Elogio della rivoluzione: perchè l’idea che non sia possibile cambiare radicalmente la storia è oggettivamente una puttanata
“Quest’uomo deve regnare o morire”. Con queste semplici parole il giovane leader rivoluzionario Louis Antoine Léon de Saint-Just più comunemente noto semplicemente come Saint-Just si condannerà per l’eternità ad essere ricordato come il padre del populismo e del giustizialismo ma, come si dice, aveva anche dei difetti. E’ il 13 novembre 1792: a Parigi sono in corso i lavori della Convenzione Nazionale, l’organo rivoluzionario che dovrà scrivere l’impianto costituzionale della Republique, quando a prendere la parola, appunto, è il giovane Saint-Just, che pronuncerà un discorso destinato a dare avvio alla stagione rivoluzionaria che travolgerà il mondo per i due secoli successivi.
“Ci si meraviglierà un giorno”, proclama enfaticamente Saint-Just, “che nel XVIII secolo si sia meno progrediti che all’epoca di Cesare. Allora il tiranno fu immolato in pieno Senato, senza altre formalità che ventitré colpi di pugnale, e senza altra legge che la libertà di Roma. Oggi invece” procede perculando il nostro appassionato tribuno “si fa con rispetto il processo a un uomo assassino di un popolo, colto in flagrante delitto, con la mano nel sangue, la mano nel delitto!”.
Secondo Saint-Just, questo ricorso ai guanti di velluto per il trattamento riservato al despota deposto non si addice a degli uomini che dicono di avere “una Repubblica da fondare”, perché fondare una Repubblica è roba da stomaci forti; e chi si perde in sofismi per decidere quale sia la punizione giusta e moralmente accettabile da riservare al Re, “non fonderà mai una Repubblica”1. A voler garantire un processo equo e giusto a Re Luigi e, possibilmente, salvargli la vita, sono in particolare i rappresentanti dell’alta borghesia e gli eredi della tradizione liberale riuniti nella corrente dei Girondini. L’obiettivo è gettare un po’ di acqua sul fuoco della rottura rivoluzionaria e corrompere la sua spinta democratica ed egualitaria per arrivare il più pacificamente possibile a un nuovo ordine che gli consenta semplicemente di fare più soldi e in modo più dinamico e moderno, senza troppi preti e nobili parassiti tra i piedi.
Saint-Just, Robespierre e gli altri giacobini, però, non sono particolarmente d’accordo: esponenti dell’ala sinistra della rivoluzione – eredi del pensiero democratico moderno di Rousseau e fautori di un’alleanza tra borghesia progressista e ceti popolari – non si accontentano di niente di meno che rivoltare completamente la vecchia società francese come un guanto, ponendo fine ai secoli di terrore e ingiustizia dell’Ancien Règime.
E per farlo, sono convinti che la strada maestra sia fare saltare la testa del Re senza se e senza ma, e imporre così una discontinuità storica plateale dalla quale non sia più possibile tornare indietro.
In soldoni, vogliono anche loro uccidere il loro Cesare, “senza altre formalità che ventitré colpi di pugnale”, come aveva sottolineato Saint-Just.
Il vertice giacobino, che è formato in buona parte da brillanti e coltissimi giovani avvocati, è cresciuto infatti in un vero e proprio culto della storia di Roma: “il romano”, veniva soprannominato addirittura Robespierre stesso. Ad ispirarli, in particolare, la lunga sequenza di guerre civili e l’incredibile avventura della Repubblica, che leggevano come storia epica di uomini temerari in grado di deporre re, uccidere senza pietà tiranni e riprendere continuamente in mano il timone della storia.
I giacobini volevano fare come gli antichi, ed essere all’altezza del loro esempio. È una sorta di “ritorno ai princìpi”, o alle origini, che poi è il modo in cui si pensava il cambiamento storico prima della stagione rivoluzionaria delle società moderne, e che proprio i giacobini trasformeranno nel concetto di rivoluzione.
