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JIHAD E IMPERIALISMO – Come USA e Israele hanno imparato ad amare l’ISIS

“La guerra all’Isis è una necessità per tutti i Paesi civili, non solo di questo o di quello Stato, perché è uno scontro tra la nostra civiltà da una parte e chi invece come l’Isis rappresenta l’odio, la superstizione, il terrorismo”. Siamo nel novembre del 2015; pochi giorni prima Parigi era precipitata nel panico a causa di una serie di attentanti portati a termine da un commando di una decina tra uomini e donne che causeranno oltre 400 feriti e ben 130 vittime, a partire dalle 90 rimaste uccise nel solo agguato presso il teatro del Bataclan, e a catechizzare le folle era nientepopodimeno che Silvio Berlusconi, che ammoniva: “Non è una singola nazione ad essere minacciata, ma tutto il mondo civile” e lanciava un appello accorato: “Mi auguro che il sangue che è stato versato a Parigi serva non solo ad Hollande, ma a tutti i leader europei per capire la necessità di estirpare il male alla radice”.
“Non è una guerra all’Islam” scandiva Barack Obama solo un anno prima, dalla tribuna del Palazzo di Vetro dell’ONU, ma “non si può negoziare con il male”. Quello dell’ex presidente statunitense era un vero e proprio allarme: “Sono 15.000 i jihadisti stranieri da oltre 80 Paesi andati in Siria negli ultimi anni. E’ la vendetta per l’aggressione francese al Califfato”. Ciò che accomuna queste dichiarazioni è considerare l’Isis, o più in generale il fondamentalismo islamico, come un prodotto della perversione di qualche debosciato che vuole abbattere la democrazia occidentale. L’Isis, Al Qaida e il vasto mondo del jihadismo sarebbero un frutto andato a male dell’Islam, fuoriuscito dai binari rassicuranti delle libertà individuali del Nord globale.

A noi di Ottosofia – amanti della storia e della filosofia – questa ricostruzione non convince molto, ma quando una ricostruzione è problematica occorre trovare la domanda giusta per offrire una lettura alternativa. E’ tempo di chiedersi: “Come si è affermato il jihadismo e che funzione gioca nel grande scacchiere mondiale?” Per abbozzare una prima risposta ci è venuto in aiuto questo testo di Maurizio Brignoli: “Jihad e Imperialismo. Dalle origini dell’islamismo ad Al Qaida e Isis”. La premessa dell’autore è chiara: “Non è la religione la questione principale da prendere in esame per spiegare le cause del fenomeno Isis, Al Qaida, ecc., bensì l’imperialismo nella sua dimensione economica, politica, militare e ideologica”. Per comprendere le principali organizzazioni jihadiste, secondo Brignoli, sarebbe necessario inserire questi fenomeni “all’interno del grande scontro inter – imperialista in atto per il controllo delle fonti energetiche, dei corridoi commerciali e delle aree valutarie” che è proprio quello che cercheremo di fare brevemente in questo video. La chiamano galassia islamista, mettendo tutto nello stesso calderone; eppure, sottolinea Maurizio Brignoli in Jihad e Imperialismo, “non si tratta di qualcosa di omogeneo”. Tutt’altro; secondo Brignoli le famiglie del jihadismo, spesso e volentieri in aperto conflitto tra loro, sono per lo meno 5: al primo posto ci sono quelli che Brignoli definisce i tradizionalisti, e cioè quelli che, fra il XIX e il XX secolo, hanno utilizzato la religione per combattere il colonialismo; poi ci sono quelli che definisce i reazionari, e cioè i sauditi, trasformati in una specie di “papi” dell’Islam con l’aiuto degli Stati Uniti; la terza forma è la galassia dei Fratelli musulmani che, a sua volta, è composta da una miriade di sottogruppi; poi ci sono gli islamo-nazionalisti che, dagli Hizballah libanesi al palestinese Hamas, sono impegnati in una lotta di liberazione nazionale; e infine i jihadisti veri e propri, che hanno preso le distanze dai Fratelli musulmani per dedicarsi interamente alla lotta armata.
Per capire davvero questo complesso universo – suggerisce Brignoli – più che intrafunarsi in mille diatribe di carattere etnico e religioso sarebbe necessario osservarli attraverso la lente del concetto di imperialismo così come sviluppato da Lenin, e cioè “una fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico” – riassume Brignoli – “caratterizzata da una concentrazione monopolistica della produzione e del capitale, dalla nascita del “capitale finanziario”, dall’esportazione di capitale e dalla spartizione del mondo fra le diverse imprese monopolistiche e le grandi potenze imperialistiche”. In questa prospettiva lo jihadismo contemporaneo deve essere riletto nella logica di imposizione degli USA del proprio dominio imperialista, che ha conosciuto una nuova configurazione all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica. Come troviamo scritto nella National Security Strategy USA del 1991, infatti, “Un nuovo ordine mondiale non è un fatto acquisito, ma un’aspirazione e un’opportunità. Abbiamo a portata di mano una possibilità straordinaria, costruire un nuovo sistema internazionale in accordo con i nostri valori e ideali. Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza realmente globali in ogni dimensione. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana (…)”. A partire, appunto, dal Medio Oriente: “Nel Medio Oriente e nell’Asia sud-occidentale” continua il documento “il nostro obiettivo generale è quello di rimanere la potenza esterna predominante nella regione e preservare l’accesso statunitense e occidentale al petrolio della regione. Per sostenere le vitali relazioni politiche ed economiche che abbiamo lungo tutto l’arco del Pacifico, dobbiamo mantenere nella regione il nostro status di potenza militare di prima grandezza”. Ecco così – in tutto il suo splendore – il mantra dell’eccezionalità USA, poliziotto del mondo per preservare l’accesso del Nord globale al petrolio della regione, ma soprattutto per controllare l’accesso del più temuto tra i potenziali competitor: la Cina, che è diventata ancora più minacciosa da quando ha deciso di ampliare la sua sfera di influenza con le Nuove Vie della Seta – attraverso le quali non ambisce solo a spingere sull’acceleratore dell’integrazione economica e regionale dell’area a partire da un’ondata massiccia di infrastrutture fisiche, ma anche a sfruttare questa integrazione per portare avanti un’agenda di emancipazione dalla dittatura del dollaro. “Nella realizzazione delle Vie della Seta” sottolinea infatti Brignoli “si sta potenziando anche la forza della moneta cinese, difatti diversi dei numerosi accordi bilaterali siglati dai cinesi con i paesi interessati prevedono l’utilizzo dello yuan quale valuta per i pagamenti (…)”. “Circa il 90% del commercio mondiale di prodotti petroliferi coinvolge il dollaro” ricorda il Global Times che, però, sottolinea come la situazione stia “gradualmente cambiando” a partire dagli “sforzi della Russia per spezzare il dominio del dollaro come valuta principale nel commercio mondiale di prodotti petroliferi. La fine del dominio del dollaro nel commercio di energia” conclude il Global Times “è una buona scelta per opporsi alle azioni unilaterali degli Stati Uniti”. Per gli Stati Uniti si tratta di una linea rossa, dal momento che – sottolinea Brignoli – “l’enorme duplice debito statunitense commerciale e di bilancio non sarebbe più sostenibile se il dollaro cessasse di essere la moneta dominante negli scambi delle principali materie prime e valuta di riserva mondiale, dal momento che gli USA non riuscirebbero più a vendere un sufficiente numero di buoni del tesoro per finanziare il loro debito”.
Per ostacolare l’integrazione economica dell’area e la spinta alla dedollarizzazione – che comporterebbe una crisi dell’egemonia degli USA – ecco allora che va consolidato il ruolo del paese come poliziotto del mondo e, per farlo, è necessario tessere una fitta rete di alleanze con i partner regionali, a partire dallo stato di Israele. Non è un caso che il progetto di dominio imperialistico a stelle e strisce si unisce – continua Brignoli – con il “piano Yinon” del 1982, che prevedeva di ridisegnare le frontiere arabe in stati più piccoli, deboli e quindi incapaci di opporsi alle mire espansionistiche sioniste. “Quello che gli israeliani stanno pianificando non è un mondo arabo” scriveva l’antropologo palestinese Khalil Nakhleh “ma un mondo di Stati arabi frammentato e pronto a soccombere all’egemonia israeliana”, ed è proprio sempre con l’obiettivo delle frammentazione che entra in ballo la love story tra gli USA e il jihadismo a partire dalla Siria, dove “lo scontro inter – imperialistico” ricostruisce Brignoli “era inizialmente articolato lungo questi due fronti: Usa – Ue – Turchia – Arabia Saudita – Eau – Qatar – Israele, che hanno usato come truppe di terra Isis, al-Nusra e diverse fazioni curde, contro Russia – Iran – Siria – Hizballah, secondo fronte strettamente alleato della Cina”. Altro che lotta all’ISIS: Brignoli, a riguardo, riporta le dichiarazioni di Efraim Inbar – il direttore del Begin – Sadat Center for strategic studies (Besa) di Tel Aviv durante gli ultimi mesi dell’amministrazione Obama – che ricordava come “l’Isis non ha mai sparato un colpo contro Israele” e quindi, suggeriva, “deve essere al massimo indebolito, ma non distrutto. Sradicare lo Stato Islamico sarebbe un errore strategico. Prolungandogli la vita piuttosto, probabilmente ci si assicura la morte di estremisti islamici per opera di altri “cattivi ragazzi” in Medio Oriente, e probabilmente continueremo a risparmiarci diversi attacchi terroristici in Occidente”. Nell’ottica di conservazione del dominio USA e dei suoi alleati, il permanere dell’Isis ha uno scopo strategico; d’altronde, puntualizzava Inbar, “la stabilità non è un valore in sé e per sé. È auspicabile solo se serve ai nostri interessi. E la sconfitta dell’Isis incoraggerebbe l’egemonia iraniana nella regione”. Ecco perché, nonostante la guerra mondiale per procura in Siria sia stata sostanzialmente l’ennesimo gigantesco fallimento del Nord Globale, la destabilizzazione continua “come sembrerebbe dimostrato dalle operazioni di esfiltrazione effettuate per salvare i comandanti dell’Isis a Raqqa e Deir el-Zor”. “Tramontato il progetto obama – clintoniano di creare un Sunnistan che interrompesse la Via della Seta e spazzasse via la mezzaluna sciita alleata di Mosca” riflette Brignoli “i combattenti dell’Isis potranno essere impiegati proprio contro la suddetta mezzaluna con operazioni di guerriglia anziché con la creazione di una forma pseudo – statale.

