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Tag: filosofia

CHI ERA COSTANZO PREVE? Omaggio a uno dei più grandi marxisti italiani del ‘900

Il 23 novembre di dieci anni fa moriva Costanzo Preve, uno dei più grandi e controversi marxisti italiani del ‘900.
Lontano da tutte le principali correnti marxiste, nemico giurato di ogni servilismo ideologico filo-americano, Costanzo Preve è stato una meteora di integrità e coraggio all’interno del panorama filosofico italiano. Anche dopo la caduta dell’Urss, mentre tanti altri intellettuali marxisti facevano pubblica abiura delle loro idee per rivendersi agli apparati culturali della nuova sinistra capitalista e alla moda, Preve è rimasto sempre coerente e l’ha pagata a caro prezzo, con un totale ostracismo da parte della cultura ufficiale e con un lungo e doloroso anonimato. Gran parte delle sue opere, infatti, sono state pubblicate da una piccola casa editrice di Pistoia, Le Petite Plaisance e, ancora oggi, nominare la sua figura in ambienti universitari comporta sicura derisione e malcelato disprezzo. Tra le sue intuizioni filosofiche più brillanti ci sono la definizione di capitalismo assoluto – per indicare l’attuale fase del capitalismo occidentale, rimasto privo di forze politiche e culturali alternative -, la definizione di filosoFiat – per indicare la filosofia di pensatori organici al pensiero dominante come Gianni Vattimo e Massimo Cacciari – e, infine, il suo tentativo di pensare una nuova forma politica di comunitarismo inteso come correzione democratica del comunismo.
Poliglotta dagli anni dell’università, nel corso della sua vita Preve ha appreso inglese, portoghese, francese, tedesco, spagnolo, russo, greco antico e moderno, arabo, ebraico e latino. Coerentemente al suo modo di intendere la filosofia – lontano da formalismi ipocriti e inteso come dialogo amicale tra persone comuni – Preve amava farsi intervistare al bar o in tuta e calzini sulla poltrona di casa sua. Pochi mesi prima di morire pubblicò il suo testamento spirituale, La Nuova storia alternativa della filosofia, un’opera monumentale di rilettura integrale di tutta la storia del pensiero occidentale.

Costanzo Preve

Costanzo Preve nasce a Valenza nel 1943, da madre casalinga e padre funzionario alle Ferrovie dello Stato; a Torino studia Giurisprudenza e Scienze politiche prima di recarsi in Francia, Grecia e Germania dove, oltre che studiare filosofia, lavora come operaio. Tornato in Italia, a causa della distanza dagli ambienti dell’operaismo torinese e sessantottino, Preve non trova spazio all’Università e, dal 1968 fino alla pensione, deciderà di insegnare prima letteratura francese e poi storia e filosofia nei licei. A proposito dell’Università, che svolgeva – ai suoi occhi – una funzione ideologica simile a quella che aveva il clero religioso durante lancien regime, scrive: “Il Nuovo Clero organizza la mediazione simbolica e fornisce le informazioni necessarie per stabilizzare il dominio dell’oligarchia finanziaria. Esso non è più composto di preti e sacerdoti […] ma è costituito di due nuovi settori, l’uno secolare (i giornalisti, o meglio il circo mediatico globalizzato che organizza lo spettacolo della simulazione quotidiana) e l’altro regolare (la corporazione universitaria mondiale, che struttura il sapere complessivo sulla base della frammentazione programmatica delle potenze mentali della produzione)”.
Alla lotta intellettuale Preve affianca la lotta politica: negli anni settanta aderisce, per un breve periodo, al PCI e poi a vari gruppi della sinistra extra-parlamentare. Nei primi anni Novanta, anziché tentare la via di fuga tipica di tanti marxisti pentiti, Preve si preoccupa di capire le cause profonde della caduta dell’Urss e di porre rimedio a quello che considera il limite teorico del comunismo, cioè l’assenza di fondazione filosofica. A proposito degli intellettuali della sua generazione, scrive: “Mentre ai tempi di Hegel e Schopenhauer, ma anche ai tempi di Adorno, gli intellettuali erano generalmente più intelligenti delle persone comuni, oggi ci troviamo in una situazione nuova: gli intellettuali sono nella stragrande maggioranza più stupidi delle persone comuni. È una novità degli ultimi 50 anni e lo vediamo quando vengono interpellati nei talk show televisivi perché dicono una quantità di stupidaggini molto maggiore di quelle che si sentono pronunciare dai tassisti, dai baristi o dalle casalinghe al mercato”. Ma il distacco emotivo dalla cosiddetta sinistra avviene definitivamente nel 1999 con l’appoggio del governo D’Alema al bombardamento NATO in Jugoslavia; nel saggio del 2000 “Il bombardamento etico. Saggio sull’interventismo umanitario” Preve scrive che questa decisione ha posto fine per sempre alla legalità costituzionale italiana e che, da quel momento, l’Italia si trova di fatto senza una costituzione. In un paese serio inoltre – insiste – i vertici di quel governo sarebbero stati condannati davanti alla corte marziale per alto tradimento.
Dal punto di vista filosofico, la sua diagnosi delle società occidentali – dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’incontrastato domino statunitense sui corpi e sulle anime degli europei – ruota intorno al concetto di capitalismo assoluto: il capitalismo, secondo Preve, non era né un’ideologia né un soggetto sociale e culturale complessivo (non possiamo infatti identificare borghesia e capitalismo), ma un processo strutturale anonimo e impersonale che si legittima in modo esclusivamente performativo, e cioè con la sua capacità di garantire merci e servizi accessibili almeno ai due terzi delle società metropolitane “laddove il restante terzo” scrive Preve “è consegnato alla polizia, alle agenzie di assistenza e beneficenza, all’emarginazione e alle reti di solidarietà prevalentemente mafiose”. Il capitalismo, inoltre, non è per nulla conservatore – come la stragrande maggioranza dei comunisti del ‘900 ha sostenuto – ma è, al contrario – come già sapeva Marx – una forza rivoluzionaria nichilista, in quanto tende a distruggere tutti i sistemi ideologici, economici e politici “tradizionali” che incontra sul suo cammino e che potrebbero rappresentare un pericoloso ostacolo al processo di mercificazione di tutte le dimensioni della vita individuale e comunitaria. Questa distruzione dei valori e dei costumi tradizionali, nonché di tutte le dimensioni dello spirito umano differenti da quella puramente economica – come la politica, la filosofia o la religione – procede attraverso la formazione di sempre nuove classi sociali e ideologie dominanti, ogni volta sempre più aderenti e funzionali al fine capitalistico di economicizzazione totale della realtà : “Perché l’economia possa avere un potere simbolico assoluto” scrive Preve “non deve essere limitata da niente di esterno, ed apparire come completamente autosufficiente e sovrana su se stessa. Si tratta di un totalitarismo concettuale che persino le religioni non hanno mai osato sostenere in questa forma […] In questo modo, il capitalismo è fondato su di una illimitatezza potenziale assoluta, perché non esistono limiti esterni, come la religione, la filosofia e la politica. L’attuale e fatale giudizio dei mercati, cui si sono sottomessi anche i vari comunisti non è che uno sviluppo di questa premessa”.
Dagli anni ’70 in poi, prima negli USA e poi – a cascata – nelle sue province europee e asiatiche, grazie ad una finanziarizzazione del capitale e ad una globalizzazione di questa forma economica stiamo assistendo ad un continuo allargamento della forbice tra ricchi e poveri; queste trasformazioni strutturali, insieme alla liberalizzazione dei costumi, sono state – agli occhi di Preve – la base materiale della distruzione delle classi borghese e proletaria e dell’affacciarsi di 3 nuove classi sociali incapaci di muovere critiche radicali al capitalismo: un’oligarchia finanziaria globale, della quale qui a Ottolina parliamo ormai da anni e che rappresenta oggi la nuova nobiltà: al posto del proletariato, una massa informe di precari sempre più atomizzati, senza coscienza di classe, costretti a inseguire le opportunità di mercato in giro per il mondo e condannati a rinunciare a progetti lavorativi e familiari stabili e, nel mezzo, una sempre più povera global middle class, la quale “unificata da viaggi facili” – scrive Preve – “dall’umanitarismo distratto e superficiale, da un inglese turistico – operazionale della comunicazione semplificata e standardizzata, da un multiculturalismo indotto in funzione della distruzione della propria cultura nazionale, dall’accettazione conformistica del politicamente corretto circostante (femminismo di genere, pacifismo rituale e puramente narcisistico – ostensivo, ecologismo da pubblicità di fette biscottate, falso interesse caritativo verso i migranti, ecc.), non è più ovviamente la vecchia piccola borghesia”. In questa nuova forma di capitalismo post-borghese e post-proletario, dunque, si è rotta – secondo Preve – la precedente alleanza tra due forme di critica al capitalismo: quella economica delle classi lavoratrici a bassi redditi (che presupponeva un radicamento territoriale e una coscienza di classe che oggi non esiste più) e quella artistico-culturale della piccola borghesia insoddisfatta dell’ipocrisia dei valori conservatori e tradizionali – critica di cui non ha più sentito bisogno una volta superato il bigottismo pretesco e raggiunta la totale liberalizzazione dei costumi. E così, negli ultimi decenni, il capitalismo è rimasto – di fatto – privo di critiche radicali e nemici politici, un capitalismo, appunto, assoluto e totalitario.
Altre caratteristiche importanti del suo pensiero sono la critica alla dicotomia destra/sinistra che serviva, agli occhi di Preve, solo a distrarre gli ultimi dai reali conflitti sociali in atto, al politicamente corretto, che vedeva come una pericolosa importazione culturale dalla sinistra liberal americana e infine, naturalmente, la battaglia contro il neo-liberismo economico e contro qualunque ideologia reazionaria. Nemico filosofico di quello che considerava un ingenuo comunismo mondialista, Preve rivalutava inoltre il ruolo potenzialmente emancipatorio e democratico dello stato nazionale: secondo il filosofo torinese, infatti, l’internazionalismo era da intendersi come costruzione di un rapporto paritario e democratico tra Stati nazionali rispettosi delle reciproche differenze, e non certo come l’abolizione forzata – in nome di principi astratti – delle differenze stesse; un’idea in contrasto tanto con il nazionalismo quanto con il mondialismo.
Nell’autunno del 2004 Costanzo Preve, in un articolo, ipotizzò una sua concreta proposta politica: il nome scelto era MOVIMENTO ITALIANO PER LA LIBERAZIONE E L’INDIPENDENZA; “Si dice italiano” scrive Preve “non certo per nazionalismo, quanto per indicare che non si pretende di rappresentare simbolicamente il mondo intero, ma ci si limita a relazionarci con altre forze a noi simili ed affini presenti in Europa e nel mondo. Il termine liberazione” poi “deve essere inteso in due sensi: liberazione dalla dittatura dell’economia capitalistica – neoliberale, che mercifica tutto e tutti, e liberazione dalla dittatura militare imperiale americana, che priva l’Italia e l’Europa di ogni sovranità. Il termine indipendenza” infine, conclude Preve, rappresenta essenzialmente il fine politico di questa organizzazione Politica. E “chi lo trova generico e poco classista” sottolinea “dovrebbe rifletterci un poco sopra. La parola comunismo come fine politico infatti implicherebbe almeno due cose: primo, che tutti gli aderenti siano d’accordo a priori con queste finalità, e secondo, che si avesse fra di noi la condivisione di un significato univoco di questa paroletta, il che ovviamente non è”.
Morto nel 2013, Preve non ha fatto in tempo a vedere la profonda crisi dell’impero americano a cui stiamo assistendo oggi, né l’emergere di un possibile nuovo ordine multipolare capace di mettere in discussione il regime neo – liberale del capitalismo assoluto: ciononostante, noi non abbiamo dubbi da che parte delle barricate avrebbe deciso di combattere. E se anche a te piacerebbe veder nascere un Movimento italiano per la liberazione e per l’indipendenza, fai la tua parte: aiutaci a contrastare la propaganda di regime del capitalismo totalitario e aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Massimo Cacciari

