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Tag: economia

IL CALENDARIO DELL’AVVENTO DELLA POST – VERITA’ Un anno di previsioni mainstream – pt. 2: FEBBRAIO

2 febbraio, La Repubblichina: “La guerra non durerà, Putin è in un angolo”; 11 febbraio, Corriere della serva: “La Moldavia trema, Putin la vuole invadere”; 12 febbraio, di nuovo La Repubblichina: “I dubbi sull’offensiva di Putin. Non ha più risorse”; 13 febbraio, La Stampa: “Strage di russi”; 21 febbraio, La Repubblichina: “Ecco il piano ucraino per la guerra breve. Vinceremo nel 2023”; 27 febbraio, Libero: Dario Fabbri “La Russia ha perso”.
Carissimi ottoliner, benvenuti a questo secondo appuntamento con il calendario dell’avvento ottolino che ci accompagnerà da qua al 25 dicembre, quando festeggeremo l’arrivo ufficiale dell’era della post – verità. Oltre alla solita tiritera sulla vittoria immaginaria in Ucraina, il mese di febbraio è stato più che altro il mese della spy story più ridicola della storia delle spy stories: il giallo del pallone gonfiabile cinese, una polemica talmente farlocca che, nei mesi successivi, è stata totalmente rimossa nel tentativo di farcela dimenticare ma che, nel febbraio 2023, ha interessato prime pagine e decine e decine di articoli per la bellezza di 10 giorni, e che è finita solo quando ha lasciato il palcoscenico a un’altra crociata sinofoba totalmente infondata: la fake news sul Cina – gate per convincere l’Europa a mettere al bando le auto endotermiche a favore di quelle elettriche. E anche sulle analisi economiche ci sarebbe qualcosellina da obiettare…
1 febbraio, Il Foglio: “Perché i dati sorprendenti sull’economia italiana ci ricordano che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato”; 13 febbraio, La Stampa: “Eurozona, sale il PIL e l’inflazione frena”; 20 febbraio, di nuovo Il Foglio: “Crescita, export, investimenti, occupazione: analisi del nuovo miracolo economico”; “Una girandola di record che ha stordito i catastrofisti”. Sostituisci la parola record con cazzate e sì, a sto giro c’hai preso. In effetti ‘sta girandola di vaccate un po’ c’ha stordito davvero e, forse, era proprio quella la strategia: dirne talmente tante e talmente grosse che poi, alla fine, uno se le dimentica. Fino a che non è arrivato il calendario dell’avvento per gli ottoliner!
Il secondo mese dall’anno zero dell’era della post – verità non si apre all’insegna della vittoria immaginaria dell’Occidente collettivo sulla pelle degli ucraini, ma con una bella overdose di wishful thinking in campo economico; ad aprire le danze, il primo febbraio, è un vero e proprio gioiellino made in Il Foglio, la rivista ufficiale dell’internazionale analfoliberale: “Perché i dati sorprendenti sull’economia italiana ci ricordano che l’ottimista non è altro che un pessimista bene informato”, titola. L’articolo mette in fila un po’ di dati veramente entusiasmanti: il Fondo Monetario aveva appena rivisto al rialzo le stime della crescita italiana per il 2023 – dallo 0,2% a un fantasmagorico 0,6%. Ripeto: 0,6%; un decimo della Cina che Il Foglio – un giorno si e l’altro pure – dice essere ormai in crisi irreversibile. L’altro dato entusiasmante sarebbe stato quello pubblicato poco prima dall’Istat: l’esplosione dell’occupazione, che ha raggiunto la strabiliante quota del 60,5%; peccato che, contemporaneamente, le ore complessive di lavoro diminuivano. I famosi nuovi occupati nell’arco di un mese avevano raccolto una cassetta di pomodori o servito due cappuccini per un paio d’ore ed erano stati pagati 12 euro con qualche voucher (e, magari, si lamentavano pure). Il più bello dei dati citati, però, è questo: aumento delle retribuzioni contrattuali nel 2022 dell’1,1%; un successo clamoroso. Per i padroni. Con l’inflazione superiore all’8%, significa una perdita netta del potere di acquisto di circa il 7%, che aumenta mano a mano che si scende nella scala sociale: uno stipendio pieno in meno all’anno. “Le notizie sorprendentemente positive che da qualche tempo arrivano sulla nostra economia” commentava l’editoriale “dovrebbero spingere i catastrofisti di professione a porsi alcune domande”; noi, in particolare, ce ne siamo fatti una: ma com’è che ancora c’è qualcuno che vi paga per scrivere ‘ste vaccate?
Nel frattempo comunque, mentre l’economia italiana viaggiava col vento in poppa, quella russa era sull’orlo del baratro: è quello che risosteneva, per la milionesima volta, La Repubblichina. Putin rischia un golpe” titolava; “Tra un anno” si legge nell’articolo “quando il protrarsi dell’operazione militare speciale in Ucraina avrà portato a un numero ancora maggiore di morti e l’economia della Russia sarà al tracollo, il presidente Vladimir Putin potrebbe vedersi costretto a sospendere le presidenziali previste nel 2024, innescando un colpo di Stato”. D’altronde il collasso è inevitabile, come titolava, il giorno dopo, sempre La Repubblichina; “La guerra non durerà, Putin è in un angolo” è un virgolettato di Oleksey Danilov, il segretario del consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa ucraino: una fonte super parte insomma. Attendibilissima! E che – diciamo – non è che faccia proprio di tutto per risultare esattamente credibilissimo: “Per ogni ucraino ucciso” afferma “ci sono sette morti russi. Ma” ovviamente, sottolinea Danilov “a loro non importa, li spediscono all’assalto a ondate”. In un rarissimo sussulto di dignità, il giornalista fa notare che anche tra le loro fila le perdite risulterebbero abbastanza ingenti; macché: “La Russia ha fatto una grande campagna di disinformazione a suon di fake news” risponde l’affidabilissimo Danilov. “Vogliono descrivere la nostra situazione come terribile” e per farlo – sottolinea Danilov – “hanno coinvolto una grande quantità dei mass media occidentali”, anche se poi non cita né Ottolina, né dall’Aglio e manco Alessandro Orsini. Mai una gioia. La strategia suicida della Russia – sostiene Danilov – avrebbe una sola causa: “Sono sicuro che da dieci anni Putin è malato” afferma Danilov; “ha problemi mentali: vive nel suo mondo e non capisce cosa gli succede intorno”. “Perché lei e Zelensky avete detto di non sapere se sia vivo?” chiede il giornalista; ma ovvio, che domande! E’ “Perché non c’è un solo Putin” risponde piccato Danilov; “Non è una tesi cospirazionista” continua Danilov; “Potete fare analisi comparative sulle sue immagini pubbliche. Osservate anche il suo modo di camminare, la paura ad avvicinarsi anche ai suoi stretti collaboratori e poi il bagno di folla il giorno dopo… Sono cose tipiche del KGB”.