Ayman al-Zawahiri

L’Isis” conclude “non potrà certo più puntare all’edificazione di un’entità statuale, che costituiva la più significativa novità nel panorama jihadista, ma dovrà riconvertirsi in attore permanente di destabilizzazione, come nella migliore tradizione delle strategie imperialistiche, con un modello decentralizzato basato su un rapporto più stretto con le popolazioni locali sul modello evolutivo dell’ultima Al Qaida di al-Zawahiri”.
Un Isis de – statalizzato e pienamente addomesticato, quindi, mantenuto in vita al solo scopo di mantenere il controllo dell’area mediorientale, tassello fondamentale per gli USA che funziona anche grazie al supporto di Israele e attraverso l’indebolimento delle realtà arabe. Per capire quale terrorismo – nello specifico – verrà sponsorizzato dal Nord globale nel prossimo futuro a difesa del suo giardino ordinato e contro le minacce della giungla selvaggia che ci circonda, l’appuntamento è per stasera mercoledì 22 novembre con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina Tv in collaborazione con Gazzetta Filosofica; ospite d’onore, per l’appunto, Maurizio Brignoli.
Mentre la propaganda suprematista cerca di utilizzare la carta del terrorismo per giustificare la guerra di Israele contro i bambini arabi, per provare a capire qualcosa del mondo che ci circonda noi abbiamo sempre più bisogno di un vero e proprio nuovo media che dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Magdi Allam

FONDAMENTALISMO DEMOCRATICO: come la propaganda ha capovolto il concetto di Democrazia

“Sostenere Israele e Ucraina è vitale per l’America. Dobbiamo tornare ad essere l’arsenale della democrazia”: così ha detto zio Joe Biden nel suo discorso alla nazione il 20 ottobre scorso. Un discorso che mette in evidenza l’idea di democrazia che ha l’élite statunitense: un brand made in USA – con tanto di copyright regolarmente registrato – e da brandire come un’arma a proprio piacimento, mentre tutti i paesi o le entità che non posseggono il suddetto marchio di provenienza sono considerati “Stati canaglia”, incarnazioni del Male da estirpare. Questo è il succo di quel ‘fondamentalismo democratico’ – per citare Luciano Canfora – che ritiene il sistema politico-economico e il modo di vivere occidentale come l’unico ammissibile.

Emiliano Alessandroni

Quello di democrazia, insieme a quello di libertà, è probabilmente il concetto in assoluto più abusato nel discorso politico occidentale. Basta aggiungerne un pizzico un po’ a caso e tutto diventa magicamente più bello : governo democratico, partito democratico, forze democratiche, metodi democratici, sentimenti democratici, spirito democratico e chi più ne ha più ne metta. Ed è proprio a causa di questo abuso retorico che occorre compiere un’opera titanica di messa in questione, di problematizzazione e di decostruzione del concetto stesso, che è proprio quello che fa Emiliano Alessandroni nel suo Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, un’opera ambiziosa che non si ponte tanto l’obiettivo, appunto, “di raccontare la democrazia, quanto quello di problematizzarla” e cioè “di liberare la sua narrazione e il suo concetto dalle semplificazioni tutt’oggi in voga”.
Se c’è un dogma che l’apparato giornalistico-mediatico propaganda quotidianamente è quello di identificare la democrazia occidentale con il Bene, in contrapposizione alle dittature – cioè a tutti i sistemi politici diversi da essa – che vengono identificati in blocco con il Male. A questo pensiero astratto, cioè fisso e astorico, Alessandroni contrappone un pensiero dialettico nel quale i termini non sono essenze, sostanze opposte, ma processi storici che si compenetrano. L’idea di Alessandroni è tanto semplice quanto dirompente: ci sono stati e ci possono essere processi di emancipazione, ossia conquiste realmente democratiche, in ciò che definiamo dittature, come d’altronde ci sono stati e ci possono essere processi di de-emancipazione, ossia regressioni dispotiche, in ciò che definiamo democrazie. Per mandare in tilt il manicheismo storico-filosofico del pensiero liberaloide contemporaneo, basta e avanza: per i pensatori liberali, infatti, il concetto di democrazia tutto sommato può essere ridotto a un assetto giuridico-politico specifico, e cioè il sistema caratterizzato dalla “competizione elettorale”. Se c’è siamo in una democrazia, sennò no. Aut aut. Semplice e chiaro.
Per Alessandroni, però, le cose sarebbero leggermente più articolate. Primo: il processo della competizione elettorale – sottolinea – sarebbe marcatamente influenzato dal potere economico -finanziario, che ha in mano anche quello mediatico. Chi ha più soldi ha, oggettivamente, più chance di far passare le sue idee e far eleggere i suoi politici di fiducia. Secondo: il diritto di voto nelle democrazie può essere ristretto a una minoranza o, comunque, escludere grandi masse di popolazione. Nella democrazia greca, ad esempio, è risaputo che votassero solo i maschi adulti, figli di padre e madre ateniese e liberi di nascita. Terzo: uno Stato giuridicamente democratico può attuare una politica dispotica di sterminio e colonizzazione verso altri popoli o altre nazioni; Israele è, ad esempio, giuridicamente una democrazia, ma agisce come despota verso la popolazione palestinese. Tutto questo non significa di per se, ovviamente, non riconoscere alla “competizione elettorale” un ruolo potenzialmente emancipatorio; piuttosto si tratta, molto semplicemente, di sottolinearne limiti – se non addirittura contraddizioni – che la propaganda cela con le sue semplificazioni manicheiste. “Se merito della tradizione liberale è stato insistere sull’idea di “democrazia giuridico-politica”, necessaria per la decentralizzazione del potere” sottolinea infatti Alessandroni, il dovere “della tradizione che fa riferimento al materialismo storico è focalizzare l’attenzione sui concetti di democrazia sociale e di democrazia internazionale, che soli permettono a quella giuridico-politica di ambire a una certa dose di universalismo, ed evitare che si trasformi in un paravento per nuove forme di dominio e di accentramento del potere nelle mani di una minoranza, anche se con modalità meno rozze e più sofisticate”. “Soltanto l’unità combinatoria di questi tre concetti e la loro declinazione universale” sottolinea infatti Alessandroni, “può incarnare la sostanza democratica. Come che sia, pare evidente quanto, lungi dall’esser giunti alla fine della storia, come teorizzava Francis Fukuyama, il cammino verso la democrazia rimanga piuttosto, allo stadio attuale, ancora inesorabilmente lungo”.
Proprio per questo motivo non bisogna cadere nella propaganda dell’ideologia democraticista, che è funzionale alla giustificazione dell’assetto di dominio vigente nello stesso modo in cui, nell’Ottocento, il ricorso al termine libertà era utilizzato dai padroni di schiavi per giustificare e moralizzare l’istituto della schiavitù. “Con democrazia” scrive infatti Alessandroni “si tende a indicare, nell’attuale presente storico, il sistema di dominio dell’Occidente. E quelle autentiche spinte democratiche, che (..) sorgono al di fuori del perimetro occidentale, vengono rappresentate, dalla nostra pubblicistica, sotto forma di minacce nei confronti della democrazia”. Da questo punto di vista, conclude Alessandroni, proprio “Come nell’antica Atene” anche oggi “il termine democrazia assolve la funzione ideologica di occultare e giustificare un determinato sistema di dominio”. E’ proprio il ricorso spregiudicato a questa ideologia, ad esempio, a permettere di occultare il fatto che quello che è considerato comunemente il paese guida del mondo democratico – gli Stati Uniti d’America – sia, a tutti gli effetti, l’esempio più fulgido di dispotismo nei rapporti internazionali. Una verità palese e arcinota soprattutto a tutti quei paesi che hanno sperimentato la condizione coloniale e l’aggressione armata. Dalla loro prospettiva di colonizzati e aggrediti, la democrazia non giunge certo da Occidente tramite le bombe e neanche dal suo avamposto mediorientale, ossia Israele. “Lo Stato di Israele” si chiede infatti retoricamente Alessandroni “costituisce davvero il migliore prototipo di democrazia e di libertà del Medio Oriente, come spesso si è sostenuto e si continua a sostenere? E ritornando nuovamente sul piano teorico, può essere ritenuto democratico un paese che manifesta un’evidente inclinazione coloniale? Ovvero, democrazia e colonialismo possono essere compatibili?”In termini di democrazia sostanziale, ovvero di una democrazia che non sia riducibile astrattamente alla sola “competizione elettorale”, la risposta è molto semplice: no, democrazia e colonialismo non sono compatibili.

