Nuovo format per Ottolina Tv con Daniele Trovato di Guerrilla Radio
Quest’estate torna FEST8LINA, la festa del 99%, dal 4 al 7 luglio al circolo ARCI di Putignano a Pisa: quattro giornate di dibattiti e di convivialità con i volti noti di Ottolina Tv. Facciamo insieme la riscossa multipopolare! Per aiutarci ad organizzarla al meglio, facci sapere quanti giorni parteciperai e le tue esigenze di alloggio compilando il form e, se vuoi aiutarci ulteriormente, partecipa come volontario.
Fest8lina, perché la controinformazione è una festa!
Ottolina torna a parlare di lavoro, oggi ci concentriamo sulla situazione delle ferrovie. A pochi giorni dello sciopero dei manutentori ferroviari, abbiamo deciso di parlare con lavoratori di tutta Italia (Bologna, Firenze, Milano, Roma) del settore per avere un quadro della protesta, cause e partecipazione. Ancora una volta le compagnie private prediligono comprimere salari e qualità del lavoro, invece di investire e aprire al dialogo; ancora una volta nel silenzio generale dei media, si combatte una battaglia di quella guerra tra capitale e lavoro che ci riguarda tutta nel nostro quotidiano. Buona visione!
Una lunga guerra contro la democrazia. E’ questo in sostanza il fulcro dell’azione politica delle élite del nord globale durante l’ultimo ormai mezzo secolo proprio mentre, paradossalmente, il ricorso strumentale proprio al concetto di democrazia, si affermava come il principale paravento ideologico dietro il quale dissimulare il ritorno all’impiego della forza bruta su una scala raramente vista prima nella storia dell’umanità; una guerra pianificata nei minimi dettagli, esplicitamente.
Siamo nel 1975 e un gruppo di studiosi e ricercatori capeggiati dal famigerato politologo statunitense Samuel Huntington pubblica un celebre rapporto destinato a fare epoca. “La crisi della democrazia”, si intitola, “sulla governabilità delle democrazie”; un lavoro su commissione con un committente di eccellenza.
E’ la famigerata Commissione Trilaterale, il think tank che da 50 anni anima i pensieri più contorti di ogni vero complottista e purtroppo, spesso, non senza ragioni; era stata fondata 2 anni prima da David Rockefeller in persona e da allora si era posta un unico obiettivo: riaffermare il dominio delle elite sul resto della società in quegli anni di irrefrenabile fermento politico e di protagonismo delle masse popolari.
La ricetta è degna di una puntata di Black mirror: “il funzionamento efficace di un sistema democratico”, si legge nel rapporto, “necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi”.
Non è una battuta. E’ letteralmente l’obiettivo politico che, a partire da quel 1975, si sono date esplicitamente le élite del nord globale per riaffermare il loro dominio sul resto della società: indurre all’apatia il maggior numero di persone possibili, che in quegli anni si erano messe in testa di rivendicare per se un ruolo attivo nel governo del pianeta.
Come ammettono esplicitamente anche i relatori del rapporto, ovviamente questo obiettivo “è intrinsecamente anti-democratico, ma”, sottolineano, “è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene”.
Una democrazia anti-democratica quindi: questo è stato il modello di società perseguito con ogni mezzo necessario nell’ultimo mezzo secolo.
Cosa mai sarebbe potuto andare storto?
Oggi parliamo di quello di cui avremmo bisogno, a ormai mezzo secolo di distanza, per ritornare a ostacolare i piani distopici di un manipolo di oligarchi.
1927. Il celebre giurista e politologo tedesco Carl Schmitt conclude uno dei suoi innumerevoli saggi: “Il concetto del politico”, lo intitola. Un testo profetico; in poche battute Schmitt infatti descrive con precisione quasi chirurgica le principali dinamiche che caratterizzeranno il conflitto geopolitico negli ormai quasi 100 anni successivi. La storia degli ultimi 100 anni infatti è storia di sanguinose guerre globali, in 3 atti: il primo è quello delle guerre coloniali ed imperialistiche, con il continente europeo come epicentro; il secondo è quello delle guerre neocoloniali, anticoloniali e di carattere prevalentemente ideologico, generate dalla guerra fredda tra USA e URSS; e infine il terzo è quello delle guerre postcoloniali e imperialistiche degli USA che si protraggono fino ad oggi.
