Skip to main content

Tag: apartheid

Biden sotto assedio per il sostegno al genocidio fa arrestare i rampolli ribelli delle oligarchie

Mentre Israele doveva affrontare l’accusa di genocidio da parte della Corte Internazionale di Giustizia che imponeva lo stop immediato di tutte le violazioni dei diritti umani fondamentali e mentre consolidava il suo status di Stato canaglia contravvenendo alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – approvata da tutti con la sola astensione degli USA – che imponeva l’immediato cessate il fuoco, il mondo libero nella sua quasi totalità (e con un ruolo di primo piano dall’Italia) si macchiava di palese complicità nei confronti dello sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi non solo continuando a fornire assistenza militare, ma partecipando attivamente al piano di sterminio per carestia escogitato dal regime suprematista di Tel Aviv. Dopo il fiume di fake news sulle decapitazioni di bambini e gli stupri di massa di Hamas, diffuse a man bassa dall’ufficio propaganda del regime genocida sionista e immediatamente riportate come verità assolute da tutti i nostri leader politici e dai pennivendoli che combattono le bufale dei complottisti sul web, tutti i governi occidentali (con pochissime eccezioni) e con Giorgia la madrecristiana e il suo entourage di postfascisti in primissima fila, avevano provato a giustificare la strategia della carestia con la madre di tutte le bufale: l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi – l’unica in grado di alleviare, in piccolissima parte, le sofferenze atroci della popolazione della striscia – altro non sarebbe che una specie di sezione sotto copertura di Hamas e del terrorismo fondamentalista islamico in genere; una scelta di una gravità incalcolabile che non solo trasforma in modo pericolosissimo il nostro paese in un complice a tutti gli effetti dello sterminio, esponendoci tutti al rischio di ritorsioni di ogni genere, ma che in un futuro prossimo, nel caso sempre meno improbabile che il diritto internazionale, una volta tanto, si dimostri strumento per ottenere giustizia invece che strumento per imporre i doppi standard dell’imperialismo USA, potrebbe valere al nostro paese una condanna per violazione dei diritti umani e complicità nel genocidio.