Edward Said

Ma come mai – occorre domandarci – quando si parla di democrazia non si tiene conto di questi fattori così importanti? Come mai si considera determinante, per riconoscere un soggetto come democratico, soltanto il suo sistema elettorale interno e non anche le relazioni che esso instaura con gli altri soggetti? La risposta è piuttosto semplice: si chiama egemonia culturale che, per dirla con Edward Said, si nutre di 5 grandi narrazioni: la prima è quella che si concentra sulla distinzione ontologica tra Occidente e resto del mondo, il giardino ordinato contro la giungla selvaggia che lo circonda e lo minaccia, per dirla con il ministro degli esteri dell’unione europea Josep Borrell. La seconda è volta a codificare e naturalizzare la differenza tra noi e loro: noi siamo umani mentre loro no. La terza si fonda sulla retorica della missione civilizzatrice: noi occidentali bombardiamo sempre per il Bene e la democrazia e i bombardati, alla fine, ce ne saranno grati. La quarta mira alla diffusione massiccia dell’ideologia imperiale: una vera azione pedagogica intrapresa da tutti i lavoratori culturali, dai giornalisti ai registi cinematografici e ai vignettisti, rivolta tanto ai colonizzatori quanto ai colonizzati. La quinta è quella più specificatamente letteraria, capace di creare storie e immagini molto potenti in grado di esaltare la cultura imperiale: è la contrapposizione onnipresente in ogni tipo di prodotto culturale tra personaggi positivi – espressione della mentalità e dei valori imperiali – e personaggi negativi, espressione della cultura dei popoli sottomessi. Queste narrazioni unite diventano una Grande Narrazione che non ci fa immedesimare nella sorte dei colonizzati ma in quella dei colonizzatori, perseguitati dal “fardello” della loro “missione civilizzatrice”.
Fortunatamente, però, possiamo sempre cambiare prospettiva e rigettare la distinzione manichea e razzista tra noi e loro, onnipresente nei talk show televisivi venti anni fa come oggi; “cosa intende dire con “noi” il commentatore delle notizie serali” scriveva infatti Said già nel 2004 “quando chiede educatamente al segretario di Stato se le “nostre” sanzioni contro Saddam Hussein erano giustificate, mentre milioni di civili innocenti, non di membri dello “spaventoso regime”, vengono uccisi, mutilati, affamati e bombardati perché noi possiamo dare prova del nostro potere? O quando il giornalista televisivo chiede all’attuale segretario di Stato se, nella nostra furia di perseguire l’Iraq per le armi di distruzione di massa (che in ogni caso nessuno è mai stato in grado di trovare), “noi” applicheremo a tutti lo stesso principio e chiederemo a Israele di rendere conto delle armi in suo possesso senza ottenere risposta? […] Bisognerebbe trovare il coraggio” conclude Said “di dire nel modo dovuto: io non faccio parte di questo “noi”, e quello che “voi” fate, non lo fate in mio nome”.

Joe Biden

Se anche tu non vuoi più far parte di quel “noi” e vuoi combattere per un’informazione che sostenga la lotta degli oppressi e non dia corda alla propaganda degli oppressori, l’appuntamento è per domani mercoledì 8 novembre alle 21:00 in diretta su Ottolina TV con una nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina TV in collaborazione con Gazzetta filosofica. Ospite d’onore Emiliano Alessandroni, docente presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo“. E se, nel frattempo, anche tu credi che per una democrazia reale in grado di combattere l’imperialismo anche sul piano culturale prima di tutto ci sarebbe bisogno di un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%, aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina TV su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è zio Joe Biden

A.A.A. solidarietà cercasi

Citata e abbandonata a più riprese nella storia del pensiero, continua a indicare una pratica combattente, capace di plasmare le interconnessioni del mondo multipolare verso uno sbocco rivoluzionario.

9 maggio 1950. Per salutare la nascita della nuova creatura europea chiamata CECA, il padre fondatore Robert Schuman pronuncia queste parole:

“L’Europa non potrà farsi in una volta sola, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino innanzitutto una solidarietà di fatto.”

Ne è passata di acqua sotto i ponti di Bruxelles, eppure il continuo richiamo alla solidarietà tra i paesi europei non si è mai sopito, tanto da essere chiamato in causa nel Trattato dell’Unione Europea, nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e persino nel preambolo della sua Carta dei diritti fondamentali.
Tuttavia, è sotto gli occhi di tutti come la solidarietà tanto evidenziata sulla carta si sia spesso trasformata in lettera morta, se non nel suo contrario: il processo di costruzione europeo, che pareva a tutti una strada spianata, si è rivelato un ottovolante con le politiche del Vecchio Continente sospese tra contraddizioni economiche, politiche neoliberiste, conflittualità vecchie e nuove tra blocchi contrapposti. Tanto che qualche maligno potrebbe trovare un nesso tra lo svuotamento della solidarietà europea e l’uso del tutto arbitrario e spregiudicato della parola stessa come slogan. 

A poche ore dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, ad esempio, Ursula Von der Leyen si è precipitata su Twitter a garantire la solidarietà dell’intera Unione per Israele:

Seguendo a ruota, manco a dirlo, le posizioni (ora molto più sfumate), della Casa Bianca:

“Il presidente Biden ha parlato questa mattina con il primo ministro israeliano Netanyahu. Il Presidente ha espresso ancora una volta profonda solidarietà per tutti i dispersi, i feriti e gli uccisi e ha garantito il suo pieno sostegno al governo e al popolo di Israele di fronte a un attacco senza precedenti e spaventoso da parte dei terroristi di Hamas”. – Washington, 8 ott. (Adnkronos)

Sembra il destino funesto della solidarietà: diventare un po’ come il prezzemolo; un termine vuoto o quantomeno ambiguo, privo di riferimento e interesse politico, come “amicizia”, “fratellanza” o “sistema internazionale basato sulle regole”.

E’ per solidarietà che si pagano le tasse, che si aiuta il prossimo, che si danno soldi ai bisognosi o che si aiutano i paesi “sottosviluppati” a “svilupparsi”, ovviamente sempre e solo nelle modalità decise a tavolino dal Nord Globale. Ma c’è forse qualcosa di più: perché la solidarietà come pratica concreta sembra ancora possedere una forza dirompente. Ne sono un esempio le centinaia di migliaia di persone scese in piazza in tutte le città del Vecchio Continente, questa volta per il popolo palestinese. Persino da noi, noti vassalli di Washington, si è mosso qualcosa. A Roma, per esempio, dove

“I collettivi di Osa – Opposizione studentesca d’alternativa, Zaum e Cambiare Rotta, protestano contro la riunione straordinaria del senato accademico dedicato a una risoluzione di condanna agli attacchi di Hamas e in difesa di Israele. “Rettrice, non te la faremo passare questa”, hanno urlato i manifestanti nei megafoni indirizzandosi ad Antonella Polimeni. “Rettrice, stiamo arrivando”. I collettivi hanno provato a entrare negli uffici del Rettorato durante la riunione straordinaria del senato accademico ma sono stati bloccati dagli agenti. Poi è stato scandito il coro ‘Palestina libera’ ed è stato esposto uno striscione ‘Con la Resistenza fino alla vittoria’. Gli studenti pro-Hamas protestano contro una mozione che sosterrebbe ‘la brutalità di Israele contro il popolo palestinese che da decenni massacra donne, bambini, famiglie e distrugge case'”. (Roma, 10 ott. – Il Tempo)

Esiste persino una giornata del calendario, il 29 novembre, che l’ONU, nota organizzazione filo-Hamas e filo-putiniana, dedica ogni anno alla “Solidarietà con il Popolo Palestinese”.

Stessa parola d’ordine, solidarietà, con risultati diversi: se il coro di solidarietà per Israele, inteso come “sostegno incondizionato” whatever it takes, ha ricevuto pronta eco e diffusione in tutte le testate mainstream, le manifestazioni solidali con la causa palestinese si sono prese le manganellate (virtuali o reali) da parte di quel circo mediatico per il quale uno stato terrorista e suprematista, solo in quanto “democratico”, diventa un baluardo della libertà nel Mondo.

Se possiede il potere di far mobilitare le coscienze di mezzo globo, allora, la solidarietà non è un concetto vuoto o superfluo, ma denota una pratica importante e potenzialmente incisiva per i sempre più fragili equilibri del Nord Globale, afflitto da sempre più contraddizioni in ambito politico, economico e sociale.

