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LA DISFATTA – Gaza, Ucraina, Vietnam: per l’Imperialismo USA la débâcle è MONDIALE

Dopo il settecentesimo voto all’ONU di praticamente tutto il resto del mondo contro l’asse del male USA – Israele – Ucraina più qualche isola della Micronesia, Zio Biden finalmente è stato costretto a far finta di fare la predica a Netanyahu. L’obiettivo? Convincerlo ad accontentarsi di questi 10 mila bambini trucidati e tornare a cancellare la Palestina dalla storia, come era buona usanza prima del 7 ottobre: in silenzio, senza fare troppo rumore, un insediamento illegale e una nuova legge segregazionista alla volta. Nel frattempo, anche per la retorica bellicista in Ucraina è arrivato il momento di fare un passo indietro; d’altronde basta chiedere ai mezzi di produzione del consenso di cambiare, dal giorno alla notte, il senso della parola vittoria: fino a ieri significava riconquistare tutti i territori persi dopo il 24 febbraio (e pure la Crimea). Oggi, come ha affermato il capo del consiglio di sicurezza ucraino Danilov alla BBC, “Già aver continuato a combattere per due anni può essere considerato una vittoria”; e senza l’approvazione di un bel pacchetto di aiuti sostanzioso, il rischio immediato – nei prossimi mesi – è ritrovarsi con un’Ucraina in bancarotta e senza manco più l’accesso al mare.
Anche in Asia le cose vanno peggio del previsto; il Vietnam, ad esempio, veniva annoverato tra le punte di diamante di quella che veniva definita l’Alt Asia, e cioè i paesi in via di sviluppo asiatici che potevano diventare la nuova Cina: altrettanto convenienti, ma molto più docili nei confronti dell’Occidente. Evidentemente, a Washington di cominciare a capire che il mondo è cambiato continuano a non averne molta voglia; l’era delle repubbliche delle banane nel Sud del mondo, infatti – temo – è tramontata per sempre e i paesi sovrani di essere arruolati in qualche schieramento non ne vogliono sapere. Ed ecco così che martedì, ad Hanoi, veniva accolto in pompa magna Xi Dada per inaugurare una nuova stagione di partnership strategica ai massimi livelli tra i due paesi. Attenzione, però: questo non significa che il Vietnam abbia deciso di schierarsi con la Cina; ha deciso piuttosto, appunto, di fare i suoi interessi. Il punto, però, è che un mondo di stati sovrani che fanno i loro interessi e dialogano alla pari con tutti è proprio il mondo che vorrebbe la Cina. E l’incubo degli USA che ormai, ogni giorno che passa, sembrano sempre più intrappolati tra l’incudine e il martello: da un lato vorrebbero continuare a imporre al mondo l’ordine unipolare creato dalla globalizzazione neoliberista dove, al centro, c’è il loro impero finanziario e tutt’attorno gli altri, che possono accompagnare solo; dall’altro, però, dopo aver toccato con mano il fatto che dopo 40 anni di finanziarizzazione non hanno più un’industria in grado di sostenere una guerra contro un’altra grande potenza, vorrebbero “make america great again”.
Il rischio serio è che non abbiano più gli strumenti per perseguire né l’uno né l’altro obiettivo; per l’Occidente collettivo, abituato a dominare incontrastato con la forza il pianeta da ormai 5 secoli, sembra quasi essere una prospettiva inverosimile: ed eccoli, così, che si rifugiano nel mondo incantato della post verità. Lunedì, al senato, Fratelli d’Italia ha organizzato un seminario: “I vantaggi di un mondo post Russia”, era il titolo. E se fosse arrivato il momento giusto per mandarli tutti a casa?
Martedì scorso è tornata in scena l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, chiamata a riunirsi di nuovo in via straordinaria dopo poco più di un mese dal voto del 26 ottobre: sul piatto, ovviamente, c’era – di nuovo – la risoluzione per la richiesta di un cessate il fuoco immediato a Gaza. Venerdì scorso, infatti, per la quinta volta dall’inizio del conflitto il veto USA a sostegno della guerra di Israele contro i bambini di Gaza aveva impedito al consiglio di sicurezza di prendere una decisione; e così la palla torna all’assemblea generale, dove gli USA e l’asse del male dei paesi che appoggiano lo sterminio della popolazione civile di Gaza avevano basse aspettative. Già il 26 ottobre, infatti, erano stati messi in minoranza e l’assemblea aveva approvato la risoluzione per un soffio: 120 favorevoli contro 14 contrari e 45 astenuti. Per approvare una risoluzione relativa a conflitti in corso, l’assemblea generale dell’ONU – infatti – deve superare la maggioranza qualificata dei due terzi che, a quel giro, era stata superata di appena un voto e, da allora, per il Nord globale e per i sostenitori dello sterminio unilaterale come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali le cose non hanno fatto che peggiorare. Il 7 novembre scorso, infatti, si era riunito il terzo comitato dell’Assemblea Generale dell’ONU, responsabile delle questioni relative agli affari sociali e ai diritti umani; l’Occidente collettivo aveva votato compatto per impedire l’adozione di una risoluzione che condannava l’“uso di mercenari come mezzo per violare i diritti umani e impedire l’esercizio del diritto dei popoli all’autodeterminazione”, contro una delibera che prevedeva la “promozione di un’equa distribuzione geografica dei membri degli organi previsti dal Trattato sui diritti umani” (e cioè che a decidere sulle questioni inerenti i diritti umani non fossero sempre e solo i rappresentanti di una piccola minoranza di paesi privilegiati), contro una risoluzione che mirava a promuovere “diritti umani e diversità culturale” – che non sia mai che qualcuno si metta in testa che esistono altre culture legittime, oltre a quella delle ex potenze coloniali – e pure contro un’altra per la “promozione di un ordine internazionale democratico ed equo”. Ma tutte e 4 le volte, fortunatamente, era stato preso a pesci in faccia, ma di brutto proprio: 123 a 54, 126 a 52, 128 a 52 e 130 a 54, che per gli standard USA all’ONU – ormai – comunque è già un mezzo successo, diciamo.
Quattro giorni prima, ad esempio, aveva perso 187 a 2: in ballo c’era la vecchia questione della fine del bloqueo, l’embargo criminale degli USA contro la popolazione cubana che va avanti da oltre 60 anni e che permette agli USA di affamare manu militari un intero popolo e poi dare la colpa al socialismo; a votare contro insieme agli USA – giustamente e coerentemente – il regime fondato sull’apartheid dello stato di Israele. Unico astenuto – l’ultimo bastione della difesa dei valori occidentali contro l’avanzata dei regimi totalitari asiatici – l’Ucraina di Zelensky.
Ma Cuba non è l’unico tema che comincia a presentare delle fratture anche all’interno stesso dell’asse del male dei paesi del Nord globale: spinti da una gigantesca mobilitazione popolare fatta di centinaia di migliaia di persone che, da due mesi, invadono piazze e strade di tutto il pianeta per esprimere la loro indignazione nei confronti del sostegno incondizionato dei loro governi allo sterminio dei bambini di Gaza, anche i paesi dell’Occidente collettivo hanno cominciato a manifestare qualche segno di insofferenza. Tutto sommato, come avevamo annunciato, era abbastanza prevedibile: mano a mano che il tempo passa, infatti, diventa sempre più difficile giustificare la carneficina con il miraggio irrealistico dell’annichilimento di Hamas; in due mesi di sterminio indiscriminato, Israele non sembra essere stato in grado di raggiungere un obiettivo militare che sia uno, ed è sempre più difficile dissimulare la natura meramente genocida dell’operazione militare. Il sostegno dell’Occidente collettivo ad Israele non ha fatto altro che compattare il Sud globale e avvicinare tutto il mondo islamico alle grandi potenze emergenti, accelerando il processo di isolamento delle ex potenze coloniali dal resto del mondo; come abbiamo raccontato in un altro video giusto 3 giorni fa, Putin è stato accolto negli Emirati e in Arabia Saudita come un vero imperatore, e delegazioni di paesi arabi e islamici continuano a recarsi a Pechino, riconoscendole il ruolo di unica grande superpotenza mondiale in grado, oggi, di operare attivamente per la pace e il ritorno della diplomazia, mentre USA e Unione Europea continuano a sfidare ogni senso del pudore continuando ad accusarla di islamofobia per violazioni – più o meno immaginarie – dei diritti umani nello Xinjiang.
Ed ecco, così, che quando martedì sera all’ONU è arrivato il momento della conta, gli USA si sono ritrovati letteralmente accerchiati; prima i due emendamenti presentati dagli USA stessi e dall’Austria sono stati brutalmente rimandati al mittente: insistevano affinché la risoluzione condannasse esplicitamente Hamas. Una sfumatura che nasconde tanta sostanza: accusare Hamas, infatti, è funzionale a descrivere l’operazione in corso invece che come uno sterminio deliberato con finalità genocide da parte delle forze di occupazione, al limite come un semplice eccesso nell’esercizio del diritto alla difesa. Ma la batosta più grande è arrivata al momento del voto della risoluzione: i 120 voti a favore di un mese e mezzo fa, sono diventati 153; in buona parte, sono defezioni che pesano, eccome. Gli USA perdono per strada il sostegno di paesi fondamentali per la loro strategia neocoloniale in Europa, dalla Polonia, ai paesi Baltici; perdono inoltre gli alleati fondamentali per la grande guerra dell’Asia – Pacifico: Australia, Giappone e Corea del Sud, e perdono pure l’unico presunto alleato vero che gli era rimasto nel Sud globale, e cioè l’India di Modi. Gli unici che continuano a vedere con simpatia lo sterminio sono l’Italia e la Germania.
Una batosta epocale che, finalmente, costringe Biden a cambiare un po’ passo: “Duro scontro Biden Netanyahu sulla guerra a Gaza” titola La Repubblichina; “Biden sconfessa Netanyahu” rilancia con un titolone a 4 colonne il Corriere della serva. Rilanciando la sua celebre massima secondo la quale “se non ci fosse stato Israele, ce lo saremmo dovuti inventare”, Biden ha invitato di nuovo l’alleato a non commettere “gli errori che abbiamo commesso noi dopo gli eventi dell’11 settembre” e lo ha messo in guardia: “Israele” ha sottolineato “può contare sul nostro sostegno e su quello dell’Europa e del mondo, ma ha cominciato a perderlo a causa di bombardamenti indiscriminati”. Per riconquistare il sostegno incondizionato dell’Occidente globale nei confronti dell’occupazione e della pulizia etnica, Biden ha annunciato di aver esortato il primo ministro israeliano a procedere con un rimpasto di governo: “L’attuale governo” sottolinea Biden “è il governo più conservatore della storia di Israele” e appoggiandolo incondizionatamente, continua, “ci sono paure reali in varie parti del mondo che l’America potrebbe vedere intaccata la sua autorità morale”; questo è bastato a scatenare da un lato le reazioni furibonde delle componenti più smaccatamente clericofasciste del governo Netanyahu e, dall’altro, l’entusiasmo nelle redazioni dei più moderati tra i sostenitori occidentali del genocidio, ma in realtà potrebbe essere più fuffa che altro. Il piano, infatti, sembra essere piuttosto chiaro: continuare la pulizia etnica – ma con un po’ più di tatto e di savoir faire -, nominare un governo di unità nazionale che “unisca di nuovo gli Israeliani” e rimettere sul tavolo la questione dei due stati ma, proprio come avveniva prima del 7 ottobre, semplicemente come arma di distrazione di massa per tenersi buoni gli alleati arabi che sono stati costretti a dimostrare un po’ di solidarietà nei confronti dei palestinesi per non farsi impalare dalle piazze ma che, in realtà, della causa palestinese – ovviamente – se ne strasbattono i coglioni.
Una svolta, quindi, più cosmetica che altro, ma anche le svolte cosmetiche segnalano sempre qualcosa di più profondo; e, in questo caso, segnalerebbero – appunto – le difficoltà degli USA, che sono per lo meno costretti ad ammorbidire i toni per cercare di mettere un argine all’emorragia di consensi che la loro leadership globale continua a subire, da Gaza all’Ucraina. La seconda notizia del momento, infatti, è il ritorno di Zelensky a Washington: come scrive SIMPLICIUS The Thinker sul suo profilo su Substack “Il Circo Zelensky arriva in città per un ultimo bis”, e anche qui siamo di fronte a un altro arretramento e a un altro tentativo di cambiare la narrativa. Il capo del consiglio per la sicurezza nazionale dell’Ucraina Alexey Danilov, intervistato dalla BBC, lo ammette piuttosto chiaramente: se fino a pochi mesi fa vittoria significava nientepopodimeno che riprendersi tutti i territori e pure la Crimea, oggi il semplice “fatto che abbiamo continuato a difendere il nostro paese per due anni è già una grossa vittoria”; insomma, chi s’accontenta gode. D’altronde oggi le priorità sono cambiate: oggi la priorità è evitare, da un lato, la bancarotta e dall’altro che Putin in primavera si possa riprendere Kharkiv e poi pure Odessa, ricongiungendosi così alla Transnistria e escludendo l’Ucraina dall’accesso al mare; sostanzialmente significherebbe costringere l’Ucraina a costruire e mantenere rapporti di buon vicinato con la Russia, dalla quale dipenderebbe per accedere al mare e, quindi, ai mercati internazionali, entrambe ipotesi che senza un sostanzioso nuovo pacchetto di aiuti da parte degli USA potrebbero rivelarsi drammaticamente realistiche. Per gli interessi strategici USA sarebbe un’altra sberla di dimensioni veramente epiche, motivo per cui, tendenzialmente, sono abbastanza convinto che – alla fine – una qualche soluzione la troveranno, ma al momento è tutt’altro che scontato. Dopo che il congresso, la settimana scorsa, ha negato l’approvazione del nuovo pacchetto da 60 miliardi di aiuti, Zelensky è corso a Washington per provare a convincere i repubblicani: come riporta sempre SIMPLICIUS, “Zelensky avrebbe garantito la volontà di mobilitare altri 500 mila cittadini ucraini. In sostanza gli sta dicendo che se gli danno altri soldi, si impegna a mandare nuova carne da macello al fronte per indebolire la Russia”, ma tra i trumpiani la promessa non sembra avere fatto molta breccia. “Zelensky è qui a Washington oggi per elemosinare i vostri soldi” scrive su Twitter la turbotrumpiana Marjorie Taylor Green “ e Washington guerrafondaia vuole dargli dollari americani illimitati. Quanti soldi spenderà Washington per massacrare un’intera generazione di giovani ucraini mentre Washington combatte la sua guerra per procura contro la Russia?”

Al posto di 60 miliardi, per ora Zelensky si è dovuto accontentare di 200 milioni; un po’ pochino: come ricorda Simplicius, il Kyev Indipendent nel settembre scorso titolava “La guerra contro la Russia costa all’Ucraina 100 milioni al giorno”.
Ma per gli USA c’è anche un terzo fronte che inizia vistosamente a scricchiolare: è quello delle alleanze dell’Asia – Pacifico per contenere la Cina; ne avevamo parlato un paio di settimane fa, quando i titoli dei giornali erano tutti concentrati sul bilaterale tra Xi e Biden nella location dove avevano girato Dynasty a San Francisco, e si erano dimenticati di raccontare cosa stava succedendo attorno. Quello che stava succedendo era la riunione annuale dell’APEC, durante la quale i partner asiatici degli USA si aspettavano di portare a casa la firma definitiva dell’IPEF – l’Indo Pacific Economic Framework – l’accordo commerciale che avrebbe dovuto garantire un bel flusso di investimenti in dollari nell’area e che, però, è malamente naufragato: a opporsi all’IPEF, infatti, erano stati la sinistra democratica e i sindacati – che uno dice: e da quando mai i sindacati e la sinistra democratica contano qualcosa negli USA? Beh, semplice: da quando Biden, mentre veniva preso a sberle dai russi in Ucraina, ha realizzato che quel poco di industria che era rimasta ancora negli USA non era sufficiente per fare la guerra contro una grande potenza. Soluzione? Make america great again: una quantità spropositata di incentivi pubblici per reindustrializzare gli Stati Uniti che, però, potrebbe essere più semplice da dire che da fare, e non solo perché significa aumentare deficit e debito pubblico a dismisura proprio mentre sempre più paesi in giro per il mondo – dopo che hanno visto che fine fanno le riserve in dollari non appena fai qualcosa che non piace a Washington – di comprarsi tutto sto debito non è ce n’abbiano poi tantissima voglia; c’è un problema ancora più profondo. Quando gli USA, infatti, tra delocalizzazioni e finanziarizzazione hanno deciso di devastare la loro capacità produttiva, non l’hanno fatto per capriccio; sono stati costretti. Dopo decenni di stato sviluppista e di politiche keynesiane, infatti, i lavoratori avevano accumulato così tanto potere da mettere seriamente a rischio la gerarchia sociale su cui si fonda il capitalismo, dove io che c’ho il capitale so io, e te non sei un cazzo.
Come scriveva Huntigton nella celebre relazione commissionata nel 1973 dalla commissione trilaterale – e che poi in Italia venne tradotta con tanto di introduzione del compagno Gianni Agnelli – negli USA ormai c’era un eccesso di democrazia che metteva a repentaglio il dominio dei capitalisti; bisognava dare una bella sforbiciata alla democrazia e, per farlo, la cosa migliore era massacrare il mondo del lavoro, che è dove la democrazia nasce e acquista potere: le delocalizzazioni e la finanziarizzazione sono stati gli strumenti che hanno permesso, appunto, di massacrare il mondo del lavoro – e quindi l’eccesso di democrazia che stava turbando i sonni degli onesti multimiliardari. E per 50 anni ha funzionato benissimo: i capitalisti hanno fatto una montagna di quattrini spropositata e gli USA, da una vivace democrazia, si sono trasformati in un’oligarchia; peccato, però, che a guadagnarci non siano stati solo i capitalisti occidentali, ma anche gli stati sovrani del Sud del mondo che si sono sviluppati e ora minacciano il dominio USA.
Ecco quindi che gli USA tornano a investire nella loro industria, ma il problema che 50 anni fa li ha spinti a devastare il tessuto produttivo mica è stato risolto: è sempre lì, ed è bastato tornare a investire nell’economia reale che s’è già fatto sentire, eccome. I lavoratori dell’automotive, negli ultimi mesi, hanno condotto una battaglia epocale che li ha portati a strappare aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro senza precedenti, e potrebbe essere soltanto l’inizio: “L’inaspettata rinascita dei sindacati americani” titolava ieri un allarmatissimo Financial Times; “Secondo un’analisi di Bloomberg” riporta l’articolo “più di 485.000 lavoratori statunitensi hanno partecipato a 317 scioperi nel 2023, più di qualsiasi altro momento negli ultimi due decenni”. Sono gli stessi sindacati che all’APEC hanno impedito agli USA di rafforzare la loro egemonia nel Sudest asiatico sulla pelle dei lavoratori americani a suon di investimenti per continuare i processo di delocalizzazione e un bel mercato per le loro merci a basso prezzo. Il risultato? Questo: Xi Jinping che viene accolto in pompa magna in Vietnam, appena due settimane dopo l’APEC di San Francisco, per annunciare – come riporta Global Times – “una nuova fase di maggiore fiducia politica reciproca, cooperazione in materia di sicurezza più solida, cooperazione più profonda e reciprocamente vantaggiosa, sostegno popolare più forte, coordinamento multilaterale più stretto e migliore gestione delle differenze”.
Giorno dopo giorno, con una rapidità impensabile fino anche solo a un paio di anni fa, ogni evento di una certa rilevanza sullo scacchiere globale sta lì a certificare che gli USA – al di là di sostenere qualche genocidio in Medio Oriente o lo sterminio di qualche decina di migliaia di soldati in qualche stato fantoccio utilizzato per guerre per procura di ogni genere – oggettivamente non sembrano avere più gli strumenti materiali per continuare a sostenere il dominio sul mondo delle proprie oligarchie; l’unica fortuna che gli rimane è che negli stati vassalli continua a sopravvivere una classe dirigente di scappati di casa che sembrano completamente incapaci anche solo di comprendere cosa gli sta succedendo attorno. Di fronte ai millemila eventi epocali degli ultimi giorni, le prime pagine dei giornali filo – governativi ieri sembravano una parodia: “Case occupate, è svolta” titolava Il Giornale; “Meloni antifascista” rispondeva Libero; “La Meloni in Aula fa a pezzi sinistra e Conte” rilanciava La Verità: da nessuna parte né un titolo sull’impasse israeliana, né uno sulla débâcle di Zelensky, né uno sul Vietnam. Niente. Solo ed esclusivamente armi di distrazione di massa per un popolo di bottegai che si crogiola beato nel suo declino, mentre al senato il principale partito di governo organizza un convegno che sembra una messinscena di Borat: “I vantaggi di un mondo post – Russia” si intitolava.