L’Italia aveva temporaneamente sospeso l’esborso dei finanziamenti a favore dell’agenzia subito dopo l’operazione diluvio di al aqsa per mandare un segnale forte e chiaro che, in quanto facenti parte a pieno titolo del blocco dei paesi liberi e democratici che sostengono l’occupazione illegale e l’apartheid israeliano, non avremmo tollerato nessuna forma di rivolta degli schiavi; la sospensione temporanea era poi diventata stabile a fine gennaio scorso, quando Israele ha provato a fornire a tutti i sostenitori dello sterminio una pezza d’appoggio per giustificare la loro partecipazione attiva al tentativo di sterminio per carestia: gli è bastato comunicare di avere le prove di un coinvolgimento di dodici membri del personale UNRWA nell’attacco di Hamas del 7 ottobre, non di presentarle, eh? Presentare le prove è un onere che tocca ai poveri, agli schiavi e ai popoli inferiori; a noi, civiltà superiori, basta comunicarlo e la fantastica comunità del giardino ordinato si sintonizza. Mentre è in corso uno sterminio, già porsi il problema dell’esistenza o meno di qualche legame tra una decina di dipendenti dell’UNRWA e Hamas, che è la legittima forza politica al governo della striscia – e quindi l’unica, in questo contesto, che più o meno agisce all’interno di un quadro di legittimità giuridica – dal nostro punto di vista è già di per se complicità esplicita con lo sterminio anche perché, come era emerso chiaramente già dal resoconto dei media che avevano avuto accesso al dossier di 6 pagine presentato dalla propaganda israeliana, il rapporto presentava, appunto, una lunga serie di accuse strappate a suon di tortura ad alcuni prigionieri arrestati durante l’operazione diluvio di al aqsa, ma, come ricorda al Jazeera, “senza” appunto “lo straccio di una prova”.
Ciononostante, nel tentativo disperato di provare a continuare a sottrarre qualche bambino palestinese allo sterminio, ONU e UNRWA hanno fatto un bagno di realpolitik e hanno cercato un compromesso: senza nemmeno il cenno di un’indagine interna, l’UNRWA ha licenziato in blocco i 12 funzionari accusati da colleghi sottoposti a tortura dalle forze illegali di occupazione e l’ONU ha deciso di avviare un’indagine interna; a coordinarla, Catherine Colonna, ex ministro degli esteri francese oltreché ex ambasciatrice francese in Italia. Di sicuro, da brava conservatrice francese cresciuta sulle ginocchia di Chirac prima e di De Villepin poi, non esattamente una paladina delle lotte di liberazione dei popoli arabi e, tutto sommato, manco dell’Islam in generale – a parte, ovviamente, quando può essere strumentalizzato in chiave anticinese: la Colonna, infatti, 2 anni fa polemizzò aspramente con Pechino quando sui media occidentali, come campagna di pressione diplomatica e psicologica nei confronti di una Cina che stavamo tentando di convincere a non offrire sostegno alla Russia di Putin, riapparve magicamente la solita vecchia vaccata del genocidio degli uiguri in Xinjiang.
Ciononostante, l’esito dell’indagine sull’UNRWA è piuttosto chiaro: come riassume al Jazeera, il rapporto “chiarisce che Israele non ha sostenuto le sue affermazioni sul personale dell’UNRWA appartenente né all’ala militare di Hamas né alla Jihad islamica palestinese”; l’UNRWA inoltre, continua il rapporto, ha sempre fornito regolarmente a Israele gli elenchi dei suoi dipendenti da sottoporre a controlli e il governo israeliano non ha informato l’UNRWA di alcuna preoccupazione relativa a qualsiasi membro del personale dell’UNRWA sulla base di questi elenchi del personale dal 2011”. Insieme al report della Colonna, il Nordic Research Group ne ha pubblicato un altro, sempre frutto della stessa indagine, dove sottolinea come “Le autorità israeliane fino ad oggi non hanno fornito alcuna prova a sostegno né hanno risposto alle lettere dell’UNRWA di marzo e di aprile, dove si richiedevano nomi e prove a sostegno delle accuse, che avrebbero consentito all’UNRWA di avviare un’indagine”.
Dopo le accuse totalmente infondate e pretestuose del regime genocida israeliano, 18 paesi avevano sospeso gli aiuti all’UNRWA; nel tempo, però, la stragrande maggioranza, anche grazie alle mobilitazioni popolari, hanno fatto retromarcia e hanno annullato la sospensione, spesso addirittura aumentando il budget. A parte 6 paesi, tutti e 6 colpevoli, in passato, di stermini di massa e pulizie etniche su grande scala, dalla Gran Bretagna agli USA, passando per l’Austria e la Germania, per finire con la nostra amata Italia; insomma: giustamente vogliamo preservare le care vecchie tradizioni. Come ha dichiarato la direttrice comunicazione dell’UNRWA Juliette Touma, “Non vi fate ingannare: la fame viene utilizzata come arma”: secondo la scala dell’Integrated food security phase classification, 210 mila persone nel nord della striscia stanno già vivendo una carestia; la parte sud, invece, è classificata come “emergenza alimentare” che dovrebbe trasformarsi in vera e propria carestia entro l’inizio dell’estate. “Non ho mai visto un’area raggiungere questi livelli così rapidamente” avrebbe dichiarato la Touma ad al Jazeera: “Nello Yemen ci sono voluti anni prima di arrivare a questo livello. A Gaza sono bastati tre mesi. Gaza è sotto assedio”.
Il ricorso allo strumento della carestia come arma di distruzione di massa è anche il risultato dell’assoluta incapacità di perseguire gli obiettivi militari sul terreno; l’ultima indicazione su come allo sterminio indiscriminato di civili inermi non sia corrisposta nessuna vittoria strategica arriva dalle ennesime dimissioni eccellenti: questa volta, a tirare i remi in barca è Aharon Haleva, il capo dell’intelligence militare israeliana. Responsabile in prima persona della macchina per il controllo totale dei dannati di Gaza – che fino al 7 ottobre scorso pensavamo essere impenetrabile, per poi vederla crollare magicamente come un castello di carte – Haleva era rimasto al suo posto per dare il suo contributo personale alla vendetta contro i bambini palestinesi; dopo 6 mesi di fallimenti, finalmente ha deciso di prendere atto della realtà, anche perché ultimamente ha collezionato il fallimento più grande di tutti: come ricorda la testata antimperialista libanese al Akhbar, infatti, “Com’è noto, l’intelligence militare aveva raggiunto una valutazione secondo cui l’Iran era scoraggiato e non avrebbe risposto all’attacco al consolato, e che il massimo che poteva fare era indirizzare i suoi alleati nella regione a rispondere”. Ne è seguito il più grande disastro strategico per Israele dai tempi dello Yom Kippur, con l’Iran che è riuscito a imporre uno spostamento radicale negli equilibri di deterrenza della regione senza precedenti; dopo aver collezionato due disastri epocali come l’operazione diluvio di al aqsa prima e quella true promise poi, le dimissioni – effettivamente – sono proprio il minimo sindacale, ma ovviamente si tratta solo di capri espiatori per consentire di mantenere in carica il capo stragista che, ormai, non ha il sostegno nemmeno dei parenti più stretti.
Come i giornalisti del New York Times, che dopo 7 mesi di sostegno allo sterminio sono costretti ad ammettere che “i tunnel permetteranno ad Hamas di sopravvivere e di ricostituirsi una volta che i combattimenti a Gaza finiranno”, che “Hamas probabilmente rimarrà una forza a Gaza” e che “Hamas e altre organizzazioni armate hanno ancora molte forza sopra e sotto terra”; facendo la tara della guerra linguistica condotta dal Times per coprire le atrocità del genocidio di fronte all’opinione pubblica, queste citazioni potrebbero significare una cosa sola: Israele ha perso la guerra e mo’ so cazzi. Che il Times, oltre a diffondere fake news sugli stupri, manipolasse la sua comunicazione per legittimare lo sterminio era cosa nota già da tempo: The Intercept aveva già sottolineato come “Al 24 novembre, il New York Times avesse descritto le morti israeliane come un massacro in 53 occasioni, mentre quelle palestinesi una sola volta. Il rapporto nell’uso del termine macellazione, invece, era di 22 a 1”. La prova provata che questa sproporzione fosse dovuta a delle direttive impartite dall’alto (e non, semplicemente, alle tendenze suprematiste congenite a quel concentrato di progressismo ZTL che è la redazione del Times), però, mancava; fino alla scorsa settimana, quando sempre The Intercept è entrato in possesso di un promemoria interno distribuito ai giornalisti: nel promemoria, scrive The Intercept, si danno “istruzioni ai giornalisti che si occupano della guerra di Israele nella Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini genocidio e pulizia etnica e di evitare di usare l’espressione territorio occupato nel descrivere la terra palestinese”.
Per quanto faccia ribrezzo, non mi stupisce per niente: in 20 anni di Report ho dovuto fare mille compromessi e, ovviamente, mantenermi sempre all’interno della finestra di Overton del politically correct, ma in un solo caso ho subìto una vera e propria forma di censura e quel caso – guarda un po’ – ha proprio a vedere con il regime sionista: per descrivere l’attività dei miei amici del Comitato israeliano contro la demolizione illegale delle case palestinesi, mi azzardai a definire Gerusalemme Est occupata; non che fosse chissà quale licenza poetica. Era definita così da decenni in decine e decine di risoluzioni delle Nazioni Unite che però, evidentemente, il mio capo non aveva letto attentamente: “E’ più complicato di così” mi venne detto; la parola occupazione doveva sparire. Era divisiva, come il 25 aprile e la liberazione.
La potenza di fuoco della propaganda e della censura sionista è veramente sbalorditiva e si poggia su parecchie gambe: l’incredibile concentrazione di cittadini israeliani ai piani alti dei monopoli finanziari dell’impero, che si traducono in una delle lobby più potenti del pianeta, senza la quale è impossibile ambire al trono del centro imperialistico; il ruolo vitale che Israele, come avamposto nel Medio Oriente, ha giocato fino ad oggi nella strategia imperialista; e l’incredibile potenza del ricorso ai sensi di colpa dell’Occidente collettivo per l’olocausto, che viene facilmente e sapientemente utilizzato per delegittimare l’opposizione al genocidio che stanno compiendo di fronte ai nostri occhi. Come sostiene lo storico statunitense Norman Finkelstein – erede di una famiglia ebraica che ha sperimentato i valori comuni del giardino ordinato prima nel ghetto di Varsavia e poi ad Auschwitz – l’utilizzo strumentale di quella che lui chiama l’industria dell’olocausto per minimizzare (se non, addirittura, giustificare del tutto) il primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità, è forse l’aberrazione più atroce possibile concepibile; ciononostante, calzando a pennello con gli interessi dell’imperialismo, continua ad essere un’arma potentissima che viene brandita senza ritegno.
L’ultimo incredibile esempio arriva dagli USA: La polizia di New York arresta i manifestanti della New York University mentre aumentano le tensioni nei campus statunitensi titolava ieri il Financial Times: “Preoccupazioni anche a Yale, mentre la Columbia passa alle lezioni online in mezzo al furore per le proteste di Gaza”; la polizia, riporta l’articolo, “ha arrestato dozzine di manifestanti filo -palestinesi alla New York University di Manhattan, mentre le autorità intensificavano gli sforzi per reprimere le proteste studentesche”. La retata contro gli studenti della New York University è arrivata poche ore dopo l’annuncio da parte della Columbia University, sempre di New York, che sarebbe passata alle lezioni online “nel tentativo di disinnescare le proteste nel campus del college della Ivy League”, proteste che venerdì scorso avevano portato all’arresto di oltre 100 studenti “nel primo intervento del genere da più di tre decenni”. Lunedì, invece, la polizia aveva arrestato altri studenti nel campus dell’università di Yale e, in entrambi i casi, l’arresto è il male minore: sia la Columbia che Yale hanno annunciato che tutti gli studenti coinvolti verranno sospesi; come sappiamo benissimo noi che siamo cresciuti con filmetti propagandistici come L’attimo fuggente, ovviamente non saranno sospesi tutti: solo quelli che nella Ivy League ci sono entrati per particolari meriti e con le borse di studio. Per i rampolli delle famiglie di oligarchi che ogni anno sommergono questi centri di produzione dell’ideologia imperialista con miliardi e miliardi di donazioni, una soluzione si troverà, ma lo strumento disciplinare è straordinario: i rampolli delle oligarchie impareranno che opporsi a un genocidio non è compatibile con il loro status e quelli intelligenti e cazzuti davvero, che sono lì per merito, impareranno che, sei vuoi perseguire il sogno americano, le priorità strategiche dell’imperialismo vanno rispettate.
Esattamente come i nostri studenti nell’estrema periferia dell’impero, anche nella Ivy League la mobilitazione era volta a chiedere alle università – che gestiscono asset per decine e decine di miliardi e sono veri e propri colossi della finanza globale – di smettere di finanziare direttamente aziende israeliane e anche le collaborazioni accademiche con le università israeliane che, grazie a questi contributi finanziari, sono in grado di fornire all’IDF sempre nuove soluzioni all’avanguardia per proteggere l’apartheid e sterminare i bambini palestinesi con metodi sempre più innovativi e creativi, che poi esportano in tutto il mondo; come l’ormai famosissimo sistema Lavander, il sistema che utilizza l’intelligenza artificiale per individuare tutti i sospetti fiancheggiatori delle milizie armate palestinesi e dà agli operatori 20 secondi per scegliere se colpire il bersaglio – a prescindere che questo comporti o meno l’assassinio di decine di civili, in particolare donne e bambini, nelle immediate vicinanze.

Mathilde Panot

Nel frattempo, in Francia, un’altra persona veniva convocata nell’ambito di una delle tante inchieste, aperte un po’ random dalla magistratura dal 7 ottobre in poi, per apologia del terrorismo, un termine tecnico che include qualsiasi forma di solidarietà nei confronti della resistenza palestinese; il problema è che, a questo giro, hanno mirato un po’ altino: ad essere convocata, infatti, è stata Mathilde Panot, la presidente del gruppo parlamentare della France Insoumise di Melenchon. Ed ecco così che il declino dell’imperialismo, che nello stallo strategico in cui s’è infilato il regime genocida di Tel Aviv ha uno degli esempi più eclatanti e devastanti, si porta finalmente via un altro dei principi fondamentali delle democrazie liberali: la libertà dei rappresentanti del popolo di esprimere un giudizio politico, quale che sia, tutelato con ogni mezzo necessario da ogni costituzione democratica; ma come l’imperialismo più diventa feroce e spregiudicato, più accelera il suo declino e rafforza i suoi avversari (sia in termini economici che in termini geopolitici e militari), così, anche dal punto di vista ideologico, più alza l’asticella della sua repressione, più alimenta il fuoco della ribellione. Dopo le retate nelle università USA, sempre più studenti hanno deciso di accamparsi con le tende davanti agli ingressi principali non solo di Yale e della Columbia, ma anche di Berkley, dell’Università del Michigan e altro ancora.
Il genocidio di Gaza è uno dei colpi di coda dell’imperialismo sull’orlo del collasso e l’idea che possa rimanere confinato in quell’angolino di Medio Oriente dimenticato da Dio è una pia illusione di queste élite putrescenti. Porteremo lo spirito dell’eroica resistenza palestinese in ogni angolo del pianeta; per farlo, però, abbiamo prima di tutto bisogno di combattere il lavaggio del cervello della propaganda e di un media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Paolo Mieli

LA STORICA SENTENZA CONTRO ISRAELE: se il SudAfrica sconfigge per le seconda volta l’Apartheid

Una giornata storica.
Lo scorso venerdì i giudici del tribunale della Corte Internazionale di Giustizia hanno deciso di respingere la richiesta di archiviazione di Israele rispetto all’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica, hanno riconosciuto la plausibilità che alcuni atti commessi da Israele in questi mesi violino la convenzione ONU sul genocidio e hanno ritenuto che vi sia sufficiente urgenza per ordinare misure provvisorie contro Israele. Contrariamente alle richiese del Sudafrica, purtroppo, non si fa riferimento ad un cessate il fuoco a Gaza, ma viene comunque ordinato a Tel Aviv di “prendere tutte le misure per prevenire qualunque atto di genocidio”. Non solo. La presidente della Corte Donoghue ha inoltre fatto richiesta a Tel Aviv di riferire alla Corte entro un mese e ha affermato che dovranno essere adottate misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e l’assistenza umanitaria necessaria ai palestinesi della Striscia.

Triestino Mariniello

È impossibile minimizzare la portata politica di questa presa di posizione, che ridà speranza a milioni di palestinesi di vedere finalmente riconosciute e condannate le atroci violenze che il governo israeliano sta compiendo non solo in questi giorni, ma in tutti questi anni, e che ridà dignità ad una Corte sulla carta imparziale ma che, negli scorsi decenni, era sembrata solo l’ennesimo strumento nelle mani delle mire egemoniche occidentali. “A mia memoria mai uno strumento del diritto internazionale ha avuto tanto sostegno e popolarità” ha dichiarato Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool; “Quello che sta succedendo all’Aja” ha continuato “ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. Ma oltre al profondo significato simbolico e politico, questa decisione storica potrebbe avere anche delle conseguenze immediate sulla vita dei palestinesi, perché se è vero che il processo vero e proprio comincia soltanto adesso e che per il verdetto finale ci vorranno forse anni, il tribunale – intimando al governo israeliano di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire atti genocidiari – esercita una pressione politica tale su Tel Aviv che, probabilmente, lo indurrà a cambiare il suo modo di condurre la guerra. Adesso la palla passerà, con ogni probabilità, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e vedremo se gli Stati Uniti perderanno definitivamente la faccia mettendosi di traverso alle decisioni della Corte. In ogni caso, potremo pensare a venerdì 26 gennaio 2024 come a un giorno di parziale vittoria – forse il primo di tanti – nella storia della resistenza e dell’indipendenza nazionale del popolo palestinese. In questa puntata vedremo le reazioni di Israele a questa decisione della Corte, analizzeremo nel dettaglio l’impianto accusatorio del Sudafrica e quello della difesa israeliana e, infine, parleremo anche di un altro filone processuale che potrebbe aprirsi – questa volta alla Corte di Giustizia Penale Internazionale – alla quale Messico e Cile hanno fatto richiesta di indagare sugli esponenti del governo Israeliano per genocidio e crimini contro l’umanità.
Il termine genocidio è stato coniato dopo la seconda guerra mondiale dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin; la sua campagna per il riconoscimento di questo crimine nel diritto internazionale portò all’adozione della Convenzione ONU sul genocidio nel dicembre del 1948. Lo scorso dicembre il Sudafrica ha accusato il governo di Netanyahu di fronte alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja di aver violato l’articolo 2 di questa convenzione, ossia di avere commesso atti con l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale e, cioè, i palestinesi di Gaza: “Come popolo che ha assaggiato i frutti amari dell’espropriazione, della discriminazione, del razzismo e della violenza sponsorizzata dallo Stato, siamo chiari sul fatto che staremo dalla parte giusta della storia”, ha detto il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa. Data l’urgenza e la gravità della situazione, il Sudafrica aveva chiesto alla Corte, in attesa del processo, di adottare alcune misure cautelari che, come abbiamo visto, ad esclusione dell’immediato cessate il fuoco sono state in gran parte accolte: le reazioni non si sono fatte attendere: il Sudafrica ha esultato parlando di una riaffermazione dello stato di diritto, e persino l’Unione Europea ha chiesto che le misure vengano rispettate. Netanyahu ha invece definito “oltraggioso” il comportamento della Corte e il suo il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir ha definito, tanto per cambiare, i giudici dell’Aja antisemiti, affermando che le loro decisioni “dimostrano ciò che era noto da tempo: il tribunale non cerca la giustizia ma solo di perseguitare il popolo ebraico”. Non essendoci possibilità di appello, sta allo Stato ebraico decidere se rispettare queste misure; nel caso, però, che non si attenga alla sentenza, spetterà al Consiglio di Sicurezza dell’ONU decidere se intervenire affinché Israele applichi effettivamente la decisione della Corte: a quel punto, data per scontata l’adesione degli altri membri del Consiglio alle decisioni del tribunale, bisognerà vedere cosa decide di fare Washington. Sì: avete capito bene. Non sarebbe la prima volta che gli Stati Uniti si avvalgono del proprio diritto di veto al Consiglio di Sicurezza per proteggere Israele, ma sarebbe comunque la prima volta in assoluto che lo eserciterebbero contro una decisione precedentemente presa dalla Corte Internazionale di Giustizia. Staremo a vedere.
Per quanto riguarda il prosieguo del processo, per l’accusa l’elemento più difficile da provare sarà il cosiddetto intento speciale, e cioè l’effettiva volontà di voler distruggere del tutto o in parte i palestinesi di Gaza in quanto tali, ossia in quanto palestinesi e in quanto abitanti di Gaza: “È l’elemento più difficile da provare, ma credo che il Sudafrica in questo sia riuscito in maniera solida e convincente.” ha dichiarato il giurista internazionale Mariniello in un’intervista rilasciata alla testata Altraeconomia. La prova di questa intenzione sarebbero gli omicidi di massa, le gravi lesioni fisiche e mentali e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere i palestinesi, come l’evacuazione forzata di circa due milioni persone, la distruzione di quasi tutto il sistema sanitario della Striscia e l’assedio totale dall’inizio della guerra con la privazione di beni essenziali per la sopravvivenza come acqua, viveri ed elettricità. Nella memoria di 84 pagine presentata dal Sudafrica vi sono anche le innumerevoli dichiarazioni esplicite dei leader politici e militari israeliani che proverebbero tale intento, come quella di Netanyahu che, all’inizio delle operazioni, ha invocato la citazione biblica di Amalek che, sostanzialmente, significa “Uccidete tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli animali”, o la dichiarazione del ministro della difesa Yoav Gallant che ha dichiarato che a Gaza sono tutti animali umani e che l’esercito israeliano avrebbe agito di conseguenza: “Queste sono classiche dichiarazioni deumanizzanti, e la deumanizzazione è un passaggio caratterizzante tutti i genocidi che abbiamo visto nella storia dell’umanità” afferma Mariniello.

Israel Katz

L’impianto difensivo di Israele si basa, invece, su tre punti fondamentali: il fatto che quello di cui lo si accusa è stato in verità eseguito da Hamas il 7 ottobre; il concetto di autodifesa, cioè che quanto fatto a Gaza è avvenuto in risposta a tale attacco e, infine, che sono state adottate una serie di precauzioni per limitare l’impatto delle ostilità sulla popolazione civile. ”Non vi è alcuna base per le affermazioni del Sudafrica contro Israele. Anzi. Non è stata presentata alcuna prova a riguardo, solo l’evidenza di una guerra difensiva” aveva dichiarato il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz al termine delle arringhe del team di difesa all’Aja, ma questa narrativa – che è anche la narrativa dominante nei media e nei palazzi del potere del nostro paese – secondo la quale Israele si starebbe semplicemente difendendo contro un attacco da parte di un’organizzazione terroristica, oltre che politicamente insensata per chiunque abbia un minimo di buon senso, appare anche giuridicamente molto debole in quanto presuppone di ignorare completamente la storia e il contesto dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi: “Esiste sempre un contesto per il diritto penale internazionale e l’autodifesa, per uno Stato occupante, non può essere invocata” chiarisce Mariniello; Israele, insomma, per appellarsi all’autodifesa dovrebbe completamente cancellare la propria storia di potenza colonizzatrice – più volte denunciata da decine di Stati e organizzazioni internazionali – e il suo status giuridico di potenza occupante. Dovrebbe, insomma, provare che le 500 pagine scritte da Human Rights Watch e Amnesty International che descrivevano dettagliatamente il sistema di apartheid sui palestinesi e pubblicate due anni prima dell’attacco del 7 ottobre, non esistono, e dovrebbe provare anche che non esistono le decine di risoluzioni ONU che ne hanno condannato, in questi anni, il comportamento a Gaza e in Cisgiordania.
Come scrive Francesca Albanese nel suo ultimo libro J’Accuse, anche il processo di deumanizzazione dei palestinesi – supporto retorico e ideologico alla loro eliminazione – non è certo un fatto nuovo, ma va avanti ormai da decenni: “Questa definizione di animali umani” scrive “in realtà, è il prodotto ultimo di un processo di disumanizzazione del quale il popolo palestinese è vittima da tempo. I sostenitori di Israele hanno elaborato narrazioni che ritraggono i palestinesi come una minaccia esistenziale per il popolo ebraico e le rivendicazioni palestinesi per il riconoscimento dei propri diritti individuali e collettivi, sanciti da trattati internazionali universali e da centinaia di specifiche risoluzioni dell’ONU sulla questione israelo – palestinese, come una sfida diretta alla vita stessa di Israele.”; “Come spiegano gli studiosi Neve Gordon e Nicola Perugini” continua Albanese “Israele giustifica l’uso della forza contro i palestinesi, compresi i bambini, presentando l’intero collettivo palestinese come una minaccia intrinsecamente terroristica.” In ogni caso, il Sudafrica ha anche chiarito – se mai ce ne fosse stato bisogno – che anche in caso di autodifesa è comunque legalmente e moralmente vietato commettere un genocidio. Insomma: la reazione generale degli studiosi di diritto è stata critica verso la performance giuridica degli avvocati israeliani: “Il team israeliano ha mostrato debolezza giuridica” ha detto Mariniello; “si è concentrato su narrazioni politiche perché la posizione giuridica è indifendibile. ”Anche l’altro elemento sottolineato dal team israeliano riguardo le misure messe in atto per ridurre l’impatto sui civili, è sembrato più retorico che altro: il numero esorbitante di vittime civili, comprese donne e bambini – più di 25 mila in poco più 110 giorni di guerra – smentisce infatti in modo plateale tali dichiarazioni.
Nel frattempo, altri Stati stanno decidendo di costituirsi a sostegno di una o dell’altra parte: la Germania, ad esempio, che pure dovrebbe essere una dei massimi esperti di genocidio ma che ha, evidentemente, un incredibile fiuto per schierarsi sempre dalla parte sbagliata della storia, ha detto che sosterrà Israele; il Brasile, i paesi della Lega Araba, molti stati sudamericani (ma non solo) si stanno invece schierando con il Sudafrica. L’Italia non appoggerà formalmente Israele; la Francia rimarrà neutrale. Si può dire che i paesi del Global South stanno costringendo quelli del Nord globale a verificare la credibilità del diritto internazionale: vale per tutti o è un diritto à la carte? Ma i guai per Israele non sembrano finire qui: Cile e Messico hanno infatti chiesto alla Corte Penale Internazionale, che si occupa invece delle responsabilità penali individuali, di indagare sui crimini commessi dagli esponenti del governo e dell’esercito israeliano in questi mesi di guerra; in una dichiarazione rilasciata il 18 gennaio, Messico e Cile hanno dichiarato che il loro deferimento alla Corte era “dovuto alla crescente preoccupazione per l’ultima escalation di violenza, in particolare contro obiettivi civili, e la presunta continua commissione di crimini sotto la giurisdizione della Corte”.
Il deferimento presentato da Cile e Messico fa seguito a quello di Bolivia, Sudafrica, Gibuti e Comore che, a novembre, si erano rivolti alla Corte chiedendo al procuratore capo Karim Khan di indagare sulla commissione di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio in Palestina: anche prima degli attacchi in corso su Gaza, iniziati il 7 ottobre, le organizzazioni palestinesi per i diritti umani avevano ripetutamente invitato Khan a rilasciare dichiarazioni preventive “per scoraggiare la commissione di ulteriori crimini” da parte dell’Occupazione; queste richieste, insieme a quelle per accelerare le indagini, sono però state ignorate. Vedremo nelle prossime settimane come evolveranno queste indagini; quello che è sicuro è che dopo 3 decenni di sostegno incondizionato da parte di tutto l’Occidente collettivo e delle istituzioni internazionali all’apartheid israeliano, qualcosa si è irreversibilmente cominciato ad incrinare e che questo è stato reso possibile dalla determinazione di un paese – e una classe dirigente – che la battaglia contro l’apartheid l’ha vissuta direttamente sulla sua pelle vincendola già una volta. Il XXI secolo passerà alla storia come il secolo della Grande Decolonizzazione, quando finalmente le masse sterminate del Sud globale misero definitivamente fine al dominio di una piccola minoranza sul resto del mondo attraverso il ricorso sistematico alla violenza; abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte giusta della storia. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Benjamin Netanyahu

La controffensiva palestinese: come Hamas ha asfaltato il mito dell’invincibilità di Israele

Contessa sapesse, gli schiavi hanno osato addivittuva vibellavsi
Questa, in estrema sintesi, la reazione dei media occidentali ai fatti di Gaza di sabato scorso; di tutti, all’unisono, a partire da quelli che negli ultimi due anni hanno provato a infinocchiare la maggioranza silenziosa pacifista e democratica sollevando qua e là qualche critica alla guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina.

Gli amici della sinistra distruggono Israele”, titolava ieri ad esempio la Verità; “ci siamo svenati per Kiev, ora che faremo con l’unica democrazia dell’area?”

La realtà ovviamente è che destra e sinistra, che ormai sono solo etichette che svolgono una funzione di puro marketing per spartirsi il mercato elettorale, fanno finta di dividersi sulle cazzate, ma tutte insieme appassionatamente sostengono senza se e senza ma un regime di apartheid fondato sull’occupazione militare e la discriminazione su base etnica, e lo fanno a partire dall’assunto condiviso che la comunità umana è divisa in due categorie: gli uomini liberi, e i sub-umani, gli unter-mensch, come li definivano i nazisti. La differenza, rispetto ad allora, consiste nella definizione di chi appartiene all’una o all’altra categoria e nella retorica ideologica con la quale si cerca di legittimare ogni forma di violenza e sopruso: dalla pagliacciata antiscientifica della teoria della razza, alla pagliacciata della retorica democratica.

Da questo punto di vista il suprematismo bipartisan contemporaneo altro non è che una nuova declinazione del nazifascismo che, nel frattempo, ha preso qualche lezione di galateo e che ha incluso tra le sue fila una nuova piccola minoranza che prima era stata esclusa.

Son progressi.

Anche nelle modalità attraverso le quali si esercita questo dominio violento degli umani sui subumani non si possono non registrare alcuni importanti progressi: ai vecchi campi di concentramento, organizzati scientificamente per lo sterminio senza se e senza ma, si è sostituita una forma moderna di campi di concentramento democratici e progressisti, dove i reclusi sono lasciati liberi anche di sopravvivere. Se ci riescono: in un’area che è circa un quarto di quella del solo comune di Roma, nella striscia di Gaza oltre 3 milioni di persone vivono recluse per la stragrande maggioranza con meno di due dollari al giorno di reddito. La mistificazione della realtà però in queste ore ha raggiunto un nuovo livello: “Ai residenti di Gaza dico”, ha scritto Netanyahu su twitter, “andatevene adesso, perché opereremo con la forza ovunque”.

Eh, è ‘na parola; come in ogni buon campo di concentramento che si rispetti, infatti, i residenti di Gaza sono a tutti gli effetti prigionieri, e “andarsene”, molto banalmente, non gli è concesso.

Come denuncia da mesi Save the children, manco per andarsi a curare.

E non dico in Israele: manco negli altri territori palestinesi, manco se sono bambini, manco se rischiano la vita. “Nel solo mese di maggio”, si legge in un comunicato della pericolosa organizzazione bolscevica Save the children pubblicato lo scorso settembre, “quasi 100 richieste per bambini ammalati presentate alle autorità israeliane sono state respinte o lasciate senza risposta”. Tre sono morti solo quel mese. “Tra questi, un bambino di 19 mesi con un difetto cardiaco congenito e un ragazzo di 16 anni affetto da leucemia”.

La Verità, Repubblica e Pina Picierno del PD però c’avevano judo e si sono dimenticati di denunciarlo

Adesso, si rifanno con gli interessi: “L’Europa è con Israele e il suo popolo”, ha affermato la vicepresidente piddina del parlamento europeo. “La sua lezione di libertà e progresso”, ha sottolineato con enfasi, “non sarà spenta dalla violenza e dalla barbarie”.

L’apartheid come lezione di libertà e progresso: dopo i neonazisti russi spacciati come partigiani, i nazisti vecchio stile ucraini acclamati come eroi nei parlamenti democratici e l’idea che non bisognava per forza essere nazisti per combattere contro l’Armata rossa durante la seconda guerra mondiale, il capovolgimento totale della realtà ad opera dei sacerdoti di quest’era di post verità può dirsi completamente compiuto. Li lasceremo fare senza battere ciglio?

Lo stato di Israele è fondato su un regime di apartheid. Lo è sempre stato, ma prima lo sostenevamo in pochi, i pochi militanti antimperialisti nell’occidente del pensiero unico suprematista e ovviamente tutti i leader che l’apartheid l’avevano combattuto davvero a casa loro: da Nelson Mandela a Desmond Tutu. Per tutti gli altri, era un tabù.

Oggi, però, non più; dopo decenni di tentennamenti, a chiamare le cose con il loro nome da un paio di anni ci s’è messa pure un’organizzazione umanitaria mainstream come Amnesty International. “L’apartheid israeliano contro i palestinesi”, si intitola un famoso report del febbraio del 2022, “un sistema crudele di dominio, e un crimine contro l’umanità”.

Sempre in prima linea a fare da megafono alle denunce di abusi contro i diritti umani in giro per il mondo per giustificare tentativi di cambi di regimi a suon di bombe umanitarie e svolte reazionarie in ogni paese non perfettamente allineato all’agenda dell’impero USA, pidioti e criptofascisti di ogni genere, quando è uscito questo rapporto, erano curiosamente tutti assenti.

Poco male: anche fossero stati seduti buoni ai primi banchi, non lo avrebbero capito.

Quella che definiscono ossessivamente come “l’unica democrazia del Medio Oriente” infatti, in realtà, è sin dalle sue origini nient’altro che un progetto coloniale, come lo definiva esplicitamente Theodore Herzl stesso, il padre nobile del sionismo, e affonda le sue radici nella pulizia etnica di massa della Nakba nel 1948, che ancora oggi costringe circa 6 milioni di palestinesi a vivere in una miriade di miserabili campi profughi sparsi in tutta la regione.

Nella striscia di Gaza è un apartheid al cubo: più propriamente, infatti, si tratta del più grande carcere a cielo aperto del pianeta, come lo ha definito ormai quasi 15 anni fa lo stesso premier britannico David Cameron.

D’altronde, è una cosa abbastanza visibile: i confini terrestri di Gaza infatti sono interamente ricoperti da una doppia recinzione in filo spinato, con un’area cuscinetto nel mezzo totalmente presidiata da forze armate israeliane che, di tanto in tanto giusto per ammazzare un po’ il tempo, si dilettano nel tiro al bersaglio direttamente oltre il confine. Come quando – come dimostrato da un’indagine condotta da una commissione internazionale indipendente nominata dalle Nazioni Unite – nell’arco di tutto il 2018 presero di mira le proteste note col nome di grande marcia che si svolgevano settimanalmente proprio per chiedere la fine dell’assedio di Gaza: in tutto, ferirono oltre 6000 persone e ne uccisero 183, compresi 35 bambini.

E come sottolinea il sempre ottimo Ben Norton, essendo Gaza a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto, “in base al diritto internazionale, hanno il diritto riconosciuto dalla legge alla resistenza armata”: il riferimento in particolare è una risoluzione dell’ONU del 1977 approvata da una schiacciante maggioranza dei paesi presenti che, proprio relativamente alla causa palestinese, riconosce esplicitamente “la legittimità della lotta popolare per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale e straniera e dalla sottomissione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

La retorica suprematista dei sacerdoti del dominio dell’uomo libero sui subumani oggi non potrebbe apparire più ridicola e infondata. Come per l’Ucraina, pidioti e criptofascisti si accorgono di una guerra sempre e solo quando arriva. Sono gli uomini liberi a subire una sconfitta da parte dei subumani e, a questo giro, la sconfitta è stata eclatante, clamorosa.

Dotato dei servizi segreti più efficienti e spregiudicati del pianeta e di un apparato militare ultramoderno e ipersofisticato, adeguatamente addestrato in oltre settant’anni di feroce occupazione militare e di militarizzazione totale del territorio, l’invincibile gigante israeliano ha subìto una ferita difficilmente rimarginabile da parte degli ultimi tra gli ultimi. Se in Ucraina il suprematismo del nord globale è stato messo davanti alla sua impotenza di fronte alla determinazione di uno stato sovrano, considerato fino ad allora nient’altro che un pigmeo economico pronto a crollare su se stesso da un momento all’altro, in Israele ieri lo choc è stato di un ordine di grandezza superiore, tanto superiore quanto superiore era la sproporzione tra le forze in campo.

Mentre scriviamo questo pippone, il bilancio delle vittime israeliane supererebbe le 650 unità: non ci è possibile verificare le informazioni, ma secondo Ramallah News, mentre gli israeliani parlano di liberazione degli insediamenti conquistati da Hamas, in realtà le forze palestinesi continuerebbero ad avanzare e i territori ad est di Gaza sarebbero soltanto una delle linee del fronte.
Secondo quanto riportato da Colonelcassad, i palestinesi avrebbero bruciato un posto di blocco all’ingresso di Jenin, e in Cisgiordania molti temono possa esplodere finalmente la tanto paventata terza intifada di cui si parla ormai da tempo.
Secondo poi quanto riportato da Middle East Eye, i palestinesi con cittadinanza israeliana si starebbero preparando per respingere gli attacchi annunciati dai gruppi dell’estrema destra sionista.
A nord, al confine col Libano, si intensificano gli scontri con Hezbollah che, secondo quanto riportato da Al Jazeera, rivolgendosi ai ribelli palestinesi avrebbe dichiarato che “la nostra storia, le nostre armi e i nostri missili sono con voi”.
E le ripercussioni del conflitto sarebbero arrivate addirittura fino ad Alessandria di Egitto, dove un agente di polizia avrebbe aperto il fuoco contro due turisti israeliani, uccidendoli.