Tuttavia, un conto è incontrare la solidarietà nel quotidiano, altro è indagarla nelle sue radici storiche come concetto. E’ a quest’opera di scavo che Alessandro Volpe si è cimentato col suo saggio Solidarietà. Filosofia di un’idea sociale, nel tentativo di abbozzarne una sorta di genealogia per mettere a fuoco le sue radici combattenti.

Non è un caso, ad esempio, che i riferimenti alla solidarietà spuntino agli albori della Rivoluzione Francese, come evoluzione dell’idea di fraternità. Prima della presa della Bastiglia, infatti: 

“le parole liberté e egalité erano accompagnate solo da ‘Unité indivisible de la République’ e dal monito ‘ou la mort’ – ‘o la morte’ – più tardi rimosso perché troppo legato agli anni del Terrore”, mentre la “fraternité era intesa in termini sociali come la realizzazione della libertà politica di tutti i cittadini”.

Dal concetto di fratellanza, alla base tanto della concezione di solidarietà cristiana quanto, per il rimando ai legami di sangue, della solidarietà di matrice nazionalista ed etnica, emerge un’idea di rapporto che va oltre il riconoscimento dell’altro come “fratello”: la solidarietà si configura come pratica inserita in un sistema di interdipendenza sociale e di lotta per il riconoscimento dei propri interessi e obiettivi, che attecchisce sulle condizioni materiali di lavoro dei singoli. 

Il primo a tratteggiare compiutamente questa nuova concezione di solidarietà nella società otto-novecentesca è stato Émile Durkheim, per il quale il tratto distintivo di questo nuovo contesto socio-produttivo figlio delle due rivoluzioni industriali è proprio l’inevitabile interdipendenza tra individui che si concepiscono sempre più liberi e autonomi rispetto alle situazioni passate. Una condizione paradossale, sulla quale il noto antropologo si arrovellava senza sosta: 

“Come avviene che, diventando più autonomo, l’uomo dipenda più strettamente dalla società? Come può allo stesso tempo individualizzarsi ed essere sempre più vincolato ai legami di solidarietà?”  

un quesito a cui Durkheim risponde, nella lettura di Habermas, che ci troviamo di fronte a:

“una nuova forma di solidarietà che non è più garantita da un consenso di valore precedente, ma deve essere realizzata in cooperazione grazie agli sforzi individuali. Al posto di un’integrazione sociale attraverso la fede, abbiamo un’integrazione sociale attraverso la cooperazione.”

La solidarietà come concetto socialmente determinato attraversa quindi delle fasi alterne, sempre al centro delle riflessioni dei pensatori più diversi: da Proudhon a Weber, da Scheler all’anarchico Kropotkin.

E’ con lo sviluppo teorico del socialismo, però, che la solidarietà traghettata nel Novecento inizia a rivestire un ruolo  importantissimo non solo come sistema di mutuo riconoscimento, appoggio e consapevolezza della classe lavoratrice, ma soprattutto come guida del blocco delle classi subalterne per soppiantare quelle dominanti. Come attestato in un celebre saggio del 1919 del filosofo György Lukács:

“La solidarietà propagandata dai più grandi filosofi della borghesia come ideale sociale irraggiungibile esiste realmente nella coscienza di classe, negli interessi di classe del proletariato. Nella storia del mondo, la vocazione del proletariato si rivela nel fatto che la realizzazione dei suoi interessi di classe porta con sé la liberazione sociale del genere umano.”

Proprio dal solco della tradizione socialista e rivoluzionaria si aggiunge quindi un tassello fondamentale per definire la solidarietà, che Alessandro Volpe sintetizza lucidamente come: 

Una relazione simmetrica di mutuo supporto e condivisione del rischio, basata sul riconoscimento di una causa comune.

Lungi dall’essere un ideale astratto di mutuo aiuto tra individui, che prescinde da qualsiasi collocazione socio-economica, e quindi dal riconoscimento della condizione di interdipendenza (e di dominio/sottomissione) tra soggetti, la solidarietà si realizza come pratica combattente. Praticarla non significa perciò agire nel solo rispetto della libertà altrui, seguendo la massima liberale “la mia libertà finisce dove inizia la tua”, ma riconoscere pari dignità agli interessi dell’altro e impegnarsi con l’altro nella realizzazione di un obiettivo comune

Che si parli di una battaglia inter-statale per uno sviluppo sostenibile, di scioperare per un salario dignitoso con altri lavoratori o di sostenere come privati cittadini o associazioni il riconoscimento del popolo palestinese o kurdo, è la causa comune che dà senso e direzione alla pratica solidale

Un semplice aiuto economico o materiale nei confronti di chi è in posizione di bisogno, ad esempio, non va confuso con un atto solidale.

Manca, infatti, il riconoscimento del bisognoso come nostro “pari” e la condivisione di una causa (e dei rischi connessi al suo perseguimento). 

Che si sviluppi tra singoli cittadini, tra soggetti politici o associativi, tra classi o tra interi Paesi, la solidarietà appare un motore imprescindibile per richiamare l’attenzione sulle contraddizioni del sistema economico-sociale; e in questa prospettiva si può capire come, viceversa, banalizzarne la portata o utilizzarne il concetto come “prezzemolo retorico” buono per tutti i contesti, diventi una strategia mediatica effcace per soffocare il suo afflato rivoluzionario. Viviamo in un mondo globalizzato e multipolare, dove è sempre più stretta ed esplicita l’interdipendenza tra singoli cittadini, stati sovrani emergenti, popoli in cerca di un riconoscimento per troppo tempo negato dalla gerontocrazia suprematista occidentale; dove le “sovrastrutture” di giustizia internazionale apparentemente neutrali celano a fatica lo squilibrio di potere in favore del Nord Globale; dove anche i paesi dell’UE condividono una storia ma non una vera causa comune; in questo mondo, affermare la solidarietà come pratica politica e sociale non è un optional, ma una tappa strategica obbligata.

[LIVE OTTOSOFIA] Perché in Italia falliscono sempre le rivoluzioni?

Live del 18/10/2023 ore 21.00 – Questa sera approfondiremo il tema della rivoluzione in Italia, tratto dal video pubblicato questa mattina.
Ospite della serata Stefano Brugnolo, autore del libro “Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo”.

Perché in Italia non c’è mai stata una rivoluzione?

Rivoluzioni mancate, una lunga tradizione italiana. Ce ne fosse mai riuscita una: dalla rivoluzione scientifica alla riforma religiosa, dalle rivoluzioni di fine ‘700 al  risorgimento, dal biennio rosso fino alla guerra partigiana: la storia del nostro paese è in buona parte storia del fallimento sistematico di ogni tentativo di rivoluzionare alla radice i rapporti sociali, morali e politici.  Perché?
Io sono Valentina Morotti, e questa è la nuova puntata di “Ottosofia” e oggi parliamo di una delle più importanti e durature tradizioni italiane: le rivoluzioni mancate.
Biennio rosso (1919-1920): mai come allora l’Italia è stata davvero sull’orlo di una rivoluzione. Duemila scioperi, oltre 3 milioni di lavoratori mobilitati dal sindacato – per la stragrande maggioranza di fede socialista – e con il Partito Socialista che alle elezioni del novembre del 1919 raggiunge la quota astronomica del 32% e triplica in un balzo i propri seggi in Parlamento. Sull’onda lunga della Rivoluzione d’Ottobre, tra gli operai europei era emerso il bisogno di organizzare in modo nuovo la lotta per “fare dappertutto come in Russia”. Nelle industrie torinesi spuntano come funghi i consigli di fabbrica, guidati da uno degli intellettuali più importanti della storia del nostro paese: Antonio Gramsci. E’ lui a investire l’avanguardia operaia di un ruolo rivoluzionario fondamentale: quello di costituire la base di una nuova “democrazia proletaria” che si opponga alla democrazia parlamentare borghese, scossa alle fondamenta e terrorizzata dal contagio della “febbre bolscevica” dalle pianure dell’est. Tutto sembra pronto a un cambiamento esplosivo, il tritolo è ben posizionato, ma proprio sul più bello ecco che qualcosa si inceppa nell’innesco; il Partito Socialista, infatti, incapace di porsi alla testa delle masse, non riesce a dare alle occupazioni e alle esperienze dei consigli di fabbrica una degna traduzione politica. Un’incapacità strategica e addirittura, potremmo dire, filosofica che finisce per disinnescare il Biennio Rosso, trasformandolo in un’altra delle tante rivoluzioni mancate del nostro paese.