Giuliomaria Terzi di Sant’Agata

A organizzarlo, l’ex ambasciatore italiano in Israele e Stati Uniti, nonché ministro degli esteri di uno dei peggiori governi in assoluto della storia repubblicana: Giuliomaria Terzi di Sant’Agata, erede del nobile casato lombardo dei Terzi, simbolo eccellente di un paese precipitato di nuovo nell’oscurantismo feudale dove la classe dirigente è così scollegata dalla realtà da impiegare il suo tempo per chiedersi “Cosa succederà quando la Russia non sarà più una federazione ma sarà spaccata in 25 piccoli stati autonomi?
Mai come oggi lo possiamo dire con chiarezza: altro che there is no alternative, altro che il grande disegno del capitale che ha sconfitto i lavoratori ed è destinato a dominare incontrastato in eterno: qui siamo di fronte a degli scappati di casa alla canna del gas. E’ arrivata l’ora di rialzare la testa e di mandarli a casa, dal primo all’ultimo: per farlo, abbiamo bisogno di prima di tutto di un vero e proprio media che sia in grado, giorno dopo giorno, di smascherare le buffonate che ci vorrebbero spacciare al posto dell’informazione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giuliomaria Terzi di Sant’Agata

PUTIN ACCOLTO DA IMPERATORE NEL GOLFO – Il Nord Globale è in preda al panico

Fermi tutti! Fermi tutti, che qui c’è da brindare; è tornata – più in forma che mai – la mia crush numero 1: Nathalie Tocci! Dopo averci deliziato per mesi e mesi con una quantità infinita di vere e proprie perle di doppiopesismo suprematista e previsioni strampalate di ogni genere, sistematicamente smentite tempo zero dalla realtà, la Tocci – ultimamente – aveva iniziato a battere un po’ la fiacca e, per spiazzarci ancora di più, era arrivata addirittura a scrivere cose non dico condivisibili, ma – tutto sommato – perlomeno ragionevoli sullo sterminio in corso a Gaza. Ma quando poi, venerdì mattina, abbiamo aperto la prima pagina de La Stampa, lo spiazzamento si è trasformato in vero e proprio stato confusionale; accanto alla sua graziosa fotina, infatti, campeggiava un titolo sconcertante: Perché adesso in Ucraina rischia di vincere Putin. E’ stata rapita? Lo zio Vladimiro gli ha segretamente fatto impartire un vecchio trattamento Ludwig? L’ha sostituita con una sosia?

Nathalie Tocci

Fortunatamente, però, era solo un falso allarme: superate le prime righe, infatti, ecco che riappare subito la vecchia Natalona che tutti noi abbiamo imparato ad amare, determinata come non mai a sacrificare ogni minimo residuo di dignità in nome della propaganda e del suprematismo. D’altronde la posta in gioco è alta; la Tocci, infatti, che – va detto – ha sempre tifato escalation senza se e senza ma, convinta che le minacce di Putin fossero sempre e solo bluff e che il dovere dell’Europa fosse distruggere la Russia senza tanti fronzoli, lamenta il fallimento di una strategia europea che definisce eccessivamente cauta e attendista. E’ l’abc di ogni suprematista che si rispetti: l’Occidente collettivo è una civiltà superiore e, in quanto tale, non può perdere; se perde è perché ha deciso, per eccesso di ingenuità, di essere troppo docile e gentile, come d’altronde dimostra anche la guerra a Gaza. Proprio la civiltà dei guanti di velluto, diciamo. La Tocci, quindi, torna a lamentare la “stanchezza” dell’Occidente nei confronti di una guerra che – ovviamente – sarebbe in grado di vincere con la mano destra legata, e accusa “chi pensa che da questa stanchezza possa uscire qualcosa di buono”, ovvero “un negoziato che porti un compromesso tra Kiev e Mosca, magari mandando a casa il presidente ucraino Zelensky”.
Poveri illusi! Non tengono in conto, sottolinea la nostra Nathalie, che “per arrivare a un compromesso serve l’accordo tra le due parti. E a questa soluzione il presidente russo Vladimir Putin non pensa proprio” e non tanto perché ormai la Russia ha asfaltato sul campo di battaglia l’Occidente collettivo e quindi ormai, prima di trattare, vuole finire l’opera – che ne so – prendendosi pure Odessa, o per lo meno Kharkiv – che è un’ipotesi tutto sommato verosimile. No, no! Secondo la Tocci, semplicemente, “Putin ha bisogno di uno stato di conflitto perpetuo per sorreggersi”; infatti, sottolinea, “Se dovesse finire la guerra, il regime sarebbe chiamato a fare i conti con” – udite udite – “centinaia di migliaia di morti”: cioè, non 100 mila, che è già una barzelletta, e nemmeno 200, ma proprio centinaia e centinaia di migliaia. Cioè, non solo tutti quelli schierati in Ucraina, nessuno escluso, ma pure quelli rimasti a casa, che sono morti dal dispiacere. E viste le basi fattuali così solide su cui fonda il suo ragionamento, ecco che la Tocci, spregiudicata, decide di fare un passo oltre e si lancia in un’altra delle sue fantastiche previsioni: se, infatti, un compromesso adesso è impensabile – sostiene la Tocci – le cose potrebbero cambiare tra un anno, una volta terminata la lunga corsa per le presidenziali USA, soprattutto se alla Casa Bianca arrivasse Trump; allora un accordo sarebbe il regalo di investitura di Putin all’amico The Donald. Ma non fatevi illusioni, perché “naturalmente, per Putin, questo sarebbe soltanto una pausa temporanea”, giusto “il tempo di riarmarsi, e poi proseguirebbe la rincorsa dell’obiettivo rimasto invariato sin dall’inizio della guerra” che indovinate un po’ quale sarebbe? Ma ovviamente “il controllo di Kiev” scrive Natalona, ma non solo, perché – a quel punto – perché fermarsi? Perché “non proseguire” dice la Tocci “con la casella successiva, cioè la Moldavia e poi, magari, avventurarsi in territorio NATO, nei Baltici”? E poi ancora più in là, dritti verso Lisbona e, da lì, in canotto verso il nuovo continente. Ma chi gliel’avrà messa in testa questa gigantesca sequela di puttanate? E perché proprio adesso, quando – dopo qualche intervento ragionevole sulla guerra a Gaza – stava lentamente riuscendo a ricrearsi un minimo di credibilità?
Washington, martedì 5 dicembre: il Congresso degli Stati Uniti è in procinto di discutere il pacchetto da 100 e oltre miliardi messo assieme dall’amministrazione Biden; in larga parte, dovrebbero servire a permettere all’Ucraina di tenere occupato Putin ancora un po’ senza dichiarare definitivamente la bancarotta, almeno fino al voto per le presidenziali USA del prossimo novembre e, tra le fila del partito repubblicano, le perplessità si sprecano. Ovviamente sanno benissimo che tirare il freno a mano adesso significherebbe, potenzialmente, permettere a Putin di aumentare a dismisura il suo bottino di guerra e, anche, che questo comporterebbe un danno enorme per gli interessi strategici USA, ma sanno anche che, dopo due anni di umiliazioni sul campo, il loro elettorato di questa guerra per procura ne ha le palle piene e per recarsi alle urne vuole vedere tornare in cima all’agenda politica qualcosa che li riguarda da vicino, a partire dalla lotta senza se e senza ma a quelle che ormai definiscono apertamente le invasioni barbariche dei migranti latinos dal confine meridionale – che vorrebbero blindato e con licenza di uccidere. Ecco allora che il segretario alla difesa Lloyd Austin prova l’ultima carta: un lungo incontro riservato con i senatori più riottosi per provare a cercare una quadra prima che inizi il voto; ma è un fallimento totale. Dopo appena 20 minuti – riporta il buon vecchio Stephen Bryen su Asia Times – ecco che i senatori repubblicani escono in fretta e furia dalla sala, inviperiti. Cos’è successo? Secondo le prime ricostruzioni, appunto, i repubblicani volevano impegni formali sostanziosi sul muro col Messico, ma sono stati rimbalzati. Ma c’è dell’altro: secondo Tucker Carlson, Lloyd Austin li avrebbe letteralmente minacciati:

“Il segretario alla Difesa Lloyd Austin” – ricostruisce il Messengers – “avrebbe sostenuto che se i legislatori non riusciranno ad approvare ulteriori aiuti all’Ucraina, ciò molto probabilmente porterà le truppe statunitensi sul terreno in Europa a difendere gli alleati della NATO in altri paesi che la Russia potrebbe prendere di mira”; insomma, gli aveva letto l’editoriale che poi avrebbe pubblicato anche il suo ufficio stampa in Italia Nathalie Tocci. Carlson, come sempre, aggiunge, anche un altro po’ di pepe: Lloyd Austin infatti – sostiene – avrebbe detto esplicitamente che “Se non stanziamo più soldi per Zelensky, manderemo i vostri zii, cugini e figli a combattere la Russia”; insomma, “O paghi gli oligarchi o uccideremo i tuoi figli” sintetizza Carlson, con Musk sotto che gli chiede “Ma ha davvero detto così?”. “Lo ha fatto davvero” replica Carlson. “E’ confermato”. Ora, io di Carlson mi fido più o meno come della Tocci ma, comunque si sia svolto davvero il colloquio segreto, un paio di cose risultano chiare:
uno – la minaccia, comunque sia stata formulata, non ha convinto i repubblicani, che infatti – alla fine – hanno bocciato il pacchetto di aiuti;
due – la minaccia, invece, ha convinto Nathalie Tocci, che l’ha trasformata nel suo ennesimo illuminante editoriale indipendente e privo di condizionamenti.
D’altronde, fallita miseramente la controffensiva ucraina, l’unica speranza che i sostenitori senza se e senza ma della guerra per procura contro la Russia hanno di salvare almeno un pezzettino di faccia è portare avanti una controffensiva mediatica in grande stile. Il primo tassello di questa controffensiva consiste nel riformulare gli obiettivi della guerra: se fino a due settimane fa l’obiettivo era, attraverso la controffensiva, riprendersi tutti i territori conquistati dalla Russia dopo il 24 febbraio – e magari, già che ci siamo, pure la Crimea – e poi mettere fine al regime di Putin, ora che – con poco meno di un annetto di ritardo – si è costretti a prendere atto del fallimento, non rimane che rivedere gli obiettivi retroattivamente; ed ecco così che la debacle diventa una mezza vittoria perché, comunque, abbiamo impedito a Putin di conquistare Kiev.

Euromaidan

Ma chi l’ha detto che Putin voleva conquistare Kiev? Certo Zelensky, Biden, la Tocci, ma Putin – di sicuro – no (e anche noi abbiamo avuto sempre più di qualche dubbietto, diciamo); la storiella è sempre stata che s’è ritrovato di fronte una resistenza ucraina che non si aspettava – per carità, tutto può essere -, ma la resistenza che s’è ritrovato di fronte mica era la resistenza ucraina dei patrioti armati di fucili di legno che ci rifilavano ovunque all’inizio. E’ la resistenza della NATO che, in 8 anni dal colpo di stato dell’Euromaidan, ha trasformato l’esercito ucraino, in assoluto, in uno dei più cazzuti del vecchio continente, e mica era un segreto eh? Cioè, magari non lo sapevano Jacoboni e David Parenzo, ma Putin tendenzialmente sì, ecco. Ciononostante, gli uomini impiegati dalla Russia erano pochini e la loro avanzata non era stata anticipata da qualche campagna democratica di bombardamento a tappeto in stile NATO; quindi, o Putin e tutti i suoi generali e tutta la sua intelligence sono scemi, oppure – probabilmente – il piano non era esattamente quello che gli attribuisce la propaganda occidentale e io, se fossi un hooligan della propaganda suprematista, su questa cosa che sono tutti scemi non ci punterei troppo, ecco, perché se sono scemi loro, te – che ti sei fatto a prendere a pizze in faccia per due anni – probabilmente proprio proprio un aquila non sei, ecco.
Ma al di là di tutte le deduzioni che possiamo fare – che comunque, ovviamente, rimangono sempre opinabili – ora finalmente sembra emergere qualcosa che tanto opinabile non è: come sottolinea il buon vecchio Mearsheimer, infatti, ormai “esistono prove sempre più convincenti che dimostrano che Russia e Ucraina erano coinvolte in seri negoziati per porre fine alla guerra in Ucraina subito dopo il suo inizio”. La prima testimonianza eccellente di questi negoziati risale allo scorso ottobre; a parlare è l’ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder, secondo il quale Mosca aveva proposto un piano di pace molto concreto in 5 punti: “Il rifiuto dell’Ucraina di aderire alla NATO, due lingue ufficiali in Ucraina, l’autonomia del Donbass, le garanzie di sicurezza per l’Ucraina e i negoziati sullo status della Crimea”. Altro che conquista di Kiev, quindi: “Durante i colloqui” ricorda però Schroeder “gli ucraini non hanno accettato la pace perché non gli era stato permesso. Dovevano prima coordinare tutto ciò di cui parlavano con gli americani”; ma Schroeder, si sa, è uomo di Gazprom e non è indipendente come Nathalie Tocci. A novembre, però, ecco che arriva un’altra conferma; a parlare, a questo giro, è nientepopodimeno che Davyd Arakhamia, leader parlamentare di Servitori del Popolo, il partito di Zelensky: “I russi” avrebbe dichiarato “erano pronti a porre fine alla guerra se avessimo accettato la neutralità e ci fossimo impegnati a non aderire alla NATO” ma “quando siamo tornati da Istanbul” ricorda Arakhamia “Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo firmato nulla con loro e che combattevamo e basta”.

Francesco dall’Aglio

A confermare il vero scopo della Russia e il ruolo dell’Occidente collettivo c’ha pensato pure l’ex premier israeliano Natali Bennett, presente ai negoziati: “Tutto ciò che ho fatto” avrebbe affermato “è stato coordinato fino all’ultimo dettaglio con Stati Uniti, Germania e Francia. E la decisione è stata quella di continuare a colpire Putin”. I partner occidentali, quindi, hanno deciso di bloccare l’accordo e “io ho pensato che si sbagliassero” ha concluso Bennet; è esattamente la stessa identica cosa che il nostro Francesco Dall’Aglio ha sostenuto – durante le nostre dirette – ogni benedetta settimana da quando è iniziato il conflitto e che ora, finalmente, diventa sostanzialmente ufficiale – ma, evidentemente, non abbastanza per spingere la Tocci a prendere consapevolezza della realtà e a smarcarsi un po’ dai deliri dell’amministrazione Biden. Purtroppo per la propaganda analfoliberale, però, continuare a sostenere vaccate che cozzano palesemente con la realtà non sembra ormai più essere una strategia vincente; nonostante il bombardamento mediatico ininterrotto, il grosso della popolazione mondiale – anche nel cuore dell’Occidente collettivo – ormai il giochino l’ha capito eccome; ma allora perché continuare imperterriti sulla stessa strada, rilanciando con questa buffonata di Putin che, una volta conquistata Kiev, invade pure i paesi Baltici?
Per capirlo, basta vedere le immagini dell’arrivo di Putin, giovedì scorso, negli Emirati Arabi Uniti: ad aspettarlo c’erano “il picchetto d’onore, bandiere russe ovunque, l’inno russo eseguito dall’orchestra, il saluto dell’artiglieria” sottolinea Ria Novosti, e anche gli aerei acrobatici che hanno disegnato una gigantesca bandiera russa nel cielo ; un’accoglienza un po’ diversa da quella che, pochi giorni prima, aveva trovato il presidente tedesco Stenmeier in Qatar. Se l’erano dimenticato; è rimasto lì ad aspettare per mezz’ora. I media occidentali hanno rosicato di brutto: “L’accoglienza disgustosamente sontuosa del despota Putin ha titolato il britannico Sun. “Vladimir Putin” scrive La Bretella Rampina sul Corriere della serva “umilia i suoi nemici con la tournée nel Golfo”; “tutto” rilancia Libero “per mandare all’Occidente una sorta di pernacchia metaforica”. Dopo il tour nel Golfo, Putin ha ricevuto a Mosca il presidente iraniano Raisi e, poche ore prima, era stato il turno del principe ereditario dell’Oman che, con Putin a fianco, avrebbe affermato di fronte alle telecamere che “L’ingiusto ordine mondiale dominato dall’Occidente deve finire”; “è necessario” ha continuato il principe “creare nuovi meccanismi per le relazioni internazionali che non impongano alcuna ideologia”. “Gli Stati Uniti” ha dichiarato Putin “hanno cercato di utilizzare la globalizzazione come strumento per garantire il proprio dominio nel mondo”; “ora, tuttavia” ha continuato “il vecchio modello con un processo drammatico e irreversibile sta per essere sostituito da un nuovo ordine multipolare”. E la Russia darà il suo contributo per la creazione di un nuovo modello economico globale veramente democratico, basato sulla concorrenza leale tra tutti gli attori. Il palcoscenico era il forum annuale organizzato da VTB Bank: seconda banca del paese, a quest’ora si sarebbe dovuta ritrovare in ginocchio a causa delle sanzioni; nel 2023 registrerà i profitti più alti della sua storia. Bene, ma non benissimo, diciamo.