Ma se per i primi due atti, il contenuto tragico del copione è universalmente riconosciuto, per il terzo le cose sono più complesse. Secondo la propaganda liberale infatti, il crollo del blocco sovietico sarebbe dovuto coincidere con un’era di pace, prosperità e armonia tra gli Stati, scandita dalla progressiva espansione di istituzioni economiche “neutrali” come i mercati globali. Gli Stati Uniti erano il cavaliere dalla splendente armatura, la globalizzazione neoliberista il suo destriero: una bella favola con un finale talmente lieto che, nell’ingenua formulazione di Fukuyama, avrebbe portato con sé la “fine della storia”.
Eppure, già Schmitt aveva previsto che questo lieto fine, questo mondo fatato in cui gli USA sarebbero stati i garanti, era appunto una vana speranza: “sarebbe un errore”, scrive Schmitt, “credere che una posizione politica raggiunta con l’aiuto della superiorità economica si presenti come «essenzialmente non bellicosa». Non bellicosa” – come si confà all’essenza dell’ideologia liberale – “è solo la terminologia” conclude Schmitt. La millantata non bellicosità, al contrario, si tradurrà necessariamente nel creare con ogni mezzo necessario “una situazione mondiale in cui poter far valere senza impedimenti il suo potere economico”, con la beffa che poi si arrogherà anche il diritto di considerare “violenza extraeconomica” qualsiasi azione compiuta “da un popolo, o un altro gruppo umano” nel tentativo di “sottrarsi agli effetti” di questo stesso strapotere.
L’ho già risentito, diciamo.
In particolare negli ultimi 30 anni, infatti, ogni qualvolta una parte del mondo cercava di sottrarsi alle imposizioni del mercato globale, che è tutto tranne che libero, veniva immediatamente riportata all’ordine imposto dalle direttive imperiali, sostenute da una logica ferrea: se il mercato globale è pace e prosperità, chiunque non voglia aderirvi acriticamente o è un pazzo o un potenziale pericolo, e pertanto può essere solamente isolato o “ricondotto alla ragione” con ogni mezzo necessario, a partire dall’utilizzo dei più avanzati strumenti tecnologici finalizzati all’uccisione fisica violenta, che però, più sono distruttivi e violenti, più vengono celati dietro il paravento di contorsioni retoriche che eliminano la guerra dal lessico comune e riempono la bocca della propaganda di termini apparentemente neutri come sanzioni, peacekeeping, guerre umanitarie e bombe intelligenti.
Ma cosa permette agli interessi egoistici specifici del nord globale e delle sue élite economiche di spacciarsi come neutrali?
E’ una delle domande a cui prova a rispondere Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto e Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno, nel suo ultimo monumentale lavoro: “Teologia politica e diritto”.
Ma cosa potrà mai avere a che fare il dominio, spacciato per neutrale, di una determinata logica economica, che è la cosa apparentemente più mondana possibile immaginabile, addirittura con la teologia?
Per capirlo, bisogna fare un passettino indietro, e tornare a quello che è considerato in assoluto il padre fondatore delle scienze politiche moderne: il filosofo britannico Thomas Hobbes, e il suo Leviatano, una creatura biblica che Hobbes riesuma per descrivere lo stato moderno, al quale “tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite”, che “è in grado di informare la volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni” (Thomas Hobbes, Leviatano).
