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HENRY KISSINGER – L’uomo che aiutò le oligarchie finanziarie USA a conquistare il mondo. E fallì.

Henry Kissinger è stato, con ogni probabilità, in assoluto l’uomo politico occidentale più importante degli ultimi 70 anni; uomo della mediazione e meritato Nobel per la pace per alcuni, feroce macellaio per altri, in realtà non è stato nessuna delle due cose o, al limite, entrambe. Il punto è che questo tipo di bilancio un po’ moralisticheggiante rischia di portarci completamente fuori strada: Henry Kissinger, infatti, è stato per eccellenza l’architetto e il comandante in capo del Superimperialismo, e cioè il progetto imperiale che mirava ad assicurare – attraverso la dittatura del dollaro da un lato e la proiezione militare globale dall’altro – l’egemonia delle oligarchie finanziarie USA sull’intero pianeta e, per perseguire questo piano, guerra e pace andavano dosate magistralmente. Kissinger è stato sia saggio pacifista – nella misura in cui ha sempre pensato che un conflitto tra grandi potenze avrebbe ostacolato il successo del Superimperialismo – che anche guerrafondaio feroce, perché sempre pronto a ricorrere alla violenza per impedire a tutti gli altri paesi di perseguire sovranità e democrazia e ostacolare, così, l’egemonia delle oligarchie finanziarie a stelle e strisce: un piano sofisticatissimo che ha influenzato profondamente tutti i principali eventi storici degli ultimi 50 anni e che però oggi, tutto sommato, appare sempre più chiaramente come un sogno irrealizzabile. La dipartita di Kissinger quindi, da questo punto di vista, assume un valore simbolico che va ben oltre il fatto di cronaca e sembra suggellare il fallimento definitivo delle ambizioni imperiali ed egemoniche di Washington; la domanda, a questo punto, è “cosa verrà dopo?”.

