Nelle università non si fa più filosofia: quella disciplina che viene chiamata ingiustamente filosofia è solo un’accozzaglia di opinioni e ricostruzione storiografiche utili a rendere “dotti” gli studenti su questioni innocue rispetto alle questioni politiche e ai rapporti di potere esistenti. Al contrario, Marx e gli antichi greci rappresentano ancora oggi i massimi esponenti di una filosofia capace di mettere in discussione il mondo e di indicarci le possibili vie per trasformarlo. Di tutto questo abbiamo parlato con il nostro sempre illuminante Luca Grecchi.
La meritocrazia è un dei più importanti miti sociali del nostro tempo che serve a convincere le persone che se non raggiungono posizioni importanti nella società è solamente colpa loro e a nascondere gli effettivi rapporti di potere nel mondo. Tutti i dati ci dicono che le diseguaglianze economiche si ereditano di padri in figli nella stragrande maggioranza dei casi. Purtroppo, anche a scuola e nell’Università sempre di più questa finta meritocrazia sta diventando il criterio attraverso cui viene strutturata la ricerca e il sapere. Ne parleremo a Fest8lina con Francesco Sylos Labini e Salvatore Cingari venerdì 5 luglio dalle 15 alle 16.
Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare!
Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!
Anche a Firenze gli studenti e il personale scolastico ha deciso di non rimanere in silenzio per quello che sta succedendo a Gaza e dopo settimane di proteste e presìdi hanno deciso di “occupare” Piazza San Marco a Firenze finché le istituzioni non faranno qualcosa di deciso nella direzione dello stop al genocidio.
Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.
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Collegamento live con gli studenti dell’università La Sapienza di Roma per gli ultimi aggiornamenti sulle proteste che li vedono impegnati.
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Oggi il nostro Gabriele intervista Paolo Borioni per parlare delle proteste #ProPal in Europa. Dopo una prima analisi sul caso tedesco e sul più generale funzionamento europeo, il discorso si sposta sulla acampada a La Sapienza di Roma, dove Borioni è insegnante e si confronta quotidianamente con gli studenti. Le proteste a favore della Palestina segnano la riapertura di un dissenso sociale in Italia come non si vedeva da decenni. Il movimento studentesco si allarga e procede per tentativi, cercando di ritrovare la forza di aprire nuovi spazi di democrazia e dialogo. La democrazia diventa quindi scontro-confronto, dialogo tra diversi e momento di crescita sociale e politico in cui le nuove generazioni (rarefatte demograficamente, sfiduciate politicamente e con tante incertezze economiche) cercano la chiave per farsi sentire dalle istituzioni e influenzare i processi decisionali. Buona visione!
#ProPal #acampada #università #NoGenocidio
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La guerra di Israele contro i bambini palestinesi è probabilmente arrivata a una svolta: gli avvenimenti sono in rapida e continua evoluzione e quindi, per gli ultimi aggiornamenti, vi rimandiamo alle live che stiamo preparando sul tema; ma mentre registriamo questo video, un paio di considerazioni intanto possiamo farle. Durante tutta la scorsa settimana, Israele, col sostegno di Washington, ha provato a fregare Hamas: avevano proposto un accordo inaccettabile che, sostanzialmente, sarebbe equivalso a una resa incondizionata, mentre il regime genocida di Tel Aviv, dopo aver riscattato i suoi prigionieri, avrebbe avuto carta bianca per finire di radere al suolo Gaza e mettere così definitivamente fine all’ipotesi di uno Stato palestinese autonomo e sovrano; per convincere Hamas a suicidarsi e portarsi nella bara con se l’intero popolo palestinese, Tel Aviv usava il ricatto dell’invasione di Rafah, ma – a ben vedere – lo giocava malino. Sin da subito infatti, per tenere buone le fazioni più fondamentaliste del governo, Netanyahu è stato costretto ad ammettere che in un modo o nell’altro, o prima o dopo, l’invasione di Rafah sarebbe avvenuta comunque; Hamas, quindi, non aveva nessun motivo di firmare l’accordo trappola. Nel frattempo però, con la mediazione di Egitto e Qatar, si stava lavorando a una riformulazione dell’accordo stesso: questa volta le garanzie erano decisamente più sostanziose; le varie tappe che scandivano lo scambio dei prigionieri avrebbero permesso ad Hamas di verificare, passo dopo passo, che Israele rispettasse i patti e, tra i patti, c’era sin da subito anche il ripristino delle infrastrutture essenziali e – alla fine del percorso – non solo un cessate il fuoco stabile, ma addirittura un’ambiziosa fine totale dell’assedio della Striscia. Insomma: la rivolta degli schiavi del carcere a cielo aperto di Gaza, per quanto tragica, quantomeno avrebbe determinato una riforma del regime carcerario; a queste condizioni, alla fine quindi Hamas ha ceduto. Israele, sostanzialmente, a quanto pare manco è stato coinvolto; come abbiamo detto più volte, a tratti ormai sembra essere universalmente considerato il bimbo scemo e viziato che va trattato con un po’ di tatto perché, nel frattempo, gli abbiamo regalato un’arma automatica bella carica, ma che nel frattempo va tenuto un po’ alla larga dalla stanza dove stanno gli adulti perché non può che fare danni. E infatti i danni, immancabilmente, sono arrivati: poche ore dopo che Hamas aveva pubblicamente dichiarato di accettare l’accordo, Tel Aviv decide di violarlo e di dare un segnale chiaro che è pronta a invadere Rafah; prima con l’intensificarsi degli attacchi aerei e, poi, anche con una piccola incursione via terra che, mentre registriamo questo video, potrebbe essere sia solo l’inizio dell’invasione vera e propria, sia – invece – l’ennesima bizza omicida del bimbo scemo e viziato.