Lo stato moderno di Hobbes è il successore logico, cronologico e immanente di Dio, e la politica non è altro che la secolarizzazione della teologia, e quindi, appunto,Teologia Politica, per dirla con Carl Schmitt che proprio così ha intitolato quella che è considerata la sua opera principale, nell’ormai lontanissimo 1922. Secondo Schmitt, tutti i concetti basilari della dottrina politica nell’era dello Stato Moderno sono concetti teologici secolarizzati: lo Stato quindi non sarebbe, come sostiene la teoria politica moderna, il prodotto di una ragione umana che taglia i ponti con il passato e la tradizione, ma altro non è che la trasposizione sul terreno dell’immanenza dell’idea tradizionale di Dio come fondatore dell’ordine; come sottolinea Preterossi, riprende proprio la riflessione di Hobbes, alla disperata ricerca di un nuovo potere ordinatore di fronte al tragico spettacolo del fratricidio della guerra civile inglese che si svolgeva proprio davanti ai suoi occhi. “Per stabilizzare un nuovo ordine è stato necessario sostituire i vecchi assoluti con un artificio in grado di imporsi, di ottenere obbedienza con la coazione ma anche in virtù del riconoscimento razionale dell’unico fine minimo incontrovertibile dell’ordine: la garanzia della sopravvivenza grazie alla neutralizzazione della generale predisposizione alla violenza, e in particolare quella identitaria che si sprigiona durante una guerra civile”.
Seguendo questa logica, quasi 4 secoli dopo, alla religione laica dello Stato Assoluto di Hobbes, sarebbe subentrata un’altra religione laica, che Preterossi definisce Teologia Economica Neoliberista. Se in Hobbes era il Leviatano a dover sopperire all’assenza di una giustificazione divina del potere per garantire l’ordine sociale, oggi è l’economia a proporsi come terreno neutrale su cui costruire una società non conflittuale. Il potere politico degli stati, in questo senso, deve limitarsi a garantire le condizioni di esistenza del libero mercato, in cui la conflittualità può esprimersi nel suo surrogato: la concorrenza. E quando libero mercato e concorrenza entrano in crisi, ecco che si ricorre a un’altra giustificazione, un altro principio proposto come “neutrale”: quello della tecnica e della tecnocrazia.
Non è più semplicemente questione di dialettica tra opzioni politiche contrapposte, ma è proprio la politica in se, come strumento per la progettazione razionale e condivisa della vita in comune – comunque venga declinata – a venire malamente cacciata fuori dal palcoscenico della storia.
“La teologia economica neoliberale”, sottolinea lucidamente Preterossi, “è una teologia politica “anti-politica”, perché fa dell’immanenza un assoluto”, ed esclude così a priori ogni possibilità di trasformazione che non derivi direttamente dalle sue logiche intrinseche; ed ecco perché la ripoliticizzazione del dibattito pubblico, di per se, rappresenta una forma di resistenza rispetto al nuovo Leviatano della religione neoliberista. Preterossi, nell’ultima parte del libro, si interroga su quali siano le modalità attraverso le quali questa ripoliticizzazione e l’elaborazione di nuove grandi visioni condivise in grado di riattivare una mobilitazione collettiva – che sola può ambire a spostare concretamente i rapporti di forza all’interno della società a favore dei subalterni – potrebbe concretamente avverarsi; per farlo, ricorre in primo luogo a Gramsci, che secondo Preterossi avrebbe cercato con la sua opera e la sua militanza di trovare “un’altra via della laicità, non meno completa di quella liberale” di segno completamente diverso “perché non individualista, né privatista” ma, al contrario, capace di creare “un’adesione a un plusvalore collettivo che non passi dalla paura e dalla superstizione, ma da un’accettazione consapevole, nutrita di passioni razionali”.
Insomma, il Gramsci di Preterossi avrebbe cercato di fondare una vera e propria religione secolare che, sempre secondo Preterossi, di quella mobilitazione collettiva oggi indispensabile sarebbe una precondizione imprescindibile. E oggi? Quali sarebbero oggi le possibili religioni laiche necessarie per rivitalizzare la mobilitazione politica?