Il gabinetto politico-militare israeliano ha ufficialmente decretato lo stato di guerra per la prima volta dalla guerra dello Yom Kippur, della quale si celebra proprio in queste ore il cinquantesimo anniversario, e sono in corso evacuazioni sia nell’area che circonda Gaza che a nord, al confine con il Libano.

A confermare che, a questo giro, per il gigante israeliano potrebbe non trattarsi esattamente di una gita di piacere, ci sarebbero poi le dichiarazioni di Blinken, secondo il quale Israele avrebbe richiesto nuovi aiuti militari. Probabilmente quando leggerete questo articolo, sapremo già qualcosa di più su questo aspetto. Qualsiasi siano i dettagli però, un punto è chiaro: la resistenza di un gruppo di militanti che vivono in carcere da 15 anni ha costretto una delle principali potenze militari del pianeta a chiedere aiuto. Non so se è chiaro il concetto.

A complicare ulteriormente la faccenda, la questione degli ostaggi: il Guardian parla di oltre 100
e di qualche nome eccellente
. Un altro elemento inedito e un deterrente importante; abituati a combattere una guerra totalmente asimmetrica, gli israeliani non digeriscono molto facilmente qualche perdita tra le loro fila. L’esempio che salta subito alla mente è quello di Gilad Shalit: carrista israelo-francese, venne rapito da Hamas nel 2006 e 5 anni dopo, pur di ottenere il suo rilascio, il governo israeliano fu costretto a concedere la liberazione di addirittura 1000 prigionieri politici.

Insomma, a questo giro potrebbe non trattarsi semplicemente di un gesto disperato dall’esito scontato compiuto da avventurieri che non hanno niente da perdere, anche perché si inserisce in un contesto globale piuttosto incandescente, diciamo così, dove molto di quello che piace alla propaganda suprematista e che fino a ieri davamo per scontato, scontato comincia a non esserlo poi più di tanto.
Inquadrare dal punto di vista geopolitico quanto successo in questi due giorni al momento potrebbe rivelarsi un po’ ozioso e infondato; limitiamoci per ora quindi a sottolineare alcuni aspetti e a porci qualche domanda.

Il mio primo pensiero, ovviamente, è andato ai sauditi. A nostro modesto avviso, infatti, la riapertura dei canali diplomatici con l’Iran avvenuta sotto la sapiente mediazione cinese, e addirittura l’adesione a un organo multilaterale come i BRICS+, proprio fianco a fianco con l’Iran, è probabilmente il singolo evento geopolitico in assoluto più importante di questo intero anno, la cui portata, però, continua ad essere messa a dura prova dall’apertura che i sauditi sembrano aver fatto ad USA e Israele in direzione della loro adesione al famigerato accordo di Abramo. Che però appunto continua a faticare a concretizzarsi proprio a causa del nodo della questione palestinese.

Tweet del ministero esteri Saudita

Il mio primo pensiero è stato: e se l’obiettivo di Hamas fosse proprio impedire il concretizzarsi di questa fantomatica nuova distensione? Ovviamente la risposta non la sappiamo; questo però è il comunicato ufficiale del ministero degli esteri saudita a poche ore dall’inizio dell’operazione Diluvio di Al-Aqsa.
I sauditi parlano di “situazione inedita tra numerose fazioni palestinesi e le forze di occupazione israeliane”, quindi, da una parte numerose fazioni e dall’altra forze di occupazione.
Sempre i sauditi ricordano “i numerosi avvertimenti di pericolo di esplosione della situazione come risultato dell’occupazione, la negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e le sistematiche provocazioni contro i loro luoghi di culto”.
“Il reame”, conclude il comunicato, “rinnova l’appello alla Comunità Internazionale ad assumersi le sue responsabilità e ad attivare un processo di pace credibile che conduca alla soluzione dei due stati per raggiungere pace e sicurezza per tutta l’area e proteggere i civili”.
Nessuna condanna dell’azione di Hamas. Manco l’ombra. Non so se alla Casa Bianca l’abbiano presa proprio benissimo, diciamo.

L’altro aspetto è appunto la posizione degli USA e di questo strano annuncio sull’estensione degli aiuti militari perché che Israele ne abbia bisogno per combattere la guerriglia di Hamas, o anche di Hezbollah, sembra comunque piuttosto strano. E sopratutto: da dove se li tirerà fuori Biden i quattrini per finanziare un altro pacchetto di aiuti, quando giusto la settimana scorsa ha dovuto rinunciare a 6 miliardi di nuovi aiuti da inviare all’Ucraina?
Qualquadra non cosa, ma è decisamente troppo presto anche solo per speculare su cosa sia esattamente.
Proveremo a farlo in modo più fondato nei prossimi giorni perché è quello che un media indipendente può fare liberamente: osservare, riflettere, riportare.
A quelli a libro paga dell’imperialismo e delle oligarchie finanziarie, diciamo che gli risulta un po’ più complicato e saltano di puttanata suprematista in puttanata suprematista, senza soluzione di continuità, e senza temere contraddizioni e ribaltamenti della realtà.

Aiutaci a costruire un media in grado di rappresentare un’alternativa reale: aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio Belpietro.