in foto: Antonio Gramsci

Ma com’è potuto accadere? Dove si nasconde l’anello debole nella guida politica del PSI che ha impedito la creazione di un laboratorio rivoluzionario? E’ a partire da queste dolorose domande che si snoda la riflessione di Gramsci sull’incapacità del suo partito di organizzare politicamente le sollevazioni operaie. Nei “Quaderni dal carcere” Gramsci giunge all’apice della sua ricerca sul fallimento delle rivoluzioni in Italia, ampliando il discorso alla storia italiana passata e ricollegandosi all’elefante nella stanza del Risorgimento: la mancata rivoluzione agraria. Laddove il Risorgimento avrebbe potuto prendere una direzione popolare e rivoluzionaria, camminando sulle gambe della classe contadina per riscattarla socialmente ed economicamente, quella maledetta riforma agraria non arrivò; anche e soprattutto, sottolinea Gramsci, per l’ostilità culturale più o meno esplicita delle élites liberali del tempo. Nella classe politica borghese e cittadina, sottolinea il filosofo, “c’è l’odio e il disprezzo contro il “villano”, un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna”. (Gramsci, “Quaderni dal carcere”, p. 2035).
E ovviamente, come in ogni contro-rivoluzione che si rispetti, quel “fronte unico” implicito diventa esplicito, riesumando le forze sociali uscite bastonate e frastornate dai cambiamenti in corso nel tentativo di stabilizzare lo status quo. Nasce così la forza reazionaria post-risorgimentale, fondata sull’alleanza eclettica tra borghesi del Nord e grandi latifondisti del Sud, con uno scopo ben preciso, divenuto fatto storico: il soffocamento dei contadini del meridione, delle loro rivendicazioni e della loro forza organizzativa. Per Gramsci, dunque, il problema del Mezzogiorno esplode nella pancia dello Stato unitario come una lacerante contraddizione: non solo l’organizzazione dello stato unitario privilegiava una piccola fetta della società, trascurando le classi popolari e i loro bisogni, ma era anche incapace di percepirle e interpretarle come un soggetto di trasformazione storica. La soluzione, per la minoranza di latifondisti e borghesi, non poteva essere che schiacciare – non solo fisicamente ma anche ideologicamente – la grande maggioranza contadina. E’ questo mix di condizioni socio-economiche e mancato riconoscimento culturale che, nella riflessione di Gramsci, unisce la possibilità di rivoluzione nel presente con i mancati cambiamenti nel passato, poiché per lui “il passato non era solo ciò che doveva essere, bensì anche, se non soprattutto, ciò che avrebbe potuto essere e non era stato; ciò che è rimasto irrealizzato e che però ancora chiede di svolgersi, di attuarsi”. (Brugnolo, p. 266).
Con i Quaderni si lancia così uno spunto di riflessione sulle condizioni economiche, sociali e culturali che permettono a una rivoluzione di passare dall’utopia alla realtà, ed è il filo rosso al quale prova a ricollegarsi Stefano Brugnolo, professore di teoria della letteratura all’università di Pisa, e autore di “Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo”.

in foto: Stefano Brugnolo

Nella sua riflessione, Brugnolo individua proprio nei “Quaderni dal carcere” “il testo fondamentale per chiunque voglia indagare il rapporto che gli italiani hanno avuto con quel grande non-evento che è stata la rivoluzione mancata”. Il libro parla del modo in cui gli intellettuali italiani hanno interpretato quella lunga tradizione di rivoluzioni mancate in Italia, perché “qui da noi la rivoluzione si è rivelata un disperante appuntamento mancato, costringendo gli scrittori e gli intellettuali a ritornare tante e tante volte su quel nodo irrisolto, a ripensarlo e elaborarlo”. Un j’accuse, quello di Brugnolo, che mette sulla graticola tutte le figure di spicco del panorama intellettuale italiano storicamente associate alle grandi rivoluzioni, come quella scientifica contro il sistema tolemaico. Mettendo a fuoco la figura storica di Galileo Galilei, ad esempio, Brugnolo tratteggia il profilo di un intellettuale che non c’entra nulla col rivoluzionario protagonista dell’opera di Brecht “Vita di Galileo”: i testi di Galileo, piuttosto, ci raccontano di un’altra straordinaria rivoluzione culturale mancata che affonda le sue radici nell’incapacità dello scienziato toscano di comunicare al popolo la sua innovativa visione del mondo. Per Galilei, infatti, la verità semplicemente non è adatta per il popolo, ma solo “per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe”. Le sue opere in volgare sono rivolte a loro e di certo non alla massa.
Sospetto e diffidenza, ecco ciò che Galileo prova verso il popolo: non desidera coinvolgerlo nella sua rivoluzione culturale e, a differenza della sua controparte immaginata da Brecht, non cerca di intaccare con le sue teorie le fondamenta del sistema politico-culturale in cui vive. “Uno dei primi grandi esponenti della ragione moderna”, scrive Brugnolo, proprio “nel mentre lancia il suo progetto, esprime la sfiducia nella possibilità di socializzare quel nuovo modo di pensare, trasformandolo in una forza sociale capace di cambiare il mondo”. Un’occasione mancata.
La stessa sfiducia nelle masse si rintraccia in un peso massimo del Risorgimento, Alessandro Manzoni. Anche lui, sia nei “Promessi sposi” che nel “Saggio sulla rivoluzione francese”, dà voce a tutta la sua diffidenza verso i cambiamenti rivoluzionari democratici. Ad esempio, nel capitolo XXVIII dei “Promessi Sposi” sulla rivolta dei forni, Manzoni spara a zero sulla rivoluzione giacobina: riprendendo i saccheggi compiuti durante le rivolte popolari, lo scrittore paragona le politiche economiche di Ferrer e Robespierre affermando che la colpa per entrambe è della pressione esercitata dalle masse incolte: scrive Manzoni che in Francia “si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti ad onta de’ tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa […] e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge”.

in foto: Alessandro Manzoni

Per Manzoni è il popolo bestia che forza – con la violenza e senza avere alcuna cognizione di politica economica – la mano al decisore politico, che arriva ad adottare misure sciagurate per compiacere demagogicamente il vulgus profanum. Del resto, si parla di quello stesso “volgo disperso” che circa vent’anni prima, nelle pagine di “Adelchi”, aveva sollevato il capo e in maniera miope, secondo il demofobico Manzoni, si era illuso di liberarsi dal giogo longobardo confidando nel ‘disinteressato’ liberatore franco. Sono solo due esempi, ma sono sufficienti se pensiamo a quanto Manzoni sia importante per la letteratura e la cultura italiana. Non è difficile intuire, perciò, l’influenza che ha avuto Manzoni sul nostro dibattito intellettuale e a quanto questi giudizi hanno contribuito a formare la nostra cultura. Il romanzo italiano nasce così – attraverso la penna del suo più illustre pioniere – nel segno del realismo inteso come giudizio negativo sulla rivoluzione democratica. Quando la nostra classe intellettuale si è trovata di fronte la rivoluzione, o ne è stata terrorizzata o è stata incapace di comprenderne la portata; diventa chiaro come il sole che la paura del potere delle masse per le sue manifestazioni estreme (Manzoni e Verga) e la paura di “sporcare” il progresso culturale tramite la sua divulgazione (Galilei), sono due facce della stessa medaglia ideologica. E’ questa cappa culturale controrivoluzionaria che, nei termini gramsciani, si è tradotta in un’ideologia egemone nel corso dei secoli, schiacciando e delegittimando ogni pretesa di cambiamento. La soluzione, per il pensatore sardo, non può che essere una: costruire una classe intellettuale che sia al contempo parte della classe popolare e capace di porsi come sua avanguardia e rappresentante. Un partito parte della classe quindi, che sappia condurre una battaglia essenzialmente culturale per ribaltare i rapporti di forza ed esercitare una nuova egemonia. In sostanza: tutto ciò che è mancato e manca in Italia per dare il giusto peso e rappresentanza alle classi lavoratrici subalterne.
Nel libro, Brugnolo osserva che il pensiero della rivoluzione è “un pensiero capace di concepire il mondo come radicalmente “altro” da quel che è attualmente” e la forza della letteratura è quella di poter immaginare i possibili, quello che non è o non è stato, il negativo dell’esistente attuale, come il mondo dopo la rivoluzione. Se la rivoluzione è stata il grande represso della letteratura moderna, di una letteratura che provava a dare voce a come le cose non sono e potrebbero essere, questo provare a immaginare la rivoluzione nella letteratura di oggi è scomparso: oggi non c’è nemmeno più la capacità di immaginare la rivoluzione. Riusciamo a pensare la fine del mondo ma non il suo cambiamento, la catastrofe di questo pianeta piuttosto che la fine del capitalismo. Il capitalismo ci ha privato dei sogni: lo diceva già Pasolini, che vedeva in quei ragazzi di vita che erano ancora fuori da certe logiche consumistiche i semi del futuro conformismo, di un’omologazione che avrebbe spento le loro energie vitali. L’ultimo Pasolini parla dei giovani sottoproletari che sono stati conquistati dagli ideali borghesi perché la borghesia è ancora la classe dominante e egemone, mentre gli operai erano già da anni stati conquistati dagli ideali piccolo-borghesi del benessere economico. Anche il potenziale rivoluzionario del sottoproletariato urbano viene conquistato dai valori consumistici della classe borghese, che è sempre la classe egemone che impone non solo il proprio sistema di produzione ma anche i propri valori, il proprio immaginario, il proprio sistema di immaginare il mondo.
La conclusione del libro è che il tardo capitalismo, dopo la fine delle utopie novecentesche e il trionfo del neoliberismo, avrebbe atrofizzato la capacità di immaginare la rivoluzione. “Il sogno si è rattrappito”, come diceva Gaber.
Per farlo rifiorire dobbiamo discuterne senza troppi giri di parole, e se anche tu sei stufo degli intellettuali che amano i salotti e disprezzano il 99%, aiutaci a costruire il vero primo media che al 99% invece vuole dargli voce. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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CONTRO IL FEMMINISMO LIBERALE: Cosa è e perché abbiamo bisogno di un Femminismo per il 99%

Argentina, Marzo 2015.

