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Dalla tecnocrazia alla teologia politica: Come ostacolare il piano del capitale contro la democrazia

Una lunga guerra contro la democrazia. E’ questo in sostanza il fulcro dell’azione politica delle élite del nord globale durante l’ultimo ormai mezzo secolo proprio mentre, paradossalmente, il ricorso strumentale proprio al concetto di democrazia, si affermava come il principale paravento ideologico dietro il quale dissimulare il ritorno all’impiego della forza bruta su una scala raramente vista prima nella storia dell’umanità; una guerra pianificata nei minimi dettagli, esplicitamente.

Samuel P. Huntington, Copyright World Economic Forum

Siamo nel 1975 e un gruppo di studiosi e ricercatori capeggiati dal famigerato politologo statunitense Samuel Huntington pubblica un celebre rapporto destinato a fare epoca. “La crisi della democrazia”, si intitola, “sulla governabilità delle democrazie”; un lavoro su commissione con un committente di eccellenza.

E’ la famigerata Commissione Trilaterale, il think tank che da 50 anni anima i pensieri più contorti di ogni vero complottista e purtroppo, spesso, non senza ragioni; era stata fondata 2 anni prima da David Rockefeller in persona e da allora si era posta un unico obiettivo: riaffermare il dominio delle elite sul resto della società in quegli anni di irrefrenabile fermento politico e di protagonismo delle masse popolari.

La ricetta è degna di una puntata di Black mirror: il funzionamento efficace di un sistema democratico”, si legge nel rapporto, “necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi”.

Non è una battuta. E’ letteralmente l’obiettivo politico che, a partire da quel 1975, si sono date esplicitamente le élite del nord globale per riaffermare il loro dominio sul resto della società: indurre all’apatia il maggior numero di persone possibili, che in quegli anni si erano messe in testa di rivendicare per se un ruolo attivo nel governo del pianeta.

Come ammettono esplicitamente anche i relatori del rapporto, ovviamente questo obiettivo “è intrinsecamente anti-democratico, ma”, sottolineano, “è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene”.

Una democrazia anti-democratica quindi: questo è stato il modello di società perseguito con ogni mezzo necessario nell’ultimo mezzo secolo.

Cosa mai sarebbe potuto andare storto?

Oggi parliamo di quello di cui avremmo bisogno, a ormai mezzo secolo di distanza, per ritornare a ostacolare i piani distopici di un manipolo di oligarchi.

1927. Il celebre giurista e politologo tedesco Carl Schmitt conclude uno dei suoi innumerevoli saggi: “Il concetto del politico”, lo intitola. Un testo profetico; in poche battute Schmitt infatti descrive con precisione quasi chirurgica le principali dinamiche che caratterizzeranno il conflitto geopolitico negli ormai quasi 100 anni successivi. La storia degli ultimi 100 anni infatti è storia di sanguinose guerre globali, in 3 atti: il primo è quello delle guerre coloniali ed imperialistiche, con il continente europeo come epicentro; il secondo è quello delle guerre neocoloniali, anticoloniali e di carattere prevalentemente ideologico, generate dalla guerra fredda tra USA e URSS; e infine il terzo è quello delle guerre postcoloniali e imperialistiche degli USA che si protraggono fino ad oggi.

Ma se per i primi due atti, il contenuto tragico del copione è universalmente riconosciuto, per il terzo le cose sono più complesse. Secondo la propaganda liberale infatti, il crollo del blocco sovietico sarebbe dovuto coincidere con un’era di pace, prosperità e armonia tra gli Stati, scandita dalla progressiva espansione di istituzioni economiche “neutrali” come i mercati globali. Gli Stati Uniti erano il cavaliere dalla splendente armatura, la globalizzazione neoliberista il suo destriero: una bella favola con un finale talmente lieto che, nell’ingenua formulazione di Fukuyama, avrebbe portato con sé la “fine della storia”.