“La storia è finita” ci dicono da trent’anni. Avevano iniziato personaggi privi di ogni credibilità, come quel tale – Francis Fukuyama -, recordman olimpionico di previsioni sballate; ma ciò nonostante, passo dopo passo, anno dopo anno, è diventata l’aria comune che si respira nelle università, nelle scuole, in tutta la società.
“Presentismo”, lo definisce lo storico francese François Hartog. “Nulla può cambiare”, ci dicono, perché ogni ipotesi di trasformazione radicale del presente ha l’ambizione del tutto irragionevole di rompere per sempre non solo con la storia per come è stata fino a quel momento, ma addirittura con la natura profonda dell’essere umano, che invece quella è, immutabile. E tu, presuntosotto rivoluzionario di provincia, non ci puoi fare proprio niente.
Ma vanno anche oltre perché, visto che niente può cambiare e tutto è immutabile, anche solo provare a farlo è un atto criminale, e tutte le volte che si è tentato questo fantomatico salto nel futuro, millantando una cesura netta col passato e la tradizione, il sogno si è sistematicamente trasformato in incubo.
Bah, sarà.
Ammesso e non concesso che le cose siano andate davvero in questo modo, in realtà, quello che non funziona in questa tesi è il fatto che per lunghissimi secoli gli uomini all’idea di poter cambiare la storia ci hanno creduto eccome e spesso ci sono pure riusciti. Ma non solo. Nel farlo, spesso, hanno imitato chi era venuto prima: riferendosi talvolta agli antichi, talvolta a un passato mitologico che in realtà non è mai esistito, il riferimento al passato, all’autorevolezza della tradizione, persino a un’idea di natura umana inventata di sana pianta per rispondere alle esigenze del momento, hanno a lungo rappresentato il motore della trasformazione politica e sociale. D’altronde, prima dell’Età moderna, si viveva in società molto più tradizionaliste in cui il passato, anche arcaico, era considerato un modello insuperabile di perfezione e bellezza; basti pensare al Rinascimento, ad esempio, quando la riscoperta della sapienza antica sembrava mostrare agli uomini del tempo un modello insuperabile al quale era doveroso ispirarsi, consapevoli però che quella perfezione purtroppo non era più alla nostra portata.
Ed è proprio dal cuore del Rinascimento che arriva Niccolò Machiavelli, l’autore, tra le altre cose, dei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”; fino ad allora, per secoli, l’esempio di Roma e della sua storia erano sempre stati caricati di significati negativi, come sequenza interminabile di conflitti durante i quali avevano fatto capolino forme inedite di potere popolare che non avevano fatto altro che sconvolgere il quieto vivere delle classi dirigenti.
Machiavelli però ne dà una lettura leggermente diversa: nel terzo libro, in particolare, si concentra proprio sugli infiniti cambiamenti che hanno attraversato la storia di Roma, su come si siano avvicendati diversi ordinamenti, e su come il popolo sia ingegnosamente ricorso agli strumenti più disparati per accrescere progressivamente il suo potere.
Una lunga serie di alterazioni, come le definisce Machiavelli, che però l’autore fiorentino ritiene salutari: “E perché io parlo de’corpi misti”, scrive, “come sono le repubbliche e le sette, dico che quelle alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che – per qualche accidente – fuori di detto ordine vengono a detta rinnovazione. E è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano”2.
Sulla base della medicina antica, Machiavelli paragona qui un ordinamento politico a un corpo, solo che, a differenza di Ippocrate – il più grande medico dell’antichità – il corpo è per lui in salute quando al suo interno vive uno squilibrio, un conflitto. La vitalità del corpo politico, insomma, sarebbe data dallo scontro tra interessi e gruppi sociali diversi. Naturalmente i Grandi, come Machiavelli chiama le élites del suo tempo, questo conflitto con il popolo vogliono in ogni modo provare ad anestetizzarlo. Ma questo tentativo Machiavelli lo definisce nientepopodimeno che “corruzione”, rispolverando il termine che i medici antichi utilizzavano per indicare le malattie del corpo naturale. Ma come si fa a “rimediare” a questa malattia? Secondo Machiavelli è necessario che il corpo “ritorni ai princìpi”, riscopra cioè il fondamento del suo stato di natura, che appunto consiste nell’essere eternamente conflittuale. Fuori dalla metafora medica, Machiavelli ritiene cioè che, periodicamente, un ordinamento debba subire continuamente momenti di rottura e solo in questo modo può ritrovare la sintonia con la sua natura profonda.
