infatti, aver studiato un attimo la biografia di Carlson, aver letto qualche sua dichiarazione precedente e aver seguito un minimo la geopolitica americana negli ultimi anni per sapere cosa politici e giornalisti di area repubblicana – come lui – stanno cercando di fare; è chiarissimo che a Carlson non interessi un bel nulla delle centinaia di migliaia di morti in Ucraina, né delle ragioni dei pacifisti, né della libera informazione: Carlson è, infatti, lontano mille miglia dalla sacrosanta lotta all’imperialismo e al suprematismo americano nel mondo. Semplicemente, in questo periodo il giornalista si limita a fare da megafono alle posizioni politiche di Donald Trump – e la posizione di Trump sulla guerra per procura della NATO in Ucraina è sempre stata chiarissima: bisogna fermarla al più presto, perché oggi il vero nemico del dominio globale americano non è la Russia, ma la Cina, e per poter vincere la guerra contro Pechino la Russia deve essere assolutamente riportata nell’orbita occidentale. “La più grande minaccia per questo Paese non è Vladimir Putin; è ridicolo. La minaccia più grande, ovviamente, è la Cina” dichiarava Carlson quando ancora faceva il conduttore a Fox News, e rincarava: “Gli Stati Uniti dovrebbero avere buoni rapporti con la Russia per combattere meglio la Cina; se la Russia dovesse mai unire le forze con la Cina, l’egemonia globale americana, il suo potere, finirebbe all’istante” e da quando l’anno scorso è stato licenziato da Fox News, Carlson non ha fatto altro che portare avanti esattamente questa narrazione guerrafondaia e sinofobica tanto cara a Trump e a tutti trumpiani americani ed europei. In questa puntata parleremo delle diverse visioni strategiche imperiali di democratici e repubblicani americani e, in particolare, del conflitto su quale debba essere considerato il nemico principale tra Russia e Cina e sul ruolo dell’Europa in questo scacchiere; vedremo inoltre come Putin, durante l’intervista con Carlson, abbia sfatato molte delle falsità della propaganda russofobica occidentale e come abbia platealmente deriso la retorica razzista e suprematista anticinese di Trump e Carlson ribadendo la propria solidissima alleanza con Pechino.

