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Cittadini USA e Ue ostaggi della più colossale operazione di insider trading di tutti i tempi


Pensavate fosse una rivoluzione economica e geopolitica e, invece, era insider trading: la tarantella a cui ci sta abituando il buon Donald Trump in questa turbolenta fase di interregno potrebbe passare alla storia come il più colossale caso di insider trading della storia del capitalismo contemporaneo; circondato dal fior fiore della finanzia speculativa più spregiudicata, Trump sta approfittando di mercati sull’orlo di una crisi di nervi di fronte a “cambiamenti mai visti in un secolo” – che nessuno sa prevedere, alla fine, che esito avranno – per manipolare i mercati e, nel dubbio, risarcire i suoi supporter più altolocati con possibilità di arricchimento facile e indolore di dimensioni mai viste. Ogni singolo post di The Donald, rigorosamente pubblicato sulle sue piattaforme social personali, è in grado di smuovere una quantità gigantesca di quattrini sui mercati in direzioni totalmente prevedibili; e chi conosce in anticipo la prossima mossa è come se fosse dotato delle chiavi di Fort Knox, di un TIR e di un lasciapassare: gli basta entrare, caricare il camion e chi s’è visto s’è visto. Dotato di capacità comunicative seconde soltanto al nostro immortale e impareggiabile Cavaliere Nazionale, Trump davanti alle telecamere mette in scena uno spettacolo magistrale ricco di colpi di scena, in grado di soddisfare la sete di sangue della sua ola di militanti anti-woke, mentre dietro, nell’attesa di capire se esiste davvero una qualche possibilità concreta di rinviare l’inesorabile declino dell’egemonia USA, ammazza il tempo ricoprendosi d’oro lui e la ristretta cerchia di oligarchie finanziarie che hanno capito il nuovo spirito dei tempi e hanno deciso di sostenere la sua messinscena gattopardesca. La differenza è che nel caso del nostro Silvione nazionale si parlava di ridistribuire gli spiccioli che un’amministrazione coloniale è autorizzata a gestire in autonomia; nel caso di Trump, invece, si parla del centro nevralgico del capitalismo globale e vederglielo spolpare così, senza ritegno, non ha prezzo. La speranza è che l’ingordigia prevalga sulla volontà di potenza, come è successo con la Cina quando, di fronte ai tappeti rossi imbastiti da Pechino, la sete di facili guadagni immediati fu tale da indurre il grande capitale USA a ignorare le prevedibili conseguenze future di quel colossale processo di industrializzazione e trasferimento tecnologico; riuscirà, anche questa volta, il profumo dei soldi a spingere le élite a scavarsi la tomba da sole? Prima di rispondere vi ricordo di mettere mi piace a questo video per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo avete fatto, anche di iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme (compresi quelli di Ottosofia e di Ottolina english) e di attivare tutte le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto non impieghi il fondatore di un hedge fund a diventare un trumpiano di ferro appena capisce che è il modo più facile e sicuro per guadagnare una montagna di quattrini, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a provare a capire qualcosa di cosa sta succedendo dal punto di vista di chi le speculazioni non le fa, ma le subisce.