Nel frattempo, la resistenza però non è rimasta a guardare: War Monitor, giusto un’ora fa, ha riportato la notizia (tutta da verificare) di 30 razzi che da Gaza sono partiti alla volta del Consiglio regionale di Eshkol; in precedenza, altri razzi erano usciti da Gaza in direzione Karem Abu Salem. La cosiddetta comunità internazionale pure non ha reagito benissimo alla bravata dei fasciosionisti: Guterres ha intimato a Israele di bloccare immediatamente ogni escalation; anche Borrell ha parlato di una catastrofe umanitaria da evitare a ogni costo e le voci, tutte da confermare, che sostengono che l’amministrazione Biden avrebbe imposto uno stop temporaneo all’esportazione di armi per mandare un segnale politico chiaro si sono continuate a rincorrere. Fatto sta che, al momento di questa registrazione, la situazione sul campo sembra essere in una fase di attesa; nel frattempo, i vertici israeliani sono volati al Cairo per riaprire il dialogo e Kirby, portavoce della Casa Bianca, ha affermato di essere ottimista che l’invasione può essere evitata e un accordo definitivo raggiunto. Insomma: se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno e rimanere cautamente ottimisti, la trappola che Israele aveva teso ad Hamas sembra essere definitivamente fallita e, al suo posto, Tel Aviv si ritroverebbe a dover sottoscrivere un accordo che finalmente, per la prima volta, non le dà carta bianca sul destino del conflitto. Ciononostante, vista più da lontano, per quanto Israele sia in mezzo a un empasse, però, e per quanto non sia mai stato così isolato rispetto alle opinioni pubbliche di tutto il pianeta, il regime genocidario sionista – da un certo punto di vista – ha anche palesemente ottenuto un successo straordinario: tra le forze antipopolari, infatti, il suo sistema fondato sull’apartheid ha cominciato a esercitare una potente egemonia culturale; se fino a qualche anno fa il problema erano gli USA che esportavano il loro modello oligarchico e finto-liberale a suon di bombe, ora siamo al quadro successivo, con Israele che esporta nel mondo il suo modello fondato sull’apartheid a suon di mazzate, di agguati squadristi, di repressione e anche di minacce in stile mafioso. Le istituzioni dell’Occidente collettivo infatti, senza eccezione, è come se avessero adottato all’unisono una sorta di circolare virtuale universale che garantisce la totale impunità dei suprematisti sostenitori del genocidio, qualsiasi atto di aggressione compiano, e che vieta categoricamente ai media di parlarne. Una piccola preview l’avevamo vista un paio di settimane fa; sicuramente vi ricorderete. Era il 25 aprile e un’inviata della RAI era a Roma, dove si stavano confrontando due manifestazioni contrapposte: una di persone normali che, come inevitabile, avevano pensato di omaggiare gli eroi della resistenza italiana manifestando la loro vicinanza alla resistenza palestinese unite dal contrasto a ogni forma di genocidio; e l’altra di persone confuse che, invece, volevano approfittare delle celebrazioni per rivendicare la legittimità dello sterminio dei bambini palestinesi. Piena zeppa di infiltrati fascisti che, tra governo Meloni e sostegno incondizionato dei governi dell’Occidente collettivo a ogni forma di neonazismo in circolazione – dai lettori di Kant del battaglione Azov ai coloni criminali sionisti – stanno vivendo una vera e propria golden age, la seconda manifestazione ha letteralmente aggredito l’altro gruppo; e la povera inviata che, evidentemente, nonostante lavori per un servizio pubblico totalmente appiattito sulla narrazione della propaganda sionista, anche lei aveva le idee un po’ confuse e non aveva interpretato benissimo l’agenda pro – sterminio dei suoi datori di lavoro, aveva riportato l’accaduto parlando, appunto, di aggressione e dallo studio la sua capa, invece di censurare l’aggressione fascista del fan del genocidio, l’ha redarguita sottolineando che non c’era stata nessuna aggressione, come ovviamente lei, dallo studio in mezzo alle luci sparate a palla e le truccatrici, poteva testimoniare direttamente. Ma era solo l’antipasto: il lasciapassare alle aggressioni dei sostenitori del genocidio, infatti, ha assunto dimensioni veramente inedite pochi giorni dopo, sull’altra sponda dell’Atlantico, quando delle squadracce di picchiatori suprematisti hanno aggredito un pacifico accampamento di manifestanti anti – sterminio con tanto di spranghe in mano e maschere sul volto: mentre le squadracce aggredivano i manifestanti con spray al peperoncino, bastoni e anche oggetti esplosivi pirotecnici di ogni tipo, le forze dell’ordine rimanevano in un angolo impassibili. Probabilmente erano un po’ stanchine; d’altronde, da tempo ormai erano impegnati giorno e notte a menare ed arrestare indiscriminatamente centinaia di giovani studenti pacifici per aver osato dubitare della missione purificatrice dei fondamentalisti sionisti: erano così anchilosati che non sono intervenuti neanche quando gli squadristi, davanti ai loro occhi, si sono scagliati in massa su uno studente, l’hanno buttato per terra e l’hanno preso allegramente a calci nella testa tutti assieme (immagino per favorire l’apprendimento delle sacre scritture). Come ha dichiarato su al Jazeera il giornalista investigativo Joey Scott (che ha assistito all’attacco squadrista), temporeggiando, le forze dell’ordine hanno voluto mandare un segnale chiaro alle squadracce che si aggirano per il paese che non rischiano ritorsioni ed anzi sono ben viste perché, così, aiutano l’amministrazione nella sua battaglia di civiltà: combattere l’antisemitismo, che viene tirato in ballo anche quando a protestare sono gli stessi ebrei che, nelle mobilitazioni anti – sterminio degli USA, hanno avuto sin da subito un ruolo di primissimo piano. Negli USA, ormai, sono considerati antisemiti anche ebrei ortodossi come questi che sono stati aggrediti mentre erano tranquilli nella loro auto da questa simpatica signora indemoniata e palesemente alterata che gli è saltata addosso cercando di strappargli la bandiera palestinese e che poi s’è messa pure a minacciare le forze dell’ordine che sono intervenute per separarli, ma che – in base alla circolare sul diritto incondizionato dei sionisti di fare un po’ come cazzo vogliono – l’hanno lasciata andare via serenamente. Questa strumentalizzazione delirante del pericolo antisemita è anche la formula magica che l’amministrazione USA ha cercato di usare per giustificare gli arresti di massa delle ultime settimane, che stanno trasformando la terra della libertà in un regime teocratico filo – sionista, una palese e inquietante involuzione antidemocratica che, pochi giorni fa, è diventata legge grazie all’Antisemitism Awareness Act, approvato dal congresso a larghissima maggioranza; una legge totalmente delirante che impone allo Stato di adeguarsi automaticamente alla definizione di antisemitismo che viene elaborata da un’associazione intergovernativa priva di qualsivoglia legittimità democratica: è la International Holocaust Remembrance Alliance che, ad esempio, considera antisemitismo anche accusare Israele di genocidio o anche genericamente di razzismo. Grazie a questa legge, sostanzialmente si riconosce a una minoranza eletta un diritto che non viene riconosciuto a nessun altro: quello di non essere criticata, a prescindere. E attenzione: non è un diritto che si riconosce agli ebrei, ma è un diritto che si riconosce ai sionisti, quindi non a una minoranza etnica, ma ai sostenitori di una determinata ideologia. In base a questa definizione di antisemitismo, secondo l’amministrazione USA anche la Corte internazionale di giustizia, giusto per fare un esempio, è antisemita e ora rischia di diventarlo anche la Corte penale internazionale che, a differenza della Corte di giustizia – che è comunque un organismo ufficiale dell’ONU e quindi ha sempre avuto un qualche occhio di riguardo anche per il Sud globale – è sempre stata, a ragione, accusata di essere un vero e proprio braccio armato dell’imperialismo e che infatti ha sempre e solo emesso mandati di cattura verso nemici dell’imperialismo – da Putin a Gheddafi – e mai, nemmeno una volta, contro i peggiori criminali che l’agenda imperialista, invece, l’hanno portata avanti a suon di palesi e plateali crimini di guerra.
