HENRY KISSINGER – L’uomo che aiutò le oligarchie finanziarie USA a conquistare il mondo. E fallì.
Henry Kissinger è stato, con ogni probabilità, in assoluto l’uomo politico occidentale più importante degli ultimi 70 anni; uomo della mediazione e meritato Nobel per la pace per alcuni, feroce macellaio per altri, in realtà non è stato nessuna delle due cose o, al limite, entrambe. Il punto è che questo tipo di bilancio un po’ moralisticheggiante rischia di portarci completamente fuori strada: Henry Kissinger, infatti, è stato per eccellenza l’architetto e il comandante in capo del Superimperialismo, e cioè il progetto imperiale che mirava ad assicurare – attraverso la dittatura del dollaro da un lato e la proiezione militare globale dall’altro – l’egemonia delle oligarchie finanziarie USA sull’intero pianeta e, per perseguire questo piano, guerra e pace andavano dosate magistralmente. Kissinger è stato sia saggio pacifista – nella misura in cui ha sempre pensato che un conflitto tra grandi potenze avrebbe ostacolato il successo del Superimperialismo – che anche guerrafondaio feroce, perché sempre pronto a ricorrere alla violenza per impedire a tutti gli altri paesi di perseguire sovranità e democrazia e ostacolare, così, l’egemonia delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce: un piano sofisticatissimo che ha influenzato profondamente tutti i principali eventi storici degli ultimi 50 anni e che però oggi, tutto sommato, appare sempre più chiaramente come un sogno irrealizzabile. La dipartita di Kissinger quindi, da questo punto di vista, assume un valore simbolico che va ben oltre il fatto di cronaca e sembra suggellare il fallimento definitivo delle ambizioni imperiali ed egemoniche di Washington; la domanda, a questo punto, è “cosa verrà dopo?”.
Dal golpe di Pinochet in Cile alle missioni criminali in Laos, dalle strette di mano al dittatore sanguinario Videla alle armi proibite contro l’Iran, ma anche le trattative contro la proliferazione nucleare, la fine del conflitto in Vietnam, l’apertura alla Cina di Mao prima e di Deng poi e – addirittura – le critiche al regime razzista della minoranza bianca suprematista in Rhodesia che gli sono valse l’accusa di simpatizzante comunista: non c’è evento di rilievo nella storia degli ultimi 50 anni nel quale Kissinger non abbia ricoperto un ruolo di primissimo piano e, tutto sommato, non sempre necessariamente deleterio – almeno per le sue ricadute concrete; d’altronde, a guidare l’azione di Kissinger non era qualche pericolosissima ideologia visionaria e totalitaria, come una Annalena Braebock qualsiasi, ma la difesa a spada tratta degli interessi egoistici di una minuscola classe di oligarchi. E per difendere gli interessi materiali di qualcuno i sogni non servono; bisogna fare i conti con la realtà, anche quando non ci piace. Il realismo di Kissinger è stato definito dalla pubblicistica analfoliberaloide molto spesso come machiavellico; niente di più lontano dalla realtà. Se lo scienziato politico fiorentino, infatti, aveva dedicato tutta la sua vita a individuare gli strumenti concreti di governo che permettevano al Principe di mettere a freno le ambizioni delle oligarchie, lo spregiudicato pragmatismo di Kissinger aveva esattamente l’obiettivo opposto: trasformare l’intero pianeta in una riserva di caccia a disposizione delle oligarchie stesse, l’unica classe veramente transnazionale che, a suo avviso, sarebbe in grado di garantire – pur in mezzo a una miriade di sotterfugi – stabilità e benessere; d’altronde gli doveva tutto.