Preterossi, nella parte conclusiva del testo, affronta uno dei fenomeni su cui maggiormente si è concentrato il dibattito recente: il populismo. “Sarebbe molto riduttivo”, scrive Preterossi, “ritenere che le cause e il significato del populismo contemporaneo siano riconducibili unicamente agli effetti del web”; piuttosto bisognerebbe focalizzare l’attenzione verso quei “processi materiali di natura economica generati dalla globalizzazione finanziaria che minano la coesione sociale, da un lato, e all’esplosione delle contraddizioni della politica rappresentativa moderna che la spoliticizzazione neoliberale ha finito per enfatizzare, dall’altro. Più che della sola disintermediazione digitale”, continua Preterossi, il populismo sarebbe “la forma del politico contemporaneo, con le sue opacità e ambivalenze” e anche se “non è affatto detto che offra soluzioni efficaci”, sicuramente sarebbe per lo meno “in grado di saldare dimensione materiale e politica, ciò che la politica tradizionale oggi fa molta più fatica a fare”.
Senza alcuna forma di snobismo, Preterossi si chiede se il populismo possa costituire un nuovo vincolo sociale oppure soffra “degli effetti della disintermediazione”, tipici proprio dell’era del trionfo della religione neoliberale, replicandone le logica, ma una via di uscita potrebbe risiedere proprio nella declinazione che del macrocosmo populista danno autori come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che, secondo Preterossi, rappresenterebbero “una rottura con tutti il bagaglio dei pregiudizi sul populismo”, dal momento che il popolo che rappresenta l’oggetto della loro riflessione non è banalmente il popolo tenuto insieme dai legami di sangue e di appartenenza nazionale, ma molto più articolatamente il popolo tenuto insieme dalla convergenza delle diverse rivendicazioni dei subalterni.
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Il piano delirante del capitale per salvare il pianeta: far naufragare definitivamente ogni residua speranza di un’efficace transizione ecologica affidandola a un petroliere, per poi costringerci ad accettare l’unica soluzione che il capitale sa immaginare per salvare il pianeta ossia privatizzare e finanziarizzare anche la Natura.
Sembra il plot dell’ennesimo blockbuster post apocalittico, ma in realtà è esattamente quello che sta succedendo sotto ai nostri occhi.
Nonostante la COP28 si terrà soltanto il prossimo novembre, i preparativi sono già in corso. Ad ospitare capi di stato, diplomatici, attivisti e uomini d’affari di quasi 200 paesi a questo giro toccherà a Dubai e la regia del tutto sarà affidata a lui: il Sultano Al Jaber, una scelta che sa di trollata.
Al Jaber infatti è nientepopodimeno che l’amministratore delegato dell’Abu Dhabi National Oil Corporation, il dodicesimo più grande produttore al mondo di gas e petrolio, e il quattordicesimo più grande produttore di emissioni climalteranti del pianeta. Sotto la sua direzione, ancora lo scorso autunno, il colosso emiratino delle fossili aveva annunciato un piano di espansione molto ambizioso, anticipando di 5 anni, dal 2030 al 2025, l’obiettivo di arrivare a estrarre 5 milioni di barili di greggio al giorno. “Il secondo piano più aggressivo di espansione dell’industria energetica mondiale”, denunciano oltre 400 organizzazioni ambientaliste in una lettera di protesta inviata alle Nazioni Unite, “che”, continua la lettera, “rende i suoi piani del tutto incompatibili con lo scenario disegnato dell’agenzia internazionale dell’energia, che chiarisce come per provare a raggiungere l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura sotto gli 1,5°C non ci possano essere ulteriori aumenti di estrazione di gas e petrolio”. Nella lettera, le associazioni ricordano come “anche prima della nomina di Al Jaber, gli Emirati Arabi Uniti” abbiano“ampiamente dimostrato di non prendere sul serio l’obiettivo dell’eliminazione graduale delle fonti fossili”. “Durante la COP27 dello scorso novembre” infatti, ricorda la lettera, “oltre 630 lobbisti delle fonti fossili si registrarono per partecipare ai negoziati sul clima e la delegazione degli Emirati era in assoluto quella col numero più alto di lobbisti”.