Federico “Er bretella” Rampini

In attesa di poter decretare ufficialmente la morte di Putin e il crollo della Russia, ecco che i nostri media si dedicano anima e cuore alla spy story dell’anno: il giallo dei palloni cinesi; è il 4 febbraio, il giorno in cui un pallone gonfiabile sconvolse le sorti del mondo. La storia ovviamente la sapete: stiamo parlando del pallone aerostatico cinese utilizzato per misurazioni e ricerche scientifiche che a febbraio, a causa dei forti venti, era sfuggito al controllo ed era finito sopra i cieli del Montana; “Nella migliore delle ipotesi” scrive Paolo Mastrolillo & Greg su La Repubblichina “l’incidente dimostra l’irresponsabilità e l’inaffidabilità della Cina”. L’apparizione di un pallone bianco gigante sui cieli del Montana sarebbe un “atto di sfida” che rivelerebbe “il vero umore di Xi”; “L’autogol di Pechino” rilancia Er Bretella Rampini dalle pagine del Corriere della serva :“La vecchia regola” sottolinea Rampini “è che tutti spiano tutti, ma non bisogna farsi beccare in flagranza”. Manco a spia’ so capaci ‘sti cinesi! Cioè, sono 20 anni che gli USA sostengono che tutti i progressi tecnologici fatti dalla Cina sono dovuti allo spionaggio industriale e al furto di informazioni riservate, e ora scopriamo che manco a fa’ quello so’ boni. Ma allora è proprio vero che sono in declino o, come dice la sempre equilibratissima e brillantissima Giulia Pompili, “nel pallone”: “La Cina nel pallone” titola il suo articolo su Il Foglio; la Pompili ricorda come la Cina abbia sostenuto si trattasse – come poi è stato confermato ufficialmente – di un dirigibile civile di quelli usati “da quasi tutte le agenzie meteorologiche”. Ma alla Pompili non la si fa: “E’ falso!” tuona; “I palloni sonda meteorologici sono di piccolissime dimensioni, e poi esplodono automaticamente a una certa altezza”. Manco Wikipedia, maremmampestata ladra: i palloni ad alta quota, come sanno tutti, vengono utilizzati da sempre (attualmente in cielo ce ne sono svariate centinaia) e – a seconda della strumentazione – raggiungono dimensioni decisamente importanti. E nessuno li fa saltare per aria, perché possono valere anche svariate centinaia di migliaia di euri. Comunque, nonostante gli sforzi, la Pompili in fatto di vaccate rimane sempre una principiante: per la vera chicca bisognerà aspettare un altro giorno.
5 febbraio, Libero: “Il pallone cinese è un’arma”; a firmare l’articolo è il sempre lucidissimo Carlo Nicolato, vice redattore capo della prestigiosa testata filo – governativa. “I palloni” scrive “potrebbero anche trasportare armi biologiche da rilasciare silenziosamente nell’atmosfera. Oppure farlo nel momento stesso in cui vengono abbattuti”; ma non solo, perché “Potrebbero anche trasportare bombe che possono essere rilasciate in qualsiasi momento, come anche lanciare sciami di droni”. Ma soprattutto – conlcude Nicolato – “Potrebbero scatenare un attacco ad impulsi elettromagnetici (EMP) in grado di spazzare via la rete elettrica americana e di rendere così il Paese inoffensivo e non più in grado di difendersi”: fortunatamente, però, sembra che non siano ancora attrezzati di alabarda spaziale. E la tiritera è andata avanti per settimane: 9 febbraio, Il Giornale: “Sonde spia in 5 continenti. L’operazione in mano all’esercito di Pechino”; 10 febbraio, ancora Il Giornale: “Anche l’Italia spiata da Pechino”. “I timori dei nostri Servizi: rischi di incursioni peggiori”, la sonda spia è “solo l’avvisaglia di azioni più sofisticate”; “La domanda che sta agitando il sonno degli italiani è” si legge nell’articolo “che cosa stanno preparando i cinesi?” Boh, non lo so. Due raviolini? Un risino alla cantonese? E ancora, il 13 febbraio, La Repubblichina rilancia: “Palloni spia o Ufo? Il mistero degli oggetti abbattuti in America” e di nuovo, il giorno dopo, La Stampa: “La guerra dei palloni”. “La Casa Bianca: una campagna di spionaggio”.
L’incredibile campagna attorno a questa vaccata epocale finirà soltanto il 17 febbraio – 13 giorni dopo la prima notizia – e solo per essere sostituita da un’altra vaccata sinofoba. Libero: “L’ombra del Cina – gate dietro il bando sulle auto a benzina”; in ballo, ovviamente, c’è la querelle sulla messa al bando dei motori endotermici entro il 2035 che, in effetti, senza politiche industriali adeguate – che in Europa non ci saranno mai perché in Europa politica industriale è considerata una parolaccia – è palesemente una scelta piuttosto demenziale. Ma che c’azzecca il Cina – gate? La pistola fumante di Libero è un vero gioiello di giornalismo investigativo: “Negli ultimi anni” scrivono “la Cina è diventato uno dei paesi che ha invitato con più frequenza a Pechino gli eurodeputati”; a parte che mi piacerebbe sapere chi sono gli altri paesi che invitano gli eurodeputati a Pechino, ma – insomma – a parte l’analfabetismo di ritorno, ma dove dovrebbero andare le nostre delegazioni? In Guatemala? In Papua Nuova Guinea?
La scelta europea era così dettata dalla lobby cinese che, da qualche mese, l’Unione Europea non fa altro che cercare una scusa per imporre nuovi dazi: l’accusa è che la Cina si sarebbe addirittura azzardata a fare politiche industriali per rendere la sua industria dell’automotive elettrico ultra competitiva sui mercati globali. Insomma: un Cina – gate c’è eccome, solo che a fare lobbying sono sempre e solo le nostre oligarchie che vogliono impedire ai cinesi – che hanno investito una montagna di quattrini – di venire a fare concorrenza alle case automobilistiche autoctone che i loro profitti, invece che reinvestirli, se li sono intascati (di solito dopo essere passati da qualche paradiso fiscale). O almeno, questa è l’analisi che abbiamo sempre fatto noi gufi catastrofisti e che però – spiega Il Foglio – era tutta sballata: secondo Il Foglio, infatti, in realtà siamo di fronte e un vero e proprio nuovo miracolo economico fatto di “crescita, export, investimenti e occupazione”, la famosa “girandola di record che ha stordito i catastrofisti” (anche perché gli altri, forse, erano storditi già da prima). “Gufi e catastrofisti” scrive Il Foglio “sono andati avanti imperterriti fino all’ultimo a pronosticare dinamiche negative imminenti della manifattura che non si sono mai verificate”. No, mica: 10 mesi dopo – come puntualmente anticipato e ampiamente previsto – la crescita tendenziale dell’industria italiana segna un -2% abbondante.

Un’alabarda spaziale

E, a questo punto, non ci rimane che chiudere con una bella carrellata sui trionfi ucraini immaginati nelle redazioni dei nostri giornali; 12 febbraio, La Repubblichina: “I dubbi dei servizi sull’offensiva di Putin. “Non ha più risorse””; 13 febbraio, La Stampa: “Strage di russi”. “In questi giorni” scrive La Stampa “il numero dei caduti tra le file russe è il più alto dalla prima settimana di guerra”. La fonte? Il ministero della difesa britannico; e come fa il ministero della difesa britannico a saperlo? Semplice: riporta il comunicato della difesa ucraina. Non fa una piega; d’altronde a cosa ti servono i numeri affidabili quando la realtà è così evidente? E’ quello che spiega Lorenzo Cremonesi sul Corriere della serva appena 3 giorni dopo: “La trappola di Vuhledar” titola; “Un cimitero dei russi”. “Ancora una volta” – spiega Cremonesi nel trecentesimo articolo in un anno che annuncia avanzate e trionfi inimmaginabili per la resistenza ucraina – “abbiamo visto scontrarsi due filosofie della guerra opposte”. Da un lato, sogna Cremonesi, “quella russa, che è ferma alle tattiche e strategie della seconda guerra mondiale” mentre, dall’altro, “quella ucraina”, cioè dei popoli evoluti e civili che, ovviamente, “è proiettata nella tecnologia della futura terza guerra mondiale”. Ecco perché Zelensky può affermare a cuore leggero che “Il golia russo? Può perdere entro l’anno” e chi legge Cremonesi, alla fine, ci crede pure. E pure chi dà retta a Biden che, di lì a poco, vola a Kiev – e Paolo Mastrolillo & Greg è in brodo di giuggiole: “Un anno fa” scrive con i lucciconi “il capo del Cremlino si aspettava di conquistare Kiev nel giro di una settimana, adesso deve testimoniare impotente la passeggiata davanti alla cattedrale del capo della Casa Bianca”.
Dopodiché i giornalisti di professione – evidentemente – hanno chiesto qualche giorno di pausa perché inventarsi sempre una puttanata nuova, alla fine, è logorante, e per inventare puttanate nuove di pacca hanno chiamato i rinforzi, come il celebre scrittore franco – americano Jonathan Littell, che non ha dubbi: “Putin ha perso” è il titolo a 12 colonne della sua doppia paginata; il problema ora, sottolinea Littell, è farlo capire a Putin stesso. “Non stiamo facendo tutto ciò che è necessario per obbligarlo ad accettare di aver perso la guerra”: ad esempio, immagino, costringerlo a leggere i giornali italiani. E invece niente, “e la colpa” sostiene Littell “ è da ricercare indubbiamente in quella nostra vena di insicurezza e vigliaccheria, che questo ex agente del KGB sa fiutare benissimo sotto tutti i nostri interventi, per quanto robusti, a favore dell’Ucraina”; dovremmo invece mandargli un messaggio chiaro: “Hai perso, metti fine a questa guerra e siediti al tavolo dei negoziati, se non vuoi che le tue forze in Ucraina vengano travolte e annientate senza pietà, con tutti i mezzi disponibili”. Come? Smettendo di combattere “con una mano legata dietro la schiena”. Artisti democratici per l’escalation militare e l’armageddon – che però, in compenso, non capiscono un cazzo né di guerra né di politica – per farsi dare due paginate intere sul Corriere della serva: un curriculum esemplare.
Noi ci rivediamo presto per il terzo appuntamento con il calendario dell’avvento ottolino;nel frattempo, se 12 mesi di post verità ti sono bastati, forse anche te cominci a sentire il bisogno di un vero e proprio media che provi a raccontare il mondo per quel che è, e non per quello che vorrebbero fosse Mastrolillo & Greg e Cremonesi. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Giulia Pompili

Alessandro Volpi: perchè oggi la fine del Mercato Tutelato per Luce e Gas è una Follia

Intervist8lina: benvenuti a questo nuovo appuntamento con le interviste di OttolinaTV. Il nostro ospite oggi è Alessandro Volpi, professore all’università di Pisa e attento osservatore di tutti quei processi che mirano alla finanziarizzazione della nostra disastrata economia e comportano sia un attacco sempre più feroce alle condizioni di vita della stragrande maggioranza del popolo italiano, sia a una devastazione totale del suo tessuto produttivo. La fine del mercato tutelato delle bollette energetiche delle famiglie italiane è un obiettivo che il partito unico degli affari e della guerra persegue orami da anni. Per compiere il passo definitivo però, evidentemente, serviva proprio il Governo di quelli che con sprezzo del pericolo si autodefiniscono patrioti e sovranisti, e che hanno deciso di fare il salto definitivo della staccionata nel peggiore dei momenti possibili, con  tutti i dati sull’economia nazionale in caduta libera, e sopratutto con le famiglie che non riescono più a risparmiare un euro e ricorrono sempre di più all’indebitamento selvaggio, come se fossimo ormai degli americani qualsiasi.