Henry Kissinger

Dal golpe di Pinochet in Cile alle missioni criminali in Laos, dalle strette di mano al dittatore sanguinario Videla alle armi proibite contro l’Iran, ma anche le trattative contro la proliferazione nucleare, la fine del conflitto in Vietnam, l’apertura alla Cina di Mao prima e di Deng poi e – addirittura – le critiche al regime razzista della minoranza bianca suprematista in Rhodesia che gli sono valse l’accusa di simpatizzante comunista: non c’è evento di rilievo nella storia degli ultimi 50 anni nel quale Kissinger non abbia ricoperto un ruolo di primissimo piano e, tutto sommato, non sempre necessariamente deleterio – almeno per le sue ricadute concrete; d’altronde, a guidare l’azione di Kissinger non era qualche pericolosissima ideologia visionaria e totalitaria, come una Annalena Braebock qualsiasi, ma la difesa a spada tratta degli interessi egoistici di una minuscola classe di oligarchi. E per difendere gli interessi materiali di qualcuno i sogni non servono; bisogna fare i conti con la realtà, anche quando non ci piace. Il realismo di Kissinger è stato definito dalla pubblicistica analfoliberaloide molto spesso come machiavellico; niente di più lontano dalla realtà. Se lo scienziato politico fiorentino, infatti, aveva dedicato tutta la sua vita a individuare gli strumenti concreti di governo che permettevano al Principe di mettere a freno le ambizioni delle oligarchie, lo spregiudicato pragmatismo di Kissinger aveva esattamente l’obiettivo opposto: trasformare l’intero pianeta in una riserva di caccia a disposizione delle oligarchie stesse, l’unica classe veramente transnazionale che, a suo avviso, sarebbe in grado di garantire – pur in mezzo a una miriade di sotterfugi – stabilità e benessere; d’altronde gli doveva tutto.
Nato in Germania in una famiglia ebraica piccolo borghese, dopo aver partecipato in un organismo di controspionaggio alla guerra contro il nazifascismo, Kissinger entra presto a far parte della fitta rete di prestigiosi think tank che gravitano attorno all’università di Harvard; è qui che, nel 1955, incontrerà Nelson Rockefeller – terzogenito del multimiliardario John Davison Rockefeller Jr. e rappresentante di spicco del partito repubblicano – che diventerà il suo principale sponsor. Per il grande salto, però, dovrà attendere altri 14 anni; è il 1969, gli USA sono attraversati da proteste oceaniche contro la guerra in Vietnam e alla Casa bianca viene eletto Richard Nixon. Su indicazione di Rockefeller accetta di incontrare l’inesperto Kissinger ed è amore a prima vista; poche ore di chiacchiere ed ecco che arriva l’offerta della vita: Nixon chiede a Kissinger di diventare il suo assistente per la Sicurezza Nazionale. Come ricorda Carolyn Eisenberg dell’università di Hofstra in una lunga intervista rilasciata a Jacobin “Quando viene nominato, Kissinger, in realtà non ha nessuna vera esperienza politica, e non ha idea di come funzioni concretamente la macchina amministrativa” ma, come dicono i francesi, se ne sbatte il cazzo. Anzi, decide da subito di fare a modo suo: “Nell’istituire l’ufficio per la sicurezza nazionale” commenta la Eisenberg “farà molta attenzione a massimizzare il suo potere personale, e farà in modo che tutti i funzionari di gabinetto e il resto del personale, per raggiungere il presidente, debbano necessariamente passare tramite lui” e questo, continua la Eisenberg, gli permetterà “di influenzare la politica in misura sproporzionata rispetto al suo ruolo ufficiale”. Un potere che, sin da subito, metterà al servizio di una classe specifica: “Kissinger era” spiega ancora la Eisenberg “il terminale politico degli esponenti dell’alta società dell’East Coast, che orbitavano attorno ad Harvard e a Wall Street, a partire dai Rockefeller”.
Le oligarchie che Kissinger e Nixon devono servire, però, non stanno navigando esattamente in buone acque: la quota di prodotto interno lordo che finisce nelle loro tasche, da aver sfiorato il picco del 50% tra le due guerre, sta precipitando sempre più verso quota 30% – pochi punti percentuali in più della quota che finisce nelle tasche dei lavoratori sindacalizzati. Nel 1930 il gap era di 30 punti e la situazione internazionale, tra l’umiliazione che gli USA stanno subendo in Vietnam e, in generale, l’irruzione delle lotte anticoloniali – sostenute o meno dall’Unione Sovietica in buona parte del globo – minaccia in modo sempre più evidente il primato di Washington. Per assecondare le ambizioni egemoniche globali delle oligarchie nazionali c’è bisogno di una rivoluzione copernicana, e quella rivoluzione copernicana ha un nome preciso: la fine del sistema di Bretton Woods e della convertibilità del dollaro in oro. E’ la precondizione necessaria per permettere quello che comincerà ad accadere su scala massiccia soltanto a partire da qualche decennio dopo quando, per sfuggire alla crescita di potere relativo dei lavoratori in casa propria, si comincerà a delocalizzare a destra e manca in tutto il pianeta, ma – grazie al dollaro ormai sganciato dall’oro e sempre di più valuta di riserva globale – riuscendo comunque a tenere ben saldo il controllo dell’economia grazie alla concentrazione del grosso della ricchezza globale nelle mani di una ristrettissima oligarchia finanziaria, che è appunto – in soldoni – quello che Michael Hudson definisce Superimperialismo.