Contro il dilagare di femminicidi e la violenze sulle donne nasce il movimento Non Una Di Meno, ispirato dai versi della poetessa messicana Susana Chávez, vittima essa stessa di femminicidio: “Né una donna in meno, né una morta in più”.

Da lì in avanti l’onda femminista travolgerà rapidamente l’intera America latina, per poi lambire il Vecchio continente, fino addirittura alla Polonia, dove nel 2016, grazie ad oceaniche proteste di piazza, viene bloccata una proposta di legge per vietare le interruzioni di gravidanza anche in caso di gravi malformazioni del feto. 

Sempre nel 2016 Non Una Di Meno sbarca anche in Italia, dove però non si limita a fare proprie le battaglie del collettivo argentino, ma le integra con nuovi strumenti interpretativi, a partire dal concetto di intersezionalità.

Il concetto di intersezionalità era stato introdotto per la prima volta nell’ormai lontano 1989 dalla giurista statunitense Kimberlé Crenshaw per descrivere “i diversi modi in cui la razza e il genere interagiscono per determinare le molteplici esperienze delle donne nere sul terreno del lavoro”.

Riadattato, viene esteso a sostanzialmente tutte le contraddizioni che attraversano le nostre società: di razza, di genere, ma anche di classe, di religione e addirittura anagrafiche. L’idea è che scopo dell’analisi non sia più stabilire una gerarchia tra questi piani diversi, ma indagarne le interazioni, mettendo tutto sullo stesso piano e riconoscendone ad ognuna pari dignità.

L’anno dopo, il 2017, negli USA è l’anno del Me Too, movimento che denuncia molestie e abusi sessuali e che prende nome dall’hashtag diventato virale dopo le accuse da parte di alcune attrici di Hollywood contro il produttore cinematografico Harvey Weinstein.

Sempre nel 2017, secondo la Merriam-Webster, lo Zingarelli statunitense, femminismo è la parola dell’anno. Il termine, infatti, ha visto esplodere l’interesse da parte del pubblico (+70% rispetto al 2016) ed è stato il più cercato nel web in concomitanza con fatti di cronaca e notizie giornalistiche.

La parola “femminismo” è diventata trend topic associato a serie e film, come “The Handmaid’s Tale”, che raffigura un Nordamerica distopico dove l’infertilità è capillare e le donne fertili divengono incubatrici per ricche coppie sterili, o “Wonder Woman”, il primo film su un supereroe diretto da una donna e con una visione del mondo scevra da pregiudizi sui ruoli di genere.

Insomma: un fenomeno politico, sociale e culturale di dimensioni gigantesche, che chi vuole capire cosa gli succede attorno non può esimersi da studiare e indagare a fondo.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno storia e filosofia nelle scuole superiori, e questo è il nuovo episodio di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo dei limiti e delle contraddizioni del femminismo liberale, e dell’urgenza, al contrario, di un femminismo per il 99%.

Femminismo per il 99%”, proprio così si intitola il libro manifesto del 2019 firmato da Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser.

L’obiettivo è quello che la Fraser aveva annunciato già 6 anni prima in un celebre articolo pubblicato sul Guardian. “Come il femminismo è diventato l’ancella del capitalismo. E come riappropriarsene”, era il titolo.

Come femminista”, scriveva allora Fraser, “ho sempre pensato che, combattendo per l’emancipazione delle donne, stavo anche costruendo un mondo migliore – più egualitario, più giusto, più libero. Ultimamente”, riflette però Fraser, “ho cominciato a temere che gli ideali ai quali le femministe hanno aperto la strada vengano utilizzati per scopi molto diversi. In particolare”, sottolinea, la nostra critica del sessismo”, sembra che oggi venga utilizzata per giustificare “nuove forme di disuguaglianza e di sfruttamento.

Una volta”, specifica Fraser, “il movimento delle donne aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi”, conclude amaramente, “festeggia le imprenditrici”. Se prima si valorizzavano “la “cura” e l’interdipendenza umana”, oggi ci siamo ridotti a incoraggiare “il successo individuale e la meritocrazia”. Ma com’è potuto accadere? Per capirlo, sostiene Fraser, bisogna ampliare lo sguardo, e affrontare il nodo del “paradigma capitalista, che, sostiene, nel tempo “ha cambiato completamente rotta”.

Il capitalismo stato-assistito del dopoguerra”, scrive Fraser, “ha lasciato il posto a una forma innovativa di capitalismo, “disorganizzato”, globalizzato, neoliberista”.

Chi segue Ottolina sa che sul “disorganizzato” non siamo molto d’accordo, che il capitalismo neoliberista è più organizzato e pianificato che mai, solo che il pianificatore invece che gli Stati sono diventati direttamente le oligarchie finanziarie. 

Ma l’intuizione di Fraser rimane potentissima. “La seconda ondata del femminismo”, scrive, “è emersa come critica al capitalismo di prima maniera”, proprio mentre quel paradigma si era ormai trasformato in qualcosa di ancora più feroce e pervasivo.

E paradossalmente, di questo nuovo capitalismo più feroce e pervasivo, invece, il femminismo, è diventato addirittura “ancella”, fedele servitore. La trasfigurazione non poteva essere più radicale. Da componente essenziale della battaglia generale per l’uguaglianza, il femminismo si è così trasformato in battaglia per le “pari opportunità di dominio”. 

Ed ecco così che “in nome del femminismo”, si arriva a chiedere “alle persone comuni di essere grate che sia una donna e non un uomo a mandare a rotoli il loro sindacato, a ordinare a un drone di uccidere i loro genitori o a rinchiudere i loro figli in una gabbia al confine col Messico”. (Femminismo per il 99%. Un manifesto).

Per contrastare una deriva così radicale, sostiene Fraser, qualche critica puntuale qua e là non può bastare. C’è bisogno di intraprendere una battaglia intellettuale e culturale a tutto tondo, in grado di riconsegnarci strumenti di indagine adeguati per svelare il funzionamento concreto di questo nuovo capitalismo, e come questo funzionamento impatta direttamente anche sulle questioni di genere. 

Un obiettivo ambizioso, che sta alla base dell’ultima fondamentale opera  di Fraser, “Capitalismo Cannibale – come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta”.

Sulla scorta delle riflessioni di Marx e del marxismo, sostiene Fraser, abbiamo imparato a mettere a fuoco il capitalismo come sistema economico basato sulla merce e quindi sulla mercificazione del lavoro salariato fondata su un rapporto di dominio produttivo: il capitalista domina e sfrutta, il lavoratore è costretto a vendere la propria umanità sul mercato “per essere apprezzato al suo giusto valore”.

Marx, ribadisce Fraser, ha avuto il merito di essere sceso al di sotto del livello fenomenico dello scambio mercantile, rilevando che al cuore del capitalismo vi sono le imprese, cioè delle organizzazioni gerarchiche nelle quali chi mette il capitale domina e tutti gli altri sono dominati. Ma i rapporti di produzione, fondati sullo sfruttamento di molti da parte di pochi, sono solo una parte del quadro complessivo.

Perché oltre alla dimensione economica-produttiva ci sono altri rapporti di dominio che quello sfruttamento lo rendono possibile e senza i quali l’intera macchina non potrebbe funzionare. “Il capitalismo”, sottolinea lucidamente Fraser, “non è un’economia, ma un tipo di società caratterizzata da un’area di attività e relazioni economizzate distinta e delimitata da altre zone non-economizzate, da cui la prima dipende senza riconoscerle”.

La sfera della politica internazionale, ad esempio, che è caratterizzata da rapporti di dominio di tipo neocoloniale da parte del Nord Globale nei confronti del resto del mondo; o la sfera della politica, dove gli spazi di decisione e deliberazione democratica vengono sempre più ristretti e marginalizzati a favore del potere decisionale delle élites politico-finanziarie; o ancora, la sfera dell’ambiente, inteso come insieme di natura non-umana e che viene utilizzato come fucina inesauribile di risorse e sottoposto a uno sfruttamento sempre più brutale; e per finire, ovviamente, la sfera della “cura, ovvero tutto quel lavoro non retribuito senza il quale si incepperebbe tutto e che ricade quasi interamente sulle spalle del genere femminile.

Il lavoro salariato”, scrive Fraser infatti, “non potrebbe esistere in assenza del lavoro casalingo, dell’accudimento e dell’istruzione dei figli, della cura affettiva e di una miriade di altre attività che contribuiscono a creare nuove generazioni di lavoratori, a sostenere quelli esistenti e a mantenere legami sociali e visioni condivise” (Capitalismo cannibale).

Dalla sfera della produzione, magistralmente descritta ormai oltre un secolo e mezzo fa da Marx, Fraser così si allarga a quella della ri-produzione: “L’attività socio-riproduttiva”, scrive Fraser, “è assolutamente necessaria per l’esistenza del lavoro salariato, per l’accumulazione di plusvalore e per il funzionamento del capitalismo in quanto tale”.

Sebbene l’economia capitalistica non riconosca alle attività di sostentamento, di cura e di interazione che producono e mantengono i legami sociali alcun valore monetario e le tratti come se fossero gratuite, in realtà ne è totalmente dipendente. L’occultamento del ruolo essenziale di tutte queste attività è in larga parte dovuto al loro essere state forzatamente relegate in una sfera privata, distinta dalla sfera economica e sociale propriamente detta.