Henry Kissinger

Negli anni ’70, durante l’amministrazione di Richard Nixon, Kissinger utilizzò la diplomazia triangolare per mettere la Cina contro l’Unione Sovietica; nel 2018, Kissinger consigliò alla politica americana di tornare a questa diplomazia triangolare, ma nella direzione opposta: “Henry Kissinger” come riportava, infatti, il Daily Beast “ha suggerito al presidente Donald Trump che gli Stati Uniti dovrebbero collaborare con la Russia per contenere una Cina in ascesa”. I supporter dell’ala trumpiana dei Repubblicani e la destra reazionaria europea vedono infatti nella Russia un paese pur sempre bianco, europeo, cristiano e capitalista – e quindi un potenziale alleato contro la minaccia cinese, patria del comunismo, dell’ateismo e di un’etnia diversa dalla nostra; FuckBiden e i democratici, invece, la vedono diversamente. Da una parte sanno benissimo che, a lungo termine, l’unico vero grande competitor al loro dominio è la Cina e lo hanno anche scritto nero su bianco nel documento ufficiale che riassume la loro Strategia per la Sicurezza Nazionale; a differenza dei trumpiani, però, non confidano troppo sulla possibilità di spezzare l’alleanza che si sta consolidando tra Russia e Cina e hanno cercato di consolidare l’alleanza con i partner europei, nel tentativo di delegargli l’opera di contenimento del nemico russo e potersi concentrare sul Pacifico. Da una parte, quindi, l’Europa è vista come un continente ormai in inesorabile declino per la cui sicurezza e controllo non vale spendere soldi preziosi; dal lato democratico, invece, la NATO e – in generale – il controllo politico e militare sulle provincie atlantiche dell’impero rappresenta ancora una priorità. Ma al netto di queste differenze, come ha insistito più volte anche Ben Norton nell’intervista che ci ha rilasciato, quello che molti europei fanno ancora così fatica a comprendere – troppo presi da pseudo – dibattiti sul grado di bon ton di questo o quell’altro presidente americano – è che sia democratici che repubblicani sono profondamente imperialisti e il loro scontro non riguarda se gli Stati Uniti debbano o meno essere un impero, ma piuttosto su quale sia la migliore strategia per preservarlo; e quale delle due strategie, quella repubblicana o quella democratica, sia effettivamente la più lungimirante sarà solo la storia a dircelo, perché se è vero che, a prima vista, un avvicinamento russo alla Cina sembra un disastro per gli americani, è anche vero che il capo della CIA William J. Burns ha recentemente definito l’assistenza militare degli Stati Uniti all’Ucraina “un investimento relativamente modesto con significativi ritorni geopolitici per gli Stati Uniti e notevoli ritorni per l’industria americana”. In ogni caso, gran parte delle attuali politiche statunitensi, così come la famigerata intervista di Carlson a Putin, devono essere lette alla luce del conflitto tra queste due diverse visioni strategiche, cosa che – manco a dirlo – politici e giornalisti italiani si guardano bene dal fare.
Ma Chi è Tucker Carlson? Il giornalista americano è diventato famoso negli ultimi anni vendendosi come populista, a difesa dell’America profonda dagli attacchi delle oligarchie radical chic democratiche; naturalmente, con gli ultimi Carlson non ha mai avuto nulla a che fare: rampollo di una famiglia potente, ricca e politicamente ben integrata, Carlson ha iniziato la sua carriera mediatica come falco neoconservatore, sfornando articoli razzisti e guerrafondai per il Weekly Standard, la bibbia dell’ala più reazionaria dei repubblicani. Negli anni Duemila è stato promosso a conduttore di programmi alla CNN per poi, infine, passare a Fox News; tra le altre cose, ha sostenuto con entusiasmo l’invasione illegale dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, definendo gli iracheni “scimmie primitive semianalfabete”. Nel maggio del 2006, durante una discussione sulla guerra in Iraq in un popolare programma radiofonico, ha dichiarato con modi gentili di non avere troppo rispetto della cultura irachena: “Una cultura in cui la gente non usa la carta igienica o le forchette, non merita considerazione” ha detto, aggiungendo infine che “Gli iracheni dovrebbero chiudere quella cazzo di bocca e obbedire agli Stati Uniti perché non sono in grado di governarsi da soli”; dopo essere stato licenziato da Fox News, Carlson si avvicina ancora di più a Trump e oggi rappresenta uno dei suoi più efficaci strumenti di propaganda.