[LIVE RASSEGNA STRAMBA] Gaza: Quiete prima della Tempesta o cessate il fuoco? – con Matteo Bernabè

Prolungata la tregua a Gaza: è la quiete prima della tempesta, o il primo passo verso il cessate il fuoco? L’annuncio: fino a giovedì mattina Israele ottiene nuove liberazioni di ostaggi, il popolo di Gaza respira: la “pausa umanitaria”, come la chiamano, continuerà anche oggi e domani. Il Qatar è riuscito a convincere Israele e Hamas a prolungarla, evitando che oltre due milioni di palestinesi si risvegliassero, questa mattina, nell’incubo di nuovi bombardamenti aerei e altre stragi di civili. Ieri, dopo il tramonto, le due parti hanno aperto la strada al quarto scambio di ostaggi.

Il Wishful thinking di Giavazzi sul debito UE per finanziare lo sviluppo: l’editoriale sul Corriere della Sera sul Next Generation EU, investimenti buoni e investimenti cattivi (un po’ come il debito buono e cattivo di Mario Draghi).

Milei e il dilemma dei BRICS!

[LIVE RASSEGNA STRAMBA] Tregua continua a Gaza + Crosetto nel panico – con Matteo Lupetti

Il Ministro Crosetto svela: “Vogliono colpirci prima delle Europee”, la nuova ondata di islamofobia e la manifestazione oceanica di Roma, l’Argentina di Milei che si sfila dai BRICS, non si sa se del tutto o con partecipazione passiva, Nichi Vendola presidente di Sinistra Italiana, “Alemanno e Rizzo insieme per la Palestina, cambiamento climatico e videogiochi.

La Guerra degli Oligarchi contro il Resto del Mondo per difendere l’Evasione e i Paradisi Fiscali

All’ONU l’Occidente collettivo ha ingaggiato un’altra guerra frontale col resto del mondo; d’altronde ne valeva la pena. Dopo aver provato a difendere il genocidio ed essere stato brutalmente asfaltato, i valori del mondo libero da difendere – a questo giro – erano forse ancora più fondamentali: il sacrosanto diritto delle oligarchie finanziarie ad evadere il fisco e a nascondere i loro quattrini nei paradisi fiscali. Ma non gli è andata proprio benissimo, diciamo; prima di mettere ai voti la risoluzione presentata da un gruppo di paesi africani – e che costituisce un tassello fondamentale nella lotta del sud globale contro il furto sistematico di ricchezza da parte delle oligarchie – la Gran Bretagna ha provato a presentare un emendamento pro evasori e paradisi fiscali ed è finita così: 55 favorevoli e ben 107 contrari.

Alex Cobham

Ma la batosta più grossa è arrivata al momento della votazione della risoluzione vera e propria: Occidente collettivo 48, Sud globale CENTOVENTICINQUE. “Per i paesi del Sud del mondo” ha esultato Alex Cobham, amministratore delegato del Tax Justice Network, “questa è una vittoria storica, ma a beneficiarne non saranno soltanto loro, ma tutto il mondo: i paradisi fiscali e i lobbisti della finanza hanno avuto, fino ad oggi, troppa influenza sulla politica fiscale globale; oggi iniziamo a riprendere il potere sulle decisioni che riguardano tutti noi”. La guerra di resistenza del Sud del mondo contro l’asse del male è sempre più chiaramente anche la nostra guerra, la guerra del 99%: cosa aspettiamo a prenderne parte?
“Per decenni” affermavano giovedì scorso gli amici del Tax Justice Network “il risultato del voto odierno all’ONU è stato considerato impossibile da raggiungere. L’ultimo tentativo di portare il processo decisionale sulle norme fiscali all’ONU” ricostruisce il comunicato “risaliva ormai agli anni ‘70. E il fallimento di quel tentativo aveva dissuaso qualsiasi altro tentativo simile per quasi 50 anni”.1 “La lotta decennale dei paesi del sud del mondo per istituire un processo pienamente inclusivo presso le Nazioni Unite, e permettere così finalmente a tutti i paesi in via di sviluppo di partecipare sul serio alla definizione dell’agenda e delle norme sulla tassazione internazionale” ha commentato l’Unione Africana“ è finalmente diventata una realtà”.2
Ma di cosa stiamo parlando, esattamente? La questione in ballo è nientepopodimeno che quella dei negoziati internazionali per la definizione di un trattato fiscale globale che permetta di contrastare – come sottolineava nel luglio scorso nella sua relazione la direzione generale delle Nazioni Unite – “l’evasione fiscale, l’elusione fiscale aggressiva, il riciclaggio di denaro e i flussi finanziari illeciti”.3 E, ovviamente, il ruolo dei paradisi fiscali: meccanismi che, come sottolinea il Tax Justice Network, causano agli stati “una perdita equivalente allo stipendio annuo di un infermiere a favore di un paradiso fiscale OGNI SECONDO. Nei prossimi dieci anni” calcola il Network “i paesi perderanno quasi 5 mila miliardi a causa dei paradisi fiscali”.4 E secondo Thabo Mbeki, già presidente del Sudafrica e oggi a capo della commissione speciale dell’Unione Africana che si occupa dei flussi finanziari illeciti, “a causa delle multinazionali che spostano i profitti nei paradisi fiscali e a causa di individui facoltosi che nascondono la loro ricchezza nelle giurisdizioni offshore, si stima che i paesi a basso reddito perdano ogni anno l’equivalente di poco meno della metà dei loro bilanci sanitari pubblici collettivi”.5 Ma, in realtà, il problema va ben oltre queste cifre: l’elusione e l’evasione che sottrae risorse alle casse degli stati di tutto il pianeta in favore dei paradisi fiscali, infatti, è il nocciolo del patto col diavolo che sta alla base della globalizzazione neoliberista.
Facciamo un rapidissimo ripasso: il primo passo della globalizzazione neoliberista consiste nella delocalizzazione della produzione dai paesi più sviluppati – dove, grazie a secoli di lotta di classe, il costo del lavoro e di diritti dei lavoratori sono superiori – verso i paesi in via di sviluppo, dove i costi e i diritti sono inferiori; a questo punto però sorge un problema perché, attraverso le politiche fiscali, gli stati sovrani dei paesi in via di sviluppo sarebbero in grado di trasformare una parte consistente dei profitti in risorse che lo stato può investire per svilupparsi, rafforzare la sua indipendenza e minacciare così il dominio dei paesi più avanzati. Cosa fanno, allora, i paesi più sviluppati per sfuggire a questa conseguenza non voluta? Impongono ai paesi in via di sviluppo un quadro regolatorio che permette a chi ha delocalizzato la produzione nei loro territori di evadere ed eludere il fisco attraverso i paradisi fiscali; a quel punto, il plusvalore estratto dall’economia del paese destinatario degli investimenti non serve più a finanziarne lo sviluppo economico e l’indipendenza, ma ritorna negli USA sotto forma di capitali che vanno a ingrossare le bolle speculative e a partecipare il banchetto sono – ovviamente – anche le élite economiche locali, che vengono così cooptate dalle oligarchie finanziarie del Nord globale. Sottrarre i flussi finanziari internazionali alla fiscalità dei paesi in via di sviluppo diventa, così, il meccanismo principale attraverso il quale il Nord globale può delocalizzare la produzione senza però diminuire il suo primato politico, con la complicità degli svendipatria di tutto il pianeta (fine del ripasso).
Da questo punto di vista, come ha sottolineato giustamente sempre Cobham del Tax Justice Network, “la battaglia contro gli abusi fiscali globali è soprattutto una battaglia per la democrazia e per la libertà”, ed ecco così che – nel tempo – anche i paesi del Nord globale hanno dovuto far finta di interessarsi alla faccenda. Ma era un diversivo; terrorizzato dall’eventualità che i paesi del Sud del mondo si potessero coalizzare per trovare una via d’uscita comune da questo patto del diavolo, l’Occidente globale ha deciso di giocare d’anticipo e ha avviato dei negoziati multilaterali – appunto – per arrivare a un trattato fiscale globale che però, paradossalmente, escludeva proprio i paesi interessati. L’organo multilaterale deputato a gestire la trattativa, infatti, è stato individuato nell’OCSE – l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico -, il salotto buonodei paesi sviluppati, che come requisito minimo indispensabile per aderire prevede la totale subalternità ai piani egemonici delle oligarchie finanziarie di Washington, e i risultati si vedono.