Eppure, già Schmitt aveva previsto che questo lieto fine, questo mondo fatato in cui gli USA sarebbero stati i garanti, era appunto una vana speranza: “sarebbe un errore”, scrive Schmitt, “credere che una posizione politica raggiunta con l’aiuto della superiorità economica si presenti come «essenzialmente non bellicosa». Non bellicosa” – come si confà all’essenza dell’ideologia liberale – “è solo la terminologia” conclude Schmitt. La millantata non bellicosità, al contrario, si tradurrà necessariamente nel creare con ogni mezzo necessario “una situazione mondiale in cui poter far valere senza impedimenti il suo potere economico”, con la beffa che poi si arrogherà anche il diritto di considerare “violenza extraeconomica” qualsiasi azione compiuta “da un popolo, o un altro gruppo umano” nel tentativo di “sottrarsi agli effetti” di questo stesso strapotere.

L’ho già risentito, diciamo.

In particolare negli ultimi 30 anni, infatti, ogni qualvolta una parte del mondo cercava di sottrarsi alle imposizioni del mercato globale, che è tutto tranne che libero, veniva immediatamente riportata all’ordine imposto dalle direttive imperiali, sostenute da una logica ferrea: se il mercato globale è pace e prosperità, chiunque non voglia aderirvi acriticamente o è un pazzo o un potenziale pericolo, e pertanto può essere solamente isolato o “ricondotto alla ragione” con ogni mezzo necessario, a partire dall’utilizzo dei più avanzati strumenti tecnologici finalizzati all’uccisione fisica violenta, che però, più sono distruttivi e violenti, più vengono celati dietro il paravento di contorsioni retoriche che eliminano la guerra dal lessico comune e riempono la bocca della propaganda di termini apparentemente neutri come sanzioni, peacekeeping, guerre umanitarie e bombe intelligenti.

Ma cosa permette agli interessi egoistici specifici del nord globale e delle sue élite economiche di spacciarsi come neutrali?

E’ una delle domande a cui prova a rispondere Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto e Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno, nel suo ultimo monumentale lavoro: “Teologia politica e diritto”.

Ma cosa potrà mai avere a che fare il dominio, spacciato per neutrale, di una determinata logica economica, che è la cosa apparentemente più mondana possibile immaginabile, addirittura con la teologia?

Per capirlo, bisogna fare un passettino indietro, e tornare a quello che è considerato in assoluto il padre fondatore delle scienze politiche moderne: il filosofo britannico Thomas Hobbes, e il suo Leviatano, una creatura biblica che Hobbes riesuma per descrivere lo stato moderno, al quale “tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite”, che “è in grado di informare la volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni” (Thomas Hobbes, Leviatano).

Lo stato moderno di Hobbes è il successore logico, cronologico e immanente di Dio, e la politica non è altro che la secolarizzazione della teologia, e quindi, appunto,Teologia Politica, per dirla con Carl Schmitt che proprio così ha intitolato quella che è considerata la sua opera principale, nell’ormai lontanissimo 1922. Secondo Schmitt, tutti i concetti basilari della dottrina politica nell’era dello Stato Moderno sono concetti teologici secolarizzati: lo Stato quindi non sarebbe, come sostiene la teoria politica moderna, il prodotto di una ragione umana che taglia i ponti con il passato e la tradizione, ma altro non è che la trasposizione sul terreno dell’immanenza dell’idea tradizionale di Dio come fondatore dell’ordine; come sottolinea Preterossi, riprende proprio la riflessione di Hobbes, alla disperata ricerca di un nuovo potere ordinatore di fronte al tragico spettacolo del fratricidio della guerra civile inglese che si svolgeva proprio davanti ai suoi occhi. “Per stabilizzare un nuovo ordine è stato necessario sostituire i vecchi assoluti con un artificio in grado di imporsi, di ottenere obbedienza con la coazione ma anche in virtù del riconoscimento razionale dell’unico fine minimo incontrovertibile dell’ordine: la garanzia della sopravvivenza grazie alla neutralizzazione della generale predisposizione alla violenza, e in particolare quella identitaria che si sprigiona durante una guerra civile”.