Golda Meir, Richard Nixon e Henry Kissinger

Per portare avanti questo piano Nixon e Kissinger hanno bisogno di due cose: da un lato, mantenere un certo livello di pace complessiva che permetta ai capitali e ai flussi commerciali di andarsene avanti e indietro per il pianeta senza correre particolari rischi e, quindi, evitare l’escalation del conflitto tra grandi potenze; dall’altro, invece, evitare che i vari paesi in giro per il mondo si mettano in testa di sfruttare l’ondata delle lotte anticoloniali per emanciparsi pure dal neocolonialismo di carattere più economico che militare a stelle e strisce e di trasformarsi, da repubbliche delle banane eterodirette e in preda delle scorribande dei capitali statunitensi, a veri e propri stati sovrani.
Ed ecco così il grande piano complessivo che tiene insieme le due anime del buon vecchio Kissinger: pacifista con le grandi potenze e spietato guerrafondaio con i paesi “non allineati”, e qui gli esempi letteralmente si sprecano, a partire – ovviamente – da quello che gli statunitensi considerano da sempre il loro cortile di casa: l’America latina in pieno subbuglio. Meno di 10 prima l’amministrazione Kennedy, per impedire che l’esempio della rivoluzione patriottica cubana contagiasse l’intero continente, aveva avviato un piano per la cooperazione allo sviluppo e l’integrazione economica noto come Alleanza per il progresso; come il suo proponente, è durato come un gatto in tangenziale. I pochi passi avanti che aveva innescato, invece di tranquillizzare le élite locali e i latifondisti, li avevano messi sul piedi di guerra: ed ecco così che, già nel ‘64, arriva il golpe militare in Brasile, pienamente sostenuto dagli USA che avevano questi vizietti ben prima che arrivasse Kissinger. E per reazione, di fronte al clamoroso fallimento dell’Alleanza per il progresso – sempre prima che arrivasse Kissinger – i vari movimenti dell’America latina si erano andati radicalizzando: come ricorda Aldo Marchesi dell’università della Repubblica in Uruguay “Un vertice dei ministri degli esteri latinoamericani del 1969 pubblicherà il famoso “Consenso di Viña del Mar” che accusava le potenze mondiali di perpetuare il sottosviluppo nella regione. Ma un ulteriore radicalizzazione” continua Marchesi “avverrà con l’ascesa nel 1973 del peronista di sinistra Hector José Cámpora alla presidenza dell’Argentina, che aumenterà la prospettiva di un asse Lima – Santiago – Buenos Aires – L’Avana come alternativa all’egemonia americana nella regione”. “I regimi militari di Bolivia e Perù” continua ancora Marchesi “si allontaneranno dall’influenza americana, iniziando a proporre un programma di trasformazione sociale legato alla nazionalizzazione delle risorse naturali e alla trasformazione agraria. E In Cile” prosegue ancora “la coalizione di sinistra che perseguiva il socialismo con mezzi pacifici e legali ispirerà coalizioni nei paesi vicini, come il Fronte Ampio dell’Uruguay”.
La reazione delle élite locali sostenute da Washington sarà violentissima: la prima pedina a cadere fu la Bolivia, dove Hugo Banzer Suarez mette fine al breve tentativo di golpe patriottico guidato dal leader socialista Juan Jose Torres; poi, nel giugno del 1973, fu il turno dell’Uruguay dove, contro l’insurrezione dei Tupamaros, il presidente Juan Maria Bordaberry portò a termine una sorta di auto – golpe che inaugurerà una dittatura militare che durerà fino al 1985; poco dopo fu il turno del Cile di Salvador Allende, spodestato dal golpe militare di Pinochet sostenuto dagli USA e da Kissinger in persona, e che aprì la strada a una feroce dittatura che non si limitò a reprimere nel sangue gli elementi più avanzati della società cilena, ma anche a trasformare il Cile nel laboratorio mondiale del neoliberismo, che gettò nella miseria masse sterminate di lavoratori e cittadini comuni; e infine, nel 1976, ecco che arriva l’ora della giunta militare di Videla in Argentina che, giusto per non lasciare nessuno spazio all’ambiguità, darà le chiavi della politica economica del paese a Jose Alfredo Martinez de Hoz, talebano dell’ultraliberismo e amico personale di David Rockefeller (fratello minore di Nelson), lo sponsor ufficiale di Henry Kissinger. Pochi mesi dopo, mentre in tutto il mondo montava l’indignazione contro contro le carneficine dei regimi cileno ed argentino, Kissinger puntava a vincere direttamente il premio simpatia in un tour del continente dove assicurava il pieno sostegno della sua amministrazione alla guerra di civiltà che questi regimi fascisti stavano conducendo contro i capelloni locali. Ne valeva la pena: a differenza che in Indocina, in America Latina questi simpatici compagni di ventura avevano garantito a Kissinger di portare a compimento con successo la sua strategia; il rischio di avere degli stati sovrani nel cortile di casa era scampato e l’agenda neoliberista delle dittature consolidava il controllo totale delle oligarchie finanziarie USA sull’economia locale.
Un copione leggermente diverso – ma con una morale molto simile – è quello che è andato in scena qualche anno dopo un pochino più a nord, nell’America centrale; anche qui c’era stata una lunga annata di rivolte popolari: nel 1979 il Fronte di liberazione nazionale sandinista in Nicaragua aveva messo fine alla dittatura – sostenuta da Washington – di Somoza; nel 1980 in El Salvador 5 organizzazioni di sinistra si erano coalizzate ed avevano dato vita al Fronte di liberazione nazionale Farabundo Marti e, nel 1982, in Guatemala 4 organizzazioni della guerriglia avevano dato vita all’Unità rivoluzionaria nazionale guatemalteca. Alla Casa bianca c’era Reagan che, ironia della sorte, aveva fondato buona parte della sua ascesa – all’interno del partito repubblicano prima e alla presidenza poi – in buona parte proprio criticando da destra Henry Kissinger, accusato di essere troppo tenero con le dittature comuniste; la reazione all’ascesa dei movimenti di liberazione del Centroamerica da parte delle élite locali fu feroce, ma gli USA la sostennero senza se e senza ma.
Ma i risultati non è che fossero proprio entusiasmanti: “Il fronte sandinista” ricorda Hilary Goodfriend dell’università della California, sempre su Jacobin, “era ancora al potere, nonostante il sostegno nordamericano a una guerra segreta condotta in gran parte dall’Honduras, che fu invaso dalle forze armate statunitensi al punto da essere rinominato “USS Honduras”. Nel frattempo” continua la Goodfriend “lo stato guatemalteco stava conducendo una guerra genocida contro le comunità indigene rurali, e l’esercito salvadoregno e gli squadroni della morte ad esso associati attiravano la condanna internazionale per il loro flagrante disprezzo per la vita civile. Joan Didion scrisse nel 1982 che l’impegno americano in El Salvador sembrava basato sull’autosuggestione, un lavoro onirico ideato per oscurare qualsiasi intelligenza che potesse turbare il sognatore”.