Nato in Germania in una famiglia ebraica piccolo borghese, dopo aver partecipato in un organismo di controspionaggio alla guerra contro il nazifascismo, Kissinger entra presto a far parte della fitta rete di prestigiosi think tank che gravitano attorno all’università di Harvard; è qui che, nel 1955, incontrerà Nelson Rockefeller – terzogenito del multimiliardario John Davison Rockefeller Jr. e rappresentante di spicco del partito repubblicano – che diventerà il suo principale sponsor. Per il grande salto, però, dovrà attendere altri 14 anni; è il 1969, gli USA sono attraversati da proteste oceaniche contro la guerra in Vietnam e alla Casa bianca viene eletto Richard Nixon. Su indicazione di Rockefeller accetta di incontrare l’inesperto Kissinger ed è amore a prima vista; poche ore di chiacchiere ed ecco che arriva l’offerta della vita: Nixon chiede a Kissinger di diventare il suo assistente per la Sicurezza Nazionale. Come ricorda Carolyn Eisenberg dell’università di Hofstra in una lunga intervista rilasciata a Jacobin “Quando viene nominato, Kissinger, in realtà non ha nessuna vera esperienza politica, e non ha idea di come funzioni concretamente la macchina amministrativa” ma, come dicono i francesi, se ne sbatte il cazzo. Anzi, decide da subito di fare a modo suo: “Nell’istituire l’ufficio per la sicurezza nazionale” commenta la Eisenberg “farà molta attenzione a massimizzare il suo potere personale, e farà in modo che tutti i funzionari di gabinetto e il resto del personale, per raggiungere il presidente, debbano necessariamente passare tramite lui” e questo, continua la Eisenberg, gli permetterà “di influenzare la politica in misura sproporzionata rispetto al suo ruolo ufficiale”. Un potere che, sin da subito, metterà al servizio di una classe specifica: “Kissinger era” spiega ancora la Eisenberg “il terminale politico degli esponenti dell’alta società dell’East Coast, che orbitavano attorno ad Harvard e a Wall Street, a partire dai Rockefeller”.
Le oligarchie che Kissinger e Nixon devono servire, però, non stanno navigando esattamente in buone acque: la quota di prodotto interno lordo che finisce nelle loro tasche, da aver sfiorato il picco del 50% tra le due guerre, sta precipitando sempre più verso quota 30% – pochi punti percentuali in più della quota che finisce nelle tasche dei lavoratori sindacalizzati. Nel 1930 il gap era di 30 punti e la situazione internazionale, tra l’umiliazione che gli USA stanno subendo in Vietnam e, in generale, l’irruzione delle lotte anticoloniali – sostenute o meno dall’Unione Sovietica in buona parte del globo – minaccia in modo sempre più evidente il primato di Washington. Per assecondare le ambizioni egemoniche globali delle oligarchie nazionali c’è bisogno di una rivoluzione copernicana, e quella rivoluzione copernicana ha un nome preciso: la fine del sistema di Bretton Woods e della convertibilità del dollaro in oro. E’ la precondizione necessaria per permettere quello che comincerà ad accadere su scala massiccia soltanto a partire da qualche decennio dopo quando, per sfuggire alla crescita di potere relativo dei lavoratori in casa propria, si comincerà a delocalizzare a destra e manca in tutto il pianeta, ma – grazie al dollaro ormai sganciato dall’oro e sempre di più valuta di riserva globale – riuscendo comunque a tenere ben saldo il controllo dell’economia grazie alla concentrazione del grosso della ricchezza globale nelle mani di una ristrettissima oligarchia finanziaria, che è appunto – in soldoni – quello che Michael Hudson definisce Superimperialismo.
Per portare avanti questo piano Nixon e Kissinger hanno bisogno di due cose: da un lato, mantenere un certo livello di pace complessiva che permetta ai capitali e ai flussi commerciali di andarsene avanti e indietro per il pianeta senza correre particolari rischi e, quindi, evitare l’escalation del conflitto tra grandi potenze; dall’altro, invece, evitare che i vari paesi in giro per il mondo si mettano in testa di sfruttare l’ondata delle lotte anticoloniali per emanciparsi pure dal neocolonialismo di carattere più economico che militare a stelle e strisce e di trasformarsi, da repubbliche delle banane eterodirette e in preda delle scorribande dei capitali statunitensi, a veri e propri stati sovrani.
Ed ecco così il grande piano complessivo che tiene insieme le due anime del buon vecchio Kissinger: pacifista con le grandi potenze e spietato guerrafondaio con i paesi “non allineati”, e qui gli esempi letteralmente si sprecano, a partire – ovviamente – da quello che gli statunitensi considerano da sempre il loro cortile di casa: l’America latina in pieno subbuglio. Meno di 10 prima l’amministrazione Kennedy, per impedire che l’esempio della rivoluzione patriottica cubana contagiasse l’intero continente, aveva avviato un piano per la cooperazione allo sviluppo e l’integrazione economica noto come Alleanza per il progresso; come il suo proponente, è durato come un gatto in tangenziale. I pochi passi avanti che aveva innescato, invece di tranquillizzare le élite locali e i latifondisti, li avevano messi sul piedi di guerra: ed ecco così che, già nel ‘64, arriva il golpe militare in Brasile, pienamente sostenuto dagli USA che avevano questi vizietti ben prima che arrivasse Kissinger. E per reazione, di fronte al clamoroso fallimento dell’Alleanza per il progresso – sempre prima che arrivasse Kissinger – i vari movimenti dell’America latina si erano andati radicalizzando: come ricorda Aldo Marchesi dell’università della Repubblica in Uruguay “Un vertice dei ministri degli esteri latinoamericani del 1969 pubblicherà il famoso “Consenso di Viña del Mar” che accusava le potenze mondiali di perpetuare il sottosviluppo nella regione. Ma un ulteriore radicalizzazione” continua Marchesi “avverrà con l’ascesa nel 1973 del peronista di sinistra Hector José Cámpora alla presidenza dell’Argentina, che aumenterà la prospettiva di un asse Lima – Santiago – Buenos Aires – L’Avana come alternativa all’egemonia americana nella regione”. “I regimi militari di Bolivia e Perù” continua ancora Marchesi “si allontaneranno dall’influenza americana, iniziando a proporre un programma di trasformazione sociale legato alla nazionalizzazione delle risorse naturali e alla trasformazione agraria. E In Cile” prosegue ancora “la coalizione di sinistra che perseguiva il socialismo con mezzi pacifici e legali ispirerà coalizioni nei paesi vicini, come il Fronte Ampio dell’Uruguay”.
La reazione delle élite locali sostenute da Washington sarà violentissima: la prima pedina a cadere fu la Bolivia, dove Hugo Banzer Suarez mette fine al breve tentativo di golpe patriottico guidato dal leader socialista Juan Jose Torres; poi, nel giugno del 1973, fu il turno dell’Uruguay dove, contro l’insurrezione dei Tupamaros, il presidente Juan Maria Bordaberry portò a termine una sorta di auto – golpe che inaugurerà una dittatura militare che durerà fino al 1985; poco dopo fu il turno del Cile di Salvador Allende, spodestato dal golpe militare di Pinochet sostenuto dagli USA e da Kissinger in persona, e che aprì la strada a una feroce dittatura che non si limitò a reprimere nel sangue gli elementi più avanzati della società cilena, ma anche a trasformare il Cile nel laboratorio mondiale del neoliberismo, che gettò nella miseria masse sterminate di lavoratori e cittadini comuni; e infine, nel 1976, ecco che arriva l’ora della giunta militare di Videla in Argentina che, giusto per non lasciare nessuno spazio all’ambiguità, darà le chiavi della politica economica del paese a Jose Alfredo Martinez de Hoz, talebano dell’ultraliberismo e amico personale di David Rockefeller (fratello minore di Nelson), lo sponsor ufficiale di Henry Kissinger. Pochi mesi dopo, mentre in tutto il mondo montava l’indignazione contro contro le carneficine dei regimi cileno ed argentino, Kissinger puntava a vincere direttamente il premio simpatia in un tour del continente dove assicurava il pieno sostegno della sua amministrazione alla guerra di civiltà che questi regimi fascisti stavano conducendo contro i capelloni locali. Ne valeva la pena: a differenza che in Indocina, in America Latina questi simpatici compagni di ventura avevano garantito a Kissinger di portare a compimento con successo la sua strategia; il rischio di avere degli stati sovrani nel cortile di casa era scampato e l’agenda neoliberista delle dittature consolidava il controllo totale delle oligarchie finanziarie USA sull’economia locale.
Un copione leggermente diverso – ma con una morale molto simile – è quello che è andato in scena qualche anno dopo un pochino più a nord, nell’America centrale; anche qui c’era stata una lunga annata di rivolte popolari: nel 1979 il Fronte di liberazione nazionale sandinista in Nicaragua aveva messo fine alla dittatura – sostenuta da Washington – di Somoza; nel 1980 in El Salvador 5 organizzazioni di sinistra si erano coalizzate ed avevano dato vita al Fronte di liberazione nazionale Farabundo Marti e, nel 1982, in Guatemala 4 organizzazioni della guerriglia avevano dato vita all’Unità rivoluzionaria nazionale guatemalteca. Alla Casa bianca c’era Reagan che, ironia della sorte, aveva fondato buona parte della sua ascesa – all’interno del partito repubblicano prima e alla presidenza poi – in buona parte proprio criticando da destra Henry Kissinger, accusato di essere troppo tenero con le dittature comuniste; la reazione all’ascesa dei movimenti di liberazione del Centroamerica da parte delle élite locali fu feroce, ma gli USA la sostennero senza se e senza ma.
Ma i risultati non è che fossero proprio entusiasmanti: “Il fronte sandinista” ricorda Hilary Goodfriend dell’università della California, sempre su Jacobin, “era ancora al potere, nonostante il sostegno nordamericano a una guerra segreta condotta in gran parte dall’Honduras, che fu invaso dalle forze armate statunitensi al punto da essere rinominato “USS Honduras”. Nel frattempo” continua la Goodfriend “lo stato guatemalteco stava conducendo una guerra genocida contro le comunità indigene rurali, e l’esercito salvadoregno e gli squadroni della morte ad esso associati attiravano la condanna internazionale per il loro flagrante disprezzo per la vita civile. Joan Didion scrisse nel 1982 che l’impegno americano in El Salvador sembrava basato sull’autosuggestione, un lavoro onirico ideato per oscurare qualsiasi intelligenza che potesse turbare il sognatore”.
In parole povere, la situazione gli stava completamente sfuggendo di mano: serviva una svolta. Ed ecco così che Reagan chiama a presiedere la Commissione nazionale bipartisan per il centro America proprio il vecchio Henry che, sostanzialmente, ritira fuori la vecchia idea che John Kennedy aveva perseguito per l’America latina: per sconfiggere definitivamente la guerriglia bisogna dare un bel po’ di quattrini ai governi in carica, in modo che possano accontentare con logiche clientelari i bisogni primari delle popolazioni e indebolire la base sociale della guerriglia mentre reprimono quel poco che ne rimane. Kissinger riesce a farsi accordare la bellezza di 8 miliardi di dollari di aiuti, più altri 400 milioni di dollari di aiuti militari; “E’ un mandato per il socialismo, finanziato dai contribuenti statunitensi” tuonò allora il senatore ultrareazionario Jesse Helms.
In realtà fu un ottimo investimento che, un’altra volta, favorì il dominio delle oligarchie USA sul continente. La prima fase fu quella della repressione, con l’ONU che nel ‘93 ha certificato 40 mila morti in Nicaragua, 75 mila in El Salvador, e 200 mila in Guatemala; e poi, subito dopo, arrivò anche il tempo per gli affari: in cambio degli aiuti, gli USA imposero ai governi fantoccio della regione la solita lunga serie di ricette lacrime e sangue della classica cucina neoliberista creando, così, opportunità straordinarie di investimento per le oligarchie che Kissinger si era sempre proposto di servire fedelmente. Nel frattempo però, lungo tutti questi anni, Kissinger ha sempre lavorato anche per stemperare il conflitto diretto tra grandi potenze; il piano era chiaro e decisamente insidioso: invece che sconfiggere il socialismo con le armi, lo sconfiggeremo con i quattrini. L’idea – che avrebbe continuato a influenzare la politica estera USA per decenni – era che se riusciamo a imporre riforme neoliberali ai nostri partner in cambio di una montagna di quattrini di investimenti, questi paesi gradualmente perderanno la loro sovranità in favore dei detentori di capitale e, alla fine, diventeranno necessariamente soltanto altri pezzettini della grande mappa del dominio delle oligarchie finanziarie e – quindi – del mondo unipolare guidato dagli USA e imposto più o meno gentilmente proprio attraverso la globalizzazione neoliberista.
Una missione che Kissinger non ha perseguito soltanto da uomo politico, ma anche da uomo d’affari: nel 1982, infatti, fonda a New York la società di consulenza Kissinger Associates; nei decenni successivi aiuterà il grande capitale USA a fare affari in giro per il mondo approfittando direttamente della rete di contatti di Kissinger. A finanziare l’operazione sarà Goldman Sachs e gli affari andranno così bene che Kissinger ripagherà il debito in appena due anni, invece dei 5 preventivati. E graziarcazzo: proprio nel 1982, infatti, il Messico dichiara di non essere in grado di ripagare il suo debito estero e, nell’arco di pochi mesi, lo seguono a ruota diverse altre decine di paesi; a questo punto entra in ballo l’FMI, che si offre di aiutare i paesi a ristrutturare il debito in cambio delle solite riforme lacrime e sangue e di una marea di privatizzazioni. Per i clienti della Kissinger Associates una vera cuccagna; col senno di poi, però, oggi possiamo dire che la grande strategia di Kissinger e il sogno del Superimperialismo avranno fatto fare una marea di soldi a un ristretto gruppo di amichetti ma, alla fine, sono fallite: non solo la Cina non ha mai abbracciato pienamente la strada della rivoluzione neoliberista e – al contrario di quello che sperava Kissinger – ha usato gli investimenti esteri per rafforzare la sua indipendenza e la sua sovranità invece che per distruggerla, ma quello a cui assistiamo negli ultimi anni è proprio che, nonostante tutte le lusinghe del grande capitale USA, sempre più paesi guardano alla parabola cinese come al modello a cui ispirarsi per innescare un vero processo di crescita economica anche a casa loro.
Quello che però sappiamo, anche, è che questo esito non era per niente scontato: come ha raccontato magistralmente, ad esempio, Isabella Weber nel suo bellissimo “How China escaped shock therapy” (Come la Cina ha evitato la shock therapy), la Cina ha rischiato più volte di seguire le orme della Russia di quel criminale svendipatria di Eltsin, di suicidarsi e di innescare quel tipo di cambiamento traumatico che l’avrebbe resa succube del capitale finanziario a stelle e strisce; nei confronti di tutti quei funzionari cinesi che, lontani dalle luci della ribalta, si sono battuti giorno dopo giorno affinché questo non avvenisse, siamo tutti debitori e forse – anche se in maniera diversa – siamo debitori anche nei confronti di quei politici e funzionari americani che dopo Kissinger hanno abbandonato il suo realismo pragmatico, hanno perseguito sguaiatamente il sogno irrealizzabile di un primato USA fondato sulla forza bruta e, in questo modo, hanno aiutato prima i cinesi e – oggi – tutto il resto del Sud globale ad aprire gli occhi e a non cedere alle lusinghe degli oligarchi a stelle e strisce.
Non tutti i mali vengono per nuocere: il filosofo tedesco Wilhelm Wundt la chiamava “eterogenesi dei fini”; ti poni un obiettivo, ma siccome non capisci un cazzo scaturisci un effetto completamente diverso. Succede spesso anche a noi, a quelli che si sforzano di stare dalla parte giusta della storia; per questo è indispensabile un vero e proprio media che ci permetta di orientarci e di non cadere nelle trappole della propaganda dell’1%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è George W. Bush