E ora una brevissima interruzione pubblicitaria: i nostri media provano a fuggire a questo destino – che per i loro editori è drammatico e irreversibile – cercando di cambiare retroattivamente la storia: mi sa che servirebbe un media che la storia cerca di capirla per quello che è per evitare di farsi prendere sempre e solo a sberle per l’eternità. Per costruirlo, serve un editore un po’ diverso: tu; aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è… Spe’ che sono emozionato, che non lo dicevo da tanto…
E chi non aderisce è Nathalie Tocci

IL CALENDARIO DELL’AVVENTO DELLA POST – VERITA’ Un anno di previsioni mainstream – pt. 1: GENNAIO

4 gennaio 2023, Il Giornale: “Russi in crisi, caos nell’esercito”;
6 gennaio, La Repubblichina: “Putin chiede il cessate il fuoco perché sta perdendo”;
25 gennaio, Il Giornale: “Arrivano i tank, la guerra è a una svolta”;
26 gennaio, La Repubblichina: “Ora l’esercito russo potrebbe sgretolarsi” e “Pechino scarica Mosca”.
Tra debacle ucraina, crisi economica e – per chiudere in bellezza l’anno – lo show in mondovisione della natura genocida della cosiddetta unica democrazia dell’Occidente, per la propaganda suprematista il 2023 è stato un anno decisamente complicato. In vista delle festività natalizie, allora, Ottolina Tv ha deciso di fare un suo personalissimo calendario dell’avvento dove a ogni casellina corrisponderà un video dedicato alle vaccate più incredibili apparse sui principali quotidiani italiani in un determinato mese e, alla fine, invece che la nascita di Cristo si festeggerà la nascita della Nuova Era della Post – Verità: tenetevi forte perché quelle che apparivano chiaramente come puttanate anche lì per lì, ma contro le quali – per prudenza, a suo tempo – abbiamo deciso di non inveire con troppa ferocia, concedendo il beneficio del dubbio, a un anno di distanza assumono chiaramente le sembianze di caricature satiriche esilaranti. Buon avvento a tutti!
Il 2023, in realtà, non si è aperto all’insegna delle magnifiche sorti e progressive della gloriosa guerra per procura dell’Occidente globale contro la Russia in Ucraina. La psyop suprematista che ha inaugurato l’anno della Post – Verità era talmente sconclusionata che l’abbiamo immediatamente rimossa; in ballo c’era la fine delle rigide misure zero covid in Cina che, secondo i nostri sempre obiettivi ed equilibrati media, avrebbe necessariamente causato milioni di morti e riportato il dragone al Medioevo, dal quale – peraltro – ovviamente non era mai completamente uscito. Nonostante la Cina minacci il Mondo Libero, i valori fondamentali di giustizia e di fratellanza che caratterizzano l’Occidente collettivo ci avevano spinto ad offrire al barbaro regime di Xi Jinping una via d’uscita sicura dalla catastrofe: una montagna di vaccini Pfizer a gratis. Ma Xi Jinping – che, come sempre, aveva messo davanti il suo culto per la personalità al benessere del suo popolo – ci aveva rimbalzato: “Il no di Pechino ai vaccini occidentali” titolava Il Giornale; “Xi sacrifica il popolo per salvare la faccia”. “Aprire a Bruxelles” scrive Gian sinofobia portami via Micalessin “significherebbe riconoscere il flop della cura cinese e il disastro della politica covid – zero”.

Il virus SARS-CoV-2

Ovviamente oggi sappiamo che quell’offerta, più che con la generosità della civiltà dell’uomo bianco e “la superiorità scientifica degli USA” – come sottolineava il Giornale – aveva a che fare col fatto che, per due anni, tutto l’Occidente ha lasciato che a dettare la sua politica sanitaria fosse una spregiudicata multinazionale come Pfizer, che ha registrato per due anni profitti record vendendoci una quantità spropositata di vaccini dei quali non sapevamo assolutamente cosa fare; e anche l’annunciato disastro della politica covid – zero che, secondo la propaganda, non aveva fatto altro che rinviare l’appuntamento con la pandemia aggravandolo – dopo aver imposto per due anni inutili misure draconiane a un popolo sostanzialmente schiavizzato – non si è rivelato esattamente conforme alle previsioni: secondo i numeri di Our World in Data aggiornati al 2 dicembre, la Cina – in tutto – avrebbe registrato appena 85 morti ogni milione di abitanti, contro una media di oltre 2700 nell’Unione europea e i circa 3400 degli USA e della Gran Bretagna, ovviamente distribuiti in modo incredibilmente diseguale tra le diverse classi sociali all’interno dei singoli paesi. Il fallimento della politica covid – zero cinese, quindi, sarebbe consistito nel salvare la vita a circa 4,5 milioni di lavoratori mentre, nel frattempo, il prodotto interno lordo cresceva di poco meno del 25%; quello dell’eurozona sarebbe cresciuto dello 0,1%. Un po’ diverso dalle previsioni che Angelo Panebianco, mosso da disinteressato senso civico, aveva deciso di condividere con il pubblico dalle pagine del Corriere della serva quel fatidico 4 gennaio: “è al tempo stesso spaventoso e rassicurante” scriveva “il clamoroso fallimento cinese nella gestione della pandemia. E’ spaventoso” argomentava “per le conseguenze sanitarie: quel fallimento sta facendo ammalare milioni di cinesi e mette tutto il resto del mondo a rischio di una nuova ondata pandemica”. Ma allo stesso tempo – ci risollevava il morale l’umanissimo Panebianco – “è rassicurante per due motivi. Il primo” continuava “è di carattere geopolitico. I teorici dell’inevitabile tramonto dell’Occidente forse si sbagliano”. D’altronde – spiega lucidissimo l’Angelone nazionale – “l’autocrazia ha un prezzo: il prezzo di una rigidità che impedisce ai governanti di fronteggiare sfide impreviste con pragmatismo e capacità di correggere gli errori”. Giuro, scriveva proprio così: la Cina è destinata a fallire perché non è pragmatica. Ma non è tutto; c’è anche un altro motivo per festeggiare perché – scrive con sprezzo per il pericolo Angelo Panesuprematistabianco – “il fallimento cinese dimostra urbi et orbi la superiorità delle società aperte e democratiche rispetto alle autocrazie. Una superiorità molto concreta,” sottolinea “non astratta e ideologica. Il confronto sui risultati concreti è impietoso”.
Insomma, l’anno zero dell’era del ribaltamento radicale della realtà iniziava alla grande, e non solo per questo delirio anti – cinese; sempre il 4 gennaio, infatti, Il Giornale titolava così: “Russi in crisi, caos nell’esercito”, e con l’immancabile Ian ndocojocojo Bremmer che rilanciava dalle pagine de La Stampa: “Mosca non riesce a fermare gli ucraini”. Secondo Bremmer, Putin – ormai – era già nel panico e a un passo da “arrivare a utilizzare tecniche terroristiche” ed era solo l’inizio, perché “con l’arrivo dei sistemi di difesa Patriot” a breve “la capacità russa di rispondere alle controffensive sarà limitata” e quindi, nell’arco di poco, c’era da aspettarsi di poter assistere a qualche grande successo ucraino, addirittura “nell’arco delle prossime settimane”. Ancora aspettiamo.
2 giorni dopo arriva l’ora del Natale ortodosso; Putin, cogliendo l’appello del patriarca Kirill, avanza l’idea di una tregua, e sapete perché? Ma “perché sta perdendo”, ovvio: così titola la sua intervista su la Repubblichina Paolo Mastrolilli, probabilmente – in assoluto – uno dei giornalisti più divertenti viventi. Per l’occasione, Mastrolillo & Greg ha avuto l’intuizione di farci spiegare come funziona il mondo dall’ex comandante della NATO, marchio di garanzia di equilibrio e ricerca spassionata della verità: “Quindi la proposta di Putin è un segnale di debolezza?” chiede Mastrolillo & Greg con quel tono inquisitorio da vero giornalista d’inchiesta di razza; “Assolutamente” risponde Clark “non ci sono dubbi. È chiaro che il Cremlino ha preso l’iniziativa perché è in difficoltà. Ciò segnala solo la sua debolezza, tanto sul fronte ucraino, quanto su quello interno”. Due pagine dopo, a rincarare la dose ci pensa il migliore amico del nostro Francesco Dall’Aglio, il grandissimo esperto di armi e di guerra Gianluca di Feo, che ci mette in guardia: “I timori delle cancellerie” titola. “Dopo le nuove offensive la Russia si sgretolerà”; “Nelle cancellerie del pianeta” ci svela Di Feo “c’è la sensazione che sia scattato un conto alla rovescia”. D’altronde, basta guardare le simulazioni: alcune, un po’ pessimistiche, dicono che ci sarà uno stallo ma il grosso – rivela Di Feo entusiasta – ci anticipano che “sarà Mosca a uscirne peggio, subendo una distruzione di quel che resta del suo potenziale bellico”. A quel punto, però, bisognerà fare attenzione perché “l’avanzata ucraina” sottolinea Di Feo “rischia di far crollare Putin aprendo un’era di instabilità”; da lì in poi, questo sarà uno dei grandi cavalli di battaglia della propaganda suprematista: ormai Putin è finito, però attenzione a menarlo troppo forte perché prima bisogna capire bene come garantire alla Russia una transizione dolce. Un concetto che, il giorno dopo, viene rilanciato da Viviana Mazza sul Corriere della serva: per non correre il rischio di essere accusata di privilegiare interlocutori non esattamente imparziali, come l’ex capo supremo della NATO Clark, la brillantissima Viviana decide di interpellare nientepopodimeno che Anne Applebaum, già premio Pulitzer nel 2004 grazie a Gulag, un originalissimo e coraggiosissimo lavoro di propaganda antisovietica in un periodo in cui erano diventati antisovietici anche i sovietici stessi. Anne, nell’intervista, ammette che a un certo punto, nella primavera scorsa, si era anche quasi rassegnata all’idea che, per chiudere la partita, l’Ucraina dovesse sì – ovviamente – riconquistare tutti i territori perduti a partire dall’invasione, ma magari, per il momento, rinunciare alla Crimea e anche a umiliare Putin obbligandolo a presentarsi davanti a una qualche corte internazionale. Ma, di fronte a tutti questi incredibili successi sul campo dell’Ucraina, “Vittoria per Kiev ormai non significa solo recuperare territori, ma anche ottenere risarcimenti economici e giustizia per i crimini di guerra”: ovviamente questo significa necessariamente “mettere fine al regime di Putin” e questo, però, “in assenza di meccanismi chiari di successione, comporta opportunità, ma anche rischi”. Che Putin ormai stia con le pezze al culo è così eclatante che – come il giorno dopo svela Marco Imarisio sul Corriere della serva – “oltre ai trecentomila coscritti richiamati alle armi lo scorso ottobre se ne aggiungeranno presto molti altri, tra cinquecentomila e un milione”. Ma che dico un milione… un miliardo! Ma che dico un miliardo… un fantastilione di milioni di triliardi!
In mezzo a questa disfatta, però, fortunatamente c’è anche chi trova il tempo per riflessioni più profonde, che vanno oltre gli aridi numeri della cronaca e aprono uno squarcio negli abissi dello spirito umano; a questo giro tocca a Carlo Nicolato, brillante vice caporedattore di Libero. Ad ispirarlo è questa foto:

Vladimir Putin

“Guardate il suo sguardo,” sottolinea Nicolato “il destino segnato in quelle pupille appuntite perse nel nulla”; è un attento osservatore Nicolato, un profondo pissicologo, ma anche un discreto esperto di politica internazionale che ci ricorda come Putin non sia semplicemente ormai “solo e isolato in patria”, come svelano le sue pupille, ma anche “nel mondo, perché anche i suoi alleati lo stanno abbandonando o lo hanno già abbandonato”. L’unica cosa che ancora “resta da capire” – riflette Nicolato – è “se la guerra la perderà sul campo di battaglia, o sul tavolo delle trattative. Resta da capire” cioè, continua Nicolato, “fino a che livello vorrà scendere negli abissi della ignominia e dell’umiliazione”; “ma la sua fine” conclude Nicolato “è già lì in quello sguardo, in quella postura sconfitta in un angolo di una chiesa”. Raga’, questo non è solo grande giornalismo: questa è grande letteratura. A confermare che Putin è stato definitivamente mollato da tutti gli alleati, due giorni dopo ci pensa di nuovo Il Giornale: “Pechino scarica mosca”, titolano. Nella settimana successiva, però, tutta questa ondata crescente di entusiasmo subisce una piccola battuta d’arresto e a la questione ucraina sostanzialmente sparisce dalle pagine della stampa di regime, ma quando una settimana dopo comincia a riapparire, lo fa in grande style: “Kyev, ti armo da impazzire” titola Il Foglio il 18 gennaio; in ballo c’è la fornitura di nuovi carri armati all’ultima moda all’Ucraina che, scrive il Foglio, permetterebbero di “passare dalla resistenza alle forze russe all’espulsione delle forze russe dal territorio ucraino”. E’ solo l’ultima gocciolina di un vaso che trabocca di successi incredibili per l’Occidente collettivo, anche se l’onnipresenza della propaganda putiniana prova, in ogni modo, a screditarli; ed ecco allora che Il Foglio ci propone la sua AGENDA ANTI – CATASTROFISMO. “Le sanzioni?” si chiede retoricamente il Foglio: “Funzionano. L’economia russa? Crolla. Il prezzo del gas? Cala. I consumi? Non si fermano. L’inflazione? Rallenta.” Ma per quanto sia spinto, il premio di titolo della giornata il 21 gennaio per me rimarrà sempre al Giornale: “Altro che democratici” scrive; “sono sempre i soliti comunisti”. Sapete di chi stava parlando? Di Bonaccini. Giuro: manco della Schlein o di Zingaretti, che ovviamente fa ride’; di Stefano Bonaccini, che è un po’ come dare a Berlusconi del bacchettone o a Gasparri dell’intelligente. Comunque al Giornale non sono da premiare solo i titolisti, eh? Per apprezzare in pieno il talento, gli articoli li devi pure leggere; questo, ad esempio, firmato Martina Piumatti (che non sapevo chi fosse ma, ora che l’ho scoperta, non me la lascerò sfuggire più). L’altro giorno, riguardo ad Hamas, ha tirato fuori questa perla: “Godono per i civili morti” ha scritto. Martina però è preoccupata: “non si può più dire niente” scrive “come funziona la dittatura del politically correct”. Ha ragione. Di questo passo non si potrà dire neanche più che i neri hanno il ritmo nel sangue, però – fortunatamente – si potrà continuare a fare un titolo così. “Putin perde consenso. Il collasso della Russia sarà senza precedenti”; ad essere intervistato è Vladimir Milov, che non ha dubbi: “Nessun tentativo dello zar di contrastare le sanzioni” afferma “salverà la Russia da un collasso economico senza precedenti”. La gente lo sa, e infatti il sostegno per Putin di cui parliamo in Occidente, in realtà, è tutta fuffa: “I sondaggi che lo danno oltre il 70%” afferma infatti Milov “nascondono una realtà molto più complessa. Chi è contro” – svela – “non lo dice perché teme per la propria incolumità”. Ma ora che Putin, innegabilmente, sostanzialmente è finito – gli chiede la Piumatti – chi lo sostituirà? Prigozhin? Kadyrov? Macché, dice Milov: “Prigozhin e Kadyrov non hanno nessuna chance. La loro importanza è gonfiata dai media. Nel futuro della Russia è Navalny che può avere un ruolo”. Firmato Vladimir Milov, numero due del partito di Navalny; l’ultimo sondaggio sulla popolarità di Navalny lo dava abbondantemente sotto al 10%: è un po’ come quando Matteo Renzi parla a nome degli italiani, diciamo.
D’altronde, però, si sa: perdere una guerra cambia rapidamente tutto e Putin è incredibilmente vicino a perderla; lo ribadisce il solito Mastrolillo & Greg sulla Repubblichina il 25 gennaio, tramite un’intervista all’affidabilissimo falco neocon Kurt Volcker. “La fornitura dei carri armati” afferma Volcker “può diventare la svolta che metterà Kiev in condizione di vincere la guerra”. Il giorno dopo, sempre su La Repubblichina, è il turno dell’ex capo della CIA David Petraeus che, ultimamente, ha bazzicato parecchio l’Italia perché è un alto dirigente del fondo speculativo KKR e doveva convincere il governo a lasciargli comprare una delle infrastrutture più strategiche del paese – la rete delle telecomunicazioni – e, per farlo, ha puntato tutto sulla credibilità: “Ora l’esercito russo potrebbe sgretolarsi”, ha affermato; “Esiste la possibilità dello sgretolamento o addirittura del collasso delle unità russe”. Insomma: la nostra rete di telecomunicazioni è in ottime mani, direi.