Ora sembra che la situazione si stia ribadendo. Al cubo.
A sette mesi dal fischio d’inizio, secondo quanto riportato da Bloomberg sarebbero già emersi numerosi casi di consulenti e membri dello staff di COP28 pagati direttamente dalla Abu Dhabi National Oil Corporation. “È davvero incredibile quanto sia andato in lungo e in largo, comprese alcune persone molto anziane” avrebbe dichiarato Sandrine Dixson-Declève riferendosi ai quattrini dispensati dalla corporation emiratina.
Al Jaber sul fronte delle mancate promesse in tema di rinnovabili ha già accumulato un curriculum di tutto rispetto. Dopo aver conseguito una laurea in business administration alla California State University di Los Angeles e aver terminato un dottorato in economia alla Coventry University in Gran Bretagna, era tornato a casa con un progetto visionario: voleva costruire un’intera città ecosostenibile da 50 mila abitanti a due passi dall’aeroporto di Abu Dhabi e convinse il governo a dargli la bellezza di 15 miliardi. Si sarebbe dovuta chiamare Masdar City; era il 2008. Quindici anni dopo, ci sono giusto una manciata di edifici semideserti e sono pure alimentati in gran parte con gas naturale! “Il grosso delle zone di sviluppo dopo 15 anni sono ancora completamente vuote”, scrive Bloomberg, “e la deadline è stata spostata al 2030. Inizialmente era al 2016”.
In compenso, a capo della Abu Dhabi National Oil Corporation Al Jabar non ha saputo neanche tenere il passo nemmeno di altri killer del clima come Saudi Aramco e Exxon Mobil, che per lo meno vantano una trasparenza dei dati sulle emissioni aggregate decisamente migliore. D’altronde, Al Jabar non è esattamente un paladino della trasparenza e della libertà di informazione: da presidente del Consiglio Nazionale per i Media, secondo fonti raccolte da Bloomberg che avrebbero chiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, “Al Jaber si occupa direttamente di mantenere uno stretto controllo sui media locali e sulle partnership con Sky News e CNN per i contenuti in lingua araba”.
Le organizzazioni ambientaliste lamentano giustamente che nessuna COP supervisionata da un pezzo grosso dell’industria fossile potrà mai essere ritenuta legittima e che le regole non possono essere scritte dai grandi inquinatori o sotto la loro influenza.
“Anno dopo anno”, scrivono nella lettera “la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite non è riuscita a fornire l’azione necessaria per porre fine all’era dei combustibili fossili e passare rapidamente e in modo equo a un nuovo sistema globale”.
In compenso però, le COP sono diventate un’ottima occasione per vendere. “Il vertice sul clima della Nazioni Unite”, ammette financo Bloomberg, “è ormai un raduno annuale per aziende che hanno un punto di vista sulla transazione energetica e un modo per venderlo; in pratica, una fiera”. E in grande stile: per la COP 28 Gli Emirati Arabi Uniti prevedono di ospitare un record di 70.000 partecipanti e il prodotto più in voga quest’anno, è roba da far accapponare la pelle.
Facciamo un balzo indietro. 9 novembre 2021. Un titolo sulla piattaforma online di scienze ambientali Mongabay recita: “Le comunità del Borneo sono rimaste incastrate in un accordo sul carbonio per 2 milioni di ettari di foresta di cui non sono a conoscenza”. Una storia allucinante, altro che land grabbing. Siamo nello Stato di Sabah, nel Borneo malese e secondo l’articolo, le autorità governative avrebbero firmato un accordo con un misterioso partner privato per lo sfruttamento del così detto “capitale naturale” di un’area di foresta grande quanto la Slovenia della durata di 100 anni, tenendo completamente all’oscuro le popolazioni indigene locali.
L’accordo sarebbe un così detto “nature conservation agreement”, un accordo sulla conservazione della Natura. L’obiettivo è ripristinare gli ecosistemi, per poi vendere crediti sui mercati finanziari, a partire da quelli sulle emissioni di carbone, ma non solo. Il meccanismo sicuramente lo conoscete già: io imprenditore con la fabbrichetta di bulloni nella provincia bresciana dovrei investire per abbattere le mie emissioni, ma visto che c’ho un’azienda che sta in piedi a malapena grazie a un po’ di evasione e qualche regola sulla sicurezza sul lavoro non rispettata, non me lo posso permettere. Allora come si fa? Si fa che tu, imprenditore anonimo che ti nascondi dietro una società anonima registrata nelle Isole Vergini britanniche corrompi qualche amministratore di qualche angolo del Sud globale, ti fai regalare un pezzo di terra dove vive qualche popolo indigeno, ci pianti qualche alberello che assorbe un po’ di carbonio ed ecco fatto che l’abbattimento delle emissioni l’hai fatto tu al posto mio. E che ce vo’?
Sembra una barzelletta o un film distopico, ma è esattamente quello che hanno fatto in questo caso o almeno, quello che hanno provato a faresu una scala gigantesca.
Secondo Al Jazeera, un affare da 80 miliardi. I carbon credit infatti, in prospettiva sarebbero soltanto uno dei tanti prodotti finanziari da costruire sulla conservazione e la rivitalizzazione degli ecosistemi: lo stesso meccanismo a breve dovrebbe essere applicato anche ad altri servizi ecosistemici, come l’approvvigionamento idrico, la riforestazione sostenibile e la conservazione della biodiversità.Per una società senza nessun curriculum e sulla quale è impossibile trovare informazioni, un obiettivo piuttosto ambizioso:la società infatti si chiama Hoch Standard e nessuno fino ad allora l’aveva mai nemmeno sentita nominare.
Il vice primo ministro dello Stato di Sabah, Jeffrey Kitingan, ha provato a rassicurare: la Hoch Standard è una startup con 10 milioni di capitale sociale e alle spalle fondi globali multimiliardari, ma i documenti visionati di Mongabay dimostrerebbero che in realtà allora il capitale sociale della società ammontava ad appena 1000 dollari. D’altronde, avere le spalle solide potrebbe non essere così necessario. Secondo l’accordo infatti, mentre il governo della Stato di Sabah non avrebbe il diritto di rescindere il contratto, Hoch Standard sarebbe liberissima di trasferire a terzi i diritti acquisiti sul capitale naturale. Insomma, un mero faccendiere, creato ad hoc soltanto per capitalizzare rapporti privilegiati con la politica che gli garantiscono una rendita monopolistica su un pezzo gigantesco del pianeta e che è pronto a rivenderla al miglior offerente non appena dai pezzi di carta si deve passare al lavoro vero, facendoci sopra una bella cresta senza aver mai mosso foglia.
A fare da mediatore per l’accordo, un personaggio misterioso: Stan Lassa Golokin, che secondo i Panama papers in passato è stato associato a ben 4 società anonime registrate nelle Isole Vergini britanniche. Tra gli anni ‘80 e ‘90, Stan Lassa Golokin è stato coinvolto insieme al vice primo ministro Kitingan nello scandalo della Sabah Foundation: si sarebbe dovuta occupare di regolare la deforestazione dell’isola per fare spazio alla produzione dell’olio di palma, ma in 20 anni registrò un inspiegabile buco da 1,6 miliardi di dollari, mentre la ricchezza personale di Kitingan raggiungeva, altrettanto inspiegabilmente, la cifra esorbitante di 1 miliardo di dollari. Una quantità di zone d’ombra eccessiva anche per un territorio dove la resistenza delle popolazioni indigene è completamente sovrastata dall’intreccio tra politica e affari.
Dopo che con il suo scoop Mongabay ha portato alla luce l’accordo tenuto fino ad allora completamente segreto, la storica attivista dei diritti delle popolazioni indigene locali Anne Lasimbag è riuscita a mettere in piedi una vasta coalizione di organizzazioni indigene che hanno avviato una battaglia legale che è arrivata a coinvolgere i massimi vertici delle Nazioni Unite. Da allora l’accordo è precipitato in una sorta di Limbo, con il procuratore generale dello Stato di Sabah che ha affermato pubblicamente che “nella sua forma presente l’accordo è impotente dal punto di vista legale, e non potrà entrare in vigore a meno che non siano soddisfatte determinate disposizioni”, anche se esattamente quali siano queste disposizioni nessuno sembra averlo ancora capito; ma come si dice sempre in queste occasioni, ormai il re è nudo. Come scrive John Bellamy Foster, docente di sociologia all’università dell’Oregon e storico direttore della Monthly Review “l’accordo di Sabah è un gigantesco e inquietante campanello d’allarme su come si sta concretizzando la corsa all’oro globale per assicurarsi i diritti di sfruttamento del capitale naturale”. Foster ricorda come “appena poche settimane prima dalla firma dell’accordo, il New York Stock Exchange e l’Intrinsic Exchange Group avevano annunciato la creazione di un’intera nuova categoria di società denominate Natural Asset Companies”, NAC per gli amici, che, “creano e commerciano veicoli finanziari per la proprietà, la gestione e il controllo delle risorse del capitale naturale mondiale”. Un mercato gigantesco. Come ricorda esplicitamente il sito dell’Intrinsic Exchange Group, “Le persone spesso dicono che la Natura non ha prezzo, con l’intenzione di indicare quanto sia preziosa. Sarebbe più corretto dire che nel sistema economico odierno il valore della Natura semplicemente non viene conteggiato”. Loro lo hanno fatto: “il valore finanziario della biodiversità è stimato tra 598 e 824 miliardi di dollari all’anno, il cambiamento climatico a circa 5 mila miliardi di dollari all’anno e la transizione verso un’economia più sostenibile, resiliente ed equa, ancora ordini di grandezza maggiori”. L’idea è semplice: la Natura e tutto quello che gli ecosistemi producono sono un fattore indispensabile della produzione e come ogni fattore della produzione vanno trasformati in merci, gli va dato un valore nominale e vanno scambiati sui mercati finanziari. “La trasmutazione del cosiddetto capitale naturale in valore di scambio negoziabile”, scrive Foster, “nell’ultimo decennio è vista come un’apertura di opportunità quasi illimitate per le società e i gestori di denaro”.
Già nel 2012, durante il Corporate EcoForum, un gruppo di venti corporation multinazionali, da Coca-Cola a Nike, avevano pubblicato un report, dove sottolineavano come si stimi “che 72 mila miliardi di dollari di beni e servizi” gratuiti “associati al capitale naturale globale e ai servizi ecosistemici siano monetizzabili ai fini di una crescita più sostenibile”. Il rapporto sottolineava inoltre le enormi opportunità di “leva” del debito rappresentate da “mercati di capitali naturali emergenti come il commercio della qualità dell’acqua, il sequestro naturale del carbonio e la conservazione delle zone umide e delle specie minacciate”. Di conseguenza, era imperativo “dare un prezzo al valore della Natura” o, in altre parole, “un valore monetario a ciò che la Natura fa per… le imprese”. “Il futuro dell’economia capitalista”, scrive Foster, “sta nel garantire che il mercato paghi “per servizi ecosistemici una volta gratuiti”, che potrebbero quindi generare nuovo valore economico per quelle società in grado di convertire i titoli in capitale naturale in attività finanziarie”. Tradurre le funzioni degli ecosistemi in quantità di denaro, permette di scambiarli tra loro: stermino i panda nelle foreste dell’Asia centrale? E che problema c’è? Mal che vada avrò causato un danno quantificabile, mettiamo in 100. Ora basta che mi compri un credito equivalente da una società che ha espropriato qualche tribù indigena dell’Amazzonia per permettere il ripopolamento dell’armadillo gigante, e siamo tutti contenti!
Come sottolinea Bellamy Foster, “la continua distruzione della Natura, conseguenza ineluttabile dell’accumulazione di capitale, può essere così compensata dalla valorizzazione di un altro servizio fornito da un altro ecosistema altrove”.