Tucker Carlson

E veniamo ora ai punti più interessanti dell’intervista con Putin: nell’intervista, il presidente russo ha parlato della storia del suo paese, dei rapporti con l’Ucraina, della Seconda Guerra mondiale e dei miti su cui in questi anni in Occidente è stata montata questa ondata di russofobia; il più diffuso di questi miti, naturalmente, è che la Russia rappresenterebbe una costante minaccia esistenziale per gli europei. Questo terrorismo psicologico – smentito clamorosamente dagli ultimi due secoli di storia in cui, a ben vedere, sono sempre stati gli europei occidentali a invadere i territori russi e non il contrario – è stata funzionale ai nordamericani una volta conclusa la guerra fredda, così da poter tenere in vita la NATO e legittimare la propria presenza militare sul nostro territorio; finita la guerra fredda, racconta infatti Putin, la Russia aveva tutte le intenzioni di avere ottimi rapporti con l’Occidente, come dimostra anche il tentativo di entrare nella NATO e il progetto di dar vita a una difesa missilistica congiunta, respinto da Clinton e Bush Jr. Ma i buoni rapporti con i paesi europei, con i quali era stata costruita anche una forte interdipendenza economica ed energetica, è sempre stata avversata dagli USA, i quali hanno sempre temuto di perdere il controllo sul vecchio continente e, soprattutto, che si potesse formare una grande alleanza politica euroasiatica; in questo clima di ostilità, dunque, la costante espansione della NATO ad est non poteva che essere considerata una minaccia per la sicurezza della Russia, ha sottolineato Putin: un po’ come se oggi Messico e Canada stringessero un’alleanza militare con la Cina con la possibilità di ospitare testate nucleari cinesi a pochi passi con il confine statunitense. Quale sarebbe la reazione nord-americana. Difenderebbero il diritto di Messico e Canada, in quanto Stati sovrani, ad entrare in tutte le alleanze militari che vogliono? Ho come l’impressione di no. In ogni caso, se su tutte queste riflessioni di Putin Carlson annuiva soddisfatto e tra i due sembrava ci fosse totale sintonia, quando si è parlato di Cina le cose sono improvvisamente cambiate: “La domanda è” chiede Carlson “cosa viene dopo gli USA? Si scambia una potenza coloniale con un’altra, molto meno sentimentale e indulgente. I BRICS, ad esempio, rischiano di essere completamente dominati dai cinesi, dall’economia cinese, in un modo che non è positivo per la loro sovranità. È preoccupato per questo?”; “Abbiamo già sentito queste storie sull’uomo nero” replica laconico Putin, “La filosofia della politica estera cinese non è aggressiva” continua, “La sua idea è quella di cercare sempre un compromesso. E questo lo vediamo. Ci viene raccontata sempre la stessa storia dell’uomo nero, ed eccola di nuovo, in forma eufemistica, ma è sempre la stessa storia dell’uomo nero”. Ma mentre si continua a fare propaganda sinofoba con le favolette, continua Putin, la realtà è che “La cooperazione con la Cina continua ad aumentare. Il ritmo di cooperazione della Cina con l’Europa sta crescendo. È più alto e maggiore di quello della crescita della cooperazione sino – russa”; “Chiedete agli europei” continua Putin: “Hanno paura? Forse sì. Non lo so. Ma cercano comunque di accedere al mercato cinese a tutti i costi. Soprattutto ora che stanno affrontando problemi economici. In America” conclude Putin “volete limitare la cooperazione con la Cina. Ma è a vostro danno, signor Tucker, che state limitando la cooperazione con la Cina. State danneggiando voi stessi.” Putin ha poi sottolineato soddisfatto come la politica repubblicana non sia affatto riuscita a isolare la Cina dalla Russia e a dividere i BRICS, e che sono state proprio le politiche di Biden e del Partito Democratico in Ucraina in questi anni a condurre al definitivo fallimento di questa strategia.
Come sappiamo, il nuovo obiettivo americano è ora quello di dividere i BRICS, in particolare facendo leva sui propri buoni rapporti con l’India, cercando così di creare quanti più conflitti possibili tra cinesi e indiani che, storicamente, non godono di ottimi rapporti. Secondo una recente inchiesta del Washington Post, una volta rieletto Trump si starebbe preparando ad imporre una tariffa del 60% su tutti i prodotti cinesi importati: praticamente una dichiarazione di guerra; la speranza è che, sia in campo economico che su Taiwan, Xi Jinping non caschi in queste provocazioni imperialistiche occidentali e continui a dare prova di grande saggezza razionalità politica. E se anche tu sogni un’Europa fuori dalla NATO e una grande alleanza euroasiatica tra Stati sovrani che porti pace e benessere su tutto il supercontinente, bisogna prima di tutto costruire media libero e indipendente che combatta la propaganda americana. Adesso anche tu puoi fare la tua parte e costruirlo insieme a noi: iscriviti al nostro canale in inglese (OttolinaTV – English – YouTube) e aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Tucker Carlson

IL MASSIMO ESPERTO ITALIANO DI NORD COREA: Vi spiego il piano segreto di Kim Jong-un

Sempre più spazio alle interviste di OttolinaTV ed oggi, con Francesco Alarico della Scala, vi sveliamo il piano segreto di Kin Jong-un!

Il cambio delle politiche sulla riunificazione, l’incontro con Putin, i rapporti commerciali e altre curiosità sulla Corea, in onda dalle 18.30