Mentre gli ultras della rivoluzione passiva del trumpismo 2.0 gongolano per lo spettacolo imbastito da The Donald per sfamare la loro sete di vendetta contro la dittatura del capitalismo woke, la vera festa di questo febbricitante interregno in attesa dell’ascesa definitiva alla Casa Bianca è nelle ville multimilionarie agli Hamptons di quelli che la rivoluzione la fanno col portafoglio. Durante tutta la campagna elettorale abbiamo sottolineato più volte come lo scontro tra team Harris e team Trump fosse anche diventato uno scontro tutto interno a diverse fazioni delle oligarchie finanziarie USA: da una parte i noiosissimi colossi del risparmio gestito capitanati da BlackRock e Vanguard, organici all’establishment democratico; dall’altra i pittoreschi campioni della finanza speculativa – dagli hedge fund ai fondi di private equity – che si erano coalizzati attorno a The Donald. Al netto di tutte le inevitabili, innumerevoli connessioni tra i due universi, si tratta di due modi profondamente diversi di fare soldi e di organizzare il dominio dello 0,01% sul resto della popolazione mondiale; il modello incentrato su BlackRock e Vanguard è quello che in passato abbiamo definito più volte del derisking: grazie alla potenza di fuoco senza precedenti di queste gigantesche concentrazioni monopolistiche di capitali, l’andamento dei prezzi dei titoli azionari è prevedibile e lineare. Non c’è nessun rischio e nessun brivido; i titoli delle principali corporation USA e anche degli altri Paesi vassalli diventano sempre di più asset sicuri (al pari dei titoli di Stato dei Paesi economicamente più solidi) e garantiscono una remunerazione più o meno stabile a prescindere da cosa succede concretamente a quelle aziende nell’economia reale: tutto quello che devi fare è far gestire i tuoi risparmi da uno di questi colossi. Più risparmi gestiscono e più il tutto diventa prevedibile e lineare, un meccanismo che negli ultimi 15 anni ha permesso di trasferire una quantità gigantesca di ricchezza dal basso verso l’alto e dalla periferia verso il centro; e lo ha fatto in modo graduale, senza traumi e senza scossoni: la teoria della rana bollita. Una noia mortale.
Gli speculatori che si sono coalizzati attorno al trumpismo 2.0, invece, la rana vogliono che torni a saltare e, ogni volta che salta, incassare una quantità spropositata di quattrini: basta con questa messinscena rassicurante e con questo tran tran da funzionari del Comintern! Qui si vuole tornare a ballare! In gergo si chiama volatilità e misura, appunto, l’intensità delle fluttuazioni dei prezzi dei vari asset finanziari nel tempo; c’è pure un indice che la misura puntualmente: il famoso indice VIX. Terminati gli effetti della grande crisi finanziaria del 2008, l’indice è rimasto sempre piuttosto basso (a parte nel 2020 a causa della pandemia), fino a che quest’anno non è tornato a crescere; prima perché, comunque, diventava sempre più evidente che il vecchio business as usual non poteva durare a lungo: la crescita USA è pompata da un debito pubblico senza precedenti e la capacità dei colossi del risparmio gestito di aumentare continuamente la concentrazione di capitali è legata a doppio filo a una stabilità geopolitica che ormai s’è rotta per sempre. E poi è entrata nel vivo la campagna elettorale, in assoluto una delle più divisive della storia USA recente, ma è una divisione piuttosto diversa rispetto al teatrino della guerra culturale che va in scena sui media gossippari mainstream: il punto è che, proprio come negli anni ‘70, il sistema mondo incentrato sull’imperialismo finanziario USA è finito per sempre e siamo nel bel mezzo di cambiamenti che, come ripete continuamente Xi Jinping, “non abbiamo mai visto in un secolo” e l’esito è totalmente imprevedibile. In questo contesto, ogni decisione (o anche solo ogni annuncio) causa scossoni imponenti e se sei piazzato bene e conosci in anticipo il prossimo annuncio, sei nella posizione ideale per fare un sacco di soldi facili; tutto l’amore che la finanza speculativa ha cominciato a nutrire per Trump consiste esattamente in questo: una schiera infinita di parassiti in competizione tra loro per conquistarsi il posto migliore da dove ricevere in anteprima le informazioni in grado di farli scommettere, di volta in volta, sul cavallo giusto.
Il primo banco di prova sono state le criptovalute, il regno della speculazione per eccellenza: durante la campagna elettorale (e dopo il trionfo di Trump) bastava sapere in anticipo quando ci sarebbe stato il prossimo annuncio a favore delle cripto per fare incetta e guadagnare una marea di soldi nell’arco di poche ore; prima con i bitcoin e, poi, con quell’incredibile buffonata del ministero col nome di una cripto creato ad hoc per il grande Elon Musk – come lo definisce Trump nei comunicati ufficiali – che nell’arco di 24 ore ha fatto letteralmente raddoppiare il valore di una criptovaluta fino ad allora del tutto secondaria come il doge coin. Ma, negli ultimi giorni, a tenere banco soprattutto sono i tassi di cambio tra valute; proviamo un attimo a capire il contesto. Al centro c’è il principale pilastro della politica economica del Trump 2.0, le tariffe: “Per me nel vocabolario non c’è parola più bella di tariffa” ha affermato The Donald in un’intervista all’Economic Club di Chicago. “E’ la mia preferita”. Ma cosa c’entrano le tariffe coi tassi di cambio? Il punto è che introdurre una tariffa sulle merci che importi produce inevitabilmente inflazione; una volta introdotta una tariffa, infatti, ovviamente ti rimangono due sole opzioni: o continuare a comprare lo stesso bene importato, ma semplicemente pagandolo di più (che è una specie di tassa aggiuntiva sui consumi), oppure sostituirlo con un altro bene prodotto localmente che, fino ad oggi, non compravi perché non era competitivo – che è un’altra forma di tassa, solo che questa volta, invece che passare dalle casse dello Stato, va direttamente nelle casse delle aziende private del tuo Paese. In entrambi i casi comunque, appunto, aumenta l’inflazione, e se aumenta l’inflazione c’è una buona possibilità che la Banca Centrale continui a fare politiche monetarie restrittive per cercare di tenerla sotto controllo; e se alla banca centrale c’è uno come Powell che ha già dichiarato che non farà sconti a Trump e che ha anche detto che è determinato a rimanere in sella fino alla scadenza naturale del mandato – anche nel caso Trump gli chiedesse esplicitamente di togliersi di mezzo – quella possibilità diventa una certezza matematica. E politiche monetarie restrittive, banalmente, significa tassi d’interesse più alti più a lungo; e tassi d’interesse più alti più a lungo significano una moneta più forte: in questo grafico si vede chiaramente come è cambiata la previsione sull’andamento dei tassi nei prossimi 12 mesi rispetto alle previsioni precedenti il trionfo elettorale di Trump

La linea fucsia rappresenta le attese prima che Trump trionfasse; quella blu le attese attuali: qualche taglio è comunque atteso, ma decisamente minore e più lento. E gli USA non ballano da soli, nel senso che il dollaro si rafforza o indebolisce ovviamente rispetto alle altre valute che, a loro volta, sono influenzate dai tassi delle rispettive banche centrali; ora, se la minaccia di politiche protezionistiche da parte di Trump si traduce nella previsione di maggiore inflazione – e, quindi, in un rallentamento dei tagli ai tassi della FED -, negli altri Paesi che, invece, negli USA esportano, sempre la stessa minaccia si traduce esattamente nel suo opposto: le tariffe, infatti, ovviamente di per se implicano un rallentamento delle esportazioni e, quindi, anche una minore crescita economica, e questo spinge le banche centrali ad abbracciare una politica monetaria più espansiva (e quindi a tagliare più rapidamente i tassi). E più sei dipendente dalle esportazioni negli USA, più pesa questo ragionamento; e l’Europa dalle esportazioni negli USA dipende parecchio: nonostante, con le sanzioni alla Russia, siamo diventati magicamente grandi importatori di fonti fossili dagli USA e nonostante siamo sempre più dipendenti dagli USA per la tecnologia e per la finanza, nel 2023, comunque, abbiamo registrato una bilancia commerciale in attivo per 156 miliardi (guidata, in particolare, da macchinari e prodotti chimici). Tariffe generalizzate tra il 10 e il 20% – come quelle annunciate da Trump – rappresenterebbero una mazzata gigantesca e, anche nell’ipotesi più ottimistica (e, cioè, quella del 10%, come riporta Il Sole 24 Ore), “potrebbero ridurre il PIL dell’eurozona tra l’1 e, addirittura, l’1,6%”. Questa cosa si traduce di nuovo in questo grafico:

La prima tabella confronta le aspettative sul taglio dei tassi che c’erano prima delle elezioni (la linea fucsia) e dopo il trionfo di Trump (la linea blu): ovviamente, l’andamento è esattamente speculare rispetto a quello dei tassi della FED e attualmente prevede tagli dei tassi decisamente più corposi di quelli attesi prima dell’esito delle elezioni USA; è importante notare che una riduzione più corposa dei tassi europei rispetto a quelli USA era già abbondantemente attesa anche prima dell’esito elettorale. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti: questo grafico

rappresenta le previsioni per la crescita nel 2025 rispettivamente dell’economia dell’eurozona in blu e degli USA in fucsia; sin da gennaio, tutti prevedevano una crescita europea intorno all’1,3%, e una USA intorno all’1,7, ma a partire già da agosto la forbice s’è cominciata ad allargare e, a inizio novembre, era diventata una vera e propria voragine (0,7 per l’eurozona e poco meno del 2 per gli USA). Quello che è successo dopo l’elezione di Trump, molto semplicemente, è che la differenza sull’andamento del taglio dei tassi delle rispettive banche centrali si prevede sia enormemente più marcata: come si traduce tutto questo nei tassi di cambio tra euro e dollaro? Così:

A partire da settembre, dopo un’estate che aveva visto un indebolimento progressivo sostanziale del dollaro, il dollaro è tornato a rafforzarsi nei confronti dell’euro fino a che, venerdì scorso, non ha raggiunto il massimo, segnando un bel +6,2% nell’arco di appena due mesi (e 4,5 punti soltanto nelle due settimane da quando ha vinto Trump).
A completare il quadro, venerdì, c’ha pensato Standard & Poor che, come abbiamo anticipato in Non chiamatelo TG di ieri, ha pubblicato i dati aggiornati sull’indice PMI per Francia, Germania, eurozona e USA – e, come dice l’antico saggio, avevamo basse aspettative, ma diocane: ricordiamo che l’indice si basa su sondaggi mensili effettuati tra i responsabili degli acquisti delle aziende private che rispondono a domande relative a variabili come nuovi ordini, tempi di consegna, scorte, etc. Insomma: è un modo piuttosto efficace per farsi un’idea abbastanza attendibile dell’andamento economico nel prossimo futuro; sopra i 50 punti l’attività economica è in espansione, sotto si va in discesa – e qui, più che in discesa, si va letteralmente in picchiata: l’indice composito dell’eurozona, che racchiude sia il settore manifatturiero che quello dei servizi, a ottobre si era attestato a 50 punti secchi e gli analisti prevedevano che lì si sarebbe fermato e, invece, è crollato di quasi due punti in una botta sola, a 48.1. Il manifatturiero è una ciofeca e, rispetto ai già tragici 46 punti di ottobre, continua a franare verso quota 45.2, ma quello che ha lasciato più basiti, in realtà, è stato l’indice dei servizi che, fino ad ora, aveva tenuto artificialmente su tutta la baracca: ancora a ottobre, infatti, registrava 51,6 punti; ora è crollato sotto i 50 pure lui, raggiungendo quota 49.2. In realtà, non dovrebbe sorprendere più di tanto: a tenere in piedi un’economia, stringi stringi, è la produzione industriale; se crolla lei, prima o poi crollano anche i servizi. Ed ecco fatto: a trainare questo vero e proprio tracollo, ovviamente, c’è la colonna portante della vecchia Europa, l’asse franco-tedesco. Che Berlino fosse il nuovo malato d’Europa lo sapevamo; e i dati non fanno che confermarlo, oltre le aspettative: a ottobre s’era registrato per il composito un bel 48.6 e gli analisti pensavano sarebbe diminuito di poco – e, invece, è crollato di 1,3 punti. Anche qui a fare la differenza, a questo giro, non è il manifatturiero, anzi! Quello è addirittura un po’ in ripresa. Peccato che a ottobre fosse già arrivato oltre la soglia del disastro, registrando appena 43 punti; ora è risalito di 0,2 punti, ma sempre un disastro epocale rimane. E i servizi accusano: -2,2 punti. Ma il tracollo più clamoroso ha travolto Parigi: l’indice composito è passato da 48,1 addirittura a 44,8; 3 punti e mezzo in un mese, un evento più unico che raro. Quel che rimane del manifatturiero ha raggiunto lo stato catastrofico dei vicini tedeschi, crollando da 44,5 a 43,2 punti; i servizi sono letteralmente crollati da 49,2 a 45,7 punti.