Non è un’interpretazione complottista: è proprio un fine dichiarato.
Come scrive il Nobel per l’economia Robert Solow infatti, “La storia ci dice un fatto importante, ovvero che beni e servizi possono essere sostituiti l’uno con l’altro. Se non mangi una specie di pesce, puoi mangiare un’altra specie di pesce. Non esiste un oggetto specifico che l’obiettivo della sostenibilità ci imponga di lasciare intatto… La sostenibilità non richiede la conservazione di una particolare specie di pesci o di un particolare tratto di foresta “. Purtroppo però la Natura non funziona esattamente così: ogni specie e ogni ecosistema è unico e insostituibile, e la sua estinzione è irreversibile. La logica della vita, anche in questo caso, soprattutto in questo caso, è incompatibile con la logica intrinseca dell’accumulazione del capitale.“Monetizzare l’ambiente”, scrive Bellamy Foster, “significa in ultima analisi trascinarlo nel mercato e sottoporlo alla dinamica incontrollabile dell’accumulazione. I sistemi di produzione ed evoluzione naturali saranno sostituiti sempre di più da sistemi basati sul mercato, il cui unico obiettivo è l’espansione del capitale. I beni comuni globali saranno sminuzzati e monopolizzati da pochi interessi privati, che li trasformeranno in attività finanziarie di ogni genere. Quello di cui stiamo parlando” continua Foster, “è dare le chiavi del mondo naturale alla City di Londra. Cosa mai potrebbe andare storto?”.
Il fallimento di ogni negoziato globale su come invertire la catastrofe ambientale, da questo punto di vista, non può essere considerato semplicemente un incidente, o il frutto di incapacità e incompetenze varie; va invece visto chiaramente per quello che è: uno strumento in mano al capitale per creare anche sul fronte dei servizi ecosistemici quella scarsità che facilita l’ingresso a gamba tesa della finanziarizzazione come unica soluzione possibile.
Se la politica non è in grado di tutelare il bene comune, trasformarlo in merce da contrattare sui mercati finanziari ci verrà spacciato facilmente come il minore dei mali possibili. È la famosa cura Friedman, che in passato è stata applicata a tutti i servizi pubblici essenziali: devastare scientemente la capacità del pubblico di fornire i servizi in modo efficiente a forza di tagli e taglietti, per poi spacciare le privatizzazioni come unica soluzione realistica possibile e chi c’ha da ridire è un rosicone, vittima di un’ideologia stantia. L’ideologia del dominio totale delle logiche del capitale su ogni aspetto della vita invece è sempre fresca come una rosa, anche quando ormai, dati alla mano, è sotto gli occhi di tutti che l’impresa privata e la dittatura del profitto, se lasciate a se stesse, non creano mai maggiore efficienza e competizione, ma solo monopoli da cui estrarre valore a piacimento a discapito di tutto il resto per poi costruirci sopra una bella bolla speculativa, che le statistiche trasformeranno magicamente in aumento della ricchezza prodotta: più un manipolo di oligarchi si appropria della nostra vita e riduce in miseria gli uomini e il pianeta, più il PIL procede a gambe levate!
Per capire le prossime mosse a questo punto non ci rimane che aspettare la prossima COP di Dubai.
Durante quella di 2 anni fa uno spavaldo Golokin, il faccendiere dell’accordo truffa di Sabah, era stato accolto in pompa magna col suo piano per mettere a reddito il capitale naturale del Borneo. “Lazy assets”, li aveva definiti. beni pigri: è l’ora che la Natura la pianti di ozieggiare come un percettore del reddito di cittadinanza qualsiasi e si metta finalmente a disposizione del capitale!
Se al contrario di Golokin, anche tu ami la vita, la natura e l’ozio, ultime frontiere della resistenza al dominio della tristezza mortifera del capitale, aiutaci a costruire il primo media che dà voce al 99%. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di ottolinatv su GoFundMe e su PayPal