TERRA LAICA – perché i conflitti nel mondo islamico non hanno niente a che vedere con la religione

“I conflitti tra Occidente e Islam […] non toccano tanto i problemi territoriali, quanto più ampi temi di confronto tra civiltà”. Con queste parole, nel suo “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, il prestigioso politologo statunitense Samuel P. Huntington dava inizio a una narrazione che, negli anni successivi, diventerà senso comune: l’idea che il mondo sia attraversato da uno scontro tra una civiltà occidentale e una islamica basate su valori radicalmente opposti e totalmente inconciliabili. E’ la sfumatura di suprematismo giusta al momento giusto: ridarà simpaticamente slancio a tutti i peggio pregiudizi razzisti contro le popolazioni di religione islamica – viste come inevitabilmente violente, rozze e premoderne – e, dopo l’11 settembre, servirà a giustificare senza se e senza ma tutti i crimini della war on terror che la propaganda spaccerà come una vera e propria moderna guerra di religione che, come nei bei tempi andati, vedrà nell’“Occidente” e nell“Islam” due mondi, due civiltà e due sistemi valoriali radicalmente opposti, del tutto impenetrabili. Ma quanto pesa davvero la religione negli innumerevoli conflitti che, negli ultimi decenni, hanno coinvolto in un modo o nell’altro il mondo islamico?

Arturo Marzano

“Che la religione – o meglio le religioni: islam, cristianesimo ed ebraismo – non sia la causa centrale dei conflitti in Medio Oriente” scrive Arturo Marzano nel suo “Terra laica. La religione e i conflitti in Medio Oriente”, “è qualcosa che chi si occupa di questa regione impara quasi subito”: secondo i media occidentali, al centro di tutti i conflitti in corso in Medio Oriente c’è sempre e solo l’Islam. Il Libano è uno stato fallito? Colpa dell’Islam. Iran e Arabia Saudita mettono a ferro e fuoco l’intera regione a suon di guerre per procura? Colpa dell’Islam. Il conflitto tra Israele e popolazione palestinese? Tutta colpa dell’Islam.
“A partire dal VII secolo fino all’età contemporanea” sostiene il celebre storico americano Zachary Lockman “l’Islam è stato il prisma privilegiato attraverso cui l’Europa si è rapportata alle esperienze imperiali e statuali esistenti in Medio Oriente”; “Una lettura stereotipata ed essenzialista dell’Oriente” continua Lockman “come se si trattasse di una regione incapace di mutamento, e impermeabile a qualsiasi forma di modernizzazione”. Un pregiudizio ampiamente diffuso anche nei più autorevoli ambienti accademici: l’idea di fondo è che se nell’Occidente contemporaneo l’unità di base dell’organizzazione umana è la nazione, capace di far convivere al suo interno identità religiose diverse, per il mondo musulmano – al contrario – sarebbe più opportuno parlare di un’unica religione divisa al suo interno in diverse nazioni; l’identità religiosa sarebbe quindi prevalente su quella nazionale. E di separazione tra stato e chiesa, ovviamente, manco a parlarne: mentre nell’Europa cristiana “La base religiosa dell’identità è stata sostituita dallo Stato nazione territoriale o etnico” teorizzava l’orientalista Bernard Lewis – poi ingaggiato come consigliere del governo USA ai tempi dell’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein – lo stesso non si può dire per i paesi del Medio Oriente, dove «Il concetto importato dall’Occidente di nazione etnica e territoriale rimane, così come quello di secolarismo, estraneo e non pienamente assimilato». Peccato però che in realtà, come ricorda Marzano, “Arabismo e nazionalismo arabo furono movimenti tendenzialmente laici che superavano le differenze religiose in nome di una più ampia identità araba”, e non è certo l’unico elemento macroscopico in grado di smontare a prima vista tutto l’impianto della narrazione propagandistica dell’impero: basta ricordare – ad esempio – come, durante la prima Guerra del Golfo, il grosso dell’opinione pubblica araba sosteneva il regime laico di Saddam Hussein per la sua opposizione alle mire imperialiste di Washington, mentre contestava ferocemente regimi arabi di matrice religiosa come quello saudita perché ritenuti, a ragione, filo – USA.
Anche per interpretare il conflitto tra Israele e Palestina come una questione prevalentemente confessionale ci vuole parecchia fantasia; come sostiene Marzano nel suo libro, piuttosto, siamo palesemente di fronte a un classico conflitto di natura meramente nazionale dove a scontrarsi sono due movimenti di liberazione nazionale, entrambi con l’obiettivo di creare un proprio Stato – nazione sulla stessa terra. Anche la contrapposizione tra Iran e Arabia Saudita non può essere analizzata solo come una questione religiosa tra sciiti e sunniti: numerosi analisti e giornalisti hanno fatto spesso ricorso alla guerra di religione tra sciiti e sunniti per leggere il conflitto tra Teheran e Riad, mentre si tratta di una rivalità di natura politica, economica e culturale che vede due potenze regionali contrapporsi utilizzando tutti i mezzi, incluso il ricorso all’elemento identitario. Nonostante in Arabia Saudita – in cui, tuttora, l’islam di stato è quello wahhabita – e nella Repubblica islamica dell’Iran – a capo della quale si trova il clero sciita – la dimensione religiosa sia importante, secondo Marzano questo conflitto va letto come uno scontro principalmente geopolitico e economico.

Ruhollah Khomeyni

La rivoluzione iraniana del 1979 ha rappresentato chiaramente uno spartiacque nella storia del paese, così come – più in generale – del Medio Oriente nel suo complesso: a livello internazionale la conseguenza più importante fu la rottura tra Teheran e Washington a seguito del cambio di regime; se l’Iran era stato, negli anni ‘70, il difensore degli interessi americani nel Golfo, dal 1979 gli Stati Uniti dovettero rinunciare al loro più stretto alleato nella regione e l’alleanza tra USA e Arabia Saudita – attaccata con veemenza dalla retorica di Khomeini, che accusava il regime saudita di essere servo degli americani – fece sì che la rivalità tra i due giganti petroliferi, prima entrambi filo – americani, esplodesse in una competizione per la supremazia regionale. In questa logica politica la religione è stata usata strumentalmente per creare divisioni all’interno dei paesi rivali e indebolire l’avversario: tra i tanti mezzi messi in campo da Teheran in funzione anti – saudita vi fu anche il tentativo di “esportare la rivoluzione” utilizzando strumentalmente la popolazione sciita sparsa nei paesi del Medio Oriente per affermare la propria supremazia. A partire proprio dall’Arabia Saudita dove, dopo il 1979, si è andata rafforzando l’ «identità confessionale» della minoranza sciita, a lungo esclusa e marginalizzata. Ad aumentare la tensione tra popolazioni sunnite e sciite ci si sono messe, da un lato, la retorica anti – saudita del presidente iraniano Ahmadinejad, eletto nel 2005, e – dall’altro – la guerra tra Israele e Hizballah del 2006 che causò un’ondata pro – iraniana e pro – sciita in tutto il Medio Oriente e la forte reazione da parte di Egitto, Giordania e Arabia Saudita. Arabia Saudita e Iran, inoltre, sono intervenute in Bahrein, Yemen e Siria sfruttando il pretesto religioso per portare avanti le proprie strategie di influenza geopolitica e di sicurezza. Parafrasando quanto scritto dallo studioso Fanar Haddad si potrebbe quindi parlare, piuttosto, di confessionalismo laico, nel senso che identità confessionali basate su questioni teologico – giuridiche sono state – e sono tuttora – utilizzate e brandite contro “l’altro” per obiettivi puramente politici con strumenti strettamente secolari.
Per chi vuole approfondire come la retorica dello scontro di civiltà e religioni sia funzionale alle élite per non farci capire nulla di quello che sta avvenendo in Medio Oriente, l’appuntamento è per mercoledì 29 novembre a partire dalle 21 in diretta su Ottolina Tv. Oltre alla solita crew di Ottosofia, sarà con noi il prof. Arturo Marzano, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia all’Università di Pisa. E – nel frattempo – contro la propaganda che fomenta le divisioni religiose per coprire le ambizioni geopolitiche di chi la finanzia abbiamo bisogno di un media indipendente che dia voce agli interessi concreti del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è George W. Bush

[LIVE OTTOSOFIA] Fondamentalismo democratico

Live del 08/11/2023 ore 21.00 – Questa sera approfondiremo il tema della democrazia, tratto dal video pubblicato questa mattina.
Ospite della serata Emiliano Alessandroni, docente presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo“ e autore del libro “Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici

FONDAMENTALISMO DEMOCRATICO: come la propaganda ha capovolto il concetto di Democrazia

“Sostenere Israele e Ucraina è vitale per l’America. Dobbiamo tornare ad essere l’arsenale della democrazia”: così ha detto zio Joe Biden nel suo discorso alla nazione il 20 ottobre scorso. Un discorso che mette in evidenza l’idea di democrazia che ha l’élite statunitense: un brand made in USA – con tanto di copyright regolarmente registrato – e da brandire come un’arma a proprio piacimento, mentre tutti i paesi o le entità che non posseggono il suddetto marchio di provenienza sono considerati “Stati canaglia”, incarnazioni del Male da estirpare. Questo è il succo di quel ‘fondamentalismo democratico’ – per citare Luciano Canfora – che ritiene il sistema politico-economico e il modo di vivere occidentale come l’unico ammissibile.