Negli USA la musica è leggerissimamente diversa: l’indice composito segna il suo picco da 31 mesi a questa parte, compiendo un balzo incredibile dai già più che buoni 54,1 punti di ottobre addirittura oltre quota 55 (55,3, per la precisione); roba da boom economico. Questa divergenza potrebbe saziare gli appetiti di Trump e farlo desistere dalle sue scelte protezioniste? Difficile crederlo: il punto è che, per quanto l’indice fotografi uno stato di salute dell’economia USA oltre le più rosee aspettative, è tutto spostato da una parte – e non è quella che permetterà di Make America Great Again. Ad aver fatto un ulteriore balzo in avanti, infatti, è di nuovo l’indice dei servizi che è passato da 55 punti ad addirittura 57; il manifatturiero, invece, si è fermato a 48,8: nonostante la pioggia di sussidi che va avanti da due anni abbondanti, la deindustrializzazione continua. Per quanto questi dati restituiscano una fotografia piuttosto chiara di come l’amministrazione Biden abbia vinto la guerra economica contro l’Europa, paradossalmente per Trump rappresentano un gigantesco rompicapo; gli USA continuano a crescere a discapito dell’Europa, ma sulle stesse identiche basi che negli ultimi anni ne hanno decretato la crisi egemonica: boom dei consumi guidato dal debito sia pubblico che privato, finanziarizzazione estrema guidata dal dollaro e declino industriale. E, a partire da queste basi, qualsiasi mossa rischia di scatenare effetti diametralmente opposti da quelli voluti; per spostare il baricentro della crescita dalla finanza e dal debito alla produzione, Trump avrebbe bisogno di tassi più bassi e di un dollaro più debole che favorisca la competitività dei prodotti USA nei mercati globali, ma appena annuncia misure protezionistiche, il taglio dei tassi si allontana e il dollaro si rafforza. Risultato: i mercati sono sull’orlo di una crisi di nervi e basta un minimo accenno per scatenare un terremoto. Se l’amministrazione Trump riuscirà a trovare una quadra, lo vedremo; così, a occhio, sembra piuttosto difficile (se non impossibile), ma – d’altronde – sembrava impossibile anche 50 anni fa, quando gli USA sembravano accerchiati, sul fronte interno, da una classe operaia sempre più agguerrita dopo 30 anni di sviluppo industriale senza precedenti e, su quello esterno, dalla grande lotta anti-coloniale che si era scatenata in tutto il pianeta e che aveva portato alla disfatta in Vietnam. Ciononostante, l’uscita unilaterale dal gold standard dell’amministrazione Nixon, prima, e la grande controrivoluzione neoliberista di Reagan, poi, sono riuscite a rivoluzionare completamente il sistema mondo e a garantire agli USA altri 50 anni di dominio incontrastato. Ora la questione sembra incredibilmente più complicata: allora, infatti, a contendere l’egemonia USA c’era una superpotenza militare e politica come l’Unione Sovietica, ma – tutto sommato – non c’era un vero competitor economico; 50 anni di deindustrializzazione e di finanziarizzazione USA e di crescita cinese, dopo, il puzzle si è complicato assai, ma comunque vedremo.
Quello al quale intanto assistiamo, nel frattempo, sembra un gigantesco assalto alla diligenza; dopo che per 2 settimane il dollaro non ha fatto che rafforzarsi, venerdì, infatti, l’amministrazione Trump finalmente ha annunciato il nome di chi andrà a ricoprire la più importante delle caselle della sua amministrazione: il segretario al Tesoro. Nelle precedenti due settimane, Trump aveva dato un sacco di soddisfazioni al suo zoccolo duro di militanti anti-woke: dalla nomina del no vax Robert Kennedy alla salute, al ministero ad hoc per condurre la guerra contro quei fannulloni degli impiegati federali affidato a Musk e Ramaswamy, dall’incarico affidato a Tulsi Gabbard di rovesciare le 18 agenzie dell’intelligence USA come un calzino a quello di finire di distruggere l’istruzione pubblica alla regina del wrestling Linda McMahon, quella di Trump, più che una squadra di governo, sembra una raccolta di meme (proprio come piace ai militanti MAGA). A questo giro, però, gli ha fatto un brutto scherzetto: come avevamo anticipato in questo video oltre un mese fa, infatti, negli ultimi tempi tra le primissime fila dell’entourage trumpiano si era fatto spazio un personaggio che con l’universo MAGA non sembrava azzeccarci niente proprio; anzi: sembra quasi fatto apposta per triggerare i militanti anti-woke e i sacerdoti della guerra contro le cosiddette élite globaliste. Si chiama Scott Bessent e agli occhi di un MAGA qualsiasi è il peggior concentrato di difetti possibile immaginabile: prima di tutto è omosessuale dichiarato, al punto di essersi pure ufficialmente spostato e, addirittura, di avere due figli ottenuti attraverso maternità surrogata – che non è esattamente l’identikit del candidato ideale dei redneck della Rust Belt, diciamo. Che, infatti, non l’hanno presa esattamente benissimo: “Un disgustoso sodomita a capo della fornitura di soldi fasulli?” si legge in uno dei 2000 commenti (più o meno tutti dello stesso tenore) che accompagnano l’articolo che annunciava la nomina sulla nota testata economica vicina all’alt right Zerohedge; “Questo è destinato a incorrere nell’ira di Dio. Cosa diavolo sta succedendo nella mente di Trump?”. “Perché Trump… perché?” si tormenta disperato un altro: “Non possiamo avere almeno UN incaricato che non è compromesso, queer, Israel-first….. giusto UNO? Che ne dici di un normale maschio bianco eterosessuale nel tuo gabinetto? Basterebbe uno”; e non è ancora finita. Il punto è che non solo Bessent demolisce ogni speranza di un ritorno al vecchio, caro dominio incontrastato dell’uomo bianco eterosessuale, ma è stato pure democratico per una vita: un utente che si chiama indicativamente WEFparasites (parassiti del World Economic Forum) ricorda infatti, citando Wikipedia, come “Nel 2000, Bessent ha ospitato iniziative di finanziamento per Al Gore nella sua casa negli Hampton. E ha anche fatto donazioni a Hillary Clinton e Barack Obama”; “Quest’uomo” commenta “è solo un altro sionista keynesiano. Farà in modo che gli omosessuali, i transessuali, gli usurai e il resto dei degenerati della Classe Parassita ottengano tutta la moneta falsa di cui hanno bisogno per accaparrarsi tutto superando la Classe Produttiva che lavora creando valore”.
Ma la vera ciliegina sulla torta è ancora un’altra perché, come ha scritto Trump nel comunicato che ufficializzava la sua nomina, “Scott è universalmente rispettato come uno dei principali investitori internazionali al mondo e uno dei migliori strateghi economici e geopolitici”; ma quello che Trump spera passi in sordina è che questa fama Bessent se l’è fatta al fianco di qualcuno in particolare e che nell’universo MAGA, giustamente, non è esattamente il miglior biglietto da visita possibile immaginabile: Scott Bessent, infatti, è stato a lungo, in assoluto, il braccio destro prediletto nientepopodimeno che di George Soros in persona, l’icona per eccellenza delle élite globaliste progressiste e liberali che, a parole, rappresentano il nemico pubblico numero 1 del Make America Great Again (quasi la sua vera ragion d’essere, potremmo quasi dire). Per Soros Bessent ha curato alcuni dei dossier più scabrosi in assoluto, a partire dal leggendario assalto speculativo alla sterlina del 1992 che ha dato vita alla sua leggenda nera; ma perché mai Trump, dopo averli coccolati in ogni modo possibile immaginabile, quando s’è trattato di scegliere il segretario del Tesoro ha puntato su un personaggio così antitetico all’immaginario MAGA? Il punto è che per i dossier che dovrà gestire il nuovo segretario del Tesoro, lo show a favore di telecamere che accontenta l’elettorato trumpiano potrebbe non bastare; il segretario del Tesoro avrà a che fare con squali più squali di lui e del team Trump 2.0, il vero Stato profondo che guida la baracca: le oligarchie finanziarie. Avrà il compito di convincerli che, nonostante le apparenze, la retorica trumpiana non rappresenta una minaccia; che se dei cambiamenti verranno fatti, verranno fatti nel loro interesse e che tutta quella verve anticonformista e apparentemente rivoluzionaria è, in gran parte, una messinscena indispensabile per provare a mettere le briglie a una rabbia popolare che rischia di esplodere e che, invece, può (e deve) essere arruolata (a suon di minchiate) in questa grande trasformazione gattopardesca che il capitalismo statunitense non può più rinviare se vuole provare a cambiare tutto affinché nulla cambi. Scott Bessent è l’unico uomo ad avere la fiducia incondizionata sia di Trump che del gotha della finanza, al quale appartiene (pure troppo): “Bessent è la scelta del business as usualaveva scritto in un tweet nei giorni scorsi Elon Musk e “Il business as usual sta portando l’America alla bancarotta, quindi abbiamo bisogno di cambiare in un modo o nell’altro”.
Evidentemente, era esattamente quello che serviva a Trump e le prime reazioni gli hanno dato ragione: ieri, infatti, per la prima volta da 2 mesi il dollaro è tornato a scendere. L’idea è che la scelta di Bessent indica che la strategia delle tariffe di Trump non sarà quel terremoto ingestibile che abbiamo cercato di descrivere; molto banalmente – coerentemente alla sua fama di abile negoziatore – Trump la spara grossa per costringere le controparti a sedersi a un tavolo e avviare una trattativa che permetta, nei limiti del possibile, di riequilibrare un po’ la bilancia commerciale USA, accelerare la re-industrializzazione e, magari, rinviare la fine del ruolo del dollaro come valuta di riserva globale. Insomma: da molti punti di vista, la stessa identica traiettoria perseguita dall’amministrazione Biden – che, d’altronde, è l’unica perseguibile; a cambiare è la narrazione e anche le modalità, secondo il mantra della pace attraverso la forza che, evidentemente, non riguarda soltanto la sfera prettamente militare e geopolitica. Quello che cambia, inoltre, come abbiamo già anticipato (e sempre nei limiti del possibile), è il pezzo di oligarchia finanziaria di riferimento; che la nomina di Bessent avrebbe causato un piccolo, temporaneo, ma sostanzioso indebolimento del dollaro era ampiamente prevedibile e chi sapeva in anticipo dell’annuncio ha avuto un’ottima occasione per guadagnare una montagna di quattrini, che è anche il modo con cui Trump e Bessent possono premiare i pezzi di finanza che decidono di sostenere il gattopardismo un po’ scurrile della rivoluzione MAGA. Ma la giostra è appena iniziata: ieri, infatti, dopo aver permesso a un po’ di amichetti di arricchirsi con la prevedibilissima svalutazione del dollaro, Trump è subito intervenuto di nuovo per invertire nuovamente la rotta e dare adito a una nuova, gigantesca speculazione di senso contrario; con due brevi post sulla sua piattaforma social – che è già di per se un’altra fonte di ricche speculazioni – Trump, nell’arco di pochi minuti, ha annunciato prima che uno dei suoi primi atti sarà imporre nei confronti delle importazioni cinesi una tariffa aggiuntiva del 10% che si andrà a sommare a quelle già esistenti e, poi, un’altra del 25% su tutte le merci provenienti da Messico e Canada, sospendendo così il trattato di libero scambio che lega queste tre economie. Anche qua, come ampiamente prevedibile, la reazione è stata immediata: dopo aver perso 0,6 punti percentuali, l’indice del dollaro ne ha riguadagnati 0,4; il dollaro canadese è sceso al minimo da quattro anni, mentre il peso messicano è stato scambiato vicino al suo minimo dal 2022. Se mentre assisti alla nave che affonda ci sono degli uccellini che ti danno sempre le dritte giuste su come guadagnare una montagna di quattrini senza fare una seganiente, lo spettacolo diventa effettivamente più digeribile; cerchiamo, almeno, di non farci prendere beatamente per il culo. Per riuscire a decifrare quello che architettano sotto i nostri occhi i nuovi gattopardi, abbiamo bisogno di un media indipendente, ma di parte, che invece che alle armi di distrazione di massa architettate dalle oligarchie, dia voce agli interessi concreti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è George Soros

OttolinaTV

26 Novembre 2024

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