Seguendo questa logica, quasi 4 secoli dopo, alla religione laica dello Stato Assoluto di Hobbes, sarebbe subentrata un’altra religione laica, che Preterossi definisce Teologia Economica Neoliberista. Se in Hobbes era il Leviatano a dover sopperire all’assenza di una giustificazione divina del potere per garantire l’ordine sociale, oggi è l’economia a proporsi come terreno neutrale su cui costruire una società non conflittuale. Il potere politico degli stati, in questo senso, deve limitarsi a garantire le condizioni di esistenza del libero mercato, in cui la conflittualità può esprimersi nel suo surrogato: la concorrenza. E quando libero mercato e concorrenza entrano in crisi, ecco che si ricorre a un’altra giustificazione, un altro principio proposto come “neutrale”: quello della tecnica e della tecnocrazia.

Non è più semplicemente questione di dialettica tra opzioni politiche contrapposte, ma è proprio la politica in se, come strumento per la progettazione razionale e condivisa della vita in comune – comunque venga declinata – a venire malamente cacciata fuori dal palcoscenico della storia.

La teologia economica neoliberale”, sottolinea lucidamente Preterossi, “è una teologia politica “anti-politica”, perché fa dell’immanenza un assoluto”, ed esclude così a priori ogni possibilità di trasformazione che non derivi direttamente dalle sue logiche intrinseche; ed ecco perché la ripoliticizzazione del dibattito pubblico, di per se, rappresenta una forma di resistenza rispetto al nuovo Leviatano della religione neoliberista. Preterossi, nell’ultima parte del libro, si interroga su quali siano le modalità attraverso le quali questa ripoliticizzazione e l’elaborazione di nuove grandi visioni condivise in grado di riattivare una mobilitazione collettiva – che sola può ambire a spostare concretamente i rapporti di forza all’interno della società a favore dei subalterni – potrebbe concretamente avverarsi; per farlo, ricorre in primo luogo a Gramsci, che secondo Preterossi avrebbe cercato con la sua opera e la sua militanza di trovare “un’altra via della laicità, non meno completa di quella liberale” di segno completamente diverso “perché non individualista, né privatista” ma, al contrario, capace di creare “un’adesione a un plusvalore collettivo che non passi dalla paura e dalla superstizione, ma da un’accettazione consapevole, nutrita di passioni razionali”.

Insomma, il Gramsci di Preterossi avrebbe cercato di fondare una vera e propria religione secolare che, sempre secondo Preterossi, di quella mobilitazione collettiva oggi indispensabile sarebbe una precondizione imprescindibile. E oggi? Quali sarebbero oggi le possibili religioni laiche necessarie per rivitalizzare la mobilitazione politica?

Preterossi, nella parte conclusiva del testo, affronta uno dei fenomeni su cui maggiormente si è concentrato il dibattito recente: il populismo. “Sarebbe molto riduttivo”, scrive Preterossi, “ritenere che le cause e il significato del populismo contemporaneo siano riconducibili unicamente agli effetti del web”; piuttosto bisognerebbe focalizzare l’attenzione verso quei “processi materiali di natura economica generati dalla globalizzazione finanziaria che minano la coesione sociale, da un lato, e all’esplosione delle contraddizioni della politica rappresentativa moderna che la spoliticizzazione neoliberale ha finito per enfatizzare, dall’altro. Più che della sola disintermediazione digitale”, continua Preterossi, il populismo sarebbe “la forma del politico contemporaneo, con le sue opacità e ambivalenze” e anche se “non è affatto detto che offra soluzioni efficaci”, sicuramente sarebbe per lo meno “in grado di saldare dimensione materiale e politica, ciò che la politica tradizionale oggi fa molta più fatica a fare”.

Senza alcuna forma di snobismo, Preterossi si chiede se il populismo possa costituire un nuovo vincolo sociale oppure soffra “degli effetti della disintermediazione”, tipici proprio dell’era del trionfo della religione neoliberale, replicandone le logica, ma una via di uscita potrebbe risiedere proprio nella declinazione che del macrocosmo populista danno autori come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che, secondo Preterossi, rappresenterebbero “una rottura con tutti il bagaglio dei pregiudizi sul populismo”, dal momento che il popolo che rappresenta l’oggetto della loro riflessione non è banalmente il popolo tenuto insieme dai legami di sangue e di appartenenza nazionale, ma molto più articolatamente il popolo tenuto insieme dalla convergenza delle diverse rivendicazioni dei subalterni.

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OttolinaTV

4 Ottobre 2023

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