Merchandising bello bello

Tra le cose che stavano per mettere nei guai Putin, il fatto che ormai aveva finito i missili. Due giorni dopo,
Corriere: “Ucraina, tempesta di missili”. Potremmo andare avanti per giorni; ci fermiamo qui per pietà di patria. Ci rivediamo presto con un’altra puntata del nostro calendario dell’avvento dell’era della Post – Verità. Per tutti quelli che, invece, sono eretici di fronte a questa montagna di monnezza, è arrivato il momento di unire le forze e costruire davvero un vero e proprio media che, invece che ai deliri della propaganda suprematista, dia voce al 99%; per farlo – anche di fronte alla censura democratica delle piattaforme che, come ovvio e prevedibile, ci stanno segando le gambe – abbiamo sempre più bisogno del tuo aiuto: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E siccome insieme alla natività dell’era della Post – Verità si avvicina anche quella del Bambingesù, se sei in vena di regali visita il nostro sito e accàttati un po’ di merchandising bello bello!

E chi non aderisce è Paolo Mastrolillo & Greg

Boom economico e tecnologie all’avanguardia: il clamoroso autogol delle sanzioni alla Russia

Nella migliore delle ipotesi – o nella peggiore (dipende dai punti di vista) – l’economia russa nel 2024 crescerà 3 volte più rapidamente di quella dell’eurozona – +1,5, contro +0,5% – e il gap continuerà anche per tutto l’anno successivo, il 2025, durante il quale l’eurozona dovrebbe crescere dell’1,2%, e la Russia del 2, poco meno del doppio. Ad affermarlo non è qualche propagandista filo – putiniano estratto a sorte dalle liste di proscrizione del Corriere della serva, ma qualcuno che non è certo imputabile di remare contro le magnifiche sorti e progressive dell’Occidente collettivo: si chiama Amundi ed è di gran lunga il principale fondo di investimenti del vecchio continente, il braccio armato delle oligarchie finanziare europee o, almeno, di quello che ne resta dopo due anni di guerra per procura alla Russia. In soldoni, “Significa che Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia non sono in grado di sanzionare un paese in modo efficace” avrebbe affermato il capo degli investimenti di Amundi, Vincent Mortier, durante una conferenza stampa; “Possiamo deplorarlo” ha sottolineato, “ma è una realtà”. Certo, le sanzioni sono servite a congelare il patrimonio di un certo numero di persone – ha continuato Mortier – ma gli effetti sulle importazioni e le esportazioni russe nel complesso sono stati, tutto sommato, irrilevanti. Il mese scorso il Fondo Monetario Internazionale aveva rivisto al rialzo le stime sulla crescita della Russia nel 2023 , di parecchio: dall’1,5% di luglio al 2,2; nell’aprile scorso stimavano una crescita dello 0,7%.

Vladimir Putin

Secondo Putin, si tratta di stime eccessivamente caute: “Abbiamo sempre detto con cautela che la crescita sarebbe stata intorno al 2,5%. Ora possiamo affermare con sicurezza che supereremo senz’altro il 3%. Nel frattempo la Commissione europea, invece, ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita dell’eurozona: dallo 0,8 ad appena lo 0,6%. “Se facciamo il punto sulla guerra in Ucraina” ha concluso Mortier “per gli USA l’impatto è stato neutrale; Turchia, Asia Centrale e Asia in generale ne hanno beneficiato; e l’unica a soffrire direttamente e fortemente è stata l’Europa”. Ma te guarda alle volte il caso, eh? Fortunatamente, però, ora che ad ammettere che le sanzioni contro la Russia sono state principalmente sanzioni contro l’Europa ci s’è messo anche il gotha del capitalismo finanziario europeo stesso: la Commissione, finalmente, ha deciso di intervenire. Come? Ma con altre sanzioni – ovviamente – e con meccanismi più rigidi che dovrebbero garantire che anche quelle vecchie, finalmente, siano implementate come si deve ma che – come sottolinea giustamente il nostro amato Andrew Korybko – anche a questo giro potrebbero non fare altro che “uccidere definitivamente la competitività delle nostre stesse aziende tecnologiche”. Cosa mai potrebbe andare storto?
Certo, dal punto di vista economico le sanzioni alla Russia sono state come darci una martellata sui coglioni, ma chissà almeno quanti danni gli abbiamo fatto dal punto di vista militare! Eh, come no… Tantissimi proprio: “La Russia sta iniziando a far valere la sua superiorità nella guerra elettronica” titola l’Economist; “Gran parte dell’attenzione su ciò di cui l’Ucraina ha bisogno nella sua lunga lotta per liberare il suo territorio dalle forze d’invasione russe si è concentrata sull’hardware: carri armati, aerei da combattimento, missili, batterie di difesa aerea, artiglieria e grandi quantità di munizioni. Ma una debolezza meno discussa” sottolinea l’autorevole rivista inglese “risiede invece nella guerra elettronica; e i sostenitori occidentali dell’Ucraina finora hanno mostrato scarso interesse nell’affrontarla”.
La discrepanza tra le capacità ucraine e quelle russe era evidente sin dall’inizio del conflitto, ma – sottolinea l’Economist – “ha avuto a lungo un impatto limitato. Ora però che le linee di contatto sono diventate relativamente statiche, la Russia è stata in grado di posizionare le sue formidabili risorse dove possono avere il maggiore effetto”. “Già a partire dal marzo scorso” ricostruisce l’Economist “l’Ucraina ha cominciato a notare come i suoi proiettili Excalibur guidati dal GPS avevano improvvisamente iniziato ad andare fuori bersaglio, a causa del disturbo russo” e lo stesso era cominciato a succede alle bombe guidate JDAM e anche ai razzi a lungo raggio GMLRS che nella maggioranza dei casi – sottolinea l’Economist – “ora vanno fuori strada”: parliamo di armi intelligenti a cui sono stati dedicati decine e decine di titoli dalla propaganda occidentale e che avrebbero dovuto cambiare per sempre l’andamento del conflitto ma che ormai, grazie alla tecnologie per la guerra elettronica sviluppate negli anni dai russi, non fanno quasi mai il loro dovere. E ancora peggio sembrerebbe andare con gli sciami di droni: “l’Ucraina” scrive l’Economist “ha addestrato un esercito di circa 10.000 piloti di droni che ora sono costantemente impegnati in un gioco del gatto e del topo con operatori di guerra elettronica russi sempre più abili” che sono in grado di “confondere i loro sistemi di guida o bloccare i collegamenti radio con i loro operatori” e fanno fuori qualcosa come “oltre 2.000 droni la settimana”. Ma non solo, perché i russi sarebbero in grado “di acquisire con una precisione di un metro le coordinate del luogo da cui il drone viene pilotato, per trasmetterle poi ad una batteria di artiglieria” che a quel punto avrebbe un bersaglio facile.
Quello che manca all’Ucraina in questa guerra impari contro gli armamenti per la guerra elettronica dei russi, svela l’Economist, è “il sostegno degli alleati occidentali”: “La guerra tecnologica” spiega l’Economist “rientra infatti in una categoria di trasferimento tecnologico limitato da un regime di controllo delle esportazioni rigidamente vigilato dal Dipartimento di Stato” e “c’è una certa riluttanza, soprattutto da parte degli americani, a mostrare la mano alla Russia, anche perché le informazioni utilizzabili, ad esempio sulle frequenze o sulle varie tecniche utilizzate, dalla Russia potrebbero finire anche in mano ai cinesi”. Quello che speravano gli alleati occidentali, piuttosto, era che anche i russi prima o poi potessero trovare delle difficoltà a fornire il fronte continuamente di nuovi strumenti per la guerra elettronica, che sono sì progettati e prodotti in Russia, ma dentro – spesso e volentieri – hanno anche tecnologia a stelle e strisce che non dovrebbe arrivare più e invece – misteri della fede – arriva eccome; come sottolinea infatti Bloomberg, nonostante la Russia sia il paese più sanzionato della storia delle sanzioni “anche impedire a tecnologia sensibile di raggiungere la Russia si è rivelato più complesso del previsto”. Attraverso “triangolazioni tramite paesi come il Kazakhstan, la Serbia e la Turchia” la Russia, infatti, sarebbe stata in grado “di mettere le mani sui cosiddetti articoli ad alta priorità” inclusi in questa lunga lista aggiornata dall’Unione nel settembre scorso (https://finance.ec.europa.eu/system/files/2023-09/list-common-high-priority-items_en.pdf ) e che possono essere “utilizzati per scopi militari”. “I recenti dati commerciali visti da Bloomberg” sottolinea l’articolo “mostrano che le esportazioni da quelle nazioni, oltre che da Armenia, Azerbaigian e Uzbekistan, sono sì diminuite parzialmente nella seconda metà di quest’anno, ma rimangono perlopiù superiori ai livelli prebellici”. Ancora più importanti nella fornitura di questi articoli ad alta priorità alla Russia risulterebbero essere Cina ed Hong Kong, dai quali proverrebbe – sottolinea Bloomberg – “oltre l’80% degli acquisti esteri russi. E la Russia” continua Bloomberg “sarebbe stata in grado di costruire anche nuove vie commerciali attraverso paesi come la Thailandia e la Malesia”. L’unico paese che ha costituito un altro canale prezioso per le triangolazioni e che si è detto disposto a introdurre norme più restrittive sarebbero gli Emirati Arabi; purtroppo però, sottolinea Bloomberg, “non forniscono dati commerciali tempestivi, rendendo difficile valutare i progressi”.
Contro le scappatoie che hanno reso le sanzioni totalmente inefficaci – allora – la Commissione ha proposto di provare a stringere la cinghia, proponendo una nuova serie di regole “che impedirebbero agli importatori di rivendere alla Russia i cosiddetti articoli ad alta priorità”, ma non solo: la proposta prevede infatti anche di obbligare le aziende importatrici a depositare dei soldi in un conto ad hoc dal quale la Commissione sia in grado di prelevare automaticamente qualora venissero contestate delle violazioni.

Andrew Korybko

“Almeno metà dei soldi depositati” riporta Bloomberg “verrebbe trasferita a un fondo fiduciario per l’Ucraina” e vederseli sottrarre potrebbe essere estremamente facile perché le aziende non risponderebbero soltanto per se, ma anche nel caso non avessero prontamente segnalato comportamenti illeciti da parte di aziende terze con le quali sono in affari; un pacchetto di manovre che – commenta l’analista Andrew Korybko – rischiano di “uccidere la competitività delle aziende tecnologiche europee” – un problema che sarebbe stato sollevato, riporta Bloomberg, anche da “inviati diplomatici di un gruppo dei principali stati membri”. A preoccupare, in particolare, la potenziale arbitrarietà dell’applicazione della regola sul congelamento dei beni depositati, dal momento che non passerebbe preventivamente da un tribunale, ma non solo: a preoccupare i potenziali partner commerciali, infatti, sarebbe anche il fatto che “chiunque si ritrovasse a fare affari con le società tecnologiche dell’Unione” commenta Korybko “dovrebbe essenzialmente permettere alla Commissione di spiare le sue attività al fine di monitorare il rispetto delle sanzioni”. Di fronte a tutti questi rischi – sottolinea Korybko – i clienti potrebbero essere scoraggiati “e optare invece per accordi molto più semplici e senza vincoli con aziende cinesi”. D’altronde che je frega?
A spingere per questa nuova ondata di restrizioni e ovviare, così, al fallimento di tutte le sanzioni con sanzioni ancora più nocive sono paesi che hanno poco da perdere perché – a parte una bella montagna di ideologia pro Washington – di aziende tecnologiche che producono “articoli ad alta priorità” semplicemente non ne hanno. A partire, ad esempio, dai paesi baltici – la punta di lancia degli USA contro gli interessi dei concorrenti europei: “Il loro interesse” sottolinea Korybko “è esclusivamente quello di limitare l’accesso della Russia a tutti i costi, compreso far perdere quote di mercato ai partner europei a favore della Cina”. L’industria tecnologica che – già di per sé – in Europa non è che sia particolarmente in forma, non sarebbe comunque l’unica ad essere penalizzata da questo dodicesimo pacchetto di sanzioni: un’altra mossa geniale, infatti, consisterebbe nell’aggiungere alla lista delle importazioni dalla Russia sottoposte a sanzioni anche i diamanti; Washington lo ha già fatto da mo’, l’Unione europea – invece – per ora ha declinato. Tutta colpa del Belgio: come ricorda il Brussels Time, infatti, “Si stima che circa l’86% dei diamanti grezzi del mondo passino ancora da Anversa almeno una volta”. Quello dei diamanti è un mercato che, a livello globale, vale oltre 100 miliardi e oltre un terzo dei diamanti di tutto il mondo arrivano proprio dalla Russia; tagliare le gambe così ad Anversa non sarebbe esattamente un ottimo affare e – soprattutto – sarebbe totalmente inutile. Gli indiani, infatti, non aspettano altro: già oggi la cittadina di Surat, 300 chilometri a nord di Mumbai, è la capitale mondiale della lavorazione dei diamanti e – in attesa di scippare ad Anversa tutto quello che proviene dalla Russia – al commercio e alla lavorazione dei diamanti ha dedicato quello che è stato descritto dai media l’edificio in assoluto più grande del mondo: 5 mila uffici che occupano la bellezza di 700 mila metri quadrati di superficie, collegati da oltre 130 ascensori; tanto a pagarlo saremo noi, sempre pronti a martellarci i coglioni quando si tratta di fare un regalino a zio Biden.
Contro la vocazione al suicidio delle elité degli svendipatria europei abbiamo bisogno di un media che dia voce agli interessi del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Gentiloni

I nuovi Hitler: o come compiere un massacro ergendosi a paladini dell’Umanità

Negli ultimi anni, in caso di conflitto tra l’occidente americano e i suoi nemici sono emerse due tecniche fondamentali di manipolazione mediatica: la censura qualificata e la reductio ad Hitlerum

Joe Biden: “siamo dalla parte di Israele per annientare i nemici della democrazia”.

Ci risiamo. Il copione è sempre lo stesso.

Un giorno ci svegliamo, scopriamo che dei cattivi hanno attaccato in maniera ingiustificata il mondo libero, viene dichiarata l’impossibilità di avviare trattative in quanto ad essere in gioco sono i valori dell’occidente e della democrazia, e infine assistiamo gaudenti alla distruzione totale dell’avversario.
La fase storica che stiamo vivendo è caratterizzata da una profonda crisi, forse terminale, dell’impero americano.
Ma con l’indebolirsi della presa USA sul mondo, i suoi i processi di controllo sull’informazione hanno subito un’accelerazione, e la propaganda si fa sempre più capillare e stingente.
Negli ultimi anni, in caso di conflitto tra l’occidente americano e i suoi nemici sono emerse due tecniche fondamentali di manipolazione mediatica: la prima è la censura qualificata, fondata sul controllo e sulla selezione dei flussi di opinione pubblica. La seconda è quella che con il filosofo tedesco Leo Strauss possiamo chiamare la reductio ad Hitlerum: tutti i nemici politici occidentali vengono identificati come nuovi Hitler, in modo da squalificarli ontologicamente, impedire ogni forma di diplomazia, e giustificare preventivamente ogni crimine e mezzo di distruzione che verrà perpetrato nei loro confronti. Purtroppo, chi ci rimette di più in questa guerra alla ragione e al pensiero critico siamo proprio noi europei, che assisteremo succubi e impotenti alla destabilizzazione del mondo intorno a noi e ad un un’ulteriore restrizione delle nostre libertà democratiche.

Scrive il professore di Filosofia morale Andrea Zhok: “Essendo i paesi del blocco di alleanze americano tutte liberaldemocrazie, il problema del controllo dell’opinione pubblica è centrale. Si è avviata così una fondamentale battaglia per le anime delle popolazioni occidentali, e questa battaglia ha il suo epicentro non in America, ma in Europa, dove la tradizione di una cultura critica e plurale era assai più vigorosa che negli USA”. Naturalmente, questa battaglia non avviene più attraverso i metodi di eliminazione fisica o di censura sistematica visti un secolo fa; oggi si possono infatti manipolare, censurare e filtrare selettivamente le informazioni per il tempo sufficiente a creare un certo effetto irreversibile.

Per comprendere questo processo possiamo tranquillamente guardare a quanto successo in Italia durante queste due settimane di guerra calda della lotta indipendenza palestinese. Sono state demonizzate e accusate di connivenza con il terrorismo tutte le manifestazioni pro-Palestina. La trasmissione di Fabio Fazio, punto di riferimento dei progrediti italiani, ha deciso di non ospitare più Patrick Zaki dopo che questo aveva espresso la sua pessima considerazione del governo israeliano. L’ebreo Moni Ovadia, da sempre critico contro le politiche imperialiste israeliane, è stato praticamente accusato di antisemitismo e invitato a lasciare il posto di direttore del teatro comunale di Ferrara.
Nel mentre, i manganellatori dell’informazione di Repubblica e del Corriere della Sera, hanno lanciato strali e organizzato agguati mediatici contro la povera ambasciatrice Elena Basile, rea di aver espresso semplicemente la sua opinione frutto di anni di lavoro diplomatico.