La lunga battaglia che ha attraversato il XX secolo è consistita in buona parte invece proprio nel loro riconoscimento e nella rivendicazione che a farsene carico fosse sempre di più lo stato, attraverso la fornitura di quelli che oggi chiamiamo servizi pubblici essenziali: dall’istruzione alla sanità.

In questo modo queste attività uscivano dalla sfera privata, senza però essere trasformate in merce.

La controrivoluzione neoliberista in buona parte consiste proprio nel riportare indietro le lancette della storia che marciavano spedite verso la sempre crescente soddisfazione di questi bisogni primari da parte della collettività e delle sue istituzioni.

Tutto quello che è cura, cessa così di essere riconosciuto nel suo valore sociale di precondizione essenziale alla produzione stessa, e da responsabilità collettiva torna ad essere responsabilità privata.

Ed è proprio nelle modalità in cui avviene questa ri-privatizzazione di queste funzioni sociali essenziali che si gioca tutto lo scontro di facciata tra le due facce della stessa medaglia del dominio capitalistico contemporaneo, quella fintamente progressista, e quella realmente reazionaria: dove quella reazionaria mira semplicemente a ristabilire le vecchie gerarchie in ambito domestico, con la donna che torna all’acquaio, quella fintamente progressista mira a trasformare anche queste funzioni ri-privatizzate in merce, con donne e uomini che molto progressivamente e senza discriminazioni si devono spaccare la schiena entrambi 12 ore al giorno per affidare la cura dei loro cari a qualche azienda privata, possibilmente di proprietà di qualche fondo speculativo.

Il femminismo liberale, in sostanza, è proprio per questo che si batte ed è per questo che trova nel grande capitale all’affannosa ricerca di nuovi spazi dove essere impiegato in modo profittevole e garantito uno sponsor entusiasta. Ed ecco così spiegato, continua Fraser, come una parte del movimento femminista sia diventato “ancella del capitale”: concentrandosi solo su una delle sfere del dominio (quello della discriminazione di genere), ha spalancato la porta ad altre forme ancora più feroci.

E, sostiene Fraser, tutto sommato anche insostenibili.

Da un lato”, scrive infatti Fraser, “la produzione economica capitalista non è autosufficiente, ma dipende dalla riproduzione sociale; dall’altro, la sua spinta a un’accumulazione illimitata minaccia di destabilizzare proprio i processi e le capacità riproduttive di cui il capitale e noi tutti abbiamo bisogno”.

L’effetto”, sottolinea Fraser, “è quello di mettere periodicamente a rischio le necessarie condizioni sociali dell’economia capitalistica stessa”.

Per farci capire meglio questa contraddizione, Fraser ci fa pure, diciamo così, un disegnino. L’uroboro infatti è un simbolo rappresentante un serpente o un drago che si morde la coda.

Distruggendo le proprie condizioni di possibilità”, sostiene Fraser, “la dinamica di accumulazione del capitale imita l’uroboro e si mangia la sua stessa coda”.

Capita la minaccia, però, ora occorre trovare anche il rimedio. E il rimedio, secondo Fraser, si chiama Socialismo. Però, precisa, un Socialismo del XXI secolo

Per la filosofa, infatti, il socialismo del XXI secolo “Deve de-istituzionalizzare le molteplici tendenze alla crisi: non «solo» quella economica e finanziaria, ma anche quella ecologica, quella socio-riproduttiva e quella politica.

Occorre quindi andare oltre la sola prospettiva economica e smascherare in un colpo solo l’ideologia del capitale, che separa le sfere del sociale, occultando la loro importanza come precondizioni per lo sfruttamento economico, ma anche quella di un certo socialismo, che si concentra solo sulle aree di crisi economiche, trascurando le altre.

La proposta di Fraser è di invertire il rapporto gerarchico tra economia e politica: “Un socialismo per il XXI secolo deve democratizzare il processo di progettazione istituzionale, rendendo il contenuto e la portata dei diversi ambiti sociali una questione politica. In breve”, scrive, “ciò che il capitalismo ha deciso per noi alle nostre spalle dovrebbe essere scelto da noi attraverso un processo decisionale collettivo e democratico”.

L’autrice immagina un sistema decisionale in cui il mercato e la proprietà privata non svolgano più un ruolo di direzione. “Qualsiasi cosa venga deciso”, scrive, “dovrà essere fornito per effetto di un diritto e non solo sulla base della capacità di pagare

Non si tratta di disconoscere o mortificare aprioristicamente il mercato come strumento per la corretta allocazione delle risorse, anzi: “Una volta che il vertice e la base saranno socializzati e de-mercificati”, sottolinea infatti Fraser, “la funzione e il ruolo dei mercati nel mezzo si trasformeranno” e in questa “zona intermedia”, sarà possibile sperimentare liberamente tra diverse alternative. Accanto a forme cooperative o autogestite, anche i mercati potranno trovare un loro spazio, mettendosi a questo punto a disposizione dell’interesse generale, e non in contrapposizione ad esso.

Da questo punto di vista, il femminismo della Fraser, appunto, non è altro che un fondamentale tassello della battaglia a tutto campo che sempre di più vede contrapposte le ristrettissime oligarchie del nord globale a tutto il resto del pianeta.

Un femminismo, appunto, per il 99%

Per chi vuole approfondire, come sempre, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 27 Settembre a partire dalle 21 in diretta su OttolinaTV.

Oltre alla solita crew di Ottosofia, stasera saranno con noi, Anna Cavaliere, ricercatrice di Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Salerno, e Luca Baccelli, professore di Filosofia del Diritto all’Università di Camerino.

Nel frattempo, se anche tu sei convinto che per contrastare lo strapotere mediatico delle oligarchie e dell’1% servirebbe come il pane un vero e proprio media che dia voce al 99, aiutaci a costruirlo.

Aderisci alla campagna di sottoscrizione di OttolinaTV su GoFundMe (https://gofund.me/c17aa5e6) e su PayPal (https://shorturl.at/knrCU)

E chi non aderisce è Chiara Ferragni.

Fate fuori Berlinguer: La guerra dell’impero contro un patriota che sognava il multipolarismo

Giugno 1976

Puerto Rico

Le sette principali economie del Nord Globale si incontrano per il secondo vertice del G7. Tra loro, un osservato speciale: l’Italia.

Appena una settimana prima, infatti, in Italia si erano tenute le elezioni politiche, e il Partito Comunista aveva ottenuto la bellezza di oltre il 34% dei consensi, l’8% in più delle elezioni precedenti, avvicinando così il tanto temuto sorpasso sulla democrazia cristiana.

I presunti alleati sono terrorizzati. 

Fortunatamente per loro però l’Italia versava nel frattempo anche in condizioni economiche decisamente complesse.

Ed ecco allora la soluzione: USA, Gran Bretagna, Francia e Repubblica Federale Tedesca sottoscrivono un accordo segreto. Avrebbero concesso aiuti economici all’Italia, ma a tre condizioni: l’esclusione dei comunisti dal futuro governo, l’introduzione di alcune riforme di carattere neoliberale e il ricambio radicale della leadership democristiana.

Così, giusto se qualcuno ancora si chiedesse chi sono i mandanti dell’omicidio Moro.

Non ho esperienza o conoscenza di una politica di tale ingerenza nel passato nei confronti di un paese altamente sviluppato e stretto alleato”, avrebbe dichiarato poco dopo un funzionario inglese presente al vertice.

D’altronde, tutto sommato, le loro preoccupazioni erano più che giustificate.

Nell’Aprile del 1974 in Portogallo le forze popolari guidate dalla fazione progressista delle Forze Armate avevano messo fine ai 40 anni dell’Estado Novo di ispirazione clericofascista del dittatore Antonio de Oliveira Salazar.

Pochi mesi dopo, nel Luglio del ‘74, in Grecia cadeva il governo dittatoriale instaurato sette anni prima con il golpe dei colonnelli e nel novembre del ‘75, in Spagna, a rimandare definitivamente a marcire nelle fogne dalle quali era arrivato quell’essere vomitevole di Francisco Franco ci aveva pensato Madre Natura.

Questi eventi”, scrive lo storico Antonio Varsori, “parvero per qualche tempo far ritenere possibile uno spostamento a sinistra degli equilibri politici nell’intera Europa meridionale, nonché il collasso del blocco occidentale in questa parte del continente”.

La clamorosa avanzata elettorale del PCI avrebbe accelerato in modo probabilmente irreversibile proprio questo processo.

Il terrore del Nord Globale di fronte a questa evenienza fino ad oggi è sempre stato letto con la lente, tutto sommato comprensibile, della contrapposizione tra democrazie liberali e modello sovietico.

Preferivi vivere in Russia?”, è la domanda standard che viene rivolta ogni volta che si affronta questa incredibile storia di ingerenza e di limitazione della sovranità.

Che poi, è la stessa che ci sentiamo rivolgere ancora oggi ogni volta che parliamo di multipolarismo: “Se ti piace tanto la Cina, perchè non ci vai?”