Ma, evidentemente, è un braccio che comincia a presentare qualche insofferenza nei confronti del cervello impazzito: un paio di settimane fa, infatti, senza che la Corte si sia mai espressa in merito, sui media israeliani è cominciata a circolare l’ipotesi che, a breve, sarebbero arrivati mandati d’arresto internazionali contro figure israeliane di primissimo piano, a partire addirittura proprio da Netanyahu stesso e dal comandante in capo dello sterminio, il ministro della difesa Yoav Gallant; Netanyahu ha reagito subito a questi rumors dichiarando pubblicamente che l’emissione di mandati di arresto equivaleva al tentativo di minare il diritto di Israele all’autodifesa e che questo è inaccettabile perché “costituirebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie”. “Non crediamo che ne abbiano la giurisdizione” ha rincarato subito dopo la portavoce della Casa BiancaKarine Jean-Pierre, annunciando come gli USA non avrebbero mai sostenuto un’indagine da parte dellaCorte; oggi sappiamo che questo alterco era solo la punta dell’iceberg. Lunedì sera, infatti, il buon vecchio Kim Dotcom ha pubblicato sul suo account Xquesta lettera: risale al 24 aprile, è indirizzata al procuratore della Corte penale internazionale dell’Aja ed è accompagnata dalla firma di 12 senatori statunitensi (probabilmente il grado più basso dell’evoluzione umana attualmente presente nella politica internazionale). La prima firma è quella di Tom Cotton, già celebre per questafigura di merda epica di fronte al CEO di TikTok; seguono le firme, tra gli altri, del gotha della destra reazionaria e suprematista del Tea Party, da Ted Cruz a Marco Rubio. Insomma: promette benissimo, ma – ciononostante – il contenuto della lettera è superiore anche alle più rosee aspettative. “Caro signor procuratore” scrivono, “le scriviamo riguardo alla notizia che la Corte penale internazionale starebbe valutando l’ipotesi di emettere un mandato di cattura internazionale nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu e altri ufficiali israeliani”; con un’azione del genere, sottolineano i nostri 12 cavalieri dell’apocalisse, la Corte internazionale “punirebbe Israele per essersi legittimamente difeso contro l’aggressore sostenuto dall’Iran” e questo allineerebbe la Corte “con il principale stato sponsor del terrorismo e il suo proxy”. “Emettere un mandato d’arresto per i leader di Israele” continua la lettera “non sarebbe solo ingiustificato, ma tradirebbe la vostra ipocrisia e i vostri doppi standard” dal momento che “non avete mai emesso un mandato di cattura nei confronti di quel genocida del Segretario Generale della Repubblica Popolare di Cina, Xi Jinping, o di nessun altro funzionario cinese”. Ma il bello deve ancora venire: “Se emetterete un mandato di arresto per la leadership israeliana, lo interpreteremo non solo come una minaccia alla sovranità israeliana, ma anche a quella statunitense”, che è come dire, appunto – come abbiamo sempre sostenuto – che Israele non è altro che un’exclave dell’impero USA incaricata di mantenere l’ordine coloniale in Medio Oriente; e qui, poi, c’è una chicca che, sinceramente, avevo rimosso: “Il nostro paese, con l’American Service-Members’ Protection Act” scrivono “ha dimostrato fin dove siamo disposti ad arrivare per proteggere quella sovranità”. Ma cosa è l’American Service-Members’ Protection Act? Se non lo sapete, non vi preoccupate; anch’io, che quando c’è da dire male di Washington sono sempre in prima linea, l’avevo completamente rimosso, probabilmente perché è un atto così vergognoso e platealmente criminale che la propaganda ha fatto letteralmente di tutto per tenerlo al di fuori del dibattito pubblico: la legge, approvata dal Congresso nel 2002 ai tempi dell’amministrazione Bush jr che si accingeva, nell’ambito della war on terror, a commettere una serie infinita di crimini di guerra, dà al presidente il potere di usare “tutti i mezzi necessari e appropriati per ottenere il rilascio di qualsiasi membro del personale statunitense o alleato detenuto o imprigionato da, per conto o su richiesta della Corte penale internazionale”. Non a caso l’atto è stato soprannominato The Hague Invasion Act – la legge sull’invasione dell’Aja – perché, appunto, incredibilmente dà automaticamente il potere al presidente anche di invadere l’Olanda, se solo questo venisse ritenuto il modo migliore per liberare dalla grinfie della Corte soldati e funzionari USA – come di qualsiasi altro paese ritenuto alleato. Forse ora è chiaro perché la Corte ha sempre e solo perseguito nemici di Washington; un atto talmente folle che quando ancora l’Europa aveva qualche velleità di autonomia, nei primi anni 2000, lo condannò apertamente. Ora i 12 senatori dell’apocalisse lo ritirano in ballo per minacciare esplicitamente la Corte e non si fermano qui; anche nel linguaggio, l’ultimo paragrafo della lettera sembra scritto direttamente da Totò Riina: “Prendete di mira Israele” minacciano “e noi prenderemo di mira voi”. “Se andate avanti con la vostra azione, sanzioneremo tutti i vostri impiegati e tutti i vostri associati, e bandiremo voi e le vostre famiglie dagli Stati Uniti. Siete stati avvisati”. Secondo quanto riportato in questa infografica prodotta da Track Aipac, un’iniziativa indipendente che cerca di ricostruire tutti i finanziamenti della lobby israeliana ai membri del Congresso, i 12 senatori dell’apocalisse, per autoconvincersi dell’opportunità di questa loro iniziativa leggermente sopra le righe, hanno ricevuto nel tempo dall’Aipac circa 6 milioni di buone motivazioni; questo episodio, se l’autenticità del contenuto della lettera venisse confermato ufficialmente (cosa che, in cuor mio, tutto sommato voglio ancora nutrire una minima speranza non accada) ci racconta un paio di cose importanti: la prima è che, se ancora avevamo dei dubbi, l’ordine internazionale fondato sulle regole di cui parlano gli imperialisti occidentali e i loro pennivendoli può essere considerato – dalla struttura al retroterra culturale che traspare anche nel linguaggio – un ordine, a tutti gli effetti, di carattere mafioso dove l’unica regola che, quando serve, vale davvero è sempre e solo quella del sopruso e del ricorso alla violenza fisica e al puro arbitrio. La seconda è che aspettarsi che gli USA, di loro sponte, impediscano davvero a Israele di portare a termine il suo genocidio è totalmente velleitario: sarebbe un po’ come pretendere che un serial killer, di sua sponte, si seghi un braccio per impedire alla sua mano di continuare a premere il grilletto; con questo, però, non voglio dire che lo sterminio totale e definitivo del popolo palestinese sia inevitabile e che, quindi, tanto vale smetterla di logorarsi e tornare agli spritz. Anzi! Voglio, invece, dire proprio che se oggi traspare qualche titubanza è solo ed esclusivamente merito delle forze che, nella società, si stanno opponendo al massacro: dall’asse della resistenza agli altri Stati che sono in conflitto con l’imperialismo, ma, soprattutto, alle masse popolari che si stanno mobilitando sempre di più contro la complicità dei rispettivi governi. La mobilitazione e la lotta contro l’esportazione dell’apartheid, quindi, non sono che all’inizio e per portarle a termine abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece di tappare la bocca ai giornalisti che chiamano aggressione un’aggressione, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Giuseppe Cruciani
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Oggi il nostro Gabriele intervista Alberto Fazolo per il consueto appuntamento del sabato. Si parlerà di proteste nelle università USA, forniture di armi all’Ucraina, guerra economica (sanzioni e nazionalizzazioni), la visita di Xi a Belgrado e trattative per un cessate il fuoco a Gaza. Sullo sfondo il grande cambiamento avvenuto nel mondo negli ultimi venticinque anni; gli USA non sono più lo sceriffo del mondo e devono fare i conti con il suo assetto multipolare e l’ascesa cinese. Buona visione!
#Gaza #proteste #USA #Cina #Ucraina #Biden
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Gabriele Germani si collegherà con gli studenti dell’università La Sapienza di Roma per una rapida panoramica sulle iniziative a sostegno del popolo palestinese.
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Dopo settimane e settimane di pipponi pieni di speranza sulle magnifiche sorti e progressive del nuovo ordine multipolare, l’implosione dell’imperialismo – e, già che ci siamo, pure del lato più feroce e distopico del capitalismo che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni – oggi, invece, è una giornata di lutto; nonostante tutto il nostro wishful thinking e gli sforzi disumani messi in campo dalle diplomazie russe e cinesi, alla fine sembra proprio avesse ragione Matteo Renzi: nei regimi monarchici assolutisti del Golfo spira un vento di rinascimento. E quando un sicario del volto più feroce del capitalismo monopolista finanziario come Renzi parla di rinascimento, per noi e per il 99% può significare una cosa sola: enormi, giganteschi, smisurati cazzi volanti che si insinuano dal buco del culo, risalgono su su lungo tutto l’intestino fino all’esofago e ci sventrano in due. A conclusione della sessione speciale del World Economic Forum che si è tenuta a Riad nei giorni scorsi, infatti, il segretario di stato USA Anthony Blinken e quello Saudita Faisal bin Farhan hanno annunciato all’unisono che i negoziati per un accordo di sicurezza tra i due paesi sarebbero quasi completati e anche se in cosa consisterebbe questo accordo nel dettaglio nessuno ancora lo sa, i pilastri principali sembrano essere piuttosto chiari e non lasciano presagire nulla di buono: in soldoni, riporta la testata della sinistra antimperialista libanese Al Akhbar, si tratterebbe di un obbligo di difesa del regime assolutista dei Saud da parte di Washington, sulla falsariga di quelli in essere con Corea del Sud e Giappone; un primo passo per arrivare in futuro, magari, a un vero e proprio vincolo di mutuo soccorso come quello in vigore tra i paesi che aderiscono alla NATO, ma non solo. L’accordo prevederebbe, infatti, anche la rinuncia da parte saudita di proseguire sulla strada della cooperazione tecnologica con i nemici degli USA e dell’imperialismo, a partire – ovviamente – dalla Cina. I più schierati, come la testata filo iraniana Al Mayadeen, cercano a tutti i costi di vedere il bicchiere mezzo pieno e sottolineano come si tratti in realtà di un “piano B, che esclude Israele”, ma pur con tutta la buona volontà e con tutti i distinguo dal trionfalismo becero della propaganda suprematista al servizio dell’impero, a questo giro a noi sembra ci sia veramente molto poco da festeggiare. Ma prima di provare a capire per bene perché, vi ricordo di mettere un like a questo video perché, che si vinca o che si perda, ora e sempre algoritmo merda e, se non l’avete ancora fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali e di attivare tutte le notifiche (soprattutto oggi, che non abbiamo molto altro da festeggiare). Prima che il 7 ottobre scorso l’operazione diluvio di al aqsa riaprisse la partita, molti analisti occidentali davano per quasi fatta l’adesione definitiva della monarchia assoluta saudita agli accordi di Abramo, il piano architettato dall’amministrazione criptofascista di parrucchino The Donald e, dopo alcuni tentennamenti, fatto proprio dal compagno Rimbambiden che cercava di garantirsi l’egemonia imperialista sul Medio Oriente permettendo, allo stesso tempo, agli USA di disimpegnarsi dalla gestione diretta della sicurezza dell’area: l’idea era quella di consolidare l’alleanza strategica tra l’avamposto sionista dell’imperialismo USA e le fazioni più retrograde e reazionarie dell’area, incarnate dai regimi assolutisti premoderni delle petromonarchie del Golfo, in modo da creare un blocco sufficientemente potente da poter contrastare la lotta sovranista e popolare per la decolonizzazione del Medio Oriente – guidata dall’Iran e dall’asse della resistenza – senza dover necessariamente continuare a ricorrere direttamente a Washington. Grazie alla rivoluzione avviata dal compagno Obama che, a costo di devastare completamente gli Stati Uniti manco fossero la Cina dei primi anni ‘80, ha regalato al suo paese l’autosufficienza energetica a suon di fracking, l’interesse concreto diretto degli USA per le ricchezze del sottosuolo mediorientale, ovviamente, è diminuito sensibilmente; quello che ancora non è diminuito – anzi, semmai è aumentato – è l’obiettivo di impedire che altre aree del mondo escano dalla sfera d’influenza dell’imperialismo e vadano a rafforzare le fila di chi cerca spazi di autonomia strategica e contribuisce alla creazione di un nuovo ordine multipolare, soprattutto se, appunto, si tratta di aree che per la ricchezza di materie prime indispensabili per continuare ad alimentare la crescita (in particolare cinese) hanno un valore strategico così rilevante. Il piano USA, però, era stato ostacolato a più riprese da una lunga serie di avversità: la debacle di USA e alleati che, tramite i loro proxies fondamentalisti, avevano causato la guerra mondiale per procura in Siria, aveva sollevato più di qualche dubbio sulla reale capacità della superpotenza militare a stelle e strisce di garantire la sicurezza agli alleati dell’area, un dubbio che era diventato sempre più concreto mano a mano che si manifestava l’incapacità di arrestare la lotta di liberazione dello Yemen guidata da Ansar Allah. Cosa che, nel tempo, aveva spinto Riad a cercare una qualche forma di distensione, perlomeno temporanea, con l’Iran; una distensione che poi si era evoluta in una vera e propria riapertura ufficiale dei rapporti diplomatici grazie all’intermediazione della Cina che, nel frattempo, è diventata di gran lunga il primo partner commerciale dell’Arabia Saudita, della quale assorbe il grosso del petrolio che agli USA non serve più. Ma non solo; con lo scoppio della fase 2 della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, l’imperialismo ha dato un’ulteriore prova di debolezza: ha intaccato ancora di più il mito dell’invincibilità della macchina bellica USA e ha spinto i sauditi a intensificare le relazioni con i partner impegnati nella costruzione di un nuovo ordine multipolare, fino addirittura ad aderire ufficialmente ai BRICS+.
Inoltre, c’è anche un aspetto sovrastrutturale che ha spinto Riad sempre più verso est; e la sovrastruttura, quando hai a che fare con un paese premoderno che, quindi, assomiglia davvero alla caricatura che fanno gli analfoliberali alla Rampini di paesi complessi come la Cina o la Russia – dove, secondo loro, c’è uno che si sveglia la mattina e prende decisioni a caso a seconda dell’umore – conta parecchio. L’aspetto in questione è la reazione di Biden all’assassinio (con tanto di spezzettamento in pieno stile pulp) del povero Jamal Khashoggi, che ha visto sleepy Joe impegnato nel tentativo di fare contenta la sua base di ipocriti fintoprogressisti e bombaroli dirittumanisti accusando apertamente gli alleati sauditi e raffreddando platealmente i rapporti; ciononostante, l’ombra dell’accordo di Abramo e, quindi, di un ritorno all’ovile del sostegno al progetto neocoloniale dell’impero continuava a incombere: d’altronde, il regime saudita è un regime premoderno e antistorico che può sperare in una sua sopravvivenza nella sua forma attuale soltanto ancorandosi a un progetto più complessivo di repressione generalizzata delle istanze popolari nel Medio Oriente. Inoltre le oligarchie saudite, come quelle dei fratelli coltelli emiratini, anche se ora si stanno un po’ divertendo a giocare con un po’ di investimenti produttivi per differenziare l’economia ed emanciparla gradualmente dalla dipendenza dalle fonti fossili, sono totalmente integrate nel grande schema Ponzi della speculazione finanziaria globale e, quindi, vedono nella sopravvivenza dell’imperialismo finanziario un loro interesse vitale. C’è anche un altro aspetto, poi, da tenere in considerazione, che è di nuovo frutto della guerra per procura in Ucraina, ma che spinge in direzione opposta e, cioè, il fatto che la graduale scomparsa del petrolio russo dall’Europa come conseguenza delle sanzioni apriva un’opportunità straordinaria per Riad per emanciparsi dalla dipendenza da Pechino come principale acquirente, variabile di non poco conto soprattutto dal momento che mentre Pechino la transizione ecologica la sta facendo davvero, l’Europa la fa solo a chiacchiere e, fra pochino, manco più con quelle. Poi, però, è arrivato il 7 ottobre e, soprattutto, il genocidio dei palestinesi del quale, ovviamente, a Bin Salman e alla sua cricca di oligarchi non gliene può fregare di meno; ai popoli del Medio Oriente, però, sì e quindi, per non regalare l’egemonia su tutta l’area all’Iran e all’asse della resistenza, Riad ha dovuto far finta di essere indignata. Certo, non che abbia mosso mezzo dito per contrastare la pulizia etnica, ma, per lo meno, ha dovuto rimandare ogni possibile trattativa con Israele a sterminio completato. Ed ecco che, finalmente, siamo arrivati a oggi: Stati Uniti e Arabia Saudita si avvicinano al patto di difesa inteso a rimodellare il Medio Orientetitolava ieri entusiasta Bloomberg; “Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita” commenta l’articolo “si stanno avvicinando a un patto storico che offrirebbe garanzie di sicurezza al regno e traccerebbe un possibile percorso verso legami diplomatici con Israele”. “L’accordo” concede Bloomberg “deve affrontare numerosi ostacoli, ma equivarrebbe a una nuova versione del piano che è stato affondato quando l’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele ha innescato il conflitto a Gaza. I negoziati tra Washington e Riad infatti hanno subito un’accelerazione nelle ultime settimane, e molti funzionari sono ottimisti sul fatto che potrebbero raggiungere un accordo entro poche settimane”; “Un simile accordo” continua l’articolo “rimodellerebbe potenzialmente il Medio Oriente e oltre a rafforzare la sicurezza di Israele e dell’Arabia Saudita, rafforzerebbe la posizione degli Stati Uniti nella regione a scapito dell’Iran e persino della Cina”. Secondo Bloomberg l’accordo garantirebbe ai sauditi l’accesso a sistemi d’arma USA prima preclusi, in cambio del quale il principe Bin Salman sarebbe disposto a limitare l’ingresso di tecnologia cinese a patto che gli USA aiutino il regno a sviluppare tecnologia nei campi dell’intelligenza artificiale, del quantum computing e dell’energia nucleare, un aut aut che ha già portato a un successo USA negli Emirati dove g42, l’azienda leader dell’intelligenza artificiale, ha accettato di porre fine alla cooperazione con la Cina in cambio di un investimento da parte di Microsoft; “Una volta raggiunto l’accordo” continua Bloomberg, l’ipotesi è che venga presentato a Netanyahu che, a quel punto, potrà decidere “se aderire, e quindi stabilire per la prima volta legami diplomatici con l’Arabia Saudita, e approfittare di maggiori investimenti e di maggiore integrazione economica regionale, o essere messo da parte”. “Le condizioni poste a Netanyahu però non sarebbero roba da poco” e cioè “porre fine alla guerra di Gaza e accettare un percorso verso uno Stato palestinese”: “Si tratta di un atto strategico tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti che ha lo scopo di proteggere e consolidare la posizione dell’America in Medio Oriente in un momento in cui il regno stava diversificando le sue opzioni di politica estera e allontanandosi da Washington” ha affermato Firas Maksad del Middle East Institute; le condizioni che i sauditi imporrebbero a Netanyahu sono sicuramente complicate per Israele, soprattutto se considerato che fino a pochi mesi fa “se non fossero stati attaccati con il diluvio di al aqsa” come sottolinea Al Akhbar “erano quasi riusciti a farla franca con un accordo simile del tutto gratuitamente” e, cioè, senza nessuna richiesta aggiuntiva. A ben vedere, però, il problema del cessate il fuoco, molto banalmente, non fa che rimandare l’estensione dell’accordo a Israele a quando avrà completato la sua opera di sterminio e di pulizia etnica e quello di “accettare un percorso verso uno stato palestinese” non sarebbe altro che una riproposizione ancora più farsesca della gigantesca presa per il culo che è stata Oslo, con in più la Palestina ormai sostanzialmente ridotta a due grandi campi profughi che non hanno nessunissima possibilità concreta di formare uno Stato minimamente autonomo; in sostanza, sottolinea Al Akhbar, USA e Israele sembrano considerare il regno una sorta di “moglie che cerca di migliorare le sue condizioni di vita nella sua casa coniugale, ma non ha alternative al marito anche se non le dà ciò che chiede, il che potrebbe significare che l’Arabia Saudita alla fine potrebbe scegliere di accettare la normalizzazione accontentandosi delle garanzie americane, ma senza ottenere alcuna concessione da parte del nemico israeliano”. Alla fine, il sanguinario regime distopico sionista e quello feudale saudita sembrano essere uniti da un’esigenza comune che sovrasta tutte le altre: che gli USA non abbandonino l’area, per garantire con la sua superpotenza militare che i loro regimi contrari agli interessi del 99% non vengano travolti dalle lotte popolari e anticoloniali – che è l’unico aspetto a cui, a questo giro, ci possiamo attaccare per vedere comunque le difficoltà che gli USA incontrano per perpetrare il loro sistema imperialistico nonostante il declino; dall’Ucraina al Medio Oriente, il loro impero, per rimanere in piedi, non si può affidare interamente ai proxies, ma richiede il loro impegno diretto. E l’impegno diretto su tutti i fronti caldi della guerra dell’imperialismo contro il resto del mondo è un compito che, comunque, va oltre le loro possibilità. Per chi, proprio a causa della ferocia imperialista, è costretto a fare lo slalom tra le bombe o a rischiare di essere fucilato mentre è in fila nella speranza di ricevere un tozzo di pane, potrebbe non essere una consolazione sufficiente; la grande battaglia di liberazione globale per mettere fine all’imperialismo e costruire un nuovo ordine multipolare più equo e democratico è un’esigenza storica inaggirabile. Pensare che sia un percorso lineare che porta verso il sol dell’avvenire sarebbe puerile: la battaglia è appena cominciata e, forse, l’unica nota veramente positiva di oggi è che sappiamo che a combatterla ormai siamo in parecchi. A partire dalle migliaia di manifestanti che nelle università americane, nonostante una morsa repressiva che se fosse avvenuta in Russia, in Cina o in Iran sarebbe bastata agli analfoliberali per chiedere di raderle al suolo, continuano a occupare strade e piazze in nome di un sogno concreto che non ci faremo rovinare dai capricci di un principe multimiliardario. Prepariamoci a una lunga battaglia e armiamoci adeguatamente per vincerla, a partire da un vero e proprio media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
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Mentre Israele doveva affrontare l’accusa di genocidio da parte della Corte Internazionale di Giustizia che imponeva lo stop immediato di tutte le violazioni dei diritti umani fondamentali e mentre consolidava il suo status di Stato canaglia contravvenendo alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – approvata da tutti con la sola astensione degli USA – che imponeva l’immediato cessate il fuoco, il mondo libero nella sua quasi totalità (e con un ruolo di primo piano dall’Italia) si macchiava di palese complicità nei confronti dello sterminio indiscriminato dei bambini palestinesi non solo continuando a fornire assistenza militare, ma partecipando attivamente al piano di sterminio per carestia escogitato dal regime suprematista di Tel Aviv. Dopo il fiume di fake news sulle decapitazioni di bambini e gli stupri di massa di Hamas, diffuse a man bassa dall’ufficio propaganda del regime genocida sionista e immediatamente riportate come verità assolute da tutti i nostri leader politici e dai pennivendoli che combattono le bufale dei complottisti sul web, tutti i governi occidentali (con pochissime eccezioni) e con Giorgia la madrecristiana e il suo entourage di postfascisti in primissima fila, avevano provato a giustificare la strategia della carestia con la madre di tutte le bufale: l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi – l’unica in grado di alleviare, in piccolissima parte, le sofferenze atroci della popolazione della striscia – altro non sarebbe che una specie di sezione sotto copertura di Hamas e del terrorismo fondamentalista islamico in genere; una scelta di una gravità incalcolabile che non solo trasforma in modo pericolosissimo il nostro paese in un complice a tutti gli effetti dello sterminio, esponendoci tutti al rischio di ritorsioni di ogni genere, ma che in un futuro prossimo, nel caso sempre meno improbabile che il diritto internazionale, una volta tanto, si dimostri strumento per ottenere giustizia invece che strumento per imporre i doppi standard dell’imperialismo USA, potrebbe valere al nostro paese una condanna per violazione dei diritti umani e complicità nel genocidio.
L’Italia aveva temporaneamente sospeso l’esborso dei finanziamenti a favore dell’agenzia subito dopo l’operazione diluvio di al aqsa per mandare un segnale forte e chiaro che, in quanto facenti parte a pieno titolo del blocco dei paesi liberi e democratici che sostengono l’occupazione illegale e l’apartheid israeliano, non avremmo tollerato nessuna forma di rivolta degli schiavi; la sospensione temporanea era poi diventata stabile a fine gennaio scorso, quando Israele ha provato a fornire a tutti i sostenitori dello sterminio una pezza d’appoggio per giustificare la loro partecipazione attiva al tentativo di sterminio per carestia: gli è bastato comunicare di avere le prove di un coinvolgimento di dodici membri del personale UNRWA nell’attacco di Hamas del 7 ottobre, non di presentarle, eh? Presentare le prove è un onere che tocca ai poveri, agli schiavi e ai popoli inferiori; a noi, civiltà superiori, basta comunicarlo e la fantastica comunità del giardino ordinato si sintonizza. Mentre è in corso uno sterminio, già porsi il problema dell’esistenza o meno di qualche legame tra una decina di dipendenti dell’UNRWA e Hamas, che è la legittima forza politica al governo della striscia – e quindi l’unica, in questo contesto, che più o meno agisce all’interno di un quadro di legittimità giuridica – dal nostro punto di vista è già di per se complicità esplicita con lo sterminio anche perché, come era emerso chiaramente già dal resoconto dei media che avevano avuto accesso al dossier di 6 pagine presentato dalla propaganda israeliana, il rapporto presentava, appunto, una lunga serie di accuse strappate a suon di tortura ad alcuni prigionieri arrestati durante l’operazione diluvio di al aqsa, ma, come ricorda al Jazeera, “senza” appunto “lo straccio di una prova”. Ciononostante, nel tentativo disperato di provare a continuare a sottrarre qualche bambino palestinese allo sterminio, ONU e UNRWA hanno fatto un bagno di realpolitik e hanno cercato un compromesso: senza nemmeno il cenno di un’indagine interna, l’UNRWA ha licenziato in blocco i 12 funzionari accusati da colleghi sottoposti a tortura dalle forze illegali di occupazione e l’ONU ha deciso di avviare un’indagine interna; a coordinarla, Catherine Colonna, ex ministro degli esteri francese oltreché ex ambasciatrice francese in Italia. Di sicuro, da brava conservatrice francese cresciuta sulle ginocchia di Chirac prima e di De Villepin poi, non esattamente una paladina delle lotte di liberazione dei popoli arabi e, tutto sommato, manco dell’Islam in generale – a parte, ovviamente, quando può essere strumentalizzato in chiave anticinese: la Colonna, infatti, 2 anni fa polemizzò aspramente con Pechino quando sui media occidentali, come campagna di pressione diplomatica e psicologica nei confronti di una Cina che stavamo tentando di convincere a non offrire sostegno alla Russia di Putin, riapparve magicamente la solita vecchia vaccata del genocidio degli uiguri in Xinjiang. Ciononostante, l’esito dell’indagine sull’UNRWA è piuttosto chiaro: come riassume al Jazeera, il rapporto “chiarisce che Israele non ha sostenuto le sue affermazioni sul personale dell’UNRWA appartenente né all’ala militare di Hamas né alla Jihad islamica palestinese”; l’UNRWA inoltre, continua il rapporto, ha sempre fornito regolarmente a Israele gli elenchi dei suoi dipendenti da sottoporre a controlli e il governo israeliano non ha informato l’UNRWA di alcuna preoccupazione relativa a qualsiasi membro del personale dell’UNRWA sulla base di questi elenchi del personale dal 2011”. Insieme al report della Colonna, il Nordic Research Group ne ha pubblicato un altro, sempre frutto della stessa indagine, dove sottolinea come “Le autorità israeliane fino ad oggi non hanno fornito alcuna prova a sostegno né hanno risposto alle lettere dell’UNRWA di marzo e di aprile, dove si richiedevano nomi e prove a sostegno delle accuse, che avrebbero consentito all’UNRWA di avviare un’indagine”. Dopo le accuse totalmente infondate e pretestuose del regime genocida israeliano, 18 paesi avevano sospeso gli aiuti all’UNRWA; nel tempo, però, la stragrande maggioranza, anche grazie alle mobilitazioni popolari, hanno fatto retromarcia e hanno annullato la sospensione, spesso addirittura aumentando il budget. A parte 6 paesi, tutti e 6 colpevoli, in passato, di stermini di massa e pulizie etniche su grande scala, dalla Gran Bretagna agli USA, passando per l’Austria e la Germania, per finire con la nostra amata Italia; insomma: giustamente vogliamo preservare le care vecchie tradizioni. Come ha dichiarato la direttrice comunicazione dell’UNRWAJuliette Touma, “Non vi fate ingannare: la fame viene utilizzata come arma”: secondo la scala dell’Integrated food security phase classification, 210 mila persone nel nord della striscia stanno già vivendo una carestia; la parte sud, invece, è classificata come “emergenza alimentare” che dovrebbe trasformarsi in vera e propria carestia entro l’inizio dell’estate. “Non ho mai visto un’area raggiungere questi livelli così rapidamente” avrebbe dichiarato la Touma ad al Jazeera: “Nello Yemen ci sono voluti anni prima di arrivare a questo livello. A Gaza sono bastati tre mesi. Gaza è sotto assedio”. Il ricorso allo strumento della carestia come arma di distruzione di massa è anche il risultato dell’assoluta incapacità di perseguire gli obiettivi militari sul terreno; l’ultima indicazione su come allo sterminio indiscriminato di civili inermi non sia corrisposta nessuna vittoria strategica arriva dalle ennesime dimissioni eccellenti: questa volta, a tirare i remi in barca è Aharon Haleva, il capo dell’intelligence militare israeliana. Responsabile in prima persona della macchina per il controllo totale dei dannati di Gaza – che fino al 7 ottobre scorso pensavamo essere impenetrabile, per poi vederla crollare magicamente come un castello di carte – Haleva era rimasto al suo posto per dare il suo contributo personale alla vendetta contro i bambini palestinesi; dopo 6 mesi di fallimenti, finalmente ha deciso di prendere atto della realtà, anche perché ultimamente ha collezionato il fallimento più grande di tutti: come ricorda la testata antimperialista libanese al Akhbar, infatti, “Com’è noto, l’intelligence militare aveva raggiunto una valutazione secondo cui l’Iran era scoraggiato e non avrebbe risposto all’attacco al consolato, e che il massimo che poteva fare era indirizzare i suoi alleati nella regione a rispondere”. Ne è seguito il più grande disastro strategico per Israele dai tempi dello Yom Kippur, con l’Iran che è riuscito a imporre uno spostamento radicale negli equilibri di deterrenza della regione senza precedenti; dopo aver collezionato due disastri epocali come l’operazione diluvio di al aqsa prima e quella true promise poi, le dimissioni – effettivamente – sono proprio il minimo sindacale, ma ovviamente si tratta solo di capri espiatori per consentire di mantenere in carica il capo stragista che, ormai, non ha il sostegno nemmeno dei parenti più stretti. Come i giornalisti del New York Times, che dopo 7 mesi di sostegno allo sterminio sono costretti ad ammettere che “i tunnel permetteranno ad Hamas di sopravvivere e di ricostituirsi una volta che i combattimenti a Gaza finiranno”, che “Hamas probabilmente rimarrà una forza a Gaza” e che “Hamas e altre organizzazioni armate hanno ancora molte forza sopra e sotto terra”; facendo la tara della guerra linguistica condotta dal Times per coprire le atrocità del genocidio di fronte all’opinione pubblica, queste citazioni potrebbero significare una cosa sola: Israele ha perso la guerrae mo’ so cazzi. Che il Times, oltre a diffondere fake news sugli stupri, manipolasse la sua comunicazione per legittimare lo sterminio era cosa nota già da tempo: The Intercept aveva già sottolineato come “Al 24 novembre, il New York Times avesse descritto le morti israeliane come un massacro in 53 occasioni, mentre quelle palestinesi una sola volta. Il rapporto nell’uso del termine macellazione, invece, era di 22 a 1”. La prova provata che questa sproporzione fosse dovuta a delle direttive impartite dall’alto (e non, semplicemente, alle tendenze suprematiste congenite a quel concentrato di progressismo ZTL che è la redazione del Times), però, mancava; fino alla scorsa settimana, quando sempre The Intercept è entrato in possesso di un promemoria interno distribuito ai giornalisti: nel promemoria, scriveThe Intercept, si danno “istruzioni ai giornalisti che si occupano della guerra di Israele nella Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini genocidio e pulizia etnica e di evitare di usare l’espressione territorio occupato nel descrivere la terra palestinese”. Per quanto faccia ribrezzo, non mi stupisce per niente: in 20 anni di Report ho dovuto fare mille compromessi e, ovviamente, mantenermi sempre all’interno della finestra di Overton del politically correct, ma in un solo caso ho subìto una vera e propria forma di censura e quel caso – guarda un po’ – ha proprio a vedere con il regime sionista: per descrivere l’attività dei miei amici del Comitato israeliano contro la demolizione illegale delle case palestinesi, mi azzardai a definire Gerusalemme Est occupata; non che fosse chissà quale licenza poetica. Era definita così da decenni in decine e decine di risoluzioni delle Nazioni Unite che però, evidentemente, il mio capo non aveva letto attentamente: “E’ più complicato di così” mi venne detto; la parola occupazione doveva sparire. Era divisiva, come