Analizzando la storia politica di Roma Machiavelli traduce questa idea sul piano storico: ritornare ai princìpi significa in sostanza rifondare periodicamente la Repubblica da capo per riportarla così al suo momento costitutivo originario. Insomma, non si tratta di tornare all’indietro, di ripetere pedissequamente le azioni dei grandi padri fondatori, ma di rilanciare periodicamente lo spirito profondo dell’atto fondativo che, al contrario, implica proprio sempre una rottura col presente e una nuova apertura al futuro. “Fino al punto che” – sostiene ancora Machiavelli – “ogni corpo politico dovrebbe dotarsi di istituzioni che rifondino periodicamente il suo ordinamento. Addirittura una volta ogni 10 anni”, specifica. “Altrimenti la vita interna della comunità, la sua vitalità conflittuale, rischia di spegnersi perché corrotta dall’ambizione e dalla forza dei Grandi.” In effetti, per Machiavelli, il ritorno ai princìpi è un gesto traumatico di cambiamento: una secessione, una punizione esemplare, l’uccisione di un tiranno, un’invasione straniera. Solo eventi traumatici di questa entità possono concretamente riattivare il conflitto popolare e porre così un freno all’ambizione dei grandi e alla corruzione, rifondando ogni volta da capo l’ordinamento repubblicano”. Non è un caso che Gramsci definisse Machiavelli il primo dei giacobini: a tenerli insieme, infatti, è proprio questa concezione radicale e anche un po’ sanguinaria del cambiamento storico.
Ma l’idea del ritorno ai principi in realtà, dopo Machiavelli, è stata riformulata anche da pensatori ben più cauti e moderati, a partire da Spinoza, ammiratore e appassionato lettore dell’”acutissimo fiorentino”.
A differenza sua, infatti, Spinoza non ama i tumulti e le rivolte; ai suoi occhi, un corpo politico è in salute se e solo se al suo interno vige un rapporto di equilibrio tra le parti, come tra gli ingranaggi di un orologio ben funzionante.
Il ritorno ai princìpi però è un concetto importante anche per lui, perché quell’equilibrio non è mai dato una volta per sempre; anzi, viene perso di continuo, e con la perdita di quell’equilibrio ecco che si riaffacciano le ambizioni dei Grandi e la corruzione.
La soluzione però per Spinoza non sono le punizioni esemplari o le rivolte di piazza di Machiavelli;
piuttosto, un’accurata architettura istituzionale in grado di ricostruire l’equilibrio perduto, riconducendo il corpo politico allo spirito del momento fondativo.
In questa direzione va anche un grande padre del liberalismo come Montesquieu, che ai suoi tempi passava pure per essere conservatore perché non disdegnava l’ipotesi di una monarchia ben temperata, ma che oggi, di fronte al liberalismo aggressivo e imperialista uscito dalla guerra fredda, torna ad apparirci incredibilmente avanzato.
Nel liberalismo di Montesquieu, la ricerca di un equilibrio tra i poteri non deve tradursi in un ostacolo al cambiamento progressivo: anche per lui, infatti, ogniqualvolta una parte politica prevale in modo permanente sull’altra, ecco che torna l’abuso e la corruzione. Ed ecco allora che torna l’idea del ritorno ai princìpi come evento storico che ha la funzione di ristabilire l’equilibrio nei rapporti di forza tra i diversi attori sociali.
Nel frattempo, nel mondo anglosassone, l’idea del ritorno ai princìpi attraeva anche un altra famiglia di liberali, che però non si limitavano a darne un’interpretazione semplicemente più moderata e meno conflittuale, ma addirittura la rovesciavano in qualcosa di profondamente aristocratico. L’idea, infatti, è che i princìpi ai quali tornare siano una sorta di equilibrio ancestrale radicato in un periodo arcaico mitologico e antistorico, quando a regnare era una concordia immaginaria tra tutte le parti.
È la linea del cosiddetto “repubblicanesimo” aristocratico, che dopo essersi sviluppata tra gli interpreti inglesi di Machiavelli, attraverserà l’Atlantico e influenzerà in profondità la Rivoluzione americana, che da questo punto di vista tanto rivoluzionaria poi non era.
Affinché l’idea del ritorno ai principi si trasformi definitivamente nel concetto moderno di rivoluzione toccherà aspettare un’altra trentina d’anni, per tornare finalmente laddove eravamo partiti: a Saint-Just e ai giacobini – i tagliatori di teste – che però durano pochino.
Meno di due anni dopo l’arringa alla Convenzione Nazionale di Saint-Just sulla necessità di mozzare la testa al Re senza tanti fronzoli e rituali garantisti, ad essere mozzata di testa sarà la sua. Non aveva ancora compiuto 27 anni, e da lì in poi la rivoluzione assumerà tutt’altro carattere, riportando indietro bruscamente le lancette della storia.
Eccolo un esempio di rivoluzione che le “piccole groupies di Francis Fukuyama de noantri” ti tirano fuori quando ti vogliono spiegare che devi startene zitto e muto perché tanto “there is no alternative”.
Ovviamente, però, un alternativa c’è sempre: la nostra si chiama Antonio Gramsci,l’erede più prestigioso di quella storia di repubblicanesimo popolare, democratico e giacobino che si era interrotta con la debacle di Saint-Just e company, e che lui rende di nuovo incredibilmente attuale allargandola al suo erede più moderno e compiuto: il socialismo.
Gramsci riflette a lungo sulla sconfitta dei giacobini e individua un punto critico essenziale: il messianesimo, l’idea – appunto – di un evento traumatico che rompa definitivamente i cordoni con la continuità storica e fondi così da zero un mondo nuovo, senza legami con il passato e fortemente idealizzato.
Non funziona: lungi dal rompere con la tradizione nazionale, fatta di cultura popolare ma anche delle lezioni dei suoi intellettuali più rilevanti, la rivoluzione di Gramsci – pur mantenendo intatto tutto il suo carattere traumatico e fondativo – non ne è in realtà che l’esito più coerente e compiuto.
Se pensare il cambiamento come interruzione del tempo storico e apparizione messianica ha prodotto sconfitte e involuzioni reazionarie, l’utilizzo del meglio della tradizione nazionale per rompere con le distorsioni del presente continua a rappresentare una possibilità di cambiamento radicale, senza scadere nel velleitarismo.
Ripartiamo da lì: noi, proveremo a farlo su Ottolina tv con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica in collaborazione con Gazzetta filosofica.
Ospite d’onore è Francesco Marchesi, nostro graditissimo ospite già l’anno scorso, per parlare appunto di un Machiavelli paladino della lotta contro le oligarchie.
Nell’ultimo anno Francesco ha provato ad allargare lo sguardo e ha cercato di capire come il ritorno ai principi, teorizzato proprio da Machiavelli per primo, nel corso dei secoli ha influenzato la nostra capacità di pensare prima, e attuare poi, il cambiamento.
Noi, nel frattempo, se siamo all’altezza di pensare e sopratutto di attuare un qualsiasi cambiamento non lo sappiamo: quello che sappiamo è che continueremo a provarci.
Se sei dei nostri, faccelo sapere con qualche eurino. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Francis Fukuyama.
1 Saint-Just, Discorso per il processo di Luigi XVI, p. 54.
2 Discorsi, III, 1.
[…] Elogio della rivoluzione: perchè l’idea che non sia possibile cambiare radicalmente la storia è … […]