Joseph Stiglitz

Come denuncia da anni il premio Nobel Joseph Stiglitz, fondatore e presidente della Commissione Indipendente per la Riforma della tassazione internazionale delle Corporation, “Quasi un decennio di negoziati multilaterali in seno all’OCSE non ha prodotto risultati apprezzabili. Il tipo di soluzioni di cui il mondo ha bisogno rimane ancora lontano”.6
Diciamo che è un eufemismo; la prova provata che l’azione dell’OCSE non fosse altro che un diversivo è arrivata questa estate: il governo laburista australiano stava lavorando da mesi a un disegno di legge che imponeva a tutte le aziende di rendere pubblici tutti i dati fiscali relativi a ogni paese dove operano, “Una mossa che, secondo gli attivisti” riporta il Financial Times “avrebbe contribuito a reprimere l’elusione fiscale costringendo le aziende a rivelare quanti dei loro ricavi sono contabilizzati in giurisdizioni a bassa tassazione”.7 Secondo il Financial Times “sarebbero state colpite circa 2.500 multinazionali con ricavi annuali superiori ai 700 milioni di dollari, tra cui colossi come META, la compagnia petrolifera British Petroleum e il colosso delle assicurazioni di Hong Kong AIA”. Il disegno di legge sarebbe dovuto approdare in aula lo scorso giugno per entrare in vigore a partire dal primo luglio, ma all’ultimo qualcosa è andato storto: inaspettatamente, “dalla versione del disegno di legge che alla fine è arrivata in aula” riporta il Financial Times “erano state rimosse le richieste di informazioni più cruciali”. Indovinate un po’ cos’era successo? Esatto, era intervenuta l’OCSE: “l’organizzazione con sede a Parigi” riporta il Financial Times “ha esercitato pressioni sul governo laburista australiano affinché annacquasse la legge”. “I funzionari dell’organismo intergovernativo” continua il Times “avrebbero intimidito il tesoro australiano ricordandogli che l’Australia è tra i firmatari di un accordo dell’OCSE del 2015 che prevede che le dichiarazioni fiscali non possono essere rese pubbliche”. “L’OCSE ha progettato riforme orientate a favore dei suoi membri, e cioè dei paesi avanzati, e delle loro imprese” ha commentato Stiglitz. In questo modo, continua Stiglitz, questo sforzo per introdurre una riforma che, sulla carta, dovrebbe servire a far aumentare le entrate per i paesi in via di sviluppo “potrebbe in realtà avere l’effetto esattamente opposto”.8 Dovevano forzare i paesi a introdurre nuove regole per limitare la quantità di quattrini che finiscono nei paradisi fiscali e si ritrovano a fare lobbying contro quei pochissimi paesi che provano a muovere qualche passo per far pagare le tasse alle multinazionali: come potevano pensare di farla franca?
In realtà potevano, eccome. E qui c’è un altro snodo politico epocale perché, come abbiamo già sottolineato, il Nord globale non è l’unico responsabile del furto colossale di ricchezza delle oligarchie a danno della gente comune: a dargli una bella mano ci sono anche le élite economiche dei paesi in via di sviluppo stessi, che sono ben felici di estrarre ricchezza dai propri paesi al fianco delle multinazionali per poi investirla nelle bolle speculative made in USA facendo altri soldi dai soldi. E, tra queste élite economiche, un posto d’onore spetta spesso proprio ai leader politici ultra – corrotti che si intascano i soldi del finanziamento allo sviluppo garantito dalla comunità internazionale, e invece di investirli nell’economia nazionale li imboscano nei paradisi fiscali. Questa commistione di interessi illeciti e inconfessabili – fino ad oggi – ha sempre impedito al Sud globale di coalizzarsi e di dichiarare guerra all’Occidente collettivo in nome dei rispettivi interessi nazionali ma, evidentemente, qualcosa negli ultimi anni è cambiato: ispirati dall’esempio cinese – dove, invece, la guida del Partito Comunista è riuscita a garantire che le risorse liberate con le delocalizzazioni venissero investite per sostenere lo sviluppo economico di tutto il paese – le opinioni pubbliche dei paesi in via di sviluppo hanno cominciato a pretendere dai loro governi di mettere fine a questo furto sistematico, pena ritrovarsi rovesciati da un golpe patriottico come, ad esempio, è avvenuto negli ultimi anni in Mali, in Burkina Faso e in Niger. Ed è infatti proprio dall’Africa che è partita la battaglia contro l’azione diversiva dell’OCSE; nel 2022, infatti, “un gruppo di 54 paesi africani, frustrati dal processo dell’OCSE” riporta il Financial Times “hanno portato con successo una risoluzione all’assemblea generale dell’ONU” che chiedeva al Segretario Generale delle Nazioni Unite di produrre un rapporto che facesse un bilancio sullo stato dell’arte della cooperazione fiscale internazionale e indicasse le modalità per trasferire i negoziati dall’OCSE direttamente all’ONU, dove anche i paesi in via di sviluppo avrebbero potuto dire la loro.9 Da allora, per cercare di far naufragare questo processo i paesi del Nord globale le hanno provate tutte: “Ue e Regno Unito vogliono spazzare via l’intero processo e ucciderlo” avrebbe dichiarato uno dei negoziatori al Financial Times; “non vogliono che le questioni fiscali vengano dibattute qui alle Nazioni Unite”. “Stanno facendo di tutto per mantenere lo status quo e mantenere i paesi in via di sviluppo alla periferia delle discussioni fiscali globali” avrebbe confermato un altro negoziatore.10
L’opera di lobbying, però, non va in porta e quando, nel luglio scorso, Guterres finalmente presenta la sua relazione il giudizio è impietoso – per quanto possa essere impietoso un documento ufficiale dell’ONU, perlomeno: il processo avviato dall’OCSE – dice Guterres – non risolve “un malcontento ampio e radicato nei confronti di trattati fiscali che non danno poteri sufficienti agli stati ospitanti nei confronti delle multinazionali” e quindi è necessario creare “meccanismi di cooperazione fiscale internazionali pienamente inclusivi ed efficaci”.

G77 a Cuba

Con il via libera della direzione generale dell’ONU, a questo punto, i paesi africani presentano il loro piano agli altri paesi in via di sviluppo durante l’assemblea del G77 che si è tenuta a settembre all’Avana, raccogliendo un sostegno sostanzialmente unanime. Ed ecco così che si arriva alla storica risoluzione presentata all’ONU giovedì scorso: per la prima volta, tutto quello che è fuori dal giardino ordinato del Nord globale si schiera come un sol uomo per chiedere la fine del furto sistematico di ricchezza operato da una manciata di oligarchi a danno di tutta la popolazione mondiale. Come ricorda in un tweet il Tax Justice Network “I paesi che ieri hanno votato contro la riforma fiscale delle Nazioni Unite consentono il 75% degli abusi fiscali globali. Questi paesi rappresentano solo il 15% della popolazione mondiale. I paesi che hanno votato a favore della riforma rappresentano l’80%”.11 Ma attenzione: non è una guerra dei popoli del sud del mondo contro i popoli del nord. E’ una guerra di tutti i popoli, tanto del sud quanto del nord, contro le oligarchie: impedendo ai capitali di essere sottratti al fisco per finire nei paradisi fiscali, i paesi del Sud globale impediscono alle oligarchie di fare soldi senza mai investire il becco di un quattrino nell’economia reale, senza mai correre il rischio di perdere il loro potere politico e, anzi, rafforzandolo.
Come sosteniamo da sempre, la battaglia del Sud del mondo, guidata dai paesi che sono riusciti ad affermare con forza la sovranità dei propri stati a discapito dell’impero e dei suoi complici locali, è l’avanguardia della battaglia globale del 99% contro l’1%; altro che la barzelletta degli analfoliberali e dei fintosovranisti sui cinesi che ci rubano il lavoro. Per non passare alla storia come dei collaborazionisti qualunque che si sono sacrificati in nome degli interessi dei propri stessi carnefici, è arrivato il momento di alzare la testa e di cominciare davvero a partecipare alla battaglia dalla parte giusta della storia, a partire proprio da questa battaglia epocale per un quadro fiscale globale che favorisca il lavoro invece della rendita. Il voto storico di giovedì all’ONU, infatti, è solo un inizio: la risoluzione infatti prevede che nei prossimi mesi, a New York, si riunisca per ben 15 giorni lavorativi complessivi un comitato intergovernativo nominato ad hoc e incaricato di buttare giù una bozza di cornice per la cooperazione fiscale internazionale, da sottomettere poi alla prossima assemblea generale dell’ONU che si terrà nel settembre del 2024. Le lobby delle oligarchie sono già al lavoro e fanno di tutto per tenere il dibattito lontano dai riflettori: su questo voto storico, nella stampa italiana – per quello che abbiamo potuto vedere – non c’è traccia. Lavorare nell’ombra, con valigette cariche di dollari, per remare contro la storia: impediamoglielo, mobilitiamoci e, soprattutto, diamo vita a un vero e proprio media che dichiari guerra all’omertà della propaganda a libro paga delle oligarchie e dia voce agli interessi concreti del 99%.
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E chi non aderisce è Hillary Clinton