Peccato però si tratti in realtà di una narrazione totalmente farlocca, nella quale è caduta appieno anche la stragrande maggioranza di quella che una volta era la sinistra.

Perché la realtà purtroppo è molto peggiore: la guerra senza frontiere del Nord Globale contro Berlinguer e l’idea stessa del compromesso storico infatti, ovviamente, non ha niente a che vedere con la lotta tra le democrazie e dittature.

Piuttosto, al contrario, è un esempio eclatante della guerra senza frontiere che il capitalismo oligarchico del Nord Globale ha ingaggiato da quasi 50 anni contro la democrazia stessa.

Io sono Letizia Lindi, di mestiere insegno Storia e Filosofia nelle scuole superiori, e questo è il primo episodio della nuova stagione di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di OttolinaTV in collaborazione con Gazzetta Filosofica.

E oggi parliamo di un grande eroe popolare: Enrico Berlinguer.

Al centro della nostra attenzione va posta la crisi che attraversano le società capitalistiche su scala mondiale in Europa e in Italia. Una crisi profonda e di tipo nuovo, dovuta al concorso di grandi processi di portata storica: l’ingresso e il peso crescente nell’arena mondiale di popoli e Stati prima soggetti al dominio coloniale; e l’esplodere delle contraddizioni che hanno caratterizzato lo sviluppo dei paesi capitalistici più progrediti.

Nell’ultimo anno, siamo giunti a tassi di aumento dell’inflazione che, per i principali paesi capitalistici, raggiungono cifre elevatissime […]. E gli Usa stanno cercando di riguadagnare con tutti i mezzi parte del terreno perduto […] con le manovre speculative, con una crescente invadenza di capitali, e con il ricatto tecnologico”.

Sembra l’ennesimo pippone del nostro Giulianino. E invece siamo nel 1974.

E la penna è nientepopodimeno che quella di Enrico Berlinguer: comunista, democratico e patriota.

Le relazioni speciali con gli Stati Uniti”, continua Berlinguer, “sono diventate un vero e proprio anacronismo […] e costituiscono una inaccettabile limitazione del diritto sovrano del nostro popolo di decidere in piena libertà le vie per risolvere i nostri problemi nazionali e le corrispondenti soluzioni di governo”.

Ma quella di Berlinguer non è semplicemente l’ennesima lamentela inconcludente. Al contrario, perché secondo Berlinguer, in realtà, una via italiana per emanciparsi dall’egemonia a stelle e strisce c’è.

Oggi”, scrive infatti, “è possibile una politica estera italiana che non sia più fattore di divisione del nostro popolo ma sia invece fattore di unità, ed in cui si possono riconoscere tutte le forze politiche e democratiche e le grandi correnti ideali del nostro paese”.

Secondo Berlinguer, in sostanza, la lotta per un ordine internazionale più democratico che garantisca all’Italia il pieno esercizio della sua sovranità non è appannaggio di una minoranza ideologizzata, per quanto vasta, che guarda con favore al modello sovietico, ma è un obiettivo molto più generale, in grado di tenere insieme famiglie politiche anche molto diverse tra loro, in nome dell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione.

Come diciamo sempre a Ottolina, insomma, anche per Berlinguer sovranità e multipolarismo sono le parole d’ordine del 99%.

Ma Berlinguer va anche oltre: perché la conquista da parte dell’Italia di una vera sovranità non riguarda solo gli italiani, ma in generale la comunità umana, che vede minacciata la sua stessa sopravvivenza dalla reazione potenzialmente devastante del Nord Globale al tentativo di emancipazione dalle ingiustizie dell’ordine neocolonialista da parte dei paesi che allora definivano del Terzo Mondo.

Una politica estera che abbia a proprio fondamento la difesa della nostra autonomia da interferenze e condizionamenti stranieri”, scrive infatti Berlinguer, è la condizione per “un attivo contributo dell’Italia alla distensione, e alla cooperazione con tutti i paesi del Terzo mondo”.

Ma se la proposta politica di Berlinguer non ha niente a che vedere con la rivoluzione bolscevica e l’ingresso dell’Italia nella sfera di influenza sovietica, ed anzi è tutta volta al rafforzamento della democrazia italiana e alla sua indipendenza, perchè fa così paura agli alleati occidentali?

Per capirlo, bisogna forse intenderci un po’ meglio su cosa intendiamo davvero per democrazia.

Una riflessione che nel Partito Comunista Italiano era nata parecchio tempo prima.

Già nel 1964 Togliatti nel suo memoriale di Yalta notava infatti come “oggi sorge nei paesi più grandi la questione di una centralizzazione della direzione economica, che si cerca di realizzare con una programmazione dall’alto, nell’interesse dei grandi monopoli e attraverso l’intervento dello Stato. Questa questione”, osserva lucidamente Togliatti, non solo è all’ordine del giorno a livello interno in tutti i paesi dell’Occidente, ma “già si parla di una programmazione internazionale”.

Questa “programmazione capitalistica”, avverte Togliatti, “è sempre collegata a tendenze antidemocratiche e autoritarie”, contro le quali diventa assolutamente urgente e indispensabile “opporre l’adozione di un metodo democratico anche nella direzione della vita economica”.

Contro il formalismo democratico dei paesi imperialisti, Togliatti introduce un’idea di democrazia sostanziale come strumento per ribaltare i rapporti di forza tra dominanti e subalterni. È sostanzialmente il programma da contrapporre alla controrivoluzione neoliberista che travolgerà il pianeta a partire da una decina di anni dopo, ma che Togliatti con incredibile lungimiranza aveva cominciato ad avvertire già allora.

Contro la svolta autoritaria del neoliberismo che delega la programmazione economica dall’alto alle oligarchie, la soluzione non può che essere introdurre sempre più elementi di democrazia all’interno del sistema economico stesso.

Come affermava lucidamente Luigi Longo durante l’XI congresso del PCI del 1966, “si tratta di battersi per la conquista di nuove forme di partecipazione diretta, e di nuove forme di controllo, dal basso, delle molteplici attività che costituiscono la fitta rete del potere”.

Mentre le socialdemocrazie e il tradunionismo europei erano tutti concentrati esclusivamente verso l’estensione del sistema di welfare, il PCI puntava dritto al cuore del potere capitalistico, elaborando una strategia complessiva volta a spostare strutturalmente i rapporti di forza all’interno del sistema produttivo a favore dei lavoratori. Ed è proprio in questa ottica che va letta l’idea del compromesso storico che è al centro dell’elaborazione di Berlinguer. Contro la traduzione in potere politico delle grandi concentrazioni oligarchiche di potere economico, la ricetta di Berlinguer è quella di una grande alleanza popolare in grado di trasformare in profondità le istituzioni repubblicane in senso realmente democratico. A partire dalla centralità del parlamento, dove la sovranità popolare si traduce nel potere effettivo dei rappresentanti dei cittadini produttori di controllare il sistema produttivo, ponendo così un argine alle derive tecnocratiche al servizio degli interessi delle oligarchie.

Da questo punto di vista, appunto, il piano nazionale e quello internazionale appaiono inscindibili: non si dà democrazia al di fuori della possibilità di esercitare pienamente la sovranità e non si dà sovranità al di fuori di un nuovo ordine multipolare.

La Pace al primo posto, come ha deciso di intitolare la sua raccolta di scritti e discorsi di Enrico Berlinguer sulla politica internazionale una delle punte di diamante di questa famiglia allargata che è Ottosofia, il mitico Alexander Hobel, probabilmente il più profondo conoscitore e analista di quella incredibile avventura popolare che è stata la storia del Partito Comunista Italiano. Una pace che appunto è da ottenere e difendere proprio attraverso l’ampliamento continuo degli spazi di democrazia sia a livello nazionale che internazionale. Perché “una pace non precaria, ma solida e duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia”.

Per riflettere insieme sull’incredibile attualità del pensiero di Berlinguer in questa nuova fase di contrapposizione tra la volontà di emancipazione del Sud Globale e la reazione potenzialmente devastante delle vecchie potenze imperialistiche, l’appuntamento è per stasera Mercoledì 20 Settembre a partire dalle 21 con una nuova imperdibile puntata di Ottosofia.

Ospite d’onore, ça va sans dire, il nostro amato Alexander Hobel.

E nel frattempo, se anche tu credi sia arrivato il momento di costruire un nuovo media che come Berlinguer metta LA PACE AL PRIMO POSTO, cosa fare probabilmente lo sai già.

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E chi non aderisce è Francesco Cossiga.

Fonti:

Logo Gazzetta Filosofica: https://www.gazzettafilosofica.net/

Copertina libro: https://www.ibs.it/pace-al-primo-posto-scritti-ebook-enrico-berlinguer/e/9788855225168?gclid=CjwKCAjwjaWoBhAmEiwAXz8DBWgVYNzVbxBxTlEjlaIOylt54reg_LgWLZS5h6xh57sj9WQ6VJW9YRoC92UQAvD_BwE

Le immagini di pubblico dominio sono:

Simbolo PCI: https://it.wikipedia.org/wiki/Partito_Comunista_Italiano

Antonio de Oliveira Salazar: https://it.wikipedia.org/wiki/Ant%C3%B3nio_de_Oliveira_Salazar

Foto di Enrico Berlinguer: https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer