“Che cos’è una nazione?”
“Sono trascinato alla conclusione che non si può concepire nessuna definizione scientifica di nazione; eppure il fenomeno è esistito ed esiste”: così risponde, dopo una lunga ricerca, lo storico Hugh Seton-Watson. Questa riflessione coglie una verità fondamentale: dal punto di vista conoscitivo, la nazione è un concetto fluido, non determinabile entro limiti certi e definitivi, ma non per questo meno importante per chi vuole costruire un’alternativa allo stato di cose presenti; questo problema oggi bussa prepotentemente alle nostre porte, in uno scenario profondamente mutato rispetto anche solo ad un paio di decenni fa. Ma si possono definire esattamente i caratteri costitutivi della nazione e dei fenomeni politici che da essi derivano, come appunto il nazionalismo? E ancora, in che rapporto sta la nazione con altri concetti collegati, come quelli di comunità, popolo, Stato e sovranità? Diciamolo francamente: successivamente alla stagione dei totalitarismi europei, quali fascismo e nazismo, in Occidente – in particolare negli ambienti legati al progressismo e al marxismo – è calato un veto: la rinuncia da parte della filosofia di pensare il politico, ovverosia quello spazio in cui ogni volta si decide su chi noi siamo.
Il regime di potere seguito alla scomparsa delle politiche dell’umano è la tecnocrazia neoliberale la quale, riducendole a saperi amministrativi dell’esistente, priva i popoli europei di qualsiasi margine di invenzione e/o trasformazione politica, capace di rintracciare nuovi principi e nuove promesse di umanità in grado di innestarsi, un domani, nei giochi sociali preesistenti ridefinendone le regole, i vincoli, i comandi; è allora prevedibile il ritorno da destra di ciò che era stato rimosso a sinistra: i populismi, nazionalismi, sovranismi e chi più ne ha più ne metta. Ma, forse – potremmo dire ancora meglio – di tutto ciò che riguarda la politica o il fare comunità in quanto tale; in un tempo dove appare tramontata la capacità dei lavoratori di ripensarsi politicamente, di organizzarsi storicamente attorno a un progetto condiviso per una nuova umanità, di opporsi contro-egemonicamente allo strapotere terroristico e militare del capitalismo finanziario per il dominio del mondo, riemerge con forza la necessità di comprendere le istanze profonde che motivano il ritorno prepotente di queste istanze, non fosse altro perché se è vero che molto spesso i movimenti cosiddetti sovranisti, nazionalisti, populisti risultano essere a tutti gli effetti dei veri e propri bluff dietro a cui continuano ad operare indisturbate le forze reali del superimperialismo, è anche vero che, in altri casi, questi ultimi rappresentano un argine all’ordine disfunzionale (spoliticizzante) basato sulla dittatura del dollaro e sulle nuove forme del colonialismo occidentale.
Ma il vero punto fondamentale che vogliamo sottolineare in questo video è un altro, perché è sempre più urgente affrontare non solo i sovranismi di quei popoli che uno Stato nazionale già ce l’hanno, ma anche di quelli che uno Stato non ce l’hanno o che l’hanno perso e vorrebbero riaverlo: ad oggi, infatti, un vero e proprio Stato è l’unico strumento con cui qualsiasi popolo o nazione fa esperienza della propria sovranità; dobbiamo quindi porre assoluta attenzione a queste comunità, che sono spesso le prime a opporre concreta resistenza al sistematico svuotamento delle sovranità popolari da parte delle oligarchie finanziarie occidentali e dalla loro pretesa di mettere il guinzaglio a chiunque non si adatti ai loro diktat.
1983. È la data di pubblicazione di due libri che hanno cambiato per sempre il nostro modo di vedere la nazione: Le Comunità immaginate di Benedict Anderson e L’invenzione della tradizione di Eric Hobsbawm e Terence Ranger; questi due testi rappresentano ancora oggi due punti di riferimento fondamentali per chi voglia affrontare la questione nazionale a cui, nell’Europa continentale, si lega inestricabilmente il problema della sovranità. Se nella ricerca di Hobsbawm e Ranger si calca la mano sugli aspetti culturali delle tradizioni nazionali, dimostrando facilmente come esse siano spesso vere e proprie invenzioni recenti, funzionali a consolidare l’autorità statale e legittimare pratiche sociali basate sulla disuguaglianza di classe, il lavoro di Anderson va ancora più in profondità: in un momento storico in cui ancora non era collassato il sistema sovietico, nelle prime righe del suo libro il sociologo irlandese si domandava, profeticamente “Chi può essere sicuro che Jugoslavia e Albania un giorno non arriveranno a esplodere?”. L’attualità della questione nazionale viene, dunque, posta con forza in tempi non sospetti, legandola a doppio filo anche al tema della rivoluzione, visto che – come scrive Anderson riferendosi alla Repubblica Popolare Cinese e alla Repubblica Socialista del Vietnam – “ogni rivoluzione riuscita si è definita in termini nazionali”.
A fronte del carattere attuale e ineludibile del fenomeno nazionalista, Anderson fa emergere però tre paradossi capaci di irritare qualunque studioso che si occupi di questo tema. Primo: contrariamente a quanto sostengono in tanti, la nazione è un fenomeno moderno e, quindi, assai recente. Secondo: la nazione è si diffusa ovunque, ma, al tempo stesso, si declina in modalità e forme sempre differenti, sfociando in una miriade di forme indigene. Terzo: i nazionalismi non hanno mai avuto dietro nessuna vera grande elaborazione teorica; per fare qualche esempio colto, il nazionalismo non ha mai espresso nessun Hobbes, Marx, Weber. Per fare fronte a queste difficoltà, Anderson propone allora una nuova definizione di nazione che rovescia i modelli precedenti e che si concentra sulla capacità del nazionalismo di costruire una narrazione talmente tanto convincente da apparire naturale. Eccola: “La nazione è una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana”.
La novità dirompente del discorso di Anderson non consiste nel fatto di individuare nella nazione una comunità, quanto quella di definirla come immaginata, e immaginata non vuol dire priva di realtà, cioè finta, ma semplicemente come qualcosa di non-naturale, storicamente costruito; ogni comunità nazionale ha dei confini: in questo senso la nazione è diversa dall’impero che, invece, si immagina sempre come universale. Perfino quando nell’impero i limiti sono chiari, questi sono temporanei e la sovranità è aperta al mondo. Altre due caratteristiche fondamentali della comunità nazionale, dicevamo, sono la sovranità e la fratellanza: la nazione si immagina infatti come sovrana, legittimata dall’idea che il popolo sia la sostanza del potere e si percepisca come una persona plurale unita in se stessa da legami di solidarietà tra i suoi membri, nonostante le differenze sociali. Ed è anche recente, perché le nazioni nascono al tramonto dei poteri universali di carattere religioso e politico: è nel tramonto del modello totalizzante rappresentato dalle grandi religioni, dai grandi imperi e nella progressiva perdita della sacralità di lingue universali come il latino che si sgretola quell’ordine ontologico, metafisico, su cui si reggeva l’ordine globale, vale a dire quella struttura unica e indiscussa al cui vertice si collocava il divino.
Anderson, per rendere ragione di questo lungo logoramento dell’universale sacro e cosmopolita rispetto al particolare delle comunità nazionali immaginate, riporta un passo del Milione dove Marco Polo attribuisce al Kublai Khan un giudizio sulle religioni che si potrebbe tranquillamente definire relativistico: il sovrano mongolo è interessato a conoscere tutte le religioni, “le ascolta con attenzione, per giudicare quale sia la migliore e la più vera”; già nello sguardo di Marco Polo viene riflessa, senza destare né sorpresa né indignazione, una prospettiva – che potremmo definire pluralista dei valori e delle sensibilità – che si colloca fuori dall’ordine ontologico e univoco dell’universalismo cristiano. Questo pluralismo sta alla base della nascita delle comunità immaginate che sono particolari e limitate in confronto alle grandi costruzioni universali del medioevo. È possibile pensare che oggi si stia replicando un processo di educazione al pluralismo e alla molteplicità analogo a quello che ha dato vita alle comunità immaginate all’inizio della modernità?
Per un certo periodo abbiamo chiamato globalizzazione quel processo di integrazione e assimilazione su scala mondiale guidato principalmente dai Paesi dell’Occidente collettivo: questo modello si è basato sull’espansione dei mercati sotto il continuo ricatto delle armi, del rafforzamento del sistema delle multinazionali, insieme all’imporsi dell’americanizzazione dei costumi. Dal punto di vista culturale, la globalizzazione ha dato fondo a una omogeneizzazione delle culture locali a vantaggio di un modello consumistico centrato su standard culturali nordamericani veicolati dal soft power della cosiddetta anglosfera, per tramite dei media di massa e dei marchi multinazionali: il villaggio globale non era insomma altro che la prosecuzione dei colonialismi britannico e nordamericano con altri mezzi, quelli del consenso di massa realizzato attraverso la costruzione di un universalismo ontologico che metteva capo, cioè, all’idea di un ordine naturale e inevitabile, di una vera e propria fine della storia e dell’affermazione definitiva di un modello di vita valido per sempre. Oggi tutto sembra cambiare e ci dobbiamo chiedere: “Stiamo rivivendo un periodo di frantumazione dei modelli universalistici? Come gli uomini e le donne testimoni del sorgere dei nazionalismi alla fine dell’universalismo medievale, anche noi stiamo assistendo al sorgere di un nuovo mondo basato sul pluralismo e la molteplicità di nuove comunità immaginate? E, se sì, di che comunità stiamo parlando? Sono sempre i vecchi Stati-nazione che si riorganizzano con mezzi nuovi? O si fanno largo anche nuove forme di comunità alternative”?
A tale proposito ci vengono in soccorso gli studi di altri due autori: Banal Nationalism di Michael Billig e Political Grammars: The Unconscious Foundations of Modern Democracy di Davide Tarizzo. Il primo studio amplia il concetto di nazionalismo, distinguendo uno di tipo radicale e uno banale: da una parte, infatti, il nazionalismo banale agisce efficacemente per uniformare e rendere omogenea fino al parossismo la società inclusa in uno Stato, anche quando quest’ultima è composita e multinazionale, come accade per esempio nel contesto spagnolo e italiano dove le minoranze linguistiche e nazionali vengono condotte all’assimilazione, come denunciava già Pasolini ormai mezzo secolo fa; dall’altra parte, però, questo nazionalismo banale e subdolo non costituisce alcuna garanzia di resistenza politica all’esterno, verso politiche transnazionali che limitano la sovranità degli Stati e impongono politiche di austerità. Un’ulteriore tessera del puzzle sul fenomeno complesso del nazionalismo ce lo offre lo studio di Tarizzo: la tesi centrale del suo ultimo lavoro ruota attorno all’idea che il funzionamento della democrazia non si basi esclusivamente su principi consapevoli e razionali, ma trovi le sue radici in grammatiche inconsce della massa; nel caso della democrazia liberale, tali grammatiche stabiliscono le condizioni entro cui le idee di uguaglianza, libertà e partecipazione possono essere elaborate e agite.
Insomma: per comprendere la dimensione politica non basta descrivere empiricamente le strutture sociali e istituzionali e nemmeno astrarre i sistemi valoriali che ne stanno a fondamento, perché servono anche anche gli strumenti della psicologia e della psicoanalisi – in particolare da Lacan – per indagare clinicamente i processi simbolici che condizionano il comportamento collettivo, la psicologia politica delle masse. La democrazia – se ha un senso ancora parlarne – è il frutto di una continua negoziazione di forze e istanze diverse; è un sistema vivo che si alimenta dal basso. L’approccio di Tarizzo offre strumenti utili non solo per interpretare le sfide poste dalla crisi della rappresentanza e dal dilagare dell’individualismo, ma fornisce anche una teoria predittiva dell’immaginazione politica, di come nascono e muoiono i popoli, e perciò capace di affiancarsi alla teoria critica di stampo marxista. Intendiamoci: nessuno di questi modelli vale da solo, né può essere preso per oro colato, dal momento che il tema del nazionalismo e dei movimenti nazionali e nazionalisti è fra i più complessi e articolati che possano esistere.
Questo appare tanto più vero quanto più viviamo in un mondo dominato da quella che il nostro Giuliano Marrucci, nel suo pamphlet Riscossa Multipopolare, ha definito “la grande controrivoluzione del capitale”, inaugurata quando un gruppo di accademici, su incarico della Commissione Trilaterale, ha pubblicato nel 1975 un rapporto intitolato The Crisis of Democracy, dove si metteva in evidenza un pericoloso eccesso di democrazia e si invitavano le élite liberiste a restringere tutti quegli spazi dove il potere popolare trovava le sue roccaforti; Giuliano metteva giustamente in evidenza come il primo luogo in cui ciò avveniva era la fabbrica, vera e propria scuola di fermenti eversivi e centro delle più incisive teorie della liberazione. Inizia dunque negli anni Settanta la grande epopea della delocalizzazione della produzione, utilizzando le vaste aree degli ex imperi coloniali come infiniti pascoli di manodopera non sindacalizzata e a basso costo. Cosa c’entra tutto questo con il nazionalismo e le comunità immaginate? Fa notare sempre Marrucci: “A differenza del vecchio sistema imperialistico, in questo sistema non c’è spazio per più centri imperialistici in competizione tra loro”. Esiste un nuovo universalismo, fondato però non sulla dimensione del sacro, ma sulla metafisica del suprematismo occidentale! Appare chiara, allora, la funzione delle comunità immaginate che si piegano a questo terrificante scenario distopico alla Matrix: in apparenza, siamo dentro un mondo normale, composto da democrazie liberali dotate di poteri sovrani che scelgono i propri governi in maniera autonoma; nei fatti, la sovranità dei popoli appare però fortemente limitata all’ordinaria amministrazione; e sono sempre più i casi in cui l’unico vero centro politico che conta, cioè quello dell’imperialismo nordamericano, interviene per commissariare (tecnocraticamente) gruppi di potere locali e territoriali, o quando – come è avvenuto recentemente in Romania – effettua veri e propri golpe bianchi. Tutto questo avviene in uno scenario globale dove a contrapporsi in modo efficace al superimperialismo oligarchico non è più la classe operaia informata e organizzata da forze politiche e sindacali socialiste, ma gli Stati e i popoli del Sud globale.
Delocalizzata la fabbrica, domato il sindacalismo di base e sbaragliati i movimenti antagonisti, cosa ci resta per criticare con i fatti, e non solo con le parole, il sistema imperiale nella parte di mondo dove esistiamo? Non è una domanda nuova: già Marx ed Engels si trovarono a riflettere su questioni simili a ridosso del riflusso del movimento cartista e dell’esplosione della rivolta feniana in Irlanda; raccogliendo e commentando gli scritti sull’Irlanda di Marx, il giornalista Marco Santopadre fa notare come “La concreta evoluzione storica ha dimostrato che lo sviluppo della borghesia e del mercato mondiale non hanno causato la scomparsa degli antagonismi nazionali”.
Mentre alle nostre latitudini la sinistra postmoderna, rilanciando le concezioni universaliste e cosmopolite del socialismo utopistico e del liberalismo, finisce per rimuovere la concretezza della dimensione nazionale per affermare una suggestiva quanto inesistente società senza frontiere, esistono pure esperienze di comunità immaginate che giocano un ruolo di opposizione, non fosse altro perché rispondono a profondi bisogni di democrazia reale: significativo è stato il caso dei movimenti baschi e catalani per l’autodeterminazione; anche di movimenti popolari a forte connotazione regionalistica o nazionale, come è accaduto recentemente in Sardegna con il movimento che si è battuto contro la speculazione energetica, raccogliendo attorno ad una proposta di legge di iniziativa popolare il senso di ribellione di un popolo storicamente sfruttato dello Stato unitario. Una possibilità è che nella lotta contro le nuove forme di universalismo imperiale si possano scorgere comunità immaginate capaci di mettere in crisi le logiche di profitto e di rapina; non è un fatto necessario, né tantomeno un dogma, però esiste la possibilità che la lotta per l’autodeterminazione di alcune comunità (nazionali, popolari e a portata di territori) possa rappresentare, in questa Europa tecnocratica e militarizzata, un fronte interno che è necessario osservare con attenzione e con cui è utile rapportarsi, anche partendo dal fatto che spesso questi movimenti, anche se assumono un carattere interclassista e fluido, rappresentano un formidabile motore di mobilitazione politica e costituiscono lo strumento attraverso cui alcune classi sociali esterne, profondamente svilite dal gigantesco sistema di rapina che oligarchie mediano per conto del padrone d’oltreoceano, manifestano un crescente disagio e riescono ad esprimere un desiderio di rottura e cambiamento sociale.
In conclusione a un bell’articolo su Anderson su Doppiozero, Francesco Mangiapane scrive che “La questione della rinascita dei nazionalismi può essere correttamente guardata senza catastrofismi, come variabile legittima della storia, nella perenne tensione fra federazione e secessione”. L’epoca del presente preteso universalismo, cioè della fine della storia, dove i cosiddetti valori dell’Occidente vengono assurti a nuova dimensione metafisica dell’universo mondo, sta mostrando crepe profonde di cui abbiamo parlato in diverse altre sedi, dalla crisi dell’ordine unipolare all’ascesa dei BRICS; come andrà a finire questa partita tra il vecchio che sta morendo e il nuovo che fatica a sorgere nessuno lo sa, ma sappiamo – prendendo in prestito Gramsci – che “in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Per combatterli, abbiamo bisogno di un vero e propria media indipendente, ma di parte, che dia voce ai movimenti di liberazione sociale, ai processi di immaginazione politica, alle lotte per l’autodeterminazione del 99%. Aiutaci a costruirlo: metti il like e attiva tutte le notifiche. A te non costa niente: ci metti meno tempo di quanto impieghi un Salvini qualunque a deporre le corna da vichingo e sbandierare il tricolore, ma a noi ci aiuta a combattere la dittatura degli algoritmi e a costruire una contro-narrazione capace di tirare giù un bel po’ di maschere.
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