1 https://taxjustice-net.translate.goog/press/un-adopts-plans-for-historic-tax-reform/?_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it
2 https://www.ft.com/content/5a7353e8-6aec-4896-b6e5-fa88033c399a
3 https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/N23/220/39/PDF/N2322039.pdf?OpenElement
4 https://twitter.com/TaxJusticeNet/status/1727304638603665626
5 https://www.ft.com/content/39ddedad-8faa-4e38-b95c-35cd47028056
6 https://tinyurl.com/yb7sfwpm
7 https://www.ft.com/content/b21cfde0-8940-45db-b3e3-3e9807d7b957
8 https://www.ft.com/content/fed78c75-1da8-4a1a-8cfc-219e99fe246c
9 https://www.ft.com/content/552052ab-8650-44b3-a4d2-6affca339132
10 https://www.ft.com/content/552052ab-8650-44b3-a4d2-6affca339132
11 https://twitter.com/TaxJusticeNet/status/1727716449576198287

[LIVE OTTOVOLANTE] Italia, Germania e il Patto d’Acciaio per servire Washington – ft. Giacomo Gabellini

Tra la reintroduzione del Patto di Stabilità, la Mega – Truffa del MES e il semi – Golpe dell’Unione Europea, Italia e Germania stringono un’alleanza dove a vincere è soltanto Washington. Berlino si accontenta delle briciole e noi delle pedate nelle gengive, e il bello è che – ciononostante – anche Washington non è che se la passi poi così bene: l’asta dello scorso 9 novembre, per allocare qualche decina di miliardi di titoli di Stato è stata una debacle e, tra BRICS e Nazioni Unite, il Sud Globale – che ha a lungo cercato di corteggiare per sottrarlo alla sfera d’influenza di Russia e Cina con i nostri quattrini – non fa altro che continuare a prenderlo ostentatamente a pesci in faccia. Ne parliamo in questa puntata di Ottovolante con il Marru, Jack Gabellini, Giamba Cadoppi e Alberto Gabriele.

LA TERZA GUERRA MONDIALE PUO’ ATTENDERE: perché il bilaterale tra Xi e Biden è un’ottima notizia

L’armageddon può attendere.
Al di là di tutte le considerazioni e tutti i distinguo possibili immaginabili, il motivo per cui di fronte alle strette di mano e ai sorrisi che Sleepy Joe e Xi Dada si sono scambiati copiosamente la scorsa settimana, non possiamo che dirci un pochino sollevati sta tutto qui. Checché ne dicano tutti i dispensatori di analisi che straboccano del senno di poi, non era scontato. Ma proprio manco per niente: a partire dai colpi di coda della presidenza Trump, le relazioni bilaterali tra i due paesi hanno gradualmente raggiunto il punto più basso da quando, nel 1972, Richard Nixon e Kissinger avevano deciso di rivoluzionare l’intera politica internazionale giocandosi la carta cinese contro l’eterno avversario sovietico, e quando nel febbraio del 2022 è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, noi – sinceramente – abbiamo immediatamente pensato al peggio. L’idea, forse un po’ paranoica, era che il fronte ucraino servisse principalmente per appaltare al vassallo europeo una sorta di manovra di distrazione della Russia sul fronte occidentale per potersi concentrare sull’Indo – pacifico e dare una botta mortale all’ascesa cinese approfittando di qualche casus belli creato ad arte attorno alla questione Taiwan.
“L’Ucraina potrebbe essere solo il primo capitolo di una nuova grande guerra totale a partire da Taiwan” scrivevamo già nel marzo del 2022 “e l’escalation potrebbe essere più rapida del previsto” e in effetti, per qualche mese, i segnali non hanno fatto che andare tutti in quella direzione: l’Europa, andando palesemente contro ogni suo interesse, si impegnava sempre di più in una guerra che si confermava sempre più chiaramente andare in direzione di un lungo pantano; gli USA schiacciavano al massimo sul pedale della retorica del disaccoppiamento economico del Nord globale dalla Cina e ingaggiavano una guerra tecnologica a suon di chip di ultima generazione contro l’industria cinese e, ad agosto, l’incredibile provocazione della visita a sorpresa a Taiwan – contro ogni protocollo diplomatico possibile immaginabile – dell’allora speaker della camera democratica Nancy Pelosi (già tristemente nota per essersi arricchita a dismisura investendo nelle azioni di aziende che, da politica, avrebbe dovuto controllare) aveva clamorosamente rischiato di far precipitare tutta la situazione. Ne erano seguiti giorni infuocati di dimostrazione di forza a suon di missili e di incursioni navali ed aeree come mai si era registrato da parte cinese, alla quale era seguita l’interruzione repentina di tutte le linee di comunicazioni militari ad alto livello tra Cina ed USA. Le previsioni più catastrofiste sembravano avverarsi, ora dopo ora, sotto i nostri occhi increduli ; interrotta ogni forma di dialogo e immersi in un nebbia fitta di diffidenza reciproca, da lì in poi nessuno era più in grado di garantire che una qualsiasi incomprensione sulle manovre continue intorno all’isola non sarebbe potuta degenerare rapidamente in uno scontro frontale.
Fortunatamente non accadde niente del genere e anzi, da entrambi i lati – piuttosto rapidamente – si cominciarono a provare a rimettere le basi per riportare il tutto sotto controllo, fino ad arrivare al G20 di Bali e al bilaterale a latere tra Xi e Biden: un faccia a faccia, universalmente definito come storico, che inaugurava una stagione che veniva definita “new detente”, nuova distensione. Che è durata pochissimo: per farla saltare è bastato aspettare due mesi dopo che nei cieli del Montana venisse avvistato un gigantesco e innocuo pallone gonfiabile bianco.