il 25 aprile e la liberazione. La potenza di fuoco della propaganda e della censura sionista è veramente sbalorditiva e si poggia su parecchie gambe: l’incredibile concentrazione di cittadini israeliani ai piani alti dei monopoli finanziari dell’impero, che si traducono in una delle lobby più potenti del pianeta, senza la quale è impossibile ambire al trono del centro imperialistico; il ruolo vitale che Israele, come avamposto nel Medio Oriente, ha giocato fino ad oggi nella strategia imperialista; e l’incredibile potenza del ricorso ai sensi di colpa dell’Occidente collettivo per l’olocausto, che viene facilmente e sapientemente utilizzato per delegittimare l’opposizione al genocidio che stanno compiendo di fronte ai nostri occhi. Come sostiene lo storico statunitense Norman Finkelstein – erede di una famiglia ebraica che ha sperimentato i valori comuni del giardino ordinato prima nel ghetto di Varsavia e poi ad Auschwitz – l’utilizzo strumentale di quella che lui chiama l’industria dell’olocausto per minimizzare (se non, addirittura, giustificare del tutto) il primo genocidio in diretta streaming della storia dell’umanità, è forse l’aberrazione più atroce possibile concepibile; ciononostante, calzando a pennello con gli interessi dell’imperialismo, continua ad essere un’arma potentissima che viene brandita senza ritegno. L’ultimo incredibile esempio arriva dagli USA: La polizia di New York arresta i manifestanti della New York University mentre aumentano le tensioni nei campus statunitensititolava ieri il Financial Times: “Preoccupazioni anche a Yale, mentre la Columbia passa alle lezioni online in mezzo al furore per le proteste di Gaza”; la polizia, riporta l’articolo, “ha arrestato dozzine di manifestanti filo -palestinesi alla New York University di Manhattan, mentre le autorità intensificavano gli sforzi per reprimere le proteste studentesche”. La retata contro gli studenti della New York University è arrivata poche ore dopo l’annuncio da parte della Columbia University, sempre di New York, che sarebbe passata alle lezioni online “nel tentativo di disinnescare le proteste nel campus del college della Ivy League”, proteste che venerdì scorso avevano portato all’arresto di oltre 100 studenti “nel primo intervento del genere da più di tre decenni”. Lunedì, invece, la polizia aveva arrestato altri studenti nel campus dell’università di Yale e, in entrambi i casi, l’arresto è il male minore: sia la Columbia che Yale hanno annunciato che tutti gli studenti coinvolti verranno sospesi; come sappiamo benissimo noi che siamo cresciuti con filmetti propagandistici come L’attimo fuggente, ovviamente non saranno sospesi tutti: solo quelli che nella Ivy League ci sono entrati per particolari meriti e con le borse di studio. Per i rampolli delle famiglie di oligarchi che ogni anno sommergono questi centri di produzione dell’ideologia imperialista con miliardi e miliardi di donazioni, una soluzione si troverà, ma lo strumento disciplinare è straordinario: i rampolli delle oligarchie impareranno che opporsi a un genocidio non è compatibile con il loro status e quelli intelligenti e cazzuti davvero, che sono lì per merito, impareranno che, sei vuoi perseguire il sogno americano, le priorità strategiche dell’imperialismo vanno rispettate. Esattamente come i nostri studenti nell’estrema periferia dell’impero, anche nella Ivy League la mobilitazione era volta a chiedere alle università – che gestiscono asset per decine e decine di miliardi e sono veri e propri colossi della finanza globale – di smettere di finanziare direttamente aziende israeliane e anche le collaborazioni accademiche con le università israeliane che, grazie a questi contributi finanziari, sono in grado di fornire all’IDF sempre nuove soluzioni all’avanguardia per proteggere l’apartheid e sterminare i bambini palestinesi con metodi sempre più innovativi e creativi, che poi esportano in tutto il mondo; come l’ormai famosissimo sistema Lavander, il sistema che utilizza l’intelligenza artificiale per individuare tutti i sospetti fiancheggiatori delle milizie armate palestinesi e dà agli operatori 20 secondi per scegliere se colpire il bersaglio – a prescindere che questo comporti o meno l’assassinio di decine di civili, in particolare donne e bambini, nelle immediate vicinanze.
Nel frattempo, in Francia, un’altra persona veniva convocata nell’ambito di una delle tante inchieste, aperte un po’ random dalla magistratura dal 7 ottobre in poi, per apologia del terrorismo, un termine tecnico che include qualsiasi forma di solidarietà nei confronti della resistenza palestinese; il problema è che, a questo giro, hanno mirato un po’ altino: ad essere convocata, infatti, è stata Mathilde Panot, la presidente del gruppo parlamentare della France Insoumise di Melenchon. Ed ecco così che il declino dell’imperialismo, che nello stallo strategico in cui s’è infilato il regime genocida di Tel Aviv ha uno degli esempi più eclatanti e devastanti, si porta finalmente via un altro dei principi fondamentali delle democrazie liberali: la libertà dei rappresentanti del popolo di esprimere un giudizio politico, quale che sia, tutelato con ogni mezzo necessario da ogni costituzione democratica; ma come l’imperialismo più diventa feroce e spregiudicato, più accelera il suo declino e rafforza i suoi avversari (sia in termini economici che in termini geopolitici e militari), così, anche dal punto di vista ideologico, più alza l’asticella della sua repressione, più alimenta il fuoco della ribellione. Dopo le retate nelle università USA, sempre più studenti hanno deciso di accamparsi con le tende davanti agli ingressi principali non solo di Yale e della Columbia, ma anche di Berkley, dell’Università del Michigan e altro ancora. Il genocidio di Gaza è uno dei colpi di coda dell’imperialismo sull’orlo del collasso e l’idea che possa rimanere confinato in quell’angolino di Medio Oriente dimenticato da Dio è una pia illusione di queste élite putrescenti. Porteremo lo spirito dell’eroica resistenza palestinese in ogni angolo del pianeta; per farlo, però, abbiamo prima di tutto bisogno di combattere il lavaggio del cervello della propaganda e di un media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Oggi, nell’undicesima puntata di Fardelli d’Italia, rubrica settimanale di Paese Reale per Ottolina Tv, parliamo delle proteste degli studenti sulle collaborazioni delle università italiane con gli atenei israeliani e dell’annoso tema giovanile della crescita del consumo delle droghe. Buona visione
Ci colleghiamo con l’assemblea degli studenti all’università La Sapienza di Roma in compagnia di Marta Collot per raccogliere testimonianze e impressioni a seguito dell’ennesimo episodio di repressione del dissenso a danno degli studenti.