Emiliano Alessandroni

Quello di democrazia, insieme a quello di libertà, è probabilmente il concetto in assoluto più abusato nel discorso politico occidentale. Basta aggiungerne un pizzico un po’ a caso e tutto diventa magicamente più bello : governo democratico, partito democratico, forze democratiche, metodi democratici, sentimenti democratici, spirito democratico e chi più ne ha più ne metta. Ed è proprio a causa di questo abuso retorico che occorre compiere un’opera titanica di messa in questione, di problematizzazione e di decostruzione del concetto stesso, che è proprio quello che fa Emiliano Alessandroni nel suo Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, un’opera ambiziosa che non si ponte tanto l’obiettivo, appunto, “di raccontare la democrazia, quanto quello di problematizzarla” e cioè “di liberare la sua narrazione e il suo concetto dalle semplificazioni tutt’oggi in voga”.
Se c’è un dogma che l’apparato giornalistico-mediatico propaganda quotidianamente è quello di identificare la democrazia occidentale con il Bene, in contrapposizione alle dittature – cioè a tutti i sistemi politici diversi da essa – che vengono identificati in blocco con il Male. A questo pensiero astratto, cioè fisso e astorico, Alessandroni contrappone un pensiero dialettico nel quale i termini non sono essenze, sostanze opposte, ma processi storici che si compenetrano. L’idea di Alessandroni è tanto semplice quanto dirompente: ci sono stati e ci possono essere processi di emancipazione, ossia conquiste realmente democratiche, in ciò che definiamo dittature, come d’altronde ci sono stati e ci possono essere processi di de-emancipazione, ossia regressioni dispotiche, in ciò che definiamo democrazie. Per mandare in tilt il manicheismo storico-filosofico del pensiero liberaloide contemporaneo, basta e avanza: per i pensatori liberali, infatti, il concetto di democrazia tutto sommato può essere ridotto a un assetto giuridico-politico specifico, e cioè il sistema caratterizzato dalla “competizione elettorale”. Se c’è siamo in una democrazia, sennò no. Aut aut. Semplice e chiaro.
Per Alessandroni, però, le cose sarebbero leggermente più articolate. Primo: il processo della competizione elettorale – sottolinea – sarebbe marcatamente influenzato dal potere economico -finanziario, che ha in mano anche quello mediatico. Chi ha più soldi ha, oggettivamente, più chance di far passare le sue idee e far eleggere i suoi politici di fiducia. Secondo: il diritto di voto nelle democrazie può essere ristretto a una minoranza o, comunque, escludere grandi masse di popolazione. Nella democrazia greca, ad esempio, è risaputo che votassero solo i maschi adulti, figli di padre e madre ateniese e liberi di nascita. Terzo: uno Stato giuridicamente democratico può attuare una politica dispotica di sterminio e colonizzazione verso altri popoli o altre nazioni; Israele è, ad esempio, giuridicamente una democrazia, ma agisce come despota verso la popolazione palestinese. Tutto questo non significa di per se, ovviamente, non riconoscere alla “competizione elettorale” un ruolo potenzialmente emancipatorio; piuttosto si tratta, molto semplicemente, di sottolinearne limiti – se non addirittura contraddizioni – che la propaganda cela con le sue semplificazioni manicheiste. “Se merito della tradizione liberale è stato insistere sull’idea di “democrazia giuridico-politica”, necessaria per la decentralizzazione del potere” sottolinea infatti Alessandroni, il dovere “della tradizione che fa riferimento al materialismo storico è focalizzare l’attenzione sui concetti di democrazia sociale e di democrazia internazionale, che soli permettono a quella giuridico-politica di ambire a una certa dose di universalismo, ed evitare che si trasformi in un paravento per nuove forme di dominio e di accentramento del potere nelle mani di una minoranza, anche se con modalità meno rozze e più sofisticate”. “Soltanto l’unità combinatoria di questi tre concetti e la loro declinazione universale” sottolinea infatti Alessandroni, “può incarnare la sostanza democratica. Come che sia, pare evidente quanto, lungi dall’esser giunti alla fine della storia, come teorizzava Francis Fukuyama, il cammino verso la democrazia rimanga piuttosto, allo stadio attuale, ancora inesorabilmente lungo”.
Proprio per questo motivo non bisogna cadere nella propaganda dell’ideologia democraticista, che è funzionale alla giustificazione dell’assetto di dominio vigente nello stesso modo in cui, nell’Ottocento, il ricorso al termine libertà era utilizzato dai padroni di schiavi per giustificare e moralizzare l’istituto della schiavitù. “Con democrazia” scrive infatti Alessandroni “si tende a indicare, nell’attuale presente storico, il sistema di dominio dell’Occidente. E quelle autentiche spinte democratiche, che (..) sorgono al di fuori del perimetro occidentale, vengono rappresentate, dalla nostra pubblicistica, sotto forma di minacce nei confronti della democrazia”. Da questo punto di vista, conclude Alessandroni, proprio “Come nell’antica Atene” anche oggi “il termine democrazia assolve la funzione ideologica di occultare e giustificare un determinato sistema di dominio”. E’ proprio il ricorso spregiudicato a questa ideologia, ad esempio, a permettere di occultare il fatto che quello che è considerato comunemente il paese guida del mondo democratico – gli Stati Uniti d’America – sia, a tutti gli effetti, l’esempio più fulgido di dispotismo nei rapporti internazionali. Una verità palese e arcinota soprattutto a tutti quei paesi che hanno sperimentato la condizione coloniale e l’aggressione armata. Dalla loro prospettiva di colonizzati e aggrediti, la democrazia non giunge certo da Occidente tramite le bombe e neanche dal suo avamposto mediorientale, ossia Israele. “Lo Stato di Israele” si chiede infatti retoricamente Alessandroni “costituisce davvero il migliore prototipo di democrazia e di libertà del Medio Oriente, come spesso si è sostenuto e si continua a sostenere? E ritornando nuovamente sul piano teorico, può essere ritenuto democratico un paese che manifesta un’evidente inclinazione coloniale? Ovvero, democrazia e colonialismo possono essere compatibili?”In termini di democrazia sostanziale, ovvero di una democrazia che non sia riducibile astrattamente alla sola “competizione elettorale”, la risposta è molto semplice: no, democrazia e colonialismo non sono compatibili.

Edward Said

Ma come mai – occorre domandarci – quando si parla di democrazia non si tiene conto di questi fattori così importanti? Come mai si considera determinante, per riconoscere un soggetto come democratico, soltanto il suo sistema elettorale interno e non anche le relazioni che esso instaura con gli altri soggetti? La risposta è piuttosto semplice: si chiama egemonia culturale che, per dirla con Edward Said, si nutre di 5 grandi narrazioni: la prima è quella che si concentra sulla distinzione ontologica tra Occidente e resto del mondo, il giardino ordinato contro la giungla selvaggia che lo circonda e lo minaccia, per dirla con il ministro degli esteri dell’unione europea Josep Borrell. La seconda è volta a codificare e naturalizzare la differenza tra noi e loro: noi siamo umani mentre loro no. La terza si fonda sulla retorica della missione civilizzatrice: noi occidentali bombardiamo sempre per il Bene e la democrazia e i bombardati, alla fine, ce ne saranno grati. La quarta mira alla diffusione massiccia dell’ideologia imperiale: una vera azione pedagogica intrapresa da tutti i lavoratori culturali, dai giornalisti ai registi cinematografici e ai vignettisti, rivolta tanto ai colonizzatori quanto ai colonizzati. La quinta è quella più specificatamente letteraria, capace di creare storie e immagini molto potenti in grado di esaltare la cultura imperiale: è la contrapposizione onnipresente in ogni tipo di prodotto culturale tra personaggi positivi – espressione della mentalità e dei valori imperiali – e personaggi negativi, espressione della cultura dei popoli sottomessi. Queste narrazioni unite diventano una Grande Narrazione che non ci fa immedesimare nella sorte dei colonizzati ma in quella dei colonizzatori, perseguitati dal “fardello” della loro “missione civilizzatrice”.
Fortunatamente, però, possiamo sempre cambiare prospettiva e rigettare la distinzione manichea e razzista tra noi e loro, onnipresente nei talk show televisivi venti anni fa come oggi; “cosa intende dire con “noi” il commentatore delle notizie serali” scriveva infatti Said già nel 2004 “quando chiede educatamente al segretario di Stato se le “nostre” sanzioni contro Saddam Hussein erano giustificate, mentre milioni di civili innocenti, non di membri dello “spaventoso regime”, vengono uccisi, mutilati, affamati e bombardati perché noi possiamo dare prova del nostro potere? O quando il giornalista televisivo chiede all’attuale segretario di Stato se, nella nostra furia di perseguire l’Iraq per le armi di distruzione di massa (che in ogni caso nessuno è mai stato in grado di trovare), “noi” applicheremo a tutti lo stesso principio e chiederemo a Israele di rendere conto delle armi in suo possesso senza ottenere risposta? […] Bisognerebbe trovare il coraggio” conclude Said “di dire nel modo dovuto: io non faccio parte di questo “noi”, e quello che “voi” fate, non lo fate in mio nome”.