Il pallone gonfiabile cinese

I cinesi hanno provato a spiegare, come poi è stato confermato, che non si trattava di altro che di uno strumento per la raccolta di dati scientifici e meteorologici sfuggito al controllo a causa del vento, ma contro la sete di sangue della propaganda sinofoba e guerrafondaia la spiegazione più logica è un’arma spuntata. E così risiamo punto e a capo. Ecco, io a quel punto, se fossi stato la Cina, avrei mollato: se siete così invasati da trasformare una puttanata del genere in un casus belli vuol dire che non c’è niente da fare. Se proprio volete la guerra, che guerra sia.
Fortunatamente per il resto dell’umanità, però, io mi limito a sproloquiare su un canale Youtube, e a guidare la Cina – invece – ci sono gli eredi di un impero millenario che, al contrario di qualche governatore zoticone dell’impero fondato sulle armi semiautomatiche in vendita al tabacchino, riesce a mantenere la calma anche in queste circostanze e ragiona sui tempi lunghi della storia che, poco dopo, torna a fare capolino. Nell’arco di pochi mesi, dopo questa figura barbina di fronte all’intero pianeta, il termine disaccoppiamento comincia a diventare tabù: che l’economia USA e quella cinese non possono fare a meno l’una dell’altra diventa il nuovo mantra, ripetuto prima da Sullivan, poi dalla Yellen, poi da Blinken. Intendiamoci: le parole non costano nulla e i fatti continuano ad andare in un’altra direzione ma, alla fine, nella diplomazia anche il tono conta, eccome. Ed ecco così che si ricomincia a parlare di un eventuale nuovo faccia a faccia che riprenda il filo del discorso iniziato a Bali e naufragato per un pallone gonfiabile. Manco al campino del parroco quando andavo alle medie… Ma d’altronde la Cina la distensione la deve trovare con chi c’è, anche se quello che c’è si chiama Rimbambiden e, tra una gaffe e l’altra, ormai è abbastanza evidente che tiene in pugno la politica estera USA un po’ come io tengo in pugno l’opinione pubblica italiana.
L’occasione giusta, appunto, viene identificata nella riunione annuale dell’APEC organizzata per metà novembre a San Francisco; le due diplomazie lavorano giorno e notte per risolvere ogni tipo di ostacolo e, per avere la conferma definitiva, si dovranno aspettare gli ultimissimi giorni: andrà, non andrà, ci sarà un incontro bilaterale ad hoc, oppure no, si concluderà con una dichiarazione congiunta… fino all’ultimo minuto niente è scontato. Ecco perché, oggi, mi fanno un po’ ridere quelli che minimizzano: la sanno lunga, però solo dopo. In realtà mai come oggi, almeno da 60 anni a questa parte, l’umanità intera sta camminando su una fune sospesa a 50 metri d’altezza dal suolo; basteranno queste strette di mano e questi sorrisi a farci mantenere in equilibrio almeno per un altro po’?
Il messaggio che arriva da San Francisco, stringi stringi, è uno: per quanto, effettivamente, tutto sembri ineluttabilmente crollarci sotto i piedi e sfuggirci di mano, per il momento le due principali potenze globali di annichilirsi l’un l’altra a suon di testate atomiche non sembrano averne intenzione. Per gli inguaribili ottimisti – che sono ancora convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, dove le magnifiche sorti e progressive della grande civiltà dell’uomo bianco ha relegato la tentazione della mutua distruzione reciproca ai libri di storia – probabilmente è poca cosa, ma per noi che siamo pessimisti cosmici e che ancora facciamo fatica a vedere quali alternative all’armageddon dovrebbe avere l’imperialismo occidentale a guida USA a sua disposizione non solo per impedire, ma anche solo per ostacolare efficacemente il suo inesorabile declino, in realtà è tipo – non voglio dire – un miracolo, ma quasi.
Ma non di sole profezie millenariste si vive e allora, intanto, cominciamo da qualcosa di completamente diverso: la cosa più bella di questo bilaterale infatti, è stata la location perché la tenuta dove Xi e Biden si sono confrontati in modo “franco e diretto” – come hanno sottolineato i comunicati – per la bellezza di 4 ore, non è un luogo qualsiasi ma è nientepopodimeno che la tenuta di famiglia al centro di uno dei prodotti più iconici in assoluto dell’industria culturale USA: Dynasty. E non è tutto, perché c’è un aspetto che non tutti conoscono di Dynasty: durante i lavori per la realizzazione di tutte e 8 le stagioni della telenovela, un personaggio di primissimo piano negli USA ha continuato ininterrottamente a stalkerizzare la produzione elemosinando – con ogni mezzo possibile – una parte qualsiasi, venendo sistematicamente rimbalzato. Quel personaggio di primissimo piano è nientepopodimeno che Donald Trump. Un caso? Io non kreto. E con questo retroscena dall’incontro bilaterale, sostanzialmente è tutto. Poi sì – per carità – dice che hanno parlato di Fentanyl, di ostacolare la deriva che potrebbe portarci a breve al paradosso che a decidere se scoppierà la guerra mondiale o meno sia direttamente l’intelligenza artificiale, di clima; d’altronde, in qualche modo, queste 4 ore andavano riempite ma, tutto sommato, è solo fuffa. Il punto è che, a parte la promessa reciproca di non distruggersi a vicenda, i due leader non hanno niente da dirsi; le traiettorie e gli interessi strategici dei due paesi, semplicemente, non sono compatibili: da un lato l’ordine unipolare fondato sulla concentrazione dei capitali in mano alle oligarchie finanziarie, dall’altro un nuovo ordine multipolare fondato sullo sviluppo delle forze produttive e sulle relazioni commerciali tra stati sovrani. Un dualismo semplicemente irrisolvibile, a meno di una rivoluzione all’interno di uno dei due poli; e allora è proprio da questo punto di vista che dobbiamo provare a leggere tutto quello che è successo negli ultimi giorni.
Come tutti sapete, infatti, il tête-à-tête tra Sleepy Joe e Xi Dada non è stato altro che uno dei tanti incontri che si sono svolti in occasione della riunione annuale dell’APEC, l’Asia-Pacific Economic Cooperation, un organo multilaterale del quale – nella nostra provincia profonda dell’impero – a malapena conosciamo l’esistenza, figurarsi l’importanza e il ruolo. D’altronde con i suoi 21 membri che rappresentano il 38% della popolazione, il 50% del commercio globale e il 62% del PIL globale, è soltanto l’organismo di cooperazione economica più grande del pianeta. Che ce frega a noi?
In cima all’agenda dei lavori dell’APEC – a questo giro – c’era una questione piuttosto delicata: si chiama IPEF, che sta per Indo-Pacific Economic Framework; lanciato dallo stesso Rimbambiden nel maggio scorso, sarebbe dovuto servire agli USA per controbilanciare l’aumento dell’influenza economica cinese nell’area. Un buco nell’acqua: “Il fallimento degli Stati Uniti nell’accordo commerciale Indo – pacifico apre le porte alla Cina” scrive Bloomberg, e l’Economist rilancia “I fallimenti di Joe Biden sul fronte commerciale avvantaggiano la Cina”.

Un pallone gonfiato americano

Facciamo un piccolo passo indietro; per contrastare la crescente influenza commerciale del dragone in Asia, nel 2005 l’amministrazione Bush Junior avvia una serie di negoziati con 14 partner locali: l’obiettivo è raggiungere un quadro regolatorio onnicomprensivo per favorire il libero scambio e l’integrazione economica tra le due sponde del pacifico tenendo fuori la Cina. Si chiama TPP, Trans-Pacific Partnership (partenariato trans-pacifico) ed è il classico strumento della globalizzazione neoliberista a guida USA e fondata sul dollaro e, sebbene sia stato avviato da Bush Jr, diventerà il cavallo di battaglia del Pivot to Asia dell’amministrazione Obama; attraverso l’accordo si dovrebbe facilitare ulteriormente la delocalizzazione e la deindustrializzazione degli USA e, in cambio, le oligarchie locali avrebbero l’opportunità di estrarre plusvalore dalle loro economie per incassare dollari ed andarli a reinvestire nelle bolle speculative a stelle e strisce, e a pagare il conto sarebbero i lavoratori che, però, si oppongono con ogni mezzo necessario – compresa l’elezione di un pazzo furioso. In mezzo a mille proteste, infatti, i negoziati procedono a rilento e la scadenza iniziale del 2012 viene rimandata per ben 4 volte. La firma, finalmente, arriva nel febbraio del 2016: durerà come un gatto in tangenziale; l’opposizione al vecchio paradigma liberoscambista, pochi mesi dopo, porterà alla vittoria alle presidenziali di Donald Trump che, poco dopo, ritirerà l’adesione degli USA al TPP.
Le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione neoliberista, come meccanismo fondamentale per far avanzare le ambizioni egemoniche USA, non convincono più nessuno; nel frattempo la Cina continua, con passo lento ma inesorabile, a rafforzare i suoi legami commerciali e a lavorare a una sempre maggiore integrazione e interdipendenza economica dell’area. E’ un modello completamente diverso che, invece di essere fondato sulle delocalizzazioni, è fondato sulla liberazione delle forze produttive della regione attraverso gli investimenti e l’integrazione delle catene produttive: non ruba lavoro a qualcuno per darlo a qualcuno con meno diritti e pagato meno, ma crea le condizioni perché entrambi, cooperando, siano in grado di creare più ricchezza. Per la crescita dell’economia – in generale – è un modello molto più ragionevole, anche se per le élite economiche un po’ meno; in questo modello, infatti, per fare soldi non basta investirli in azioni al Nasdaq o in prodotti finanziari garantiti da BlackRock e Vanguard, ma tocca lavorare. Ma con l’America ripiegata su se stessa, rimane l’unica opzione a disposizione; quindi l’integrazione economica regionale trainata dalla Cina e fondata sulla liberazione delle forze produttive prosegue, mentre una fetta consistente delle élite continua a sperare che un giorno si possa tornare a depredare l’economia reale per fare quattrini al casinò a stelle e strisce, che è esattamente quello che gli promette Biden nel maggio del 2022 con l’avvio dei negoziati per l’Indo-Pacific Economic Framework e che, però, si ritrova di fronte agli stessi identici ostacoli del passato. I lavoratori USA di pagare di tasca loro i piani egemonici delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce non ce n’hanno voglia e – con le elezioni presidenziali alle porte e Trump che torna a minacciare lo scricchiolante ordine liberale – meglio rimandare tutto. “Una terribile battuta d’arresto per la leadership americana” ha commentato John Murphy, vicepresidente della Camera di Commercio degli Stati Uniti; “In privato” riporta Bloomberg “un dirigente aziendale ha paragonato il caos attorno alle discussioni commerciali dell’IPEF al ritiro disordinato degli USA dall’Afghanistan”. “Lascia la porta aperta alla Cina” avrebbe commentato. “Nella competizione tra America e Cina per l’influenza sul commercio asiatico” commenta l’Economist “solo una parte sta facendo progressi. I governi asiatici non riponevano grosse speranze sull’IPEF, ma ormai è evidente che se mai un accordo arriverà anche quelle basse aspettative saranno tradite”. E Xi Dada passa all’incasso: a latere delle riunione dell’APEC Xi ha incontrato faccia a faccia la leadership filippina che, delusa dalle trattative sull’IPEF, da spina nel fianco cinese eterodiretta da Washington si è riscoperta pacifista. “I problemi rimangono” ha sottolineato il presidente Marcos “ma abbiamo concordato su alcuni meccanismi per ridurre le tensioni nel Mare Cinese Meridionale. Nessuno vuole una guerra”. Ancora più significativo il bilaterale tra Cina e Giappone, sfociato in un testa e testa tra Xi e Kishida di oltre un’ora, al termine del quale gli analisti hanno parlato di un ritorno allo spirito del “rapporto strategico di reciproco vantaggio” del 2008, considerato l’apice dell’era d’oro delle relazioni sino – giapponesi, poi nel tempo gravemente deteriorate. Ma il vero trionfo di Xi è stata – come l’ha definita Santevecchi sul corriere della serva – la “conquista degli imprenditori”: il riferimento, ovviamente, è alla cena che ha visto Xi sedersi al fianco di 400 tra i principali imprenditori e dirigenti d’azienda USA e durante la quale Xi “ha incassato applausi scroscianti”. Per strapparli non ha dovuto fare altro che ribadire che “la Cina non combatterà una guerra con nessuno, né fredda, né calda. La Cina non cerca egemonia, né espansionismo”. “La grande settimana di Xi” titola a 6 colonne Bloomberg “si conclude con una serie di vittorie nei confronti di Stati Uniti, Taiwan ed economia”: a Taiwan infatti – che fa parte della lunga serie di paesi delusi dalla ritirata USA dai negoziati sull’IPEF – le opposizioni che tifano per un riavvicinamento a Pechino e che fino a ieri marciavano divise, avrebbero trovato uno storico accordo che le rende le favorite in vista delle prossime elezioni presidenziali.
Di tutto questo e di molto altro parleremo oggi, lunedì 21 novembre alle 13 e 30, durante la nuova puntata di MondoCina in collaborazione con i nostri soci di Dazibao e dintorni che tra l’altro – sempre per analizzare questa settimana storica – ha fatto un altro dei suoi imperdibili video che vi consiglio assolutamente di andare subito a vedere sul suo canale. Perché, d’altronde, se c’è una cosa che questa settimana conferma è che il mondo nuovo avanza e che non ce lo possiamo far raccontare dai vecchi media. Per raccontarlo senza fette di prosciutto sugli occhi abbiamo bisogno di un vero e proprio nuovo media che dia voce al sud globale e al 99%.
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E chi non aderisce è er bretella Rampini

Il fallimento dell’euro come sostituto del dollaro

@ottolinatv

La nuova Pill8lina – Il fallimento dell’euro come sostituto del dollaro Riguarda la live integrale qui: https://www.youtube.com/watch?v=KY5_3MIOPXE ottolinatv ottovolante economia euro dollaro bache sovranità finanziarizzazione finanza

♬ suono originale – OttolinaTV – OttolinaTV

All’introduzione dell’Euro e nei suoi primi anni, dal 2000 al 2003, c’è stata l’ascesa dell’Euro, ed è stata potentissima.

Poi gli hanno fatto la guerra.

Per vedere l’episodio integrale de L’Ottovolante, clicca qui!

Il ritorno dell’austerity: come e perché a Bruxelles hanno deciso di uccidere l’Economia Europea

Venerdì scorso nella redazione de La Repubblichina era festa grossa: “Ue, l’Italia resta sola” titolavano entusiasti. La testata di punta del gruppo editoriale che, più di ogni altro, s’è speso negli anni per trasformare l’Italia in una doppia colonia – sia di Bruxelles che di Washington – sembra volerle provare tutte pur di far apparire perfino uno svendi-patria di professione come Giancazzo Giorgetti come uno statista tutto d’un pezzo. La partita è di nuovo quella della riforma del patto di stabilità, il quadro regolatorio inventato ad hoc per distruggere scientificamente l’economia reale del vecchio continente. “I governi europei” riportava La Repubblichina “raggiungono l’intesa sulle nuove regole di bilancio”.

Giancarlo Giorgetti

“Per il ministro Giorgetti” scrive Andrea Bonanni in uno dei due comizi propagandistici pubblicati dalla repubblichina a commento della vicenda “è una sconfitta cocente”. Che, più che per Giorgetti, sia una sconfitta non solo per l’Italia, ma ancora più in generale per le condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori e di imprese nel continente, in questa sfida a chi ha i requisiti migliori per candidarsi come curatore fallimentare del paese di fronte alle oligarchie finanziarie dell’Occidente collettivo, evidentemente è un aspetto del tutto secondario: come sottolinea lo stesso Bonanni, infatti, “la proposta iniziale della Commissione è stata corretta nel senso voluto dalla Germania” e, in particolare, dal falco della dittatura dell’austerity Christian Lindner, che vince la sua battaglia contro ogni tentativo di dotare l’Europa degli strumenti minimi necessari per provare a reagire alla gigantesca recessione che è già iniziata nel suo paese e che, a breve, distruggerà quel poco che è rimasto dell’economia europea. L’altro comizio propagandistico anti-italiano de La Repubblichina è affidato invece al solito Claudio Tito che sottolinea come “non si capisce più cosa voglia l’Italia”. Eh, davvero eh? Incomprensibile, proprio; le modifiche filo austerity volute dai falchi tedeschi, infatti, impongono una bella overdose di misure lacrime e sangue per ridurre il debito e riportare il deficit sotto controllo, esattamente l’opposto di quello che servirebbe durante una recessione e contro la nuova ondata di politiche protezioniste made in USA, dove – invece – il debito è esploso e esploderà ancora di più in futuro proprio per regalare una montagna di quattrini alle aziende e convincerle ad abbandonare il deserto europeo e andare a fare fortuna in America. Ora, che degli zerbini viventi come le firme di punta de La Repubblichina accolgano con entusiasmo scelte deliranti di politica economica come questa pur di sperare, un giorno, di prendere il posto dell’amministrazione coloniale attualmente in carica, ovviamente non dovrebbe sorprendere; quello che, invece, è già più complicato da spiegare è “ma perché mai le élite politiche europee hanno deciso di affossare definitivamente l’economia del vecchio continente?
Bye bye soglia del 3%! Per 15 anni abbiamo denunciato come aver imposto, da parte dell’Unione Europea, una soglia del 3% del rapporto tra deficit e PIL fosse stata una misura del tutto arbitraria che aveva il solo scopo di mettere in ginocchio le economie più deboli della periferia meridionale dell’Europa – a partire dall’Italia – per permettere a quelle più forti di fagocitarle; ora quel parametro finalmente viene rivisto. Peccato che sia in peggio: la bozza di riforma del patto di stabilità che ieri ha ricevuto il via libera dai ministri dell’economia e delle finanze dell’Unione Europea, infatti, prevede – come riportava venerdì La Stampa – “di portare il deficit ben al di sotto del 3%, con un margine di sicurezza la cui quantificazione esatta sarà oggetto dei negoziati nelle prossime settimane”. Una mossa geniale che, secondo Bonanni de La Repubblichina, potrebbe essere stata provocata dal fatto che nell’ultima manovra finanziaria italiana ci si è azzardati, contro il parere di Bruxelles, a introdurre qualche spicciolo di deficit in più rispetto al previsto; bazzecole, totalmente insufficienti anche solo a far finta di contrastare la recessione in arrivo e quasi tutte impiegate nella direzione sbagliata, ma abbastanza da far gridare allo scandalo i talebani dell’austerity che, da allora, farneticano che “l’idea che l’Europa veglierà a limitare le politiche di spesa delle destre al potere non dovrebbe essere una cattiva notizia” (Andrea Bonanni, La Repubblichina). Ha ragione: non è cattiva. E’ pessima, e non è l’unica: il nuovo patto, infatti, ripropone pari pari la necessità di svendere i gioielli di famiglia per ridurre il debito a tappe forzate. Certo, le tappe sono distribuite un po’ diversamente rispetto al vecchio patto, ma non certo perché siano cambiate filosofia e scopi di fondo; molto semplicemente, piuttosto, perché la riduzione del debito – come prevista dal vecchio patto – non era fattibile, tant’è che nessuno l’ha mai rispettata e, alla fine, si chiudeva un occhio.
La novità, adesso, consiste nel fatto che l’obbligo di ridurre il debito è sempre sufficiente per indebolire le economie nazionali ma, almeno, in modo che sia un po’ più realistico, e a questo giro – se si sgarra – le sanzioni arriveranno eccome. “Un totem irrinunciabile” scrive La Stampa “da dare in pasto all’opinione pubblica tedesca, poco incline a digerire trasgressioni”. Contro questo delirio Giorgetti, sin dall’inizio, ha cercato di portare a casa almeno una cosa: che dal computo venissero esclusi, perlomeno, una parte degli investimenti – almeno quelli del PNRR. Macché: l’unica eccezione possibile è per l’industria della difesa. D’altronde, per combattere la terza guerra mondiale, quella serve come il pane anche a Washington che, da solo, a tornare a produrre armi a sufficienza molto semplicemente non ce la può fare. E quindi su quello – e solo su quello – si potrà chiudere un occhio.

Giorgetti con il Segretario al Commercio degli Stati Uniti d’America Gina Raimondo

Dal punto di vista macroeconomico, molto semplicemente, tutto questo non ha nessunissimo senso: a causa delle scelte geopolitiche che l’Europa si è lasciata imporre dal padrone a stelle e strisce e che hanno, in primo luogo, completamente devastato il mercato dell’energia del vecchio continente, le nostre aziende già di default non sono più competitive. Ma se a questo ci aggiungiamo la valanga di quattrini che Washington ha messo a disposizione delle aziende che vanno a investire a casa sua, la deindustrializzazione del vecchio continente a favore del padrone d’oltreoceano diventa letteralmente inarrestabile.
Ma perché la classe dirigente europea sta optando per questo plateale suicidio? Sono scemi? In buona parte si: la classe politica, almeno, tanto tanto strutturata e illuminata effettivamente non è, ma loro sono il personale di servizio, diciamo. Chi controlla le fila tanto scemo ovviamente non è, solo che i suoi interessi non sono semplicemente diversi da quelli delle persone normali che campano del loro lavoro; sono esattamente antitetici e, nel caso di noi che viviamo nella periferia dell’Unione, il ragionamento va moltiplicato per due. Il primo schema, infatti, riguarda tutta l’economia europea nel suo insieme ed è quello che continuiamo a ripetere continuamente: l’interesse delle élite economiche europee per la crescita dell’economia reale è relativo. Passare da quella grossissima rottura di coglioni che è la produzione di beni e servizi non è più, da tempo, il modo più semplice per fare profitti; questo vale in generale perché, per fare profitti a mezzo di merci e di servizi, devi far lavorare la gente e la gente, quando lavora, poi avanza sempre strane pretese: diritti, aumenti salariali, addirittura democrazia. Ma vale ancora di più in questa fase dove le variabili sono tante, da quelle climatiche a quelle geopolitiche, e per far tornare le nostre aziende ad essere competitive ci sarebbe un sacco di roba rischiosa da fare: investire nelle infrastrutture, nella formazione, nell’innovazione e, addirittura, ogni tanto andare contro agli interessi di qualcuno più grande e grosso di te, come ad esempio riallacciare i rapporti con la Russia per tornare ad avere l’energia a dei prezzi ragionevoli.
Molto meglio estrarre quel poco di plusvalore che ancora i lavoratori europei sono in grado di produrre – nonostante la produttività sia crollata a causa dei mancati investimenti – e andare a investire quei quattrini nelle bolle speculative d’oltreoceano. Ma non solo: anche farsi dare in gestione dei monopoli naturali dallo Stato – dove i profitti sono garantiti da tariffe imposte con la forza dello Stato stesso e il rischio è zero – è sempre meglio che lavorare, e quindi una bella overdose di austerity che imponga agli stati di privatizzare ed esternalizzare tutto quello che è possibile è una bella scorciatoia per garantirsi profitti facili. E poi ha anche un’altra bella utilità: privatizzando ed esternalizzando, infatti, la gente comune – per garantirsi i servizi minimi essenziali – è costretta a mettere i quattrini nelle pensioni integrative e nelle assicurazioni mediche e quei soldi, poi, vengono gestiti dalle oligarchie finanziarie globali per continuare a gonfiare le bolle speculative che, quindi, ricevono sempre nuovi quattrini per continuare a gonfiarsi all’infinito ed eliminare ogni rischio. Ecco così che, al posto dei rischi dell’economia reale, ti ritrovi di fronte alle rendite sicure delle bolle speculative. E che fai, te ne privi?
Questo è il meccanismo globale – diciamo – e tocca un po’ a tutti, dai tedeschi agli italiani. Dentro questa logica, però, ce n’è anche un’altra gerarchicamente meno importante ma che permette ai tedeschi di imporre ai loro cittadini questo furto sistematico della loro ricchezza da parte dello 0,1% senza che si incazzino troppo ed è la logica, appunto, che attraverso misure di austerity permette ai capitali più forti di fare shopping a prezzi di saldo nei paesi più deboli, come è successo in Grecia ormai oltre 10 anni fa. E’ la logica che vede contrapposti gli interessi dell’Europa del nord, con i conti relativamente in ordine, rispetto a quelli dell’Europa meridionale, quelli che una volta chiamavamo PIGS: impedendo – attraverso misure lacrime e sangue – ai paesi dell’Europa meridionale di rafforzare la loro economia reale, l’Europa del nord rafforza il rapporto gerarchico a suo favore. Non è sufficiente per invertire il declino della loro economia, ma per lo meno ne rallenta il crollo e, con gli ultimi dati sull’andamento della produzione industriale in Germania, direi che ormai ne hanno sempre più bisogno, prima che il malcontento consegni il governo all’AFD o, magari – cosa che a noi andrebbe decisamente meglio ma alle élite tedesche probabilmente meno – alla nuova formazione politica di Sarah Wagenknecht.

Il buon vecchio Tommaso Nencioni

In questo rapporto gerarchico di subordinazione, inoltre, c’è un’altra componente, come ricorda sempre il nostro buon vecchio Tommaso Nencioni: massacrando l’economia reale della periferia europea, infatti, la Germania impone in modo indiretto anche politiche restrittive a livello salariale, e siccome chi produce nella periferia dell’Europa – e in particolare in Italia – lo fa principalmente proprio come sub-fornitore delle industrie tedesche, questo permette di garantire margini di profitto un po’ più solidi. Di fronte a questo scempio l’Europa mediterranea e meridionale dovrebbe gridare all’unisono vendetta, se solo esistesse: in Portogallo il presidente ha sciolto il parlamento, la Spagna è senza governo e sull’orlo di una guerra civile e la Grecia, dopo il trauma della crisi dei debiti sovrani, è così sottona che al governo ci sono dei falchi più falchi dei liberali tedeschi, e all’opposizione un rampollo della finanza speculativa che manco parla greco.
Per quanto paradossale possa sembrare, l’avanguardia della resistenza progressista contro i piani distopici di Bruxelles – paradossalmente – è proprio Giancazzo Giorgetti. Cioè, rendiamoci conto, Giancazzo Giorgetti! E i media mainstream della galassia liberaloide gli fanno la guerra, sì, ma da destra, e non è proprio facilissimo. Se Giorgetti ora punta i piedi, infatti, non è certo per difendere l’economia reale italiana; semplicemente, si vuole garantire qualche margine per distribuire un po’ di prebende ai prenditori parassitari italiani tipo Bonomi che, nonostante rappresenti imprenditori che hanno registrato profitti stellari e non hanno reinvestito un euro nell’economia reale, l’altro giorno ha avuto il coraggio di lamentarsi che, nella manovra, solo l’8% delle risorse sono regali alle aziende. Ma non solo, perché alla fine – infatti – sarebbe addirittura emerso che l’opposizione di Giorgetti in realtà sarebbe stata tutta e soltanto a favore delle telecamere: secondo la ministra spagnola Nadia Calvino, presidente di turno del Consiglio europeo – infatti – “durante gli scambi intensi che abbiamo avuto nelle ultime settimane” tutte queste osservazioni e critiche al nuovo patto di stabilità, in realtà, “non si sarebbero mai sentite”.
Insomma: come per la tassa fantasma sugli extraprofitti, sarebbe solo propaganda ad uso e consumo di quei pochi inguaribili ottimisti che ancora si illudono che questa destra di cialtroni svendi-patria abbia ancora davvero qualche componente così detta sociale. In realtà, ovviamente – come hanno ampiamente dimostrato con l’ultima manovra di bilancio – Giancazzo Giorgetti e il suo governo di svendi-patria finto-sovranisti, al progetto distopico di Washington e di Bruxelles di completo smantellamento delle basi produttive del vecchio continente e di finanziarizzazione forzata dell’intera economia ci ha aderito eccome; quello che chiede è, semplicemente, un po’ di margine per qualche prebenda in più – che è l’unica cosa che il suo governo ha da offrire al paese – e il pretesto per montare un po’ di teatrino e continuare con la pantomima del governo dei patrioti.
E la reazione isterica degli analfoliberali del sistema mediatico mainsteam è esattamente tutto quello che gli serve per portare avanti la pantomima mentre alla fine, come ammette anche La Stampa, “si continua a negoziare, e nei palazzi UE c’è ottimismo”. Come sempre, appena vai un millimetro sotto la superficie, anche a questo giro, l’agenda delle diverse fazioni del partito unico degli affari e della guerra sempre quella è.
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E chi non aderisce è Carlo Cottarelli