Fortunatamente però, a difendere il pluralismo e la libertà di espressione ci sono sempre le istituzioni europee. Con l’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza, l’UE ha infatti chiesto a META di rimuovere dalle loro piattaforme tutti i contenuti ritenuti “disinformazione”, pena sanzioni fino al 6% del fatturato mondiale, e il commissario europeo Thierry Breton è intervenuto ufficialmente presso Elon Musk per sollecitare interventi di controllo e censura sulle “fake news”. Possiamo solo rabbrividire all’idea di cosa intendano i mozzi di Washington con i termini “fake news” e “disinformazione”. La reductio ad Hitlerum, invece, funziona pressappoco così: ogni volta che scoppia un conflitto, il nemico dell’occidente americano viene immediatamente bollato come nuovo Hitler, e da semplice antagonista degli interessi strategici americani si trasforma in minaccia esistenziale per la democrazia e per i valori dell’ occidentale: lo abbiamo visto con Milosevic, Saddam Hussein, Putin e adesso con Hamas, definita organizzazione terroristica e paragonata a più riprese ai nazisti.
È quanto emerge esemplarmente dall’articolo di Roger Abravanel pubblicato in questi giorni sul Corriere: “Non si tratta” scrive “di una lotta politica per liberare un Paese occupato ma di una lotta contro la civiltà occidentale e Israele è solo il primo passo di questa lotta. I terroristi non gridavano «morte a Israele», ma «morte agli ebrei» (di tutto il mondo) e il passo successivo è già in atto: portare il califfato ovunque, anche in quella Europa cristiana che però continua a finanziare Hamas-Isis, illudendosi che questi fondi arrivino alla popolazione palestinese. Gli attentati terroristici in Francia e in Belgio di questi giorni sono una prova che la guerra non è contro gli israeliani e gli ebrei, ma contro il mondo occidentale”. La lotta di indipendenza palestinese quindi, non è come pensano gli sciocchi un conflitto regionale legato ad una disputa di territori ed interessi strategici. No, è una dichiarazione di guerra totale a tutto l’occidente.
Questo spaventoso artificio retorico non è solo un modo per compattare internamente la società prospettando una sorta di nuova invasione barbarica, ma soprattutto per squalificare ontologicamente il nemico così da giustificare preventivamente tutte le atrocità che verranno commesse per sconfiggerlo.
“Dichiaro il blocco totale della Striscia” ha dichiarato infatti il ministro della Difesa israeliano Yoav Galant quando è cominciato il massacro di Gaza. “Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto sarà tagliato fuori. Siamo in guerra con dei subumani e agiamo di conseguenza”. Ci stanno dicendo; visto che non abbiamo a che fare con degli uomini, ma con neo-sub-umani neonazisti odiatori del bene e dell’umanità, e quindi tutto è lecito, e tutte le morti civili che faremo in questa guerra saranno giustificate, come giustificate furono durante la seconda guerra mondiale la distruzione di Dresda e le bombe atomiche americane sganciate sui civili giapponesi.
È sostanzialmente questo il ragionamento anche del giornalista del corriere Jacopo Iacoboni, che in un tweet del 10 ottobre, esprimendosi sul massacro di Gaza dimostra una straordinaria padronanza della reductio ad Hitlerum: “Era giusto colpire di fatto tutti i tedeschi, per colpa dei crimini commessi dalla cricca nazista?” Si chiede Jacoboni “Certamente no, ma nelle fasi finali della guerra questa distinzione finì per sfumare, perché bisognava distruggere i nazisti e impedire che continuassero a fare del male all’umanità”. Ma oltre alla manipolazione e all’amore per il napalm, anche l’ipocrisia dell’occidente americano non sembra conoscere limiti. In questi giorni infatti, leggiamo un po’ ovunque sia nei giornali dei suprematisti che in quelli dei progrediti, un altro argomento utilizzato in questi anni per legittimare i bombardamenti occidentali dei propri nemici: “il benessere futuro dei palestinesi di Gaza”, scrive sempre l’oplita della libertà Roger Abravanel sul Corriere, “dipende dall’annientamento di Hamas da parte di Israele e coloro ai quali esso sta a cuore debbono appoggiarlo”.
Insomma, così come nel 2003 il vero nemico degli iracheni non erano gli americani, ma Saddam Houssein, e l’America come è noto distrusse il loro paese per salvarli da se stessi, in questi giorni scopriamo che il vero nemico dei palestinesi non sono gli israeliani, ma Hamas, cioè i palestinesi stessi, e che i massacri compiuti dagli Israele sono mossi dall’amore per la popolazione di Gaza. Come diceva Gaber l’occidente americano non fa mai la guerra per prendere, ma solo per dare, perché è generoso. E se anche tu ti auguri che l’italia e l’europa possano prima o poi svegliarsi da questo sonno della ragione e ricominciare a rispettare la propria storia e i propri principi, aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolinatv su pay pal e gofoundme, e aiutaci a costruire un media libero e indipendente che contrasti la propaganda.

E chi non aderisce, è Jacopo Jacoboni.

Il genocidio di Gaza: se per risolvere il rebus la propaganda non basta più

“BREAKING: L’aeronautica israeliana ha colpito una base terroristica di Hamas dentro un ospedale a Gaza”: a scriverlo su Twitter è Hananya Naftali, giovane influencer israeliano diventato ultra-popolare a suon di boutade islamofobe e suprematiste e che da poco è entrato ufficialmente a far parte del team digitale preposto alla propaganda online del governo più reazionario della storia del paese. Pochi minuti prima, una gigantesca esplosione aveva letteralmente raso al suolo l’ospedale Al-Ahli Arab di Gaza. Non era la prima volta: come ha rivelato alla BBC il prete della diocesi anglicana proprietaria dell’ospedale, infatti, “sabato scorso un missile aveva già colpito l’ospedale, causando gravi danni alla struttura e ferendo 4 persone”. Il prete ha anche affermato che, per quanto ne sapeva lui, si trattava ovviamente di un missile israeliano: “era un avvertimento”, ha dichiarato, “volevano fosse chiaro che non si trattava di un posto sicuro”. Il timore delle forze armate israeliane, non privo di fondamento, è che Hamas utilizzi in modo spregiudicato luoghi come scuole e ospedali per mettere al riparo uomini e attrezzature. Ovviamente escluderlo è impossibile; in tutte le guerre asimmetriche,. l’utilizzo spregiudicato degli scudi umani è spesso una componente essenziale, esattamente come facevano i lettori di Kant dei battaglioni Azov durante la battaglia di Mariupol. Colpire questi bersagli, per quanto cinico e spregiudicato possa apparire, non è sadismo ingiustificato, ma serve a mettere in chiaro che non ci sarà scudo umano in grado di ostacolare la forza distruttrice della vendetta sionista.
D’altronde è una storia antica: durante i bombardamenti del 2014, ad esempio, vennero rase al suolo numerose scuole dell’Agenzia per i rifugiati palestinesi delle Nazioni Unite che venivano utilizzate come rifugio dai civili. Le vittime furono in tutto 44 e oltre 200 i feriti; le indagini successive rivelarono che effettivamente 3 delle 7 strutture rase al suolo erano state utilizzate come deposito di armi da parte delle milizie della resistenza. Negli altri 4 casi, invece, si erano sbagliati e avevano bombardato civili inermi senza nessunissimo motivo. Insomma, in questo contesto qualche decina di vittime innocenti non sarà particolarmente educato, ma da parte di Israele non viene considerato comunque niente di particolare di cui vergognarsi, tanto comunque la verità – se mai si saprà – arriverà mesi se non anni dopo e l’imbarazzo per l’ennesima carneficina degli israeliani avrà già bell’e che lasciato lo spazio all’ammirazione per i bellissimi pride e il rispetto per le minoranze sessuali.
Ma a questo giro però qualcosa deve essere andato storto; dopo poco, infatti, Naftali – il genocida mattacchione – decide improvvisamente di cancellare il suo tweet e la rivendicazione di Israele di un atto di guerra certo feroce, ma indispensabile, sparisce. Il punto è che l’ospedale di Al-Ahli è un ospedale piccolino (poco più di 80 posti letto); quante vittime vorrai che faccia mai un bel razzetto… 50, 60? Rispetto agli oltre 1000 bambini che sono stati trucidati in questa settimana, dettagli. Purtroppo, però, a questo giro i calcoli non tornano: dentro il piccolo ospedale infatti si erano rifugiati in oltre 1000 e il bilancio è disastroso. Il grosso dei resoconti parla di almeno 500 vittime; secondo l’organizzazione umanitaria MedGlobal è “il peggior attacco a una struttura sanitaria del 21esimo secolo”. Giustificarlo con la possibile presenza di qualche razzo Qassam, potrebbe risultare un po’ difficile, ed ecco allora che magicamente il copione cambia completamente. Al posto del vecchio tweet, Naftali pubblica questo

“La misteriosa esplosione a Gaza” scrive. “Hamas incolpa Israele per questo” e invece, procede arrampicandosi, “credo che si tratti di un razzo fallito che ha colpito l’ospedale o di qualcosa che è stato fatto apposta per ottenere il sostegno internazionale”. Da lì in poi la linea della propaganda sarà quella: l’efficiente missile israeliano che aveva sgominato l’ennesima base nascosta di Hamas, si trasformerà magicamente in una false flag architettata dagli untermensch, dai subumani. D’altronde avete visto tutti di cosa sono capaci: “tutto il mondo ha visto Hamas tagliare teste di bambini” ha affermato in un’intervista su Skynews l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito. Ma che davvero? Cioè, gli avete visti tutti e a me non mi avete detto niente? Vatti a fidare. D’altronde, forse, non è una fonte proprio affidabilissima: sempre nella stessa intervista, infatti, ha dichiarato che “a Gaza non c’è nessuna crisi umanitaria”.
Chi di sicuro aveva detto di averli visti di persona personalmente i bimbi decapitati comunque era stato Joe Biden che poi aveva costretto a una smentita addirittura il suo stesso staff. E a questo giro ci risiamo; costretto a trovare una giustificazione ragionevole al fatto di aver deciso di portare la sua solidarietà a un regime terrorista poche ore dopo averlo visto commettere un atto genocida di dimensioni epiche, da Tel Aviv – più rimbambiden che mai – ecco che gioca di nuovo la carta della post-verità. “In base a quello che ho visto, è stato fatto dall’altro team, non da voi” ha dichiarato a un compagno Netanyahu evidentemente compiaciuto. Che poi io, ormai, mi son fatto questa idea: che zio Joe sia rimbambiden secondo me è una messa in scena. Fa finta, così la può sparare grossa quanto gli pare, e al limite poi con una piccola smentita si aggiusta tutto.
E’ un po’ la strategia che ha deciso di adottare anche Naftali.

“Oggi”, ha scritto in un tweet, “ho condiviso un rapporto pubblicato su @reuters sull’attentato all’ospedale di Gaza in cui si affermava falsamente che Israele aveva colpito l’ospedale. Ho erroneamente condiviso queste informazioni in un post cancellato in cui facevo riferimento all’uso di routine degli ospedali da parte di Hamas per immagazzinare depositi di armi e condurre attività terroristiche. Mi scuso per questo errore. Dato che l’IDF non bombarda gli ospedali, ho pensato che Israele stesse prendendo di mira una delle basi di Hamas a Gaza”. Geniale! L’IDF non bombarda gli ospedali – dice – a parte quando li bombarda, tipo 94 volte dall’inizio di questo conflitto, e in tal caso però fa bene perché potrebbero nascondere armi di Hamas, anche quando non le nascondono. Ma sopratutto: cioè, te fai parte del team digitale per la propaganda online di un governo che in quanto a propaganda non teme confronti al mondo, e su una cosa così delicata ti basi su un articolo a cazzo della Reuters, che tra l’altro si basa sulle dichiarazioni di funzionari di Hamas? Quello di Naftali non è stato l’unico epic fail della blasonatissima propaganda israeliana; per sostenere la pista del razzo della contraerea palestinese fuori rotta, l’account Twitter ufficiale dello Stato israeliano martedì sera infatti pubblica questo post: “Secondo informazioni di intelligence provenienti da diverse fonti in nostro possesso”, scrivono, “l’organizzazione terroristica della Jihad islamica è responsabile della fallita sparatoria che ha colpito l’ospedale”. A prova di questa tesi allegano un video dove si vede la contraerea di Gaza in azione proprio in quell’area, ma gli è sfuggito un piccolo dettaglio: il video è stato registrato 40 minuti dopo il massacro. Soluzione? Semplice: si cancella il video, ma rimane il testo. Tanto ai sostenitori del genocidio gli basta. Ed ecco infatti che, subito dopo, arriva la nostra Ursulona a metterci il suo carico da 90: a “causare immense sofferenze al popolo palestinese” – afferma con sicurezza Ursolona 7cervelli – è stato “il terrorismo di Hamas”.
Se, per risolvere il rebus, la propaganda non basta più e la prova provata di chi fosse in definitiva il missile che ha sterminato oltre 500 civili inermi martedì sera probabilmente non ce l’avremo mai, di chi è la responsabilità morale – invece – lo sappiamo benissimo. Lunedì scorso, infatti, la Russia aveva presentato al consiglio di sicurezza dell’ONU una risoluzione per imporre immediatamente il cessate il fuoco; i rappresentanti dell’occidente globale l’hanno respinta in blocco e a Tel Aviv hanno brindato. Era il semaforo verde: qualunque azione decidiamo di intraprendere per portare a termine il genocidio, il sostegno degli alleati non si discute. Il giorno dopo, ecco che la pioggia di bombe cade più fitta che mai, tanto se la situazione poi sfugge di mano, la propaganda una toppa sicuro la trova.
Sterminare e terrorizzare il maggior numero possibile di civili non è un atto di puro sadismo: fa parte di una precisa strategia militare che, tanto per iniziare, prevede che in tutta la parte nord della striscia non rimanga sostanzialmente nessun civile. Sgomberare completamente il terreno attraverso questa democratica pulizia etnica è indispensabile perché, prima di entrare via terra, è necessario radere Gaza completamente al suolo. “Il concetto”, ricorda Seymour Hersh in un lungo articolo sul suo profilo Substack, “risale ai primi anni della guerra del Vietnam in America, quando l’amministrazione del presidente John F. Kennedy autorizzò il Piano Strategico Amleto che prevedeva il trasferimento forzato dei civili vietnamiti in aree ritenute essere controllate dai vietnamiti del sud. Le loro terre deserte furono poi dichiarate zone di fuoco libero dove chiunque fosse rimasto avrebbe potuto essere preso di mira dalle truppe americane”. La differenza, a questo giro, è che radere tutto al suolo potrebbe non bastare; bisognerà andare più giù, molto più giù.
Uno dei punti di forza principali della resistenza palestinese a Gaza, infatti, è lo sterminato reticolo di tunnel e magazzini sotterranei costruiti negli ultimi anni, “la metropolitana di Gaza”, come è stata ribattezzata. Un “campo di battaglia chiave per Israele” scrive l’Economist,che sottolinea: “La guerra sotterranea è terrificante, claustrofobica e lenta. Individuare, ripulire e far crollare diverse centinaia di chilometri di cunicoli sotterranei”, continua l’Economist, “sarà un lavoro di anni, non di settimane o mesi”. A meno, appunto, che non si faccia prima dall’alto: come scrive Seymour Hersh, una volta rasa al suolo Gaza Nord, “Israele” infatti “inizierà a sganciare bombe da 5.000 libbre di fabbricazione americana note come “bunker busters” o JDAM, nelle aree rase al suolo dove è noto che i combattenti di Hamas vivono e fabbricano i loro missili e altre armi sottoterra. Gli attuali pianificatori di guerra israeliani sono convinti, mi ha dichiarato un insider, che la versione aggiornata dei JDAM con testate più grandi penetrerebbe abbastanza in profondità nel sottosuolo prima di esplodere – da trenta a cinquanta metri – con l’esplosione e la conseguente onda sonora in grado di uccidere tutti entro mezzo miglio”. A quel punto, continua Hersh, “nello scenario dei pianificatori, la fanteria israeliana sarà assegnata alle operazioni di rastrellamento: ricercare e uccidere quei combattenti e lavoratori di Hamas che sono riusciti a sopravvivere agli attacchi della JDAM”.
In realtà, però, potrebbe essere più semplice da dire che da fare. Primo ostacolo: nonostante vengano impiegate pratiche genocide per imporla, la pulizia etnica del nord di Gaza potrebbe non essere così semplice da portare a termine; a pesare, il fatto che persone che sono state rinchiuse per 20 anni in gabbia tendenzialmente pensano di non avere poi tantissimo da perdere, e consapevoli del fatto che, una volta sfollate, con ogni probabilità a casa non ci potranno tornare più, sembrano quasi più propense ad andare incontro alla morte che non a soddisfare i desiderata di Tel Aviv. Ma, sostiene Hersh, c’è anche dell’altro: una fonte interna al governo israeliano, infatti, avrebbe confidato ad Hersh che Israele sta cercando di convincere il Qatar a finanziare una tendopoli per i rifugiati subito oltre il valico di Rafah. Nello specifico, il vecchio sito di Yamit, colonizzato da Israele dopo la guerra dei 6 giorni del 1967 e poi evacuato e raso al suolo dagli israeliani stessi nel 1982, subito prima che il Sinai venisse restituito all’Egitto. Ma come potrebbero mai riuscire a convincere l’Egitto ad accollarsi un milione e più di profughi palestinesi? “Teniamo gli egiziani per le palle”, avrebbe dichiarato ad Hersh la sua fonte. “Si riferiva” – specifica Hersh – “alle recenti incriminazioni del senatore democratico Bob Menendez del New Jersey e di sua moglie, accusati di corruzione in seguito a vari rapporti d’affari con alti funzionari egiziani, e alla presunta trasmissione di informazioni su persone in servizio presso l’ambasciata americana al Cairo”.
Per convincere le persone ad evacuare, comunque, la strategia più convincente rimane quella di bombardarli ovunque senza pietà, come non ci fosse un domani. Cosa che Israele sicuramente sta facendo con un certo impegno; però anche qui, forse, c’è un limite. Qualche prima timida avvisaglia si è avuta proprio ieri, con le reazioni al massacro dell’ospedale: in tutto il mondo arabo la gente è scesa per strada a decine di migliaia, costringendo i paesi arabi a una rara dimostrazione di unità. Ad Amman le proteste hanno preso di mira l’ambasciata israeliana e hanno imposto al re Abdullah II di cancellare l’incontro previsto con Biden. A Beirut, visto che l’ambasciata israeliana non c’è, le proteste si sono indirizzate contro quella francese prima e, sopratutto, il consolato statunitense poi, che è stata dato alle fiamme. Anche ad Istanbul i manifestanti hanno preso di mira l’ambasciata USA e a Ramallah, invece, l’oggetto delle proteste è stata direttamente l’autorità palestinese, con le forze di polizia accusate di essere al soldo delle forze di occupazione che sono state attaccate con le care vecchie sassaiole e qualche botto non meglio identificato. Insomma: la carneficina che serve a Israele per sgomberare il campo è la stessa che sta riaccendendo la fiaccola della solidarietà filo-palestinese in tutta la regione, nonostante la cautela dei vari governi che, alla causa palestinese, hanno sempre preferito accordi commerciali generosi con Washington. Il ruolo diplomatico che stanno provando a svolgere gli USA sembrerebbe in buona parte consistere proprio in questo: garantire agli interlocutori regionali che, se collaborano, riuscirà a tenere a freno la ferocia del regime sionista e quindi evitare altri scoppi d’ira delle popolazioni che metterebbero a repentaglio la stabilità dei governi stessi. Peccato che per ora, però, la strategia di Biden non stia dando grandi risultati e la sete di sangue del governo più reazionario della storia di Israele non sembra conoscere mediazioni.
Ma i problemi non finiscono qua perché, nella remota ipotesi che in qualche modo la campagna aerea alla fine permetta di portare a termine la pulizia etnica senza che, nel frattempo, qualche vicino arabo perda definitivamente la pazienza, anche la fase due – quella della distruzione dall’alto della “metropolitana di Gaza” – potrebbe non essere esattamente una passeggiata. “Sembra quasi”, scrive sempre Hersh, “che Hamas non stia aspettando altro. D’altronde l’operazione diluvio di Al-Aqsa è stata pianificata nei minimi dettagli, e Hamas sapeva esattamente quale sarebbe stata la reazione israeliana. Il problema” sottolinea Hersh “è che le bombe anti-bunker israeliane potrebbero non essere in grado di penetrate abbastanza in profondità. Secondo la mia fonte infatti Hamas starebbe operando in tunnel costruiti a 60 metri di profondità che sarebbero in grado di resistere agli attacchi dei JDAM”. Per quanto devastante, quindi, la campagna aerea potrebbe non essere in grado di danneggiare Hamas quanto necessario, il che significa che – per quanto preparata nei dettagli – l’invasione via terra comporterebbe comunque da parte delle forze armate israeliane uno sforzo notevole di uomini e di mezzi, che se gli impieghi tutti da una parte, poi ce n’è un’altra che rimane scoperta. Sicuramente la Cisgiordania.
Ma – quel che sarebbe ancora più devastante – il confine a nord con il Libano dove, secondo alcuni, le milizie di Hezbollah non starebbero aspettando altro. Una bella rogna, come ricorda Hasan Illaik su The Cradle; infatti “Hezbollah potrebbe contare su circa 100 mila uomini” e “gli analisti regionali e occidentali stimano che abbia un arsenale di oltre 130 mila missili. Per la maggior parte sarebbero non guidati, ma il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, avrebbe dichiarato in un intervista del febbraio del 2022 che Hezbollah avrebbe la capacità di convertirne una buona parte in missili di precisione”. E potrebbero non essere da soli: nonostante il bordello che era scoppiato a Gaza, infatti, nell’ultima settimana Israele s’è preso la briga di bombardare per ben due volte l’aeroporto di Aleppo, in Siria. L’obiettivo sarebbero le milizie filosciite legate a doppio filo a Teheran, che starebbero spostando uomini e mezzi in quantità dalle regioni più orientali. Insomma: se l’obiettivo di Israele, come dichiarato più volte, è quello di annientare totalmente Hamas, ogni tentativo di evitare di allargare il conflitto potrebbe alla fine risultare velleitario. Un contributo importante da questo punto di vista è arrivato dallo zio Sam, che ha pensato bene di mandare subito ben due portaerei e anche di rinforzare la flotta di caccia presenti nelle sue numerose basi nell’area; lo scopo, appunto, è quello di funzionare da deterrenti nei confronti di attori terzi che si fossero messi in testa strane idee. Da questo punto di vista, un incentivo diretto nei confronti di Israele a perpetrare il genocidio senza doversi troppo curare delle conseguenze, perché alle conseguenze ci penserebbero – appunto – gli USA, se ci riescono: come titola il Financial Times, infatti, “La guerra tra Israele e Hamas mette alla prova il settore della difesa statunitense già messo a dura prova dal conflitto in Ucraina”. Secondo il Times, “I produttori di armi statunitensi si stanno preparando ad accelerare le forniture di armi a Israele in un momento in cui sono già sotto pressione per armare l’Ucraina e ricostituire le scorte esaurite del Pentagono. Una sfida” sottolinea il Times “che secondo gli analisti metterà a dura prova una base industriale della difesa già estesa”. Al momento, in realtà, si tratta principalmente di fornire “bombe di piccolo diametro, munizioni di precisione aria-terra e proiettili per carri armati calibro 120 millimetri” e cioè roba diversa da quella spedita in Ucraina, “ma se il conflitto dovesse estendersi” sottolinea il Times “le forze di difesa israeliane potrebbero aver bisogno dello stesso tipo di sistemi missilistici guidati che attualmente scarseggiano in Ucraina, compresi droni armati e proiettili di artiglieria da 155 mm”.
Biden ostenta sicurezza: “Siamo gli Stati Uniti d’America, per l’amor di Dio” ha dichiarato enfaticamente domenica scorsa durante una lunga intervista. “La nazione più potente della storia – non del mondo, nella storia del mondo. Possiamo occuparci di entrambi questi aspetti e mantenere comunque la nostra difesa internazionale complessiva”. Per tenere fede a questa volontà di potenza, Biden sarebbe in procinto di presentare al Congresso l’autorizzazione per un pacchetto gigantesco di aiuti che tenga insieme il sostegno all’Ucraina, quello ad Israele e anche una montagna di soldi per rafforzare la sicurezza al confine col Messico, come richiesto dai Repubblicani. Peccato che al momento, dopo la defenestrazione dello speaker McCarthy, l’attività del Congresso sia sospesa, e per ora non siano stati neanche in grado di fare il nome del potenziale successore. Probabilmente, alla fine, una quadra magari la trovano pure; quando si tratta di difendere gli interessi imperiali la trovano sempre. Solo che, grazie alla dittatura globale del dollaro, la fanno pagare sempre agli altri e a questo giro gli altri potrebbero essersi scocciati; mentre Biden, infatti, pagava il suo sostegno incondizionato al genocidio sionista con l’isolamento – almeno temporaneo – rispetto anche agli alleati arabi più storici, dall’altra parte del mondo, a Pechino, atterrava Putin per partecipare al summit che festeggia i dieci anni di vita della Belt and Road Initiative, da dove la nuova “partnership senza limiti” tra Russia e Cina lanciava al mondo un messaggio piuttosto chiaro: di fronte all’arroganza unilaterale del vecchio impero, è arrivata l’ora di non arretrare di un millimetro.
Il rebus del nuovo ordine globale per Washington e il nord globale è un vero rompicapo; l’unica cosa certa è che se sperano di risolverlo semplicemente a suon di propaganda stantia, buona solo per rafforzare l’autostima suprematista della piccola tribù dell’uomo occidentale, a questo giro il fallimento potrebbe essere inevitabile.
Contro la propaganda del nord globale che giustifica i genocidi e ci trascina nel baratro, abbiamo bisogno di un media che racconti il mondo per quel che è e non per quello che vorrebbero fosse un manipolo di suprematisti scollegati dalla realtà. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu








La Solitudine di Zelensky: perché l’occidente globale sta voltando le spalle al suo ultimo crociato

Magari mi sono distratto io, ma ultimamente mi sembra che i titoli “copia incolla” sull’occidente unito come un sol uomo che si appresta a concludere trionfante la sua crociata contro la giungla selvaggia che ci assedia vadano un po’ meno di moda; eppure, per mesi e mesi sulle prime pagine di tutti i principali giornali italiani non c’è stato letteralmente altro.

Viene quasi il sospetto che qualcosa sia andato storto e che ora non sia esattamente chiarissimo come salvare la faccia se non, appunto, attraverso l’oblio.

La controffensiva ormai è relegata alle pagine di cultura e società: invece che militare, sembra la controffensiva dei selfie, o dei killfie, come si dice in gergo. Il termine indica il fenomeno delle persone disposte a tutto pur di catturare lo scatto perfetto e che alla fine ci lasciano le penne, e nella guerra ucraina ha raggiunto una dimensione tutta nuova: 13 morti, in una botta sola.

Tanti sarebbero gli uomini dei servizi segreti militari di Kyev, caduti mercoledì scorso nel tentativo di sbarcare in Crimea per realizzare un video che ritrae incursori che sventolano la bandiera ucraina e dicono felici che “la Crimea sarà ucraina o disabitata”, scrive il Messaggero.

In tutto, ricostruisce il Messaggero, “una trentina di marinai ucraini che alle 2 di notte hanno puntato verso la Crimea su un’imbarcazione veloce e 3 moto d’acqua”, che sono state “prima intercettate da un pattugliatore della marina russa, poi attaccate dagli aerei e costrette al ritiro. Il video però”, sottolinea non ho capito quanto sarcasticamente il Messaggero, “è stato girato e postato”.

E io che mi lamento che per fare un video mi devo leggere qualche articolo di giornale. Che ingrato.

D’altronde, a breve, gli smartphone con le camere di ultima generazione potrebbero essere l’unica arma che l’occidente è ancora disposto a fornire per questa guerra per procura, che rischia di rimanere senza procuratori; nonostante le tonnellate di inchiostro sprecato per tentare di convincerci che l’iperinflazione, i tassi di interesse alle stelle e la recessione incombente non fossero altro che leggende metropolitane spacciate dai gufi e dagli utili idioti della propaganda putiniana, sembra quasi che per la realtà sia arrivato il momento di presentare il conto. Non poteva andare altrimenti.

Nonostante negli ultimi 50 anni le élite politiche del nord globale non abbiano fatto altro che restringere ogni spazio di democrazia, fortunatamente qualcosina in eredità ci è rimasto

e, mano a mano che per le élite che negli ultimi 18 mesi hanno sacrificato gli interessi della stragrande maggioranza dei loro cittadini si avvicina lo spettro delle urne, il mondo fatato immaginario dipinto dalla propaganda del partito unico della guerra e degli affari comincia a scricchiolare.

Il primo clamoroso esempio è stata la Polonia, che sul sostegno all’Ucraina senza se e senza ma ha tentato, con il supporto incondizionato di Washington, di riconfigurare completamente il suo status all’interno dell’Unione Europea; sotto stretta osservazione per le sue palesi violazioni dei requisiti minimi di uno stato di diritto, nell’arco di poche ore si era magicamente trasformata nella paladina più intransigente del mondo democratico contro i totalitarismi.

Evidentemente, però, l’operazione di maquillage ideologico ha convinto più i rubastipendi che stanno in villeggiatura a Bruxelles che non i contadini polacchi, che inspiegabilmente sono così maleducati da preoccuparsi più di non finire in miseria che non di immolarsi in nome della retorica democratica.

La storia la conoscete: da quando è naufragato l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina mediato dalla Turchia, l’Ucraina ha cominciato a esportare il suo grano via terra, approfittando della sospensione di quote e tariffe da parte della UE nei confronti dei prodotti alimentari ucraini a partire dal febbraio del 2022. Da allora il grano ucraino ha letteralmente invaso paesi come la Bulgaria, la Romania e appunto la Polonia, rischiando di gettare sul lastrico gli agricoltori locali: ammassato a milioni di tonnellate nei silos, pur di sbarazzarsene il grano ucraino aveva raggiunto prezzi troppo bassi per permettere a qualunque produttore di reggere la concorrenza. Di fronte alle proteste delle popolazioni locali, nel maggio scorso, l’Unione Europea aveva introdotto un divieto temporaneo alla vendita del grano ucraino in questi stessi paesi, divieto che però a settembre è scaduto.

Una tempistica perfetta: il 15 ottobre infatti la Polonia torna al voto, e il voto degli agricoltori è determinante, in particolare per il partito di governo di estrema destra Diritto e Giustizia, che ha proprio tra la popolazione rurale il suo bacino di voti principale e che, come 18 mesi prima, da essere considerato la peggio feccia reazionaria era diventato, nell’arco di mezza giornata, il punto di riferimento dei sinceri democratici, ora si apprestava altrettanto rapidamente a fare il percorso inverso.

Il compagno Morawieczki infatti ha si è rifiutato di ritirare il divieto e Zelensky ha reagito presentando un ricorso ufficiale presso il WTO e accusando la Polonia di essere solidale solo a parole.

E Morawieczki non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. “Non trasferiremo più armi all’Ucraina”, ha annunciato laconico a fine settembre in diretta televisiva. Ma non solo: “Se vogliamo che il conflitto si intensifichi in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia. Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata“.

Maledetti populisti! La stragrande maggioranza dei loro elettori avanza una rivendicazione, e per paura di perdere le elezioni questi gliela concedono pure, magari addirittura senza aver prima ottenuto il via libera da Washington o da Bruxelles.

Se ce lo dicevano prima che funzionava così la democrazia, ci inventavamo un altro sistema.

E la Polonia non è certo un caso isolato. Tra gli stati canaglia dell’internazionale nera di Visegrad che più hanno cercato di sfruttare la guerra per procura in Ucraina per tornare a piacere alla gente che piace, senza manco bisogno di rinunciare a un briciolo della loro vocazione clericofascista, spicca infatti anche la piccola ma agguerritissima Slovacchia, che salta anche più agli occhi; fino al 2018 infatti al governo c’era stato un tale Robert Fico, che invece il muro contro muro con la Russia e il suicidio delle sanzioni economiche li vedeva di pessimo occhio già da tempi non sospetti.

Cresciuto tra le fila del Partito Comunista subito prima dello smembramento della Repubblica Ceca, Fico aveva fondato una formazione politica tutta sua, che si chiama SMER, ed è un esempio piuttosto eclettico di partito socialdemocratico che ha incredibilmente sempre nutrito più di qualche perplessità per quel che riguarda le controriforme di carattere neoliberista e l’adesione religiosa ai vincoli esterni.

Nel 2018 però al governo guidato da Fico ne subentra un altro, altrettanto populista, ma a questo giro in senso prettamente reazionario, che fa sue battaglie di civiltà come ad esempio trasformare l’aborto in un reato penale, e come tutti i veri fintosovranisti ma veri reazionari, quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina ecco che la Slovacchia si trova a gareggiare per il primo gradino del podio dei governi più svendipatria del continente.

Come ricorda People Dispatch, “in termini di percentuale del suo prodotto interno lordo, la Slovacchia è attualmente uno dei maggiori donatori europei all’Ucraina. Ha fornito all’Ucraina obici, veicoli corazzati e la sua intera flotta di aerei da combattimento MiG-29 dell’era sovietica”.

Purtroppo però, continua l’articolo, la Slovacchia “è anche uno dei paesi più poveri d’Europa, e il grosso dell’elettorato è convinto che il denaro dovrebbe servire per migliorare i servizi interni, non per la guerra”.

Totalmente dipendente dal gas russo a prezzi di sconto, la Slovacchia negli ultimi 18 mesi ha registrato uno dei tassi d’inflazione più alti dell’intero continente, superando durante la scorsa primavera addirittura quota 15%; la crisi economica ha scatenato una crisi politica e la maggioranza filo NATO si è sfaldata, ma invece di sciogliere il parlamento e tornare alle urne la presidenta fintoprogressista Zuzana Caputova ha deciso di consegnare il paese nelle mani dell’ennesimo caso di governo tecnico farsa guidato dal vice governatore della banca nazionale.

Come tutti i governi tecnici che si rispettano, i mesi successivi sono stati mesi di sospensione della democrazia e di politiche antipopolari in nome dei vincoli esterni nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, fino a quando anche qui è arrivata la scadenza naturale della legislazione ed è tornata quella gran rottura di coglioni che sono le elezioni politiche che – ormai – ai paladini della democrazia piacciono sempre meno.

Ovviamente a quel punto, come sempre accade al termine di un governo tecnocratico antidemocratico, il grosso dell’elettorato non poteva che prediligere la forza politica che meno si era compromessa, ed ecco così che il nostro Robert Fico ha avuto gioco facile.

Durante la campagna elettorale gli è bastato ricordare che le conseguenze delle sanzioni alla Russia lui le denuncia da sempre e promettere espressamente che in caso di vittoria “non invieremo un solo colpo all’Ucraina”, ed ecco fatto: una cosa lineare, prevedibile, semplice.

Per tutti, tranne che per la sinistra suprematista imperiale delle ZTL e la sua bibbia, internazionale, che affida l’ennesima analisi psichedelica all’immancabile Pierre Haski.

Un vero punto di riferimento: quando avete un dubbio, andate a vedere cosa ne pensa Haski. e fate, o pensate, l’esatto opposto.

Secondo Haski in questo caso, la vittoria di Fico sarebbe attribuibile “al ruolo della disinformazione di massa, dalle fake news ai video truccati, che ha imperversato durante la campagna elettorale slovacca”.

Ma la potenza di fuoco dell’inarrestabile macchina propagandistica di Putin – il primo presidente nella storia a riuscire a pilotare l’opinione pubblica globale nonostante sia già morto da mesi per uno dei suoi 17 incurabili tumori e nonostante la bancarotta della Russia annunciata dalla Tocci da due anni ma tenuta ancora nascosta – va ben oltre la Slovacchia: anche il nostro paese, nonostante la RAI, Mediaset, La7, il gruppo GEDI, e gli analfoliberali sul web, è a rischio.

Facciamo un passetto indietro: lunedì scorso Tajani è andato a Kyev e durante la visita avrebbe ufficialmente annunciato nuovi invii di armi.“E’ soltanto una dichiarazione d’intenti” l’ha redarguito Crosetto.

Di questo fantomatico ottavo pacchetto di aiuti, sottolinea infatti Crosetto, “C’è tantissima gente che ne parla non avendone competenza”, anche perché, ricorda sommessamente, “è secretato. C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, però bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe”.

l’italia ha fatto molto”, ha continuato Crosetto, ma non abbiamo “risorse illimitate”, e abbiamo già fatto “quasi tutto ciò che potevamo fare; non esiste molto ulteriore spazio”.

Non è un cambio di linea eh, ci mancherebbe. “Continueremo a sostenere l’Ucraina”, ha infatti ribadito, “privilegiando la via del dialogo per riaffermare il diritto a raggiungere una pace giusta”, ma solo come se fosse antani, tarapiotapioca con scappellamento a destra.

O a centrodestra, se siete più moderati.

Ma gli arsenali vuoti non sono l’unica cosa a spingere l’Italia verso una parziale marcia indietro: come ha sottolineato Giorgiona stessa, a preoccupare comincia anche ad essere, anche qui, l’opinione pubblica. Un sostegno incondizionato, avrebbe dichiarato Giorgiona “genera una resistenza e rischia di generare stanchezza nell’opinione pubblica”, ma a colpire ancora di più è la reazione dello stesso Zelensky, che fino a qualche mese fa si incazzava decisamente per molto meno, e oggi invece si riscopre comprensivo.

So che l’Italia ha le proprie sfide”, avrebbe affermato, “e so anche che l’Italia subisce una forte campagna di disinformazione della federazione russa, che spende milioni per distruggere le relazioni tra le nazioni dell’Europa e del mondo”.

E a noi, manco un centesimo, popo’ di ingrati.