Joe Biden

Se anche tu non vuoi più far parte di quel “noi” e vuoi combattere per un’informazione che sostenga la lotta degli oppressi e non dia corda alla propaganda degli oppressori, l’appuntamento è per domani mercoledì 8 novembre alle 21:00 in diretta su Ottolina TV con una nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina TV in collaborazione con Gazzetta filosofica. Ospite d’onore Emiliano Alessandroni, docente presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo“. E se, nel frattempo, anche tu credi che per una democrazia reale in grado di combattere l’imperialismo anche sul piano culturale prima di tutto ci sarebbe bisogno di un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%, aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina TV su GoFundMe e su PayPal .

E chi non aderisce è zio Joe Biden

A.A.A. solidarietà cercasi

Citata e abbandonata a più riprese nella storia del pensiero, continua a indicare una pratica combattente, capace di plasmare le interconnessioni del mondo multipolare verso uno sbocco rivoluzionario.

9 maggio 1950. Per salutare la nascita della nuova creatura europea chiamata CECA, il padre fondatore Robert Schuman pronuncia queste parole:

“L’Europa non potrà farsi in una volta sola, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino innanzitutto una solidarietà di fatto.”

Ne è passata di acqua sotto i ponti di Bruxelles, eppure il continuo richiamo alla solidarietà tra i paesi europei non si è mai sopito, tanto da essere chiamato in causa nel Trattato dell’Unione Europea, nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e persino nel preambolo della sua Carta dei diritti fondamentali.
Tuttavia, è sotto gli occhi di tutti come la solidarietà tanto evidenziata sulla carta si sia spesso trasformata in lettera morta, se non nel suo contrario: il processo di costruzione europeo, che pareva a tutti una strada spianata, si è rivelato un ottovolante con le politiche del Vecchio Continente sospese tra contraddizioni economiche, politiche neoliberiste, conflittualità vecchie e nuove tra blocchi contrapposti. Tanto che qualche maligno potrebbe trovare un nesso tra lo svuotamento della solidarietà europea e l’uso del tutto arbitrario e spregiudicato della parola stessa come slogan. 

A poche ore dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, ad esempio, Ursula Von der Leyen si è precipitata su Twitter a garantire la solidarietà dell’intera Unione per Israele:

Seguendo a ruota, manco a dirlo, le posizioni (ora molto più sfumate), della Casa Bianca:

“Il presidente Biden ha parlato questa mattina con il primo ministro israeliano Netanyahu. Il Presidente ha espresso ancora una volta profonda solidarietà per tutti i dispersi, i feriti e gli uccisi e ha garantito il suo pieno sostegno al governo e al popolo di Israele di fronte a un attacco senza precedenti e spaventoso da parte dei terroristi di Hamas”. – Washington, 8 ott. (Adnkronos)

Sembra il destino funesto della solidarietà: diventare un po’ come il prezzemolo; un termine vuoto o quantomeno ambiguo, privo di riferimento e interesse politico, come “amicizia”, “fratellanza” o “sistema internazionale basato sulle regole”.

E’ per solidarietà che si pagano le tasse, che si aiuta il prossimo, che si danno soldi ai bisognosi o che si aiutano i paesi “sottosviluppati” a “svilupparsi”, ovviamente sempre e solo nelle modalità decise a tavolino dal Nord Globale. Ma c’è forse qualcosa di più: perché la solidarietà come pratica concreta sembra ancora possedere una forza dirompente. Ne sono un esempio le centinaia di migliaia di persone scese in piazza in tutte le città del Vecchio Continente, questa volta per il popolo palestinese. Persino da noi, noti vassalli di Washington, si è mosso qualcosa. A Roma, per esempio, dove

“I collettivi di Osa – Opposizione studentesca d’alternativa, Zaum e Cambiare Rotta, protestano contro la riunione straordinaria del senato accademico dedicato a una risoluzione di condanna agli attacchi di Hamas e in difesa di Israele. “Rettrice, non te la faremo passare questa”, hanno urlato i manifestanti nei megafoni indirizzandosi ad Antonella Polimeni. “Rettrice, stiamo arrivando”. I collettivi hanno provato a entrare negli uffici del Rettorato durante la riunione straordinaria del senato accademico ma sono stati bloccati dagli agenti. Poi è stato scandito il coro ‘Palestina libera’ ed è stato esposto uno striscione ‘Con la Resistenza fino alla vittoria’. Gli studenti pro-Hamas protestano contro una mozione che sosterrebbe ‘la brutalità di Israele contro il popolo palestinese che da decenni massacra donne, bambini, famiglie e distrugge case'”. (Roma, 10 ott. – Il Tempo)

Esiste persino una giornata del calendario, il 29 novembre, che l’ONU, nota organizzazione filo-Hamas e filo-putiniana, dedica ogni anno alla “Solidarietà con il Popolo Palestinese”.

Stessa parola d’ordine, solidarietà, con risultati diversi: se il coro di solidarietà per Israele, inteso come “sostegno incondizionato” whatever it takes, ha ricevuto pronta eco e diffusione in tutte le testate mainstream, le manifestazioni solidali con la causa palestinese si sono prese le manganellate (virtuali o reali) da parte di quel circo mediatico per il quale uno stato terrorista e suprematista, solo in quanto “democratico”, diventa un baluardo della libertà nel Mondo.

Se possiede il potere di far mobilitare le coscienze di mezzo globo, allora, la solidarietà non è un concetto vuoto o superfluo, ma denota una pratica importante e potenzialmente incisiva per i sempre più fragili equilibri del Nord Globale, afflitto da sempre più contraddizioni in ambito politico, economico e sociale.

Tuttavia, un conto è incontrare la solidarietà nel quotidiano, altro è indagarla nelle sue radici storiche come concetto. E’ a quest’opera di scavo che Alessandro Volpe si è cimentato col suo saggio Solidarietà. Filosofia di un’idea sociale, nel tentativo di abbozzarne una sorta di genealogia per mettere a fuoco le sue radici combattenti.

Non è un caso, ad esempio, che i riferimenti alla solidarietà spuntino agli albori della Rivoluzione Francese, come evoluzione dell’idea di fraternità. Prima della presa della Bastiglia, infatti: 

“le parole liberté e egalité erano accompagnate solo da ‘Unité indivisible de la République’ e dal monito ‘ou la mort’ – ‘o la morte’ – più tardi rimosso perché troppo legato agli anni del Terrore”, mentre la “fraternité era intesa in termini sociali come la realizzazione della libertà politica di tutti i cittadini”.

Dal concetto di fratellanza, alla base tanto della concezione di solidarietà cristiana quanto, per il rimando ai legami di sangue, della solidarietà di matrice nazionalista ed etnica, emerge un’idea di rapporto che va oltre il riconoscimento dell’altro come “fratello”: la solidarietà si configura come pratica inserita in un sistema di interdipendenza sociale e di lotta per il riconoscimento dei propri interessi e obiettivi, che attecchisce sulle condizioni materiali di lavoro dei singoli. 

Il primo a tratteggiare compiutamente questa nuova concezione di solidarietà nella società otto-novecentesca è stato Émile Durkheim, per il quale il tratto distintivo di questo nuovo contesto socio-produttivo figlio delle due rivoluzioni industriali è proprio l’inevitabile interdipendenza tra individui che si concepiscono sempre più liberi e autonomi rispetto alle situazioni passate. Una condizione paradossale, sulla quale il noto antropologo si arrovellava senza sosta: 

“Come avviene che, diventando più autonomo, l’uomo dipenda più strettamente dalla società? Come può allo stesso tempo individualizzarsi ed essere sempre più vincolato ai legami di solidarietà?”  

un quesito a cui Durkheim risponde, nella lettura di Habermas, che ci troviamo di fronte a:

“una nuova forma di solidarietà che non è più garantita da un consenso di valore precedente, ma deve essere realizzata in cooperazione grazie agli sforzi individuali. Al posto di un’integrazione sociale attraverso la fede, abbiamo un’integrazione sociale attraverso la cooperazione.”

La solidarietà come concetto socialmente determinato attraversa quindi delle fasi alterne, sempre al centro delle riflessioni dei pensatori più diversi: da Proudhon a Weber, da Scheler all’anarchico Kropotkin.

E’ con lo sviluppo teorico del socialismo, però, che la solidarietà traghettata nel Novecento inizia a rivestire un ruolo  importantissimo non solo come sistema di mutuo riconoscimento, appoggio e consapevolezza della classe lavoratrice, ma soprattutto come guida del blocco delle classi subalterne per soppiantare quelle dominanti. Come attestato in un celebre saggio del 1919 del filosofo György Lukács:

“La solidarietà propagandata dai più grandi filosofi della borghesia come ideale sociale irraggiungibile esiste realmente nella coscienza di classe, negli interessi di classe del proletariato. Nella storia del mondo, la vocazione del proletariato si rivela nel fatto che la realizzazione dei suoi interessi di classe porta con sé la liberazione sociale del genere umano.”

Proprio dal solco della tradizione socialista e rivoluzionaria si aggiunge quindi un tassello fondamentale per definire la solidarietà, che Alessandro Volpe sintetizza lucidamente come: 

Una relazione simmetrica di mutuo supporto e condivisione del rischio, basata sul riconoscimento di una causa comune.

Lungi dall’essere un ideale astratto di mutuo aiuto tra individui, che prescinde da qualsiasi collocazione socio-economica, e quindi dal riconoscimento della condizione di interdipendenza (e di dominio/sottomissione) tra soggetti, la solidarietà si realizza come pratica combattente. Praticarla non significa perciò agire nel solo rispetto della libertà altrui, seguendo la massima liberale “la mia libertà finisce dove inizia la tua”, ma riconoscere pari dignità agli interessi dell’altro e impegnarsi con l’altro nella realizzazione di un obiettivo comune

Che si parli di una battaglia inter-statale per uno sviluppo sostenibile, di scioperare per un salario dignitoso con altri lavoratori o di sostenere come privati cittadini o associazioni il riconoscimento del popolo palestinese o kurdo, è la causa comune che dà senso e direzione alla pratica solidale

Un semplice aiuto economico o materiale nei confronti di chi è in posizione di bisogno, ad esempio, non va confuso con un atto solidale.

Manca, infatti, il riconoscimento del bisognoso come nostro “pari” e la condivisione di una causa (e dei rischi connessi al suo perseguimento). 

Che si sviluppi tra singoli cittadini, tra soggetti politici o associativi, tra classi o tra interi Paesi, la solidarietà appare un motore imprescindibile per richiamare l’attenzione sulle contraddizioni del sistema economico-sociale; e in questa prospettiva si può capire come, viceversa, banalizzarne la portata o utilizzarne il concetto come “prezzemolo retorico” buono per tutti i contesti, diventi una strategia mediatica effcace per soffocare il suo afflato rivoluzionario. Viviamo in un mondo globalizzato e multipolare, dove è sempre più stretta ed esplicita l’interdipendenza tra singoli cittadini, stati sovrani emergenti, popoli in cerca di un riconoscimento per troppo tempo negato dalla gerontocrazia suprematista occidentale; dove le “sovrastrutture” di giustizia internazionale apparentemente neutrali celano a fatica lo squilibrio di potere in favore del Nord Globale; dove anche i paesi dell’UE condividono una storia ma non una vera causa comune; in questo mondo, affermare la solidarietà come pratica politica e sociale non è un optional, ma una tappa strategica obbligata.

Perché in Italia non c’è mai stata una rivoluzione?

Rivoluzioni mancate, una lunga tradizione italiana. Ce ne fosse mai riuscita una: dalla rivoluzione scientifica alla riforma religiosa, dalle rivoluzioni di fine ‘700 al  risorgimento, dal biennio rosso fino alla guerra partigiana: la storia del nostro paese è in buona parte storia del fallimento sistematico di ogni tentativo di rivoluzionare alla radice i rapporti sociali, morali e politici.  Perché?
Io sono Valentina Morotti, e questa è la nuova puntata di “Ottosofia” e oggi parliamo di una delle più importanti e durature tradizioni italiane: le rivoluzioni mancate.
Biennio rosso (1919-1920): mai come allora l’Italia è stata davvero sull’orlo di una rivoluzione. Duemila scioperi, oltre 3 milioni di lavoratori mobilitati dal sindacato – per la stragrande maggioranza di fede socialista – e con il Partito Socialista che alle elezioni del novembre del 1919 raggiunge la quota astronomica del 32% e triplica in un balzo i propri seggi in Parlamento. Sull’onda lunga della Rivoluzione d’Ottobre, tra gli operai europei era emerso il bisogno di organizzare in modo nuovo la lotta per “fare dappertutto come in Russia”. Nelle industrie torinesi spuntano come funghi i consigli di fabbrica, guidati da uno degli intellettuali più importanti della storia del nostro paese: Antonio Gramsci. E’ lui a investire l’avanguardia operaia di un ruolo rivoluzionario fondamentale: quello di costituire la base di una nuova “democrazia proletaria” che si opponga alla democrazia parlamentare borghese, scossa alle fondamenta e terrorizzata dal contagio della “febbre bolscevica” dalle pianure dell’est. Tutto sembra pronto a un cambiamento esplosivo, il tritolo è ben posizionato, ma proprio sul più bello ecco che qualcosa si inceppa nell’innesco; il Partito Socialista, infatti, incapace di porsi alla testa delle masse, non riesce a dare alle occupazioni e alle esperienze dei consigli di fabbrica una degna traduzione politica. Un’incapacità strategica e addirittura, potremmo dire, filosofica che finisce per disinnescare il Biennio Rosso, trasformandolo in un’altra delle tante rivoluzioni mancate del nostro paese.

in foto: Antonio Gramsci

Ma com’è potuto accadere? Dove si nasconde l’anello debole nella guida politica del PSI che ha impedito la creazione di un laboratorio rivoluzionario? E’ a partire da queste dolorose domande che si snoda la riflessione di Gramsci sull’incapacità del suo partito di organizzare politicamente le sollevazioni operaie. Nei “Quaderni dal carcere” Gramsci giunge all’apice della sua ricerca sul fallimento delle rivoluzioni in Italia, ampliando il discorso alla storia italiana passata e ricollegandosi all’elefante nella stanza del Risorgimento: la mancata rivoluzione agraria. Laddove il Risorgimento avrebbe potuto prendere una direzione popolare e rivoluzionaria, camminando sulle gambe della classe contadina per riscattarla socialmente ed economicamente, quella maledetta riforma agraria non arrivò; anche e soprattutto, sottolinea Gramsci, per l’ostilità culturale più o meno esplicita delle élites liberali del tempo. Nella classe politica borghese e cittadina, sottolinea il filosofo, “c’è l’odio e il disprezzo contro il “villano”, un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna”. (Gramsci, “Quaderni dal carcere”, p. 2035).
E ovviamente, come in ogni contro-rivoluzione che si rispetti, quel “fronte unico” implicito diventa esplicito, riesumando le forze sociali uscite bastonate e frastornate dai cambiamenti in corso nel tentativo di stabilizzare lo status quo. Nasce così la forza reazionaria post-risorgimentale, fondata sull’alleanza eclettica tra borghesi del Nord e grandi latifondisti del Sud, con uno scopo ben preciso, divenuto fatto storico: il soffocamento dei contadini del meridione, delle loro rivendicazioni e della loro forza organizzativa. Per Gramsci, dunque, il problema del Mezzogiorno esplode nella pancia dello Stato unitario come una lacerante contraddizione: non solo l’organizzazione dello stato unitario privilegiava una piccola fetta della società, trascurando le classi popolari e i loro bisogni, ma era anche incapace di percepirle e interpretarle come un soggetto di trasformazione storica. La soluzione, per la minoranza di latifondisti e borghesi, non poteva essere che schiacciare – non solo fisicamente ma anche ideologicamente – la grande maggioranza contadina. E’ questo mix di condizioni socio-economiche e mancato riconoscimento culturale che, nella riflessione di Gramsci, unisce la possibilità di rivoluzione nel presente con i mancati cambiamenti nel passato, poiché per lui “il passato non era solo ciò che doveva essere, bensì anche, se non soprattutto, ciò che avrebbe potuto essere e non era stato; ciò che è rimasto irrealizzato e che però ancora chiede di svolgersi, di attuarsi”. (Brugnolo, p. 266).
Con i Quaderni si lancia così uno spunto di riflessione sulle condizioni economiche, sociali e culturali che permettono a una rivoluzione di passare dall’utopia alla realtà, ed è il filo rosso al quale prova a ricollegarsi Stefano Brugnolo, professore di teoria della letteratura all’università di Pisa, e autore di “Rivoluzioni e popolo nell’immaginario letterario italiano ed europeo”.

in foto: Stefano Brugnolo

Nella sua riflessione, Brugnolo individua proprio nei “Quaderni dal carcere” “il testo fondamentale per chiunque voglia indagare il rapporto che gli italiani hanno avuto con quel grande non-evento che è stata la rivoluzione mancata”. Il libro parla del modo in cui gli intellettuali italiani hanno interpretato quella lunga tradizione di rivoluzioni mancate in Italia, perché “qui da noi la rivoluzione si è rivelata un disperante appuntamento mancato, costringendo gli scrittori e gli intellettuali a ritornare tante e tante volte su quel nodo irrisolto, a ripensarlo e elaborarlo”. Un j’accuse, quello di Brugnolo, che mette sulla graticola tutte le figure di spicco del panorama intellettuale italiano storicamente associate alle grandi rivoluzioni, come quella scientifica contro il sistema tolemaico. Mettendo a fuoco la figura storica di Galileo Galilei, ad esempio, Brugnolo tratteggia il profilo di un intellettuale che non c’entra nulla col rivoluzionario protagonista dell’opera di Brecht “Vita di Galileo”: i testi di Galileo, piuttosto, ci raccontano di un’altra straordinaria rivoluzione culturale mancata che affonda le sue radici nell’incapacità dello scienziato toscano di comunicare al popolo la sua innovativa visione del mondo. Per Galilei, infatti, la verità semplicemente non è adatta per il popolo, ma solo “per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe”. Le sue opere in volgare sono rivolte a loro e di certo non alla massa.
Sospetto e diffidenza, ecco ciò che Galileo prova verso il popolo: non desidera coinvolgerlo nella sua rivoluzione culturale e, a differenza della sua controparte immaginata da Brecht, non cerca di intaccare con le sue teorie le fondamenta del sistema politico-culturale in cui vive. “Uno dei primi grandi esponenti della ragione moderna”, scrive Brugnolo, proprio “nel mentre lancia il suo progetto, esprime la sfiducia nella possibilità di socializzare quel nuovo modo di pensare, trasformandolo in una forza sociale capace di cambiare il mondo”. Un’occasione mancata.
La stessa sfiducia nelle masse si rintraccia in un peso massimo del Risorgimento, Alessandro Manzoni. Anche lui, sia nei “Promessi sposi” che nel “Saggio sulla rivoluzione francese”, dà voce a tutta la sua diffidenza verso i cambiamenti rivoluzionari democratici. Ad esempio, nel capitolo XXVIII dei “Promessi Sposi” sulla rivolta dei forni, Manzoni spara a zero sulla rivoluzione giacobina: riprendendo i saccheggi compiuti durante le rivolte popolari, lo scrittore paragona le politiche economiche di Ferrer e Robespierre affermando che la colpa per entrambe è della pressione esercitata dalle masse incolte: scrive Manzoni che in Francia “si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti ad onta de’ tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa […] e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge”.

in foto: Alessandro Manzoni

Per Manzoni è il popolo bestia che forza – con la violenza e senza avere alcuna cognizione di politica economica – la mano al decisore politico, che arriva ad adottare misure sciagurate per compiacere demagogicamente il vulgus profanum. Del resto, si parla di quello stesso “volgo disperso” che circa vent’anni prima, nelle pagine di “Adelchi”, aveva sollevato il capo e in maniera miope, secondo il demofobico Manzoni, si era illuso di liberarsi dal giogo longobardo confidando nel ‘disinteressato’ liberatore franco. Sono solo due esempi, ma sono sufficienti se pensiamo a quanto Manzoni sia importante per la letteratura e la cultura italiana. Non è difficile intuire, perciò, l’influenza che ha avuto Manzoni sul nostro dibattito intellettuale e a quanto questi giudizi hanno contribuito a formare la nostra cultura. Il romanzo italiano nasce così – attraverso la penna del suo più illustre pioniere – nel segno del realismo inteso come giudizio negativo sulla rivoluzione democratica. Quando la nostra classe intellettuale si è trovata di fronte la rivoluzione, o ne è stata terrorizzata o è stata incapace di comprenderne la portata; diventa chiaro come il sole che la paura del potere delle masse per le sue manifestazioni estreme (Manzoni e Verga) e la paura di “sporcare” il progresso culturale tramite la sua divulgazione (Galilei), sono due facce della stessa medaglia ideologica. E’ questa cappa culturale controrivoluzionaria che, nei termini gramsciani, si è tradotta in un’ideologia egemone nel corso dei secoli, schiacciando e delegittimando ogni pretesa di cambiamento. La soluzione, per il pensatore sardo, non può che essere una: costruire una classe intellettuale che sia al contempo parte della classe popolare e capace di porsi come sua avanguardia e rappresentante. Un partito parte della classe quindi, che sappia condurre una battaglia essenzialmente culturale per ribaltare i rapporti di forza ed esercitare una nuova egemonia. In sostanza: tutto ciò che è mancato e manca in Italia per dare il giusto peso e rappresentanza alle classi lavoratrici subalterne.
Nel libro, Brugnolo osserva che il pensiero della rivoluzione è “un pensiero capace di concepire il mondo come radicalmente “altro” da quel che è attualmente” e la forza della letteratura è quella di poter immaginare i possibili, quello che non è o non è stato, il negativo dell’esistente attuale, come il mondo dopo la rivoluzione. Se la rivoluzione è stata il grande represso della letteratura moderna, di una letteratura che provava a dare voce a come le cose non sono e potrebbero essere, questo provare a immaginare la rivoluzione nella letteratura di oggi è scomparso: oggi non c’è nemmeno più la capacità di immaginare la rivoluzione. Riusciamo a pensare la fine del mondo ma non il suo cambiamento, la catastrofe di questo pianeta piuttosto che la fine del capitalismo. Il capitalismo ci ha privato dei sogni: lo diceva già Pasolini, che vedeva in quei ragazzi di vita che erano ancora fuori da certe logiche consumistiche i semi del futuro conformismo, di un’omologazione che avrebbe spento le loro energie vitali. L’ultimo Pasolini parla dei giovani sottoproletari che sono stati conquistati dagli ideali borghesi perché la borghesia è ancora la classe dominante e egemone, mentre gli operai erano già da anni stati conquistati dagli ideali piccolo-borghesi del benessere economico. Anche il potenziale rivoluzionario del sottoproletariato urbano viene conquistato dai valori consumistici della classe borghese, che è sempre la classe egemone che impone non solo il proprio sistema di produzione ma anche i propri valori, il proprio immaginario, il proprio sistema di immaginare il mondo.
La conclusione del libro è che il tardo capitalismo, dopo la fine delle utopie novecentesche e il trionfo del neoliberismo, avrebbe atrofizzato la capacità di immaginare la rivoluzione. “Il sogno si è rattrappito”, come diceva Gaber.
Per farlo rifiorire dobbiamo discuterne senza troppi giri di parole, e se anche tu sei stufo degli intellettuali che amano i salotti e disprezzano il 99%, aiutaci a costruire il vero primo media che al 99% invece vuole dargli voce. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Ernesto Galli della Loggia

Elogio della rivoluzione: perchè l’idea che non sia possibile cambiare radicalmente la storia è oggettivamente una puttanata

Quest’uomo deve regnare o morire”. Con queste semplici parole il giovane leader rivoluzionario Louis Antoine Léon de Saint-Just più comunemente noto semplicemente come Saint-Just si condannerà per l’eternità ad essere ricordato come il padre del populismo e del giustizialismo ma, come si dice, aveva anche dei difetti. E’ il 13 novembre 1792: a Parigi sono in corso i lavori della Convenzione Nazionale, l’organo rivoluzionario che dovrà scrivere l’impianto costituzionale della Republique, quando a prendere la parola, appunto, è il giovane Saint-Just, che pronuncerà un discorso destinato a dare avvio alla stagione rivoluzionaria che travolgerà il mondo per i due secoli successivi.

Ci si meraviglierà un giorno”, proclama enfaticamente Saint-Just, “che nel XVIII secolo si sia meno progrediti che all’epoca di Cesare. Allora il tiranno fu immolato in pieno Senato, senza altre formalità che ventitré colpi di pugnale, e senza altra legge che la libertà di Roma. Oggi invece” procede perculando il nostro appassionato tribuno “si fa con rispetto il processo a un uomo assassino di un popolo, colto in flagrante delitto, con la mano nel sangue, la mano nel delitto!”.

Secondo Saint-Just, questo ricorso ai guanti di velluto per il trattamento riservato al despota deposto non si addice a degli uomini che dicono di avere “una Repubblica da fondare”, perché fondare una Repubblica è roba da stomaci forti; e chi si perde in sofismi per decidere quale sia la punizione giusta e moralmente accettabile da riservare al Re, “non fonderà mai una Repubblica1. A voler garantire un processo equo e giusto a Re Luigi e, possibilmente, salvargli la vita, sono in particolare i rappresentanti dell’alta borghesia e gli eredi della tradizione liberale riuniti nella corrente dei Girondini. L’obiettivo è gettare un po’ di acqua sul fuoco della rottura rivoluzionaria e corrompere la sua spinta democratica ed egualitaria per arrivare il più pacificamente possibile a un nuovo ordine che gli consenta semplicemente di fare più soldi e in modo più dinamico e moderno, senza troppi preti e nobili parassiti tra i piedi.

Saint-Just, Robespierre e gli altri giacobini, però, non sono particolarmente d’accordo: esponenti dell’ala sinistra della rivoluzione – eredi del pensiero democratico moderno di Rousseau e fautori di un’alleanza tra borghesia progressista e ceti popolari – non si accontentano di niente di meno che rivoltare completamente la vecchia società francese come un guanto, ponendo fine ai secoli di terrore e ingiustizia dell’Ancien Règime.

E per farlo, sono convinti che la strada maestra sia fare saltare la testa del Re senza se e senza ma, e imporre così una discontinuità storica plateale dalla quale non sia più possibile tornare indietro.

In soldoni, vogliono anche loro uccidere il loro Cesare, “senza altre formalità che ventitré colpi di pugnale”, come aveva sottolineato Saint-Just.

Il vertice giacobino, che è formato in buona parte da brillanti e coltissimi giovani avvocati, è cresciuto infatti in un vero e proprio culto della storia di Roma: “il romano”, veniva soprannominato addirittura Robespierre stesso. Ad ispirarli, in particolare, la lunga sequenza di guerre civili e l’incredibile avventura della Repubblica, che leggevano come storia epica di uomini temerari in grado di deporre re, uccidere senza pietà tiranni e riprendere continuamente in mano il timone della storia.

I giacobini volevano fare come gli antichi, ed essere all’altezza del loro esempio. È una sorta di “ritorno ai princìpi”, o alle origini, che poi è il modo in cui si pensava il cambiamento storico prima della stagione rivoluzionaria delle società moderne, e che proprio i giacobini trasformeranno nel concetto di rivoluzione.

La storia è finita” ci dicono da trent’anni. Avevano iniziato personaggi privi di ogni credibilità, come quel tale – Francis Fukuyama -, recordman olimpionico di previsioni sballate; ma ciò nonostante, passo dopo passo, anno dopo anno, è diventata l’aria comune che si respira nelle università, nelle scuole, in tutta la società.

Presentismo”, lo definisce lo storico francese François Hartog. “Nulla può cambiare”, ci dicono, perché ogni ipotesi di trasformazione radicale del presente ha l’ambizione del tutto irragionevole di rompere per sempre non solo con la storia per come è stata fino a quel momento, ma addirittura con la natura profonda dell’essere umano, che invece quella è, immutabile. E tu, presuntosotto rivoluzionario di provincia, non ci puoi fare proprio niente.

Ma vanno anche oltre perché, visto che niente può cambiare e tutto è immutabile, anche solo provare a farlo è un atto criminale, e tutte le volte che si è tentato questo fantomatico salto nel futuro, millantando una cesura netta col passato e la tradizione, il sogno si è sistematicamente trasformato in incubo.

Bah, sarà.

Ammesso e non concesso che le cose siano andate davvero in questo modo, in realtà, quello che non funziona in questa tesi è il fatto che per lunghissimi secoli gli uomini all’idea di poter cambiare la storia ci hanno creduto eccome e spesso ci sono pure riusciti. Ma non solo. Nel farlo, spesso, hanno imitato chi era venuto prima: riferendosi talvolta agli antichi, talvolta a un passato mitologico che in realtà non è mai esistito, il riferimento al passato, all’autorevolezza della tradizione, persino a un’idea di natura umana inventata di sana pianta per rispondere alle esigenze del momento, hanno a lungo rappresentato il motore della trasformazione politica e sociale. D’altronde, prima dell’Età moderna, si viveva in società molto più tradizionaliste in cui il passato, anche arcaico, era considerato un modello insuperabile di perfezione e bellezza; basti pensare al Rinascimento, ad esempio, quando la riscoperta della sapienza antica sembrava mostrare agli uomini del tempo un modello insuperabile al quale era doveroso ispirarsi, consapevoli però che quella perfezione purtroppo non era più alla nostra portata.

Ed è proprio dal cuore del Rinascimento che arriva Niccolò Machiavelli, l’autore, tra le altre cose, dei “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”; fino ad allora, per secoli, l’esempio di Roma e della sua storia erano sempre stati caricati di significati negativi, come sequenza interminabile di conflitti durante i quali avevano fatto capolino forme inedite di potere popolare che non avevano fatto altro che sconvolgere il quieto vivere delle classi dirigenti.

Machiavelli però ne dà una lettura leggermente diversa: nel terzo libro, in particolare, si concentra proprio sugli infiniti cambiamenti che hanno attraversato la storia di Roma, su come si siano avvicendati diversi ordinamenti, e su come il popolo sia ingegnosamente ricorso agli strumenti più disparati per accrescere progressivamente il suo potere.

Una lunga serie di alterazioni, come le definisce Machiavelli, che però l’autore fiorentino ritiene salutari: “E perché io parlo de’corpi misti”, scrive, “come sono le repubbliche e le sette, dico che quelle alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare; ovvero che – per qualche accidente – fuori di detto ordine vengono a detta rinnovazione. E è cosa più chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano2.

Sulla base della medicina antica, Machiavelli paragona qui un ordinamento politico a un corpo, solo che, a differenza di Ippocrate – il più grande medico dell’antichità – il corpo è per lui in salute quando al suo interno vive uno squilibrio, un conflitto. La vitalità del corpo politico, insomma, sarebbe data dallo scontro tra interessi e gruppi sociali diversi. Naturalmente i Grandi, come Machiavelli chiama le élites del suo tempo, questo conflitto con il popolo vogliono in ogni modo provare ad anestetizzarlo. Ma questo tentativo Machiavelli lo definisce nientepopodimeno che “corruzione”, rispolverando il termine che i medici antichi utilizzavano per indicare le malattie del corpo naturale. Ma come si fa a “rimediare” a questa malattia? Secondo Machiavelli è necessario che il corpo “ritorni ai princìpi”, riscopra cioè il fondamento del suo stato di natura, che appunto consiste nell’essere eternamente conflittuale. Fuori dalla metafora medica, Machiavelli ritiene cioè che, periodicamente, un ordinamento debba subire continuamente momenti di rottura e solo in questo modo può ritrovare la sintonia con la sua natura profonda.

Analizzando la storia politica di Roma Machiavelli traduce questa idea sul piano storico: ritornare ai princìpi significa in sostanza rifondare periodicamente la Repubblica da capo per riportarla così al suo momento costitutivo originario. Insomma, non si tratta di tornare all’indietro, di ripetere pedissequamente le azioni dei grandi padri fondatori, ma di rilanciare periodicamente lo spirito profondo dell’atto fondativo che, al contrario, implica proprio sempre una rottura col presente e una nuova apertura al futuro. “Fino al punto che” – sostiene ancora Machiavelli – “ogni corpo politico dovrebbe dotarsi di istituzioni che rifondino periodicamente il suo ordinamento. Addirittura una volta ogni 10 anni”, specifica. “Altrimenti la vita interna della comunità, la sua vitalità conflittuale, rischia di spegnersi perché corrotta dall’ambizione e dalla forza dei Grandi.” In effetti, per Machiavelli, il ritorno ai princìpi è un gesto traumatico di cambiamento: una secessione, una punizione esemplare, l’uccisione di un tiranno, un’invasione straniera. Solo eventi traumatici di questa entità possono concretamente riattivare il conflitto popolare e porre così un freno all’ambizione dei grandi e alla corruzione, rifondando ogni volta da capo l’ordinamento repubblicano”. Non è un caso che Gramsci definisse Machiavelli il primo dei giacobini: a tenerli insieme, infatti, è proprio questa concezione radicale e anche un po’ sanguinaria del cambiamento storico.

Ma l’idea del ritorno ai principi in realtà, dopo Machiavelli, è stata riformulata anche da pensatori ben più cauti e moderati, a partire da Spinoza, ammiratore e appassionato lettore dell’”acutissimo fiorentino”.

A differenza sua, infatti, Spinoza non ama i tumulti e le rivolte; ai suoi occhi, un corpo politico è in salute se e solo se al suo interno vige un rapporto di equilibrio tra le parti, come tra gli ingranaggi di un orologio ben funzionante.

Il ritorno ai princìpi però è un concetto importante anche per lui, perché quell’equilibrio non è mai dato una volta per sempre; anzi, viene perso di continuo, e con la perdita di quell’equilibrio ecco che si riaffacciano le ambizioni dei Grandi e la corruzione.

La soluzione però per Spinoza non sono le punizioni esemplari o le rivolte di piazza di Machiavelli;

piuttosto, un’accurata architettura istituzionale in grado di ricostruire l’equilibrio perduto, riconducendo il corpo politico allo spirito del momento fondativo.

In questa direzione va anche un grande padre del liberalismo come Montesquieu, che ai suoi tempi passava pure per essere conservatore perché non disdegnava l’ipotesi di una monarchia ben temperata, ma che oggi, di fronte al liberalismo aggressivo e imperialista uscito dalla guerra fredda, torna ad apparirci incredibilmente avanzato.

Nel liberalismo di Montesquieu, la ricerca di un equilibrio tra i poteri non deve tradursi in un ostacolo al cambiamento progressivo: anche per lui, infatti, ogniqualvolta una parte politica prevale in modo permanente sull’altra, ecco che torna l’abuso e la corruzione. Ed ecco allora che torna l’idea del ritorno ai princìpi come evento storico che ha la funzione di ristabilire l’equilibrio nei rapporti di forza tra i diversi attori sociali.

Nel frattempo, nel mondo anglosassone, l’idea del ritorno ai princìpi attraeva anche un altra famiglia di liberali, che però non si limitavano a darne un’interpretazione semplicemente più moderata e meno conflittuale, ma addirittura la rovesciavano in qualcosa di profondamente aristocratico. L’idea, infatti, è che i princìpi ai quali tornare siano una sorta di equilibrio ancestrale radicato in un periodo arcaico mitologico e antistorico, quando a regnare era una concordia immaginaria tra tutte le parti.

È la linea del cosiddetto “repubblicanesimo” aristocratico, che dopo essersi sviluppata tra gli interpreti inglesi di Machiavelli, attraverserà l’Atlantico e influenzerà in profondità la Rivoluzione americana, che da questo punto di vista tanto rivoluzionaria poi non era.

Affinché l’idea del ritorno ai principi si trasformi definitivamente nel concetto moderno di rivoluzione toccherà aspettare un’altra trentina d’anni, per tornare finalmente laddove eravamo partiti: a Saint-Just e ai giacobini – i tagliatori di teste – che però durano pochino.

Meno di due anni dopo l’arringa alla Convenzione Nazionale di Saint-Just sulla necessità di mozzare la testa al Re senza tanti fronzoli e rituali garantisti, ad essere mozzata di testa sarà la sua. Non aveva ancora compiuto 27 anni, e da lì in poi la rivoluzione assumerà tutt’altro carattere, riportando indietro bruscamente le lancette della storia.

Eccolo un esempio di rivoluzione che le “piccole groupies di Francis Fukuyama de noantri” ti tirano fuori quando ti vogliono spiegare che devi startene zitto e muto perché tanto “there is no alternative”.

Ovviamente, però, un alternativa c’è sempre: la nostra si chiama Antonio Gramsci,l’erede più prestigioso di quella storia di repubblicanesimo popolare, democratico e giacobino che si era interrotta con la debacle di Saint-Just e company, e che lui rende di nuovo incredibilmente attuale allargandola al suo erede più moderno e compiuto: il socialismo.

Gramsci riflette a lungo sulla sconfitta dei giacobini e individua un punto critico essenziale: il messianesimo, l’idea – appunto – di un evento traumatico che rompa definitivamente i cordoni con la continuità storica e fondi così da zero un mondo nuovo, senza legami con il passato e fortemente idealizzato.

Non funziona: lungi dal rompere con la tradizione nazionale, fatta di cultura popolare ma anche delle lezioni dei suoi intellettuali più rilevanti, la rivoluzione di Gramsci – pur mantenendo intatto tutto il suo carattere traumatico e fondativo – non ne è in realtà che l’esito più coerente e compiuto.

Se pensare il cambiamento come interruzione del tempo storico e apparizione messianica ha prodotto sconfitte e involuzioni reazionarie, l’utilizzo del meglio della tradizione nazionale per rompere con le distorsioni del presente continua a rappresentare una possibilità di cambiamento radicale, senza scadere nel velleitarismo.

Ripartiamo da lì: noi, proveremo a farlo su Ottolina tv con la nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica in collaborazione con Gazzetta filosofica.

Ospite d’onore è Francesco Marchesi, nostro graditissimo ospite già l’anno scorso, per parlare appunto di un Machiavelli paladino della lotta contro le oligarchie.

Nell’ultimo anno Francesco ha provato ad allargare lo sguardo e ha cercato di capire come il ritorno ai principi, teorizzato proprio da Machiavelli per primo, nel corso dei secoli ha influenzato la nostra capacità di pensare prima, e attuare poi, il cambiamento.

Noi, nel frattempo, se siamo all’altezza di pensare e sopratutto di attuare un qualsiasi cambiamento non lo sappiamo: quello che sappiamo è che continueremo a provarci.

Se sei dei nostri, faccelo sapere con qualche eurino. Aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Francis Fukuyama.

1 Saint-Just, Discorso per il processo di Luigi XVI, p. 54.

2 Discorsi, III, 1.

Dalla tecnocrazia alla teologia politica: Come ostacolare il piano del capitale contro la democrazia

Una lunga guerra contro la democrazia. E’ questo in sostanza il fulcro dell’azione politica delle élite del nord globale durante l’ultimo ormai mezzo secolo proprio mentre, paradossalmente, il ricorso strumentale proprio al concetto di democrazia, si affermava come il principale paravento ideologico dietro il quale dissimulare il ritorno all’impiego della forza bruta su una scala raramente vista prima nella storia dell’umanità; una guerra pianificata nei minimi dettagli, esplicitamente.

Samuel P. Huntington, Copyright World Economic Forum

Siamo nel 1975 e un gruppo di studiosi e ricercatori capeggiati dal famigerato politologo statunitense Samuel Huntington pubblica un celebre rapporto destinato a fare epoca. “La crisi della democrazia”, si intitola, “sulla governabilità delle democrazie”; un lavoro su commissione con un committente di eccellenza.

E’ la famigerata Commissione Trilaterale, il think tank che da 50 anni anima i pensieri più contorti di ogni vero complottista e purtroppo, spesso, non senza ragioni; era stata fondata 2 anni prima da David Rockefeller in persona e da allora si era posta un unico obiettivo: riaffermare il dominio delle elite sul resto della società in quegli anni di irrefrenabile fermento politico e di protagonismo delle masse popolari.

La ricetta è degna di una puntata di Black mirror: il funzionamento efficace di un sistema democratico”, si legge nel rapporto, “necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi”.

Non è una battuta. E’ letteralmente l’obiettivo politico che, a partire da quel 1975, si sono date esplicitamente le élite del nord globale per riaffermare il loro dominio sul resto della società: indurre all’apatia il maggior numero di persone possibili, che in quegli anni si erano messe in testa di rivendicare per se un ruolo attivo nel governo del pianeta.

Come ammettono esplicitamente anche i relatori del rapporto, ovviamente questo obiettivo “è intrinsecamente anti-democratico, ma”, sottolineano, “è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene”.

Una democrazia anti-democratica quindi: questo è stato il modello di società perseguito con ogni mezzo necessario nell’ultimo mezzo secolo.

Cosa mai sarebbe potuto andare storto?

Oggi parliamo di quello di cui avremmo bisogno, a ormai mezzo secolo di distanza, per ritornare a ostacolare i piani distopici di un manipolo di oligarchi.

1927. Il celebre giurista e politologo tedesco Carl Schmitt conclude uno dei suoi innumerevoli saggi: “Il concetto del politico”, lo intitola. Un testo profetico; in poche battute Schmitt infatti descrive con precisione quasi chirurgica le principali dinamiche che caratterizzeranno il conflitto geopolitico negli ormai quasi 100 anni successivi. La storia degli ultimi 100 anni infatti è storia di sanguinose guerre globali, in 3 atti: il primo è quello delle guerre coloniali ed imperialistiche, con il continente europeo come epicentro; il secondo è quello delle guerre neocoloniali, anticoloniali e di carattere prevalentemente ideologico, generate dalla guerra fredda tra USA e URSS; e infine il terzo è quello delle guerre postcoloniali e imperialistiche degli USA che si protraggono fino ad oggi.

Ma se per i primi due atti, il contenuto tragico del copione è universalmente riconosciuto, per il terzo le cose sono più complesse. Secondo la propaganda liberale infatti, il crollo del blocco sovietico sarebbe dovuto coincidere con un’era di pace, prosperità e armonia tra gli Stati, scandita dalla progressiva espansione di istituzioni economiche “neutrali” come i mercati globali. Gli Stati Uniti erano il cavaliere dalla splendente armatura, la globalizzazione neoliberista il suo destriero: una bella favola con un finale talmente lieto che, nell’ingenua formulazione di Fukuyama, avrebbe portato con sé la “fine della storia”.

Eppure, già Schmitt aveva previsto che questo lieto fine, questo mondo fatato in cui gli USA sarebbero stati i garanti, era appunto una vana speranza: “sarebbe un errore”, scrive Schmitt, “credere che una posizione politica raggiunta con l’aiuto della superiorità economica si presenti come «essenzialmente non bellicosa». Non bellicosa” – come si confà all’essenza dell’ideologia liberale – “è solo la terminologia” conclude Schmitt. La millantata non bellicosità, al contrario, si tradurrà necessariamente nel creare con ogni mezzo necessario “una situazione mondiale in cui poter far valere senza impedimenti il suo potere economico”, con la beffa che poi si arrogherà anche il diritto di considerare “violenza extraeconomica” qualsiasi azione compiuta “da un popolo, o un altro gruppo umano” nel tentativo di “sottrarsi agli effetti” di questo stesso strapotere.

L’ho già risentito, diciamo.

In particolare negli ultimi 30 anni, infatti, ogni qualvolta una parte del mondo cercava di sottrarsi alle imposizioni del mercato globale, che è tutto tranne che libero, veniva immediatamente riportata all’ordine imposto dalle direttive imperiali, sostenute da una logica ferrea: se il mercato globale è pace e prosperità, chiunque non voglia aderirvi acriticamente o è un pazzo o un potenziale pericolo, e pertanto può essere solamente isolato o “ricondotto alla ragione” con ogni mezzo necessario, a partire dall’utilizzo dei più avanzati strumenti tecnologici finalizzati all’uccisione fisica violenta, che però, più sono distruttivi e violenti, più vengono celati dietro il paravento di contorsioni retoriche che eliminano la guerra dal lessico comune e riempono la bocca della propaganda di termini apparentemente neutri come sanzioni, peacekeeping, guerre umanitarie e bombe intelligenti.

Ma cosa permette agli interessi egoistici specifici del nord globale e delle sue élite economiche di spacciarsi come neutrali?

E’ una delle domande a cui prova a rispondere Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto e Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno, nel suo ultimo monumentale lavoro: “Teologia politica e diritto”.

Ma cosa potrà mai avere a che fare il dominio, spacciato per neutrale, di una determinata logica economica, che è la cosa apparentemente più mondana possibile immaginabile, addirittura con la teologia?

Per capirlo, bisogna fare un passettino indietro, e tornare a quello che è considerato in assoluto il padre fondatore delle scienze politiche moderne: il filosofo britannico Thomas Hobbes, e il suo Leviatano, una creatura biblica che Hobbes riesuma per descrivere lo stato moderno, al quale “tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite”, che “è in grado di informare la volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni” (Thomas Hobbes, Leviatano).

Lo stato moderno di Hobbes è il successore logico, cronologico e immanente di Dio, e la politica non è altro che la secolarizzazione della teologia, e quindi, appunto,Teologia Politica, per dirla con Carl Schmitt che proprio così ha intitolato quella che è considerata la sua opera principale, nell’ormai lontanissimo 1922. Secondo Schmitt, tutti i concetti basilari della dottrina politica nell’era dello Stato Moderno sono concetti teologici secolarizzati: lo Stato quindi non sarebbe, come sostiene la teoria politica moderna, il prodotto di una ragione umana che taglia i ponti con il passato e la tradizione, ma altro non è che la trasposizione sul terreno dell’immanenza dell’idea tradizionale di Dio come fondatore dell’ordine; come sottolinea Preterossi, riprende proprio la riflessione di Hobbes, alla disperata ricerca di un nuovo potere ordinatore di fronte al tragico spettacolo del fratricidio della guerra civile inglese che si svolgeva proprio davanti ai suoi occhi. “Per stabilizzare un nuovo ordine è stato necessario sostituire i vecchi assoluti con un artificio in grado di imporsi, di ottenere obbedienza con la coazione ma anche in virtù del riconoscimento razionale dell’unico fine minimo incontrovertibile dell’ordine: la garanzia della sopravvivenza grazie alla neutralizzazione della generale predisposizione alla violenza, e in particolare quella identitaria che si sprigiona durante una guerra civile”.

Seguendo questa logica, quasi 4 secoli dopo, alla religione laica dello Stato Assoluto di Hobbes, sarebbe subentrata un’altra religione laica, che Preterossi definisce Teologia Economica Neoliberista. Se in Hobbes era il Leviatano a dover sopperire all’assenza di una giustificazione divina del potere per garantire l’ordine sociale, oggi è l’economia a proporsi come terreno neutrale su cui costruire una società non conflittuale. Il potere politico degli stati, in questo senso, deve limitarsi a garantire le condizioni di esistenza del libero mercato, in cui la conflittualità può esprimersi nel suo surrogato: la concorrenza. E quando libero mercato e concorrenza entrano in crisi, ecco che si ricorre a un’altra giustificazione, un altro principio proposto come “neutrale”: quello della tecnica e della tecnocrazia.

Non è più semplicemente questione di dialettica tra opzioni politiche contrapposte, ma è proprio la politica in se, come strumento per la progettazione razionale e condivisa della vita in comune – comunque venga declinata – a venire malamente cacciata fuori dal palcoscenico della storia.

La teologia economica neoliberale”, sottolinea lucidamente Preterossi, “è una teologia politica “anti-politica”, perché fa dell’immanenza un assoluto”, ed esclude così a priori ogni possibilità di trasformazione che non derivi direttamente dalle sue logiche intrinseche; ed ecco perché la ripoliticizzazione del dibattito pubblico, di per se, rappresenta una forma di resistenza rispetto al nuovo Leviatano della religione neoliberista. Preterossi, nell’ultima parte del libro, si interroga su quali siano le modalità attraverso le quali questa ripoliticizzazione e l’elaborazione di nuove grandi visioni condivise in grado di riattivare una mobilitazione collettiva – che sola può ambire a spostare concretamente i rapporti di forza all’interno della società a favore dei subalterni – potrebbe concretamente avverarsi; per farlo, ricorre in primo luogo a Gramsci, che secondo Preterossi avrebbe cercato con la sua opera e la sua militanza di trovare “un’altra via della laicità, non meno completa di quella liberale” di segno completamente diverso “perché non individualista, né privatista” ma, al contrario, capace di creare “un’adesione a un plusvalore collettivo che non passi dalla paura e dalla superstizione, ma da un’accettazione consapevole, nutrita di passioni razionali”.

Insomma, il Gramsci di Preterossi avrebbe cercato di fondare una vera e propria religione secolare che, sempre secondo Preterossi, di quella mobilitazione collettiva oggi indispensabile sarebbe una precondizione imprescindibile. E oggi? Quali sarebbero oggi le possibili religioni laiche necessarie per rivitalizzare la mobilitazione politica?

Preterossi, nella parte conclusiva del testo, affronta uno dei fenomeni su cui maggiormente si è concentrato il dibattito recente: il populismo. “Sarebbe molto riduttivo”, scrive Preterossi, “ritenere che le cause e il significato del populismo contemporaneo siano riconducibili unicamente agli effetti del web”; piuttosto bisognerebbe focalizzare l’attenzione verso quei “processi materiali di natura economica generati dalla globalizzazione finanziaria che minano la coesione sociale, da un lato, e all’esplosione delle contraddizioni della politica rappresentativa moderna che la spoliticizzazione neoliberale ha finito per enfatizzare, dall’altro. Più che della sola disintermediazione digitale”, continua Preterossi, il populismo sarebbe “la forma del politico contemporaneo, con le sue opacità e ambivalenze” e anche se “non è affatto detto che offra soluzioni efficaci”, sicuramente sarebbe per lo meno “in grado di saldare dimensione materiale e politica, ciò che la politica tradizionale oggi fa molta più fatica a fare”.

Senza alcuna forma di snobismo, Preterossi si chiede se il populismo possa costituire un nuovo vincolo sociale oppure soffra “degli effetti della disintermediazione”, tipici proprio dell’era del trionfo della religione neoliberale, replicandone le logica, ma una via di uscita potrebbe risiedere proprio nella declinazione che del macrocosmo populista danno autori come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che, secondo Preterossi, rappresenterebbero “una rottura con tutti il bagaglio dei pregiudizi sul populismo”, dal momento che il popolo che rappresenta l’oggetto della loro riflessione non è banalmente il popolo tenuto insieme dai legami di sangue e di appartenenza nazionale, ma molto più articolatamente il popolo tenuto insieme dalla convergenza delle diverse rivendicazioni dei subalterni.

E se nel frattempo anche tu credi che per rifondare davvero una nostra nuova religione laica prima di tutto ci sarebbe bisogno di un media che sta dalla parte dei subalterni, aiutaci a costruirlo:

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