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Biden sotto assedio per il sostegno al genocidio fa arrestare i rampolli ribelli delle oligarchie

Mentre Israele doveva affrontare l’accusa di genocidio da parte della Corte Internazionale di Giustizia che imponeva lo stop immediato di tutte le violazioni dei diritti umani fondamentali e mentre consolidava il suo status di Stato canaglia contravvenendo alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – approvata da tutti con la sola astensione degli USA – che imponeva l’immediato cessate il fuoco, il mondo libero nella sua quasi totalità (e con un ruolo di primo piano dall’Italia) si macchiava di palese complicità nei confronti dello sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi non solo continuando a fornire assistenza militare, ma partecipando attivamente al piano di sterminio per carestia escogitato dal regime suprematista di Tel Aviv. Dopo il fiume di fake news sulle decapitazioni di bambini e gli stupri di massa di Hamas, diffuse a man bassa dall’ufficio propaganda del regime genocida sionista e immediatamente riportate come verità assolute da tutti i nostri leader politici e dai pennivendoli che combattono le bufale dei complottisti sul web, tutti i governi occidentali (con pochissime eccezioni) e con Giorgia la madrecristiana e il suo entourage di postfascisti in primissima fila, avevano provato a giustificare la strategia della carestia con la madre di tutte le bufale: l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi – l’unica in grado di alleviare, in piccolissima parte, le sofferenze atroci della popolazione della striscia – altro non sarebbe che una specie di sezione sotto copertura di Hamas e del terrorismo fondamentalista islamico in genere; una scelta di una gravità incalcolabile che non solo trasforma in modo pericolosissimo il nostro paese in un complice a tutti gli effetti dello sterminio, esponendoci tutti al rischio di ritorsioni di ogni genere, ma che in un futuro prossimo, nel caso sempre meno improbabile che il diritto internazionale, una volta tanto, si dimostri strumento per ottenere giustizia invece che strumento per imporre i doppi standard dell’imperialismo USA, potrebbe valere al nostro paese una condanna per violazione dei diritti umani e complicità nel genocidio.