Di fronte a questa inarrestabile campagna propagandistica russa che, senza che ve ne accorgeste, si è impossessata di tutti i media e tutti i mezzi di produzione del consenso italiani, Zelensky non può che apprezzare comunque lo sforzo: “Vorrei ringraziarvi perché voi avete un primo ministro molto forte”, avrebbe affermato.

Ma com’è che tutti questi Paesi, che abbiamo sempre additato come umili servitori degli USA, anche contro i loro stessi interessi più immediati, ora cominciano di punto in bianco un po’ a scalpitare? Semplice: i primi a scalpitare ormai, infatti, sono proprio gli USA.
Come sapete, per rinviare per l’ennesima volta il rischio shutdown pochi giorni fa Biden e la maggioranza repubblicana alla camera, hanno siglato un patto che permette nei prossimi quarantacinque giorni di effettuare tutta una lunga serie di spese. Che è lunga si, ma non abbastanza da contenere ulteriori aiuti all’Ucraina. Biden voleva altri 6 miliardi. ne ha ottenuti zero.

Ed è solo l’inizio. Perchè comunque quell’intesa tra leader repubblicani alla camera e amministrazione democratica, a qualcuno proprio non è andata giù. Risultato: un piccolo gruppo di 8 repubblicani che secondo i media mainstream sarebbero l’estrema destra dell’estrema destra trumpiana, hanno chiesto il voto di sfiducia per lo spekaer della camera Kevin McCarthy, lo hanno ottenuto, e poi lo hanno pure vinto. È la prima volta che succede da quando esistono gli Stati Uniti d’America per come li conosciamo oggi. Senza lo speaker, l’attività legislativa della camera è bloccata e l’ucraina teme che per lei sarà bloccata anche quando di speaker ne eleggeranno uno nuovo. “Difficile eleggere uno speaker che sostenga gli aiuti all’ucraina”, così avrebbe dichiarato un parlamentare repubblicano interrogato da La Stampa. Non si tratta di uno dei parlamentari della fronda, ma di Pete Sessions, storico rappresentante neocon del texas, e filoucraino sfegatato. A spingere i repubblicani verso un deciso cambio di rotta, i sondaggi che continuano a dimostrare come la maggioranza assoluta dei cittadini USA non ne possa più. Come quello pubbicato l’altro giorno dalla cnn che affermava che il 55% degli americani ritiene che siano stati dati tutti gli aiuti necessari e che “è stato fatto abbastanza”. I soldi che ci sono, devono essere spesi in qualcosa che potrebbe permettere ai repubblicani di vincere le prossime elezioni: in particolare, rafforzare il controllo del confine con il Messico, e ridurre il debito.
“Prima bisogna garantire i finanziamenti per la sicurezza alle frontiere e poi occuparci di Ucraina”, avrebbe dichiarato Garrett Graves, della ristretta cerchia di McCarthy. Ed ecco così che spunta la candidatura di Jim Jordan, potentissimo capo della commissione giustizia, tra gli artefici della procedura di impeachment contro Biden e uno degli oppositori più vocali all’invio di aiuti a Kyev.

Una “SUPERPOTENZA DISFUNZIONALE”, come l’ha definita in un lungo articolo su “foreign affairs” Robert Gates, già direttore della CIA all’inizio degli anni ‘90, e poi caso più unico che raro di segretario della difesa bipartisan, prima con George W. Bush, e poi con Barack Obama. La domanda che si fa Robert Gates è più attuale che mai: Può un’America divisa scoraggiare Cina e Russia?

“Gli Stati Uniti”, sottolinea Gates, “si trovano ora ad affrontare minacce alla propria sicurezza più gravi di quanto non fossero mai state negli ultimi decenni, forse mai. Il problema, tuttavia è che nel momento stesso in cui gli eventi richiedono una risposta forte e coerente da parte degli Stati Uniti, il Paese non è in grado di fornirne una”. Secondo gates gli USA si trovano ancora oggi in una posizione di relativa forza rispetto a Cina e Russia. “Purtroppo, però”, riflette Gates, “le disfunzioni politiche e i fallimenti politici dell’America ne stanno minando il successo”. Per tornare ad avere il potere di dissuadere gli avversari da compiere ulteriori gesti inconsulti, suggerisce Gates, gli Stati Uniti devono assolutamente ritrovare quell’”accordo bipartisan decennale rispetto al ruolo degli Stati Uniti nel mondo”, ed essere in grado di spiegare insieme a tutti gli elettori che “la leadership globale degli USA, nonostante i suoi costi, è indispensabile per preservare la pace e la prosperità”. Per fare questo non bastano gli appelli alla nazione dallo studio ovale. “Piuttosto”, sottolinea Gates, “è necessario che tutti ripetano all’infinito questo messaggio affinché venga recepito”. Insomma, l’esercizio di quel poco di democrazia che è rimasto nel nord globale rischia di far sbandare dalla strada maestra, che non è quella che si scelgono i popoli in base ai loro interessi, ma quella che decidono a tavolino i Gates e gli oligarchi che lo sostengono. Per tornare sulla retta via, c’è bisogno di richiamare tutti all’ordine, e lanciare una campagna di lavaggio del cervello di massa che ci faccia riconoscere come nemici senza se e senza ma quelli che loro hanno individuato come nemici in base ai loro interessi. E siccome poi alla gente li puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma se gli levi il pane da sotto i denti, poi a un certo punto comunque si incazza, se non basterà il soft power della persuasione, vorrà dire che si passerà all’hard power delle mazzate. L’occidente globale è in via di disfacimento. prima che si rassegnino a mollare l’osso, ci sarà da vederne delle belle.

Contro il piano orwelliano dei gates, nel frattempo, quello che possiamo fare è continuare a insinuare i dubbi e a segnalare le contraddizioni. e per farlo, abbiamo bisogno di costruire il primo media che invece che dalla parte della loro propaganda, stia dalla parte degli interessi del 99%

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…e chi non aderisce è Robert Gates.

[LIVE LA BOLLA] La nostra Russia, Con Francesco Dall’Aglio e Marco Bordoni

Ospiti Francesco “Il Bulgaro” Dall’Aglio per il nostro consueto aggiornamento sulla guerra Russo/Ucraina e Marco Bordoni autore del blog “La mia Russia” che ci farà una panoramica sulla politica interna Russa dell’era di Putin.

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Italianieuropei alla prova dei BRICS

Quello che ci siamo trovati di fronte, non sono fanatiche prese di posizione vetero comuniste e terzomondiste, ma pacate riflessioni che cercano di comprendere le più importanti trasformazioni del contesto geopolitico

D’Alema dichiara guerra agli Usa”, “la Repubblica”.

D’Alema fa l’antiamericano sull’Ucraina, si crede Bufalo Bill, ma ricorda Scialpi” “Linkiesta”.

D’Alema si riscopre comunista ed esalta Cina e Russia” “Il giornale”.

Ma cosa ha mai fatto Massimo D’Alema per meritarsi tutti gli strali e le maledizioni della stampa italiana?

Il casus belli sono gli articoli contenuti in “Brics, l’alba di un nuovo ordine internazionale”, l’ultimo numero della rivista Italianieuropei da lui diretta che ha commesso il più grave dei delitti possibili: lesa miestatis nei confronti della narrazione suprematista occidentale e degli interessi geopolitici americani.

Ingolositi dalla gravità del delitto e dalla ferocia del linciaggio, ci siamo dunque avventurati nella lettura della rivista, e confermiamo che l’ira dei giornali è ben giustificata: gli articoli in questione infatti, sono un insieme di serie e pragmatiche analisi geopolitiche fatta da autorevoli ex diplomatici e scienziati della politica.

Insomma, un concentrato di tutto ciò oggi l’informazione non può proprio sopportare.

Quello che ci siamo trovati di fronte, non sono fanatiche prese di posizione vetero comuniste e terzomondiste, ma pacate riflessioni che cercano di comprendere le più importanti trasformazioni del contesto geopolitico e questo sia aldilà della dicotomia hollywoodiana buoni contro malvagi, sia sottolineando le numerosissime contraddizioni dei BRICS e in generale di tutti quei paesi che stanno mettendo in discussione il vecchio ordine mondiale unipolare.

Per fare un esempio, nell’articolo di Paolo Guerrieri, insegnante alla “Paris School of International Affairs”, si legge:“Per aumentare il loro peso a livello internazionale, i BRICS dovranno innanzi tutto risolvere una serie di contraddizioni. L’eterogeneità politica ed economica al loro interno, il disaccordo sull’allargamento e su temi politici fondamentali quali la riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’aspra disputa territoriale tuttora non sanata tra Cina e India, rappresentano altrettanti seri ostacoli alla continua cooperazione e rafforzamento dei BRICS”.

Insomma, non proprio un’invettiva di un fanatico anti-atlantista. Ma andiamo con ordine. La rivista è composta da due parti, la prima dedicata all’allargamento e al rafforzarsi dei Brics, e la seconda, che oggi lasciamo volentieri da parte, dedicata alla figura di Silvio Berlusconi.

Nell’introduzione, firmata Redazione e con tutta probabilità scritta dallo stesso D’Alema, si fa un riassunto generale e sostanzialmente diplomatico dei temi trattati da questo numero: si parla dell’allargamento dei Brics, si evidenzia come in Italia e in Europa non esista alcun dibattito strategico su questi temi, si condanna fermamente l’invasione russa in Ucraina e si ricorda come agli occhi del resto mondo il tentativo occidentale di imbrigliare questi fenomeni nella retorica da guerra fredda democrazie vs tirannie, è destinato a fallire.

La maggior parte dell’umanità” recita l’Introduzione “rifiuta di allinearsi alla posizione americana e dell’Occidente […] vi è una amplissima e non infondata convinzione che nella difesa dei diritti umani, della democrazia e dei principi del diritto internazionale il mondo occidentale sia tutt’altro che coerente e applichi standard molto diversi a seconda degli interessi che ha in diverse aree del mondo. Non è facile smentire la fondatezza di queste convinzioni, cui si aggiunge l’idea che oggi né l’Europa né gli Stati Uniti facciano nulla per cercare di fermare il conflitto e creare le condizioni per una pace sostenibile tra Ucraina e Russia.”

La parte più importante di questa introduzione è forse la parte finale, in cui si auspica come nel nuovo mondo multipolare che si sta prefigurando, l’Europa in forza della sua cultura e tradizione rappresenti un ponte tra i diversi poli, capace di creare un equilibrio internazionale più giusto e ragionevole. Questa considerazione è cruciale, perché ci ricorda come noi, da Italiani ed europei, dovremmo approcciarci a queste analisi e in generale a questi cambiamenti geopolitici: non ci deve infatti interessare un’astratta ridefinizione di chi sono i buoni o i cattivi della comunità internazionale, né capire se essere filo americani o anti americani, filo russi o filo cinesi, ma solo comprendere il contesto in cui viviamo, guardare agli interessi delle nostre comunità nazionali ed europee, e agire con lo scopo di riconquistare tutta la libertà, il benessere, e il potere che abbiamo perso.

Le analisi geopolitiche disincantate sono preziose proprio per questo, ci aiutano a scrollarci di dosso la mentalità da tifoserie di provincia e capire come perseguire meglio i nostri interessi in un dato contesto internazionale. Ed è esattamente per questo che un’informazione di propaganda come la nostra continuerà a delegittimarle e a fare loro la guerra. Andando avanti, troviamo articoli di approfondimento su India, Brasile, Africa e il loro ruolo nei Brics, mentre le analisi di più ampio respiro sono quelle Marco Carnelos ex ambasciatore in Iraq e inviato speciale per la Siria e il processo di pace israelo-palestinese, e Alberto Bradanini, ex-diplomatico e presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

Nell’articolo Il mondo della contrapposizione tra Global Rest e Global West, Carnelos scrive che le interminabili guerre statunitensi in Medio Oriente e la crisi finanziaria del 2008 hanno inflitto un duro colpo alla credibilità globale degli Stati Uniti, e che il conflitto in Ucraina ha svolto in questo senso un ruolo di spartiacque nella storia avendo avuto implicazioni che sono andate ben oltre le storiche recriminazioni tra Mosca e Kiev. Quella che si profila, è una disarticolazione tra quella parte di umanità, il Global West che per cinquecento anni ha dominato il sistema internazionale, e il resto del mondo, il Global Rest, che si sta oggi organizzando in istituzioni separate come i Brics, i quali contano già diciannove membri e molti altri aderiranno, la Shanghai Cooperation Organization (SCO), e l’EurAsian Economic Union (EAEU). Ridurre questa competizione alle semplicistiche dicotomie democrazia/autocrazia, libertà/tirannia, bene/male, sarebbe, scrive l’ex ambasciatore “un evocativo strumento retorico fondato sul consueto e ben collaudato metodo di governare attraverso la paura, e un’abile scorciatoia.” . A questo proposito, basti ricordare che Brasile e India sono la prima e terza democrazia del mondo e che oggi le principali minacce alle democrazie occidentali vengono tutte dall’interno e non dall’esterno. Prima di tutto dalle politiche neoliberiste, che stanno trasformando le nostre socialdemocrazie in oligarchie finanziarie mascherate, e poi da problemi di ordine sociale e culturale: negli Stati Uniti ad esempio “il maggior numero di americani uccisi ogni anno in conflitti a fuoco avviene per mano di altri americani ossessionati dal possesso di armi da fuoco, e che, con il 5% della popolazione mondiale, il paese consuma l’80% degli oppiacei prodotti in tutto il pianeta. Il semplice buon senso leggerebbe questi due dati – ma se ne potrebbero citare molti altri – come un irreversibile segnale di decadenza, ma i poderosi apparati mediatici occidentali sono concentrati altrove.”.

Infine, l’articolo di Albero Bradanini Multilateralismo, de-occidentalizzazione e bi-globalizzazioneè quello forse più deciso nel prendere posizione contro il vecchio ordine unipolare. “Il paradiso dei ricchi” scrive Bradanini citando Victor Hugo “è fatto dell’inferno dei poveri”.

Quella a cui stiamo assistendo sarebbe “una campagna storica per la riconquista di sovranità e indipendenza d’azione, presupposto strutturale affinché anche i popoli oppressi possano generare benessere e contenere la bulimia d’arricchimento infinito delle oligarchie globaliste. È dunque intuibile la ragione per la quale tale disegno è avversato dal corporativismo militarizzato dell’impero atlantico”.

E per una buona volta, scrive Bardanini, i nord americani dovranno “accettare di tornare ad essere un paese normale, non la sola nazione indispensabile al mondo”.

Per concludere, voglio precisare che nessuno di OttolinaTv si sognerebbe mai di fare l’apologia di D’Alema nè della sua carriera politica, infarcita di ipocrisie e ambiguità e macchiata per sempre dall’appoggio da presidente del consiglio ai bombardamenti NATO in Serbia.

Ma visto che la verità ha la testa più dura della menzogna e che c’è bisogno di tutte le forze e intelligenze possibili, la speranza è che Italianieuropei possa davvero continuare su questa linea editoriale.

E chi non aderisce è Vittorio Parsi

[Live] “L’umiliazione della NATO e il nuovo disordine globale”

“La Bolla” Puntata del 24/09/2023

Consueto appuntamento domenicale con “La Bolla” ospiti della serata: Francesco Dall’Aglio e Stefano Orsi (Analista Militare),il focus sarà sulla controffensiva Ucraina ed il possibile cambio di prospettiva dell’occidente sul conflitto.

G20: l’umiliazione dell’unilateralismo e il mondo parallelo dei pennivendoli

Il giornale: G20, ecco la via delle spezie. La regia USA fa fuori Pechino.

La Stampa: un rotta dall’India a Venezia, gli USA danno scacco alla Cina.

Repubblica: Biden e Modi isolano Xi, ecco il nuovo corridoio India – medio Oriente contro la via della seta.

I mezzi di produzione del consenso del partito unico della guerra e degli affari, non hanno dubbi: dopo gli incredibili successi della controffensiva Ucraina, e il definitivo crollo dell’economia cinese, al G20 il nord globale è tornato in grande stile a dettare l’agenda globale. Indiani e sauditi hanno ritrovato il lume della ragione, hanno scaricato le velleità del fantomatico nuovo ordine multipolare, e sono tornati ai vecchi costumi: elemosinare una qualche forma di riconoscimento dall’Occidente globale. I rapporti commerciali con la Cina ormai sono roba da boomer e l’aria fresca di rinascimento che spirava dalle petromonarchie ai tempi di Renzi è tornata a soffiare più forte e ora irradia tutta la sua energia fino al subcontinente indiano.

L’Italia è pronta a raccoglierne i frutti: basta Cina, il futuro parla sanscrito, e se usciamo dalla via della seta non è perché ce lo ha imposto Washington, ma perché guardiamo lontano, laddove lo sguardo di voi complottisti sul libro paga di Putin e Xi, non riuscite manco ad avventurarvi.

Ma siamo proprio proprio proprio sicuri che questa narrazione sia anche solo lontanamente realistica?

“C’è un’immagine che più di tutte testimonia quanto accaduto durante il g20 di Delhi”, scrive Stefano Piazza su La Verità, “il presidente americano joe biden sorridente, stringe la mano al principe ereditario saudita mohammed bin salman insieme al padrone di casa Modi”.

Non ha tutti i torti.

Quella effettivamente è un’immagine decisamente potente. Peccato che simboleggi in modo plateale esattamente il contrario di quello che la propaganda suprematista sta cercando affannosamente di di farci credere. È la prova provata che ormai l’ameriCane abbaia, ma quando poi prova a mordere si accorge che gli mancano i denti, e allora si mette a scodinzolare. Se c’è un Paese che negli ultimi due anni ha dimostrato in modo evidente che il bastone a stelle e strisce non fa più poi così tanto male, infatti, è proprio la petromonarchia saudita. Cinque anni fa, Biden aveva inaugurato la sua campagna elettorale definendo il principe ereditario Bin Salman addirittura un pariah. Ma negli anni successivi, i sauditi non hanno fatto assolutamente niente per compiacere il vecchio alleato, anzi…

Quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, nonostante tutti i corteggiamenti, i sauditi hanno evitato sistematicamente di emettere una qualunque parola di condanna.

Quando la Russia ha chiesto all’OPEC+ di tagliare la produzione per tenere alto il prezzo del greggio, i sauditi hanno subito appoggiato l’iniziativa. Biden ha provato a dissuaderli, chiamandoli direttamente al telefono. Non gli hanno manco risposto ed era solo l’antipasto. Grazie alla mediazione cinese, pur di affrancarsi dalle strumentalizzazioni USA, pochi mesi dopo i sauditi sono tornati addirittura ad aprire i canali diplomatici con l’arcinemico iraniano, mettendo così le basi per la fine della pluridecennale guerra per procura in medio Oriente che è sempre stato in assoluto il pilastro fondamentale della politica estera USA per tutta l’area ed oltre. Dopodichè i sauditi hanno finalmente preso atto del totale fallimento dell’intervento USA in Siria, e hanno accolto a braccia aperte il ritorno di Assad nella Lega Araba. Subito dopo hanno inferto un colpo micidiale ad un altro degli assi portanti dell’imperialismo USA: la dittatura globale del dollaro, nata e cresciuta grazie proprio all’adozione incondizionata dei sauditi della valuta a stelle e strisce come unica valuta internazionale, utilizzabile per la compravendita del petrolio. Per scolpire sulla pietra il fatto che questi epocali cambi di posizionamento non fossero solo capricci estemporanei, i sauditi hanno prima aderito alla Shanghai Cooperation Organization, e poi addirittura ai BRICS, addirittura fianco a fianco agli iraniani.

Fino a pochi anni fa, gli USA hanno raso al suolo interi paesi e sterminato centinaia di migliaia di civili a suon di bombe umanitarie per molto, molto meno. Dopo un anno e mezzo di schiaffi a due mani in Ucraina, eccoli invece qua, a stringere mani e a ostentare sorrisoni.

Che uno dice: chissà cos’hanno ottenuto in cambio. Una luccicante cippa di cazzo, ecco cos’hanno ottenuto. Meno di quello che avevano ottenuto a Bali.

La partita ovviamente era quella di strappare di nuovo un’accusa nei confronti della Russia per la guerra in Ucraina.

All’orizzonte”, scriveva Il Giornale Sabato, “il rischio concreto che per la prima volta nella storia di questo forum, nato nel 1999, non si riesca a trovare l’intesa per un comunicato condiviso da tutti i partecipanti”. Per qualche ora, questo è stato il tormentone; sono tutti uniti come un sol uomo nel condannare la Russia, ripeteva fino all’auto convincimento la propaganda, a parte Russia e Cina.

Il più spregiudicato nel raccattare l’ennesima figura di merda, come sempre, è l’infaticabile Mastrolilli su Repubblica: “approfittare delle assenze di Xi e Putin per isolarli allo scopo di contrastare, insieme, la sfida geopolitica epocale lanciata dalle autocrazie alle democrazie”

Gli articoli di Mastrolilli ormai assomigliano sempre di più ai testi prodotti dalle pagine tipo “generatore automatico di post di Fusaro”, o di previsioni di Fassino, che andavano di moda qualche anno fa. Ci infili dentro autocrazia, democrazia, Putin e Xi isolati, mescoli bene, ed ecco pronto l’articolo.

“Putin e Xi”, insiste Mastrolilli, “si sono coalizzati nel rifiutare il linguaggio di Bali. Europei e americani però”, notate bene, “non sono disposti a cedere, e il G20 rischia di chiudersi per la prima volta senza una dichiarazione finale”.

Ci prendessero mai, proprio almeno per la legge dei grandi numeri.

Alla fine infatti, come sapete, il comunicato congiunto in realtà è arrivato in tempi record. Al contrario delle previsioni di Mastrolilli, europei e americani non hanno dovuto semplicemente cedere, si sono proprio nascosti sotto al tavolo: nel comunicato finale non c’è nessun accenno alle responsabilità russe.

In realtà, c’era da aspettarselo; al contrario di Bali, a questo giro Modi di far fare a Zelensky il solito intervento da rock star non ne ha voluto sapere.

Zelensky, persona non grata. Come gli anatemi e i doppi standard del nord globale in declino.

I gattini obbedienti delle oligarchie Occidentali allora si sono messi all’affannosa ricerca di altri specchi sui quali arrampicarsi e l’attenzione non poteva che ricadere sull’unico aspetto che effettivamente suggeriva alcune difficoltà: la misteriosa assenza di Zio Xi.

E via giù di speculazioni acrobatiche. La prima l’avevano suggerita i giapponesi di Asian Nikkei, testata di grande spessore che noi seguiamo da decenni quotidianamente per le analisi economiche, ma che diciamo, ovviamente, non è esattamente del tutto imparziale quando si tratta di Cina.

Un lungo editoriale apparso giovedì scorso, suggeriva che la scelta di Xi di non presentarsi per la prima volta al G20 fosse dovuta a una guerra intestina al partito che vedrebbe i dirigenti più anziani sul piede di guerra contro il Presidente per le difficoltà economiche che il Paese starebbe attraversando. Ma, come ha sottolineato sabato mattina il nostro amico Fabio Massimo Parenti in diretta su La7, in quell’editoriale c’è qualcosa che non torna. L’articolo parla infatti di alcune fonti interne al partito, che ovviamente non è possibile verificare. Rimane però un dubbio: ma davvero ai massimi livelli del partito ci sono dirigenti così smaccatamente antipatriottici da andare a lavare i panni sporchi di casa direttamente nel lavello dell’arcinemico giapponese?

Per carità, tutto può essere. Ma diciamo che una cosa così palesemente antiintuitiva, per essere creduta, avrebbe per lo meno bisogno di qualche prova più tangibile, diciamo.

Macchè!

I nostri media se la sono bevuta tutta d’un sorso senza battere ciglio e il famoso “contesto mancante” a questo giro non li ha dissuasi.

Che strano…

Ma non è stata certo l’unica speculazione. Il fatto di per se, offriva un’occasione più che ghiotta per rilanciare il tormentone che ci aveva già sfrucugliato gli zebedei quando tutta la stampa era alla ricerca di narrazioni fantasy di ogni genere pur di sminuire la portata delle decisioni prese due settimane fa dai BRICS: l’insanabile divergenza tra i diversi paesi del sud globale, a partire da India e Cina.

Ci provano senza sosta da decenni. Prima erano le divergenze tra Cina e Vietnam, poi tra Cina e Russia, poi tra India e Cina. Intendiamoci, le divergenze ci sono eccome e lo ricordiamo sempre: è abbastanza inevitabile quando si ha a che fare con Paesi sovrani. Ognuno è guidato fondamentalmente dal suo interesse, e gli interessi diversi spesso e volentieri entrano in conflitto. Quando non succede è semplicemente perché uno impone i suoi interessi su tutti gli altri, come accade ad esempio nell’ambito del G7, dove Washington detta la linea e gli altri possono accompagnare solo, rimettendoci di tasca loro. Quello che, proprio a chi è abituato a fare da zerbino, non vuole entrare nella capoccia, è che la necessità storica di un nuovo ordine multipolare in realtà si fonda proprio su questo: Paesi sovrani con loro interessi nazionali spesso divergenti, intenti a costruire strutture multilaterali all’interno delle quali trovare dei compromessi attraverso il confronto e il dialogo tra pari. Rimane comunque il fatto che Xi al G20 non ci è andato e non è una cosa che può essere derubricata con due battutine.

Purtroppo però qui entriamo nell’ambito delle pure speculazioni. In questi giorni la redazione allargata di OttolinaTV su questo punto s’è sbizzarrita. Alla fine le interpretazioni un po’ più solide emerse sono sostanzialmente due:

La prima effettivamente ha a che vedere con i rapporti con l’India. Come scriveva giovedì scorso il Global Times, il nord globale guidato da Washington “ha cercato di provocare conflitti tra Cina e India usando la presidenza indiana per inasprire la competizione tra il dragone e l’elefante”.

“Gli Stati Uniti e l’Occidente”, continua l’articolo, “hanno mostrato un atteggiamento compiaciuto nei confronti di alcune divergenze geopolitiche, comprese quelle tra Cina e India. Vogliono vedere divisioni più profonde e persino scontri”. Ma proprio come la Cina, anche “Nuova Delhi ha ripetutamente affermato che il forum non è un luogo di competizione geopolitica” e quindi da questo punto di vista l’assenza di Xi sarebbe stata funzionale a impedire agli occidentali di strumentalizzare queste divergenze, e permettere al G20 di ottenere qualche piccolo progresso sul piano che dovrebbe essere di sua competenza: la cooperazione economica, in particolare a favore dei Paesi più disastrati. Da questo punto di vista il piano effettivamente sembra essere riuscito: il comunicato finale sottolinea esplicitamente che il G20 non è il luogo dove affrontare e risolvere le tensioni geopolitiche.

Ma non solo…

Per quanto simbolici, i paesi del sud globale al g20 hanno portato a casa impegni ufficiali verso una riforma della banca mondiale a favore dei Paesi più arretrati e anche l’annuncio dell’ingresso ufficiale nel summit dell’unione africana. Tutti obiettivi che Delhi e Pechino condividono da sempre.

La seconda motivazione invece ha a che vedere col rapporto tra Cina e USA. Durante il G20 di Bali, la stretta di mano tra Biden e Xi aveva fatto parlare dell’avvio di una nuova distensione tra le due superpotenze. Nei mesi successivi però, a partire da quella gigantesca buffonata dell’incidente del pallone spia cinese e della cancellazione del viaggio di Blinken a Pechino che ne era seguita, le cose non hanno fatto che complicarsi. Da allora gli USA hanno provato ad aggiustare un po’ il tiro, gettando acqua sul fuoco della retorica del decoupling. Ma mentre i toni si facevano a tratti meno aggressivi, i fatti continuavano ad andare ostinati in tutt’altra direzione, a partire dalla guerra sui chip, per finire col recente divieto USA a investire in Cina in tutto quello che è frontiera tecnologica, dall’intelligenza artificiale al quantum computing. La Cina quindi, pur continuando a sfruttare ogni possibilità di dialogo, ha continuato a denunciare la discrepanza tra parole e fatti

da questo punto di vista, quindi, l’assenza di Xi a Delhi sarebbe un segnale diretto a Biden: caro Joe, co ste strette di mano a una certa c’avresti pure rotto li cojoni. Basta manfrine fino a che alle parole non farete seguire qualche fatto concreto. Volendo, con anche un avvertimento in più: per parlare con il resto del sud globale, non abbiamo più bisogno necessariamente di una piattaforma come quella del G20: Shanghai Cooperation Organization e BRICS+++ ormai sono alternative più che dignitose. A voi la scelta ora: se continuare ad avere un luogo dove discutere con il sud globale, oppure condannare il G20 all’irrilevanza.

Finite le nostre speculazioni, torniamo a quelle degli altri.

Come con la controffensiva ucraina, che andando come sta andando, costringe gli hooligan della propaganda a trasformare in vittorie epiche la conquista di qualsiasi gruppetto di case di campagna al prezzo di decine se non centinaia di vite umane e centinaia di milioni di attrezzatura militare, idem al G20, visti gli scarsi risultati, i propagandieri si sono sforzati in modo veramente ammirevole per provare ad arraparsi di fronte a un vero e proprio monumento alla fuffa.

“Ecco il nuovo corridoio india-medio oriente contro la via della seta”, titolava su repubblichina il solito Daniele Raineri, tra un articolo su qualche mirabolante vittoria ucraina e l’altro. Il progetto è così alternativo alla via della seta cinese, che approda nel pireo, che è dei cinesi. Di nuovo in sostanza ci sarebbe l’estensione della rete ferroviaria in Arabia.

A chiacchiere! A fatti, per ora, l’unico tratto ferroviario di una certa rilevanza in Arabia è quello lungo i 450 km che sperano Mecca e Medina. Un’opera monumentale, costruita dai cinesi.

E i cinesi infatti se la ridono.

Intanto, perché non capiscono bene in che modo questo fantomatico progetto andrebbe contro ai loro interessi. Come ha sottolineato il Global Times: “Per i paesi del Medio Oriente che parteciperanno all’iniziativa ferroviaria guidata dagli Stati Uniti, non vi è alcuna preoccupazione che i loro legami con la Cina si indeboliscano proprio a causa dell’accordo”.

Anzi: “la Cina ha sempre affermato che non esistono iniziative diverse che si contrastano o si sostituiscono a vicenda. Il mondo ha bisogno di più ponti da costruire anziché da abbattere, di più connettività anziché di disaccoppiamento o di costruzione di recinzioni, e di vantaggi reciproci anziché di isolamento ed esclusione”

Piuttosto, sottolineano i cinesi, il punto è che questi proclami andrebbero presi un po’ con le pinze.

“Non è la prima volta che gli Stati Uniti sono coinvolti in uno scenario “tante chiacchiere, pochi fatti””, ricorda sarcasticamente l’articolo, che insiste: “Durante l’amministrazione Obama, l’allora segretario di stato americano Hillary Clinton annunciò che gli Stati Uniti avrebbero sponsorizzato una “Nuova Via della Seta” che sarebbe uscita dall’Afghanistan per collegare meglio il paese con i suoi vicini e aumentare il suo potenziale economico, ma l’iniziativa non si è mai concretizzata”.

“Da un punto di vista tecnico”, continua perculando l’articolo, “la decisione degli Stati Uniti di concentrarsi sulle infrastrutture di trasporto, un’area in cui mancano competenze, nel tentativo di salvare la loro influenza in declino nella regione, suggerisce che il piano tanto pubblicizzato difficilmente raggiungerà i risultati desiderati”.

Ma non c’è livello di fuffa che possa distogliere i pennivendoli di provincia italiani dal prestarsi a qualsiasi operazione di marketing imposta dal padrone a stelle e strisce

magari, aggiungendoci anche del loro. Perché in ballo al G20 c’era un’altra questione spinosa, l’addio dell’Italia alla via della seta, ancor prima di aver fatto alcunché per entrarci davvero, al di là delle chiacchiere.

Ma non temete, come scrive Libero, infatti, “Giorgia sa di avere un’altra chance. si chiama India”.

“Il commercio tra India e Italia”, avrebbe dichiarato con entusiasmo la Meloni, “ha raggiunto il record di 15 miliardi di euro. Ma siamo convinti di poter fare di più”. D’altronde, che ce fai con la Cina quando c’è l’India. Un Paese, che, come scrive il corriere della serva “per popolazione ed economia ha superato la cina”.

Non è uno scherzo, è una citazione testuale. Secondo il Corriere, l’India ha superato economicamente la Cina. Deve essere successo dopo che, come scriveva Rampini, l’altro giorno, gli usa hanno cominciato a crescere il doppio della Cina.

Quanto cazzo deve essere bello di mestiere fare il giornalista ed essere pagato per dire ste puttanate.

Ovviamente, come credo sappiate tutti voi che piuttosto che lavorare al corriere della serva preferireste morire di fame accasciati per terra a qualche angolo di strada, l’economia cinese è più di cinque volte quella indiana, e l’India ogni anno spende in importazioni meno di un quinto della Cina.

Ma non solo…

L’Italia, in India, quel che è possibile esportare in quel piccolo mercato lo esporta già. Nel 2022 abbiamo esportato beni e servizi per 5,4 miliardi. Più dell’Olanda che è ferma a 3,5 e poco meno della Francia, che è a quota 6,5. Insomma, in linea con le nostre quote di export

Discorso che invece non vale per la Cina dove l’Italia esporta per 18 miliardi, la Francia per 25, il Regno Unito per 35 e la Germania per 113 miliardi. Cioè, il nostro export totale è inferiore del 25% rispetto a quello inglese e francese, ma in Cina esportano rispettivamente i 50 e il 100% in più. Ancora peggio il confronto con la Germania: l’export tedesco è circa 2 volte e mezzo quello italiano, ma in Cina esportano 7 volte più di noi. Quando saggiamente avevamo deciso di essere l’unico paese del G7 che avrebbe aderito al memorandum della belt and road, era per recuperare questo gap. Dopo la firma non abbiamo mosso un dito, e ora rinunciamo a una crescita potenziale di svariate decine di miliardi di export, e ci raccontiamo pure che li sostituiremo con i 2 o 3 miliardi in più che potremmo guadagnare dall’India.

Ora, io non ti dico di finanziare un vero think tank indipendente coi controcazzi invece di affidarti a quelli a stelle e strisce e in Italia dare i soldi a Nathalie Tocci per trasformare l’istituto affari internazionale nel milionesimo ufficio stampa di Washington e delle sue oligarchie finanziarie.

Ma almeno i soldi per una cazzo di calcolatrice trovateli! Se volete, famo una colletta noi su gofundme.

E sia chiaro, io lo dico da grande amante dell’India, da tempi non sospetti. Quando ho cominciato a fare il giornalista a fine anni ‘90, il mio obiettivo era raccontare l’ascesa del peso Internazionale di questo incredibile paese continente. Non è andata benissimo, e ogni fallimento dell’india in questi 30 anni per me è stata una pugnalata al cuore, a prescindere da chi ci fosse al governo. Modi compreso.

Ora non mi posso che augurare che di fronte a questi teatrini imbarazzanti che offre continuamente l’Occidente, Modi sia abbastanza lucido da capire che gli attriti con la Cina, che sono legittimi e anche normali, non possono certo distoglierlo dal perseguire il vero interesse del suo disastrato Paese, che potrà crescere davvero se e solo se il sud globale riesce finalmente a mettere fine all’ordine unipolare della globalizzazione neoliberista guidata da Washington.

Per parlare del mondo nuovo che avanza, senza i paraocchi della vecchia propaganda vi aspettiamo sabato 16 settembre all’hotel terme di Fiuggi con Fulvio Scaglione, Marina Calculli, Elia Morelli, Alessandro Ricci e l’inossidabile generale Fabio Mini.

È solo uno dei dodici panel messi in fila dagli amici dell’associazione Idee Sottosopra per questo fondamentale week end di studio e di approfondimento, per costruire insieme un’alternativa credibile e non minoritaria alla dittatura del pensiero unico del partito degli affari e della guerra.

Per chi vuole maggiori informazioni, trovate il link nei commenti.

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Fonti:

Editoriale del Global Times: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297861.shtml

Il piano ferroviario USA in Medio Oriente: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Il Premier Li chiede solidarietà e cooperazione al G20: https://www.globaltimes.cn/page/202309/1297874.shtml

Articolo “Il Giornale”: https://www.ilgiornale.it/news/politica/g20-ecco-delle-spezie-india-emirati-arabia-europa-regia-usa-2208113.html

Articolo “la Repubblica”: https://www.repubblica.it/esteri/2023/09/08/news/ferrovia_arabia_india_cina_via_della_seta-413788548/