L’Italia aveva temporaneamente sospeso l’esborso dei finanziamenti a favore dell’agenzia subito dopo l’operazione diluvio di al aqsa per mandare un segnale forte e chiaro che, in quanto facenti parte a pieno titolo del blocco dei paesi liberi e democratici che sostengono l’occupazione illegale e l’apartheid israeliano, non avremmo tollerato nessuna forma di rivolta degli schiavi; la sospensione temporanea era poi diventata stabile a fine gennaio scorso, quando Israele ha provato a fornire a tutti i sostenitori dello sterminio una pezza d’appoggio per giustificare la loro partecipazione attiva al tentativo di sterminio per carestia: gli è bastato comunicare di avere le prove di un coinvolgimento di dodici membri del personale UNRWA nell’attacco di Hamas del 7 ottobre, non di presentarle, eh? Presentare le prove è un onere che tocca ai poveri, agli schiavi e ai popoli inferiori; a noi, civiltà superiori, basta comunicarlo e la fantastica comunità del giardino ordinato si sintonizza. Mentre è in corso uno sterminio, già porsi il problema dell’esistenza o meno di qualche legame tra una decina di dipendenti dell’UNRWA e Hamas, che è la legittima forza politica al governo della striscia – e quindi l’unica, in questo contesto, che più o meno agisce all’interno di un quadro di legittimità giuridica – dal nostro punto di vista è già di per se complicità esplicita con lo sterminio anche perché, come era emerso chiaramente già dal resoconto dei media che avevano avuto accesso al dossier di 6 pagine presentato dalla propaganda israeliana, il rapporto presentava, appunto, una lunga serie di accuse strappate a suon di tortura ad alcuni prigionieri arrestati durante l’operazione diluvio di al aqsa, ma, come ricorda al Jazeera, “senza” appunto “lo straccio di una prova”.
Ciononostante, nel tentativo disperato di provare a continuare a sottrarre qualche bambino palestinese allo sterminio, ONU e UNRWA hanno fatto un bagno di realpolitik e hanno cercato un compromesso: senza nemmeno il cenno di un’indagine interna, l’UNRWA ha licenziato in blocco i 12 funzionari accusati da colleghi sottoposti a tortura dalle forze illegali di occupazione e l’ONU ha deciso di avviare un’indagine interna; a coordinarla, Catherine Colonna, ex ministro degli esteri francese oltreché ex ambasciatrice francese in Italia. Di sicuro, da brava conservatrice francese cresciuta sulle ginocchia di Chirac prima e di De Villepin poi, non esattamente una paladina delle lotte di liberazione dei popoli arabi e, tutto sommato, manco dell’Islam in generale – a parte, ovviamente, quando può essere strumentalizzato in chiave anticinese: la Colonna, infatti, 2 anni fa polemizzò aspramente con Pechino quando sui media occidentali, come campagna di pressione diplomatica e psicologica nei confronti di una Cina che stavamo tentando di convincere a non offrire sostegno alla Russia di Putin, riapparve magicamente la solita vecchia vaccata del genocidio degli uiguri in Xinjiang.
Ciononostante, l’esito dell’indagine sull’UNRWA è piuttosto chiaro: come riassume al Jazeera, il rapporto “chiarisce che Israele non ha sostenuto le sue affermazioni sul personale dell’UNRWA appartenente né all’ala militare di Hamas né alla Jihad islamica palestinese”; l’UNRWA inoltre, continua il rapporto, ha sempre fornito regolarmente a Israele gli elenchi dei suoi dipendenti da sottoporre a controlli e il governo israeliano non ha informato l’UNRWA di alcuna preoccupazione relativa a qualsiasi membro del personale dell’UNRWA sulla base di questi elenchi del personale dal 2011”. Insieme al report della Colonna, il Nordic Research Group ne ha pubblicato un altro, sempre frutto della stessa indagine, dove sottolinea come “Le autorità israeliane fino ad oggi non hanno fornito alcuna prova a sostegno né hanno risposto alle lettere dell’UNRWA di marzo e di aprile, dove si richiedevano nomi e prove a sostegno delle accuse, che avrebbero consentito all’UNRWA di avviare un’indagine”.
Dopo le accuse totalmente infondate e pretestuose del regime genocida israeliano, 18 paesi avevano sospeso gli aiuti all’UNRWA; nel tempo, però, la stragrande maggioranza, anche grazie alle mobilitazioni popolari, hanno fatto retromarcia e hanno annullato la sospensione, spesso addirittura aumentando il budget. A parte 6 paesi, tutti e 6 colpevoli, in passato, di stermini di massa e pulizie etniche su grande scala, dalla Gran Bretagna agli USA, passando per l’Austria e la Germania, per finire con la nostra amata Italia; insomma: giustamente vogliamo preservare le care vecchie tradizioni. Come ha dichiarato la direttrice comunicazione dell’UNRWA Juliette Touma, “Non vi fate ingannare: la fame viene utilizzata come arma”: secondo la scala dell’Integrated food security phase classification, 210 mila persone nel nord della striscia stanno già vivendo una carestia; la parte sud, invece, è classificata come “emergenza alimentare” che dovrebbe trasformarsi in vera e propria carestia entro l’inizio dell’estate. “Non ho mai visto un’area raggiungere questi livelli così rapidamente” avrebbe dichiarato la Touma ad al Jazeera: “Nello Yemen ci sono voluti anni prima di arrivare a questo livello. A Gaza sono bastati tre mesi. Gaza è sotto assedio”.
Il ricorso allo strumento della carestia come arma di distruzione di massa è anche il risultato dell’assoluta incapacità di perseguire gli obiettivi militari sul terreno; l’ultima indicazione su come allo sterminio indiscriminato di civili inermi non sia corrisposta nessuna vittoria strategica arriva dalle ennesime dimissioni eccellenti: questa volta, a tirare i remi in barca è Aharon Haleva, il capo dell’intelligence militare israeliana. Responsabile in prima persona della macchina per il controllo totale dei dannati di Gaza – che fino al 7 ottobre scorso pensavamo essere impenetrabile, per poi vederla crollare magicamente come un castello di carte – Haleva era rimasto al suo posto per dare il suo contributo personale alla vendetta contro i bambini palestinesi; dopo 6 mesi di fallimenti, finalmente ha deciso di prendere atto della realtà, anche perché ultimamente ha collezionato il fallimento più grande di tutti: come ricorda la testata antimperialista libanese al Akhbar, infatti, “Com’è noto, l’intelligence militare aveva raggiunto una valutazione secondo cui l’Iran era scoraggiato e non avrebbe risposto all’attacco al consolato, e che il massimo che poteva fare era indirizzare i suoi alleati nella regione a rispondere”. Ne è seguito il più grande disastro strategico per Israele dai tempi dello Yom Kippur, con l’Iran che è riuscito a imporre uno spostamento radicale negli equilibri di deterrenza della regione senza precedenti; dopo aver collezionato due disastri epocali come l’operazione diluvio di al aqsa prima e quella true promise poi, le dimissioni – effettivamente – sono proprio il minimo sindacale, ma ovviamente si tratta solo di capri espiatori per consentire di mantenere in carica il capo stragista che, ormai, non ha il sostegno nemmeno dei parenti più stretti.
Come i giornalisti del New York Times, che dopo 7 mesi di sostegno allo sterminio sono costretti ad ammettere che “i tunnel permetteranno ad Hamas di sopravvivere e di ricostituirsi una volta che i combattimenti a Gaza finiranno”, che “Hamas probabilmente rimarrà una forza a Gaza” e che “Hamas e altre organizzazioni armate hanno ancora molte forza sopra e sotto terra”; facendo la tara della guerra linguistica condotta dal Times per coprire le atrocità del genocidio di fronte all’opinione pubblica, queste citazioni potrebbero significare una cosa sola: Israele ha perso la guerra e mo’ so cazzi. Che il Times, oltre a diffondere fake news sugli stupri, manipolasse la sua comunicazione per legittimare lo sterminio era cosa nota già da tempo: The Intercept aveva già sottolineato come “Al 24 novembre, il New York Times avesse descritto le morti israeliane come un massacro in 53 occasioni, mentre quelle palestinesi una sola volta. Il rapporto nell’uso del termine macellazione, invece, era di 22 a 1”. La prova provata che questa sproporzione fosse dovuta a delle direttive impartite dall’alto (e non, semplicemente, alle tendenze suprematiste congenite a quel concentrato di progressismo ZTL che è la redazione del Times), però, mancava; fino alla scorsa settimana, quando sempre The Intercept è entrato in possesso di un promemoria interno distribuito ai giornalisti: nel promemoria, scrive The Intercept, si danno “istruzioni ai giornalisti che si occupano della guerra di Israele nella Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini genocidio e pulizia etnica e di evitare di usare l’espressione territorio occupato nel descrivere la terra palestinese”.
Per quanto faccia ribrezzo, non mi stupisce per niente: in 20 anni di Report ho dovuto fare mille compromessi e, ovviamente, mantenermi sempre all’interno della finestra di Overton del politically correct, ma in un solo caso ho subìto una vera e propria forma di censura e quel caso – guarda un po’ – ha proprio a vedere con il regime sionista: per descrivere l’attività dei miei amici del Comitato israeliano contro la demolizione illegale delle case palestinesi, mi azzardai a definire Gerusalemme Est occupata; non che fosse chissà quale licenza poetica. Era definita così da decenni in decine e decine di risoluzioni delle Nazioni Unite che però, evidentemente, il mio capo non aveva letto attentamente: “E’ più complicato di così” mi venne detto; la parola occupazione doveva sparire. Era divisiva, come il 25 aprile e la liberazione.
La potenza di fuoco della propaganda e della censura sionista è veramente sbalorditiva e si poggia su parecchie gambe: l’incredibile concentrazione di cittadini israeliani ai piani alti dei monopoli finanziari dell’impero, che si traducono in una delle lobby più potenti del pianeta, senza la quale è impossibile ambire al trono del centro imperialistico; il ruolo vitale che Israele, come avamposto nel Medio Oriente, ha giocato fino ad oggi nella strategia imperialista; e l’incredibile potenza del ricorso ai sensi di colpa dell’Occidente collettivo per l’olocausto, che viene facilmente e sapientemente utilizzato per delegittimare l’opposizione al genocidio che stanno compiendo di fronte ai nostri occhi. Come sostiene lo storico statunitense Norman Finkelstein – erede di una famiglia ebraica che ha sperimentato i valori comuni del giardino ordinato prima nel ghetto di Varsavia e poi ad Auschwitz – l’utilizzo strumentale di quella che lui chiama l’industria dell’olocausto per minimizzare (se non, addirittura, giustificare del tutto) il primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità, è forse l’aberrazione più atroce possibile concepibile; ciononostante, calzando a pennello con gli interessi dell’imperialismo, continua ad essere un’arma potentissima che viene brandita senza ritegno.
L’ultimo incredibile esempio arriva dagli USA: La polizia di New York arresta i manifestanti della New York University mentre aumentano le tensioni nei campus statunitensi titolava ieri il Financial Times: “Preoccupazioni anche a Yale, mentre la Columbia passa alle lezioni online in mezzo al furore per le proteste di Gaza”; la polizia, riporta l’articolo, “ha arrestato dozzine di manifestanti filo -palestinesi alla New York University di Manhattan, mentre le autorità intensificavano gli sforzi per reprimere le proteste studentesche”. La retata contro gli studenti della New York University è arrivata poche ore dopo l’annuncio da parte della Columbia University, sempre di New York, che sarebbe passata alle lezioni online “nel tentativo di disinnescare le proteste nel campus del college della Ivy League”, proteste che venerdì scorso avevano portato all’arresto di oltre 100 studenti “nel primo intervento del genere da più di tre decenni”. Lunedì, invece, la polizia aveva arrestato altri studenti nel campus dell’università di Yale e, in entrambi i casi, l’arresto è il male minore: sia la Columbia che Yale hanno annunciato che tutti gli studenti coinvolti verranno sospesi; come sappiamo benissimo noi che siamo cresciuti con filmetti propagandistici come L’attimo fuggente, ovviamente non saranno sospesi tutti: solo quelli che nella Ivy League ci sono entrati per particolari meriti e con le borse di studio. Per i rampolli delle famiglie di oligarchi che ogni anno sommergono questi centri di produzione dell’ideologia imperialista con miliardi e miliardi di donazioni, una soluzione si troverà, ma lo strumento disciplinare è straordinario: i rampolli delle oligarchie impareranno che opporsi a un genocidio non è compatibile con il loro status e quelli intelligenti e cazzuti davvero, che sono lì per merito, impareranno che, sei vuoi perseguire il sogno americano, le priorità strategiche dell’imperialismo vanno rispettate.
Esattamente come i nostri studenti nell’estrema periferia dell’impero, anche nella Ivy League la mobilitazione era volta a chiedere alle università – che gestiscono asset per decine e decine di miliardi e sono veri e propri colossi della finanza globale – di smettere di finanziare direttamente aziende israeliane e anche le collaborazioni accademiche con le università israeliane che, grazie a questi contributi finanziari, sono in grado di fornire all’IDF sempre nuove soluzioni all’avanguardia per proteggere l’apartheid e sterminare i bambini palestinesi con metodi sempre più innovativi e creativi, che poi esportano in tutto il mondo; come l’ormai famosissimo sistema Lavander, il sistema che utilizza l’intelligenza artificiale per individuare tutti i sospetti fiancheggiatori delle milizie armate palestinesi e dà agli operatori 20 secondi per scegliere se colpire il bersaglio – a prescindere che questo comporti o meno l’assassinio di decine di civili, in particolare donne e bambini, nelle immediate vicinanze.

Mathilde Panot

Nel frattempo, in Francia, un’altra persona veniva convocata nell’ambito di una delle tante inchieste, aperte un po’ random dalla magistratura dal 7 ottobre in poi, per apologia del terrorismo, un termine tecnico che include qualsiasi forma di solidarietà nei confronti della resistenza palestinese; il problema è che, a questo giro, hanno mirato un po’ altino: ad essere convocata, infatti, è stata Mathilde Panot, la presidente del gruppo parlamentare della France Insoumise di Melenchon. Ed ecco così che il declino dell’imperialismo, che nello stallo strategico in cui s’è infilato il regime genocida di Tel Aviv ha uno degli esempi più eclatanti e devastanti, si porta finalmente via un altro dei principi fondamentali delle democrazie liberali: la libertà dei rappresentanti del popolo di esprimere un giudizio politico, quale che sia, tutelato con ogni mezzo necessario da ogni costituzione democratica; ma come l’imperialismo più diventa feroce e spregiudicato, più accelera il suo declino e rafforza i suoi avversari (sia in termini economici che in termini geopolitici e militari), così, anche dal punto di vista ideologico, più alza l’asticella della sua repressione, più alimenta il fuoco della ribellione. Dopo le retate nelle università USA, sempre più studenti hanno deciso di accamparsi con le tende davanti agli ingressi principali non solo di Yale e della Columbia, ma anche di Berkley, dell’Università del Michigan e altro ancora.
Il genocidio di Gaza è uno dei colpi di coda dell’imperialismo sull’orlo del collasso e l’idea che possa rimanere confinato in quell’angolino di Medio Oriente dimenticato da Dio è una pia illusione di queste élite putrescenti. Porteremo lo spirito dell’eroica resistenza palestinese in ogni angolo del pianeta; per farlo, però, abbiamo prima di tutto bisogno di combattere il lavaggio del cervello della propaganda e di un media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Mieli

OttolinaTV

24 Aprile 2024

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