Ronald Reagan e Henry Kissinger

In parole povere, la situazione gli stava completamente sfuggendo di mano: serviva una svolta. Ed ecco così che Reagan chiama a presiedere la Commissione nazionale bipartisan per il centro America proprio il vecchio Henry che, sostanzialmente, ritira fuori la vecchia idea che John Kennedy aveva perseguito per l’America latina: per sconfiggere definitivamente la guerriglia bisogna dare un bel po’ di quattrini ai governi in carica, in modo che possano accontentare con logiche clientelari i bisogni primari delle popolazioni e indebolire la base sociale della guerriglia mentre reprimono quel poco che ne rimane. Kissinger riesce a farsi accordare la bellezza di 8 miliardi di dollari di aiuti, più altri 400 milioni di dollari di aiuti militari; “E’ un mandato per il socialismo, finanziato dai contribuenti statunitensi” tuonò allora il senatore ultrareazionario Jesse Helms.
In realtà fu un ottimo investimento che, un’altra volta, favorì il dominio delle oligarchie USA sul continente. La prima fase fu quella della repressione, con l’ONU che nel ‘93 ha certificato 40 mila morti in Nicaragua, 75 mila in El Salvador, e 200 mila in Guatemala; e poi, subito dopo, arrivò anche il tempo per gli affari: in cambio degli aiuti, gli USA imposero ai governi fantoccio della regione la solita lunga serie di ricette lacrime e sangue della classica cucina neoliberista creando, così, opportunità straordinarie di investimento per le oligarchie che Kissinger si era sempre proposto di servire fedelmente. Nel frattempo però, lungo tutti questi anni, Kissinger ha sempre lavorato anche per stemperare il conflitto diretto tra grandi potenze; il piano era chiaro e decisamente insidioso: invece che sconfiggere il socialismo con le armi, lo sconfiggeremo con i quattrini. L’idea – che avrebbe continuato a influenzare la politica estera USA per decenni – era che se riusciamo a imporre riforme neoliberali ai nostri partner in cambio di una montagna di quattrini di investimenti, questi paesi gradualmente perderanno la loro sovranità in favore dei detentori di capitale e, alla fine, diventeranno necessariamente soltanto altri pezzettini della grande mappa del dominio delle oligarchie finanziarie e – quindi – del mondo unipolare guidato dagli USA e imposto più o meno gentilmente proprio attraverso la globalizzazione neoliberista.
Una missione che Kissinger non ha perseguito soltanto da uomo politico, ma anche da uomo d’affari: nel 1982, infatti, fonda a New York la società di consulenza Kissinger Associates; nei decenni successivi aiuterà il grande capitale USA a fare affari in giro per il mondo approfittando direttamente della rete di contatti di Kissinger. A finanziare l’operazione sarà Goldman Sachs e gli affari andranno così bene che Kissinger ripagherà il debito in appena due anni, invece dei 5 preventivati. E graziarcazzo: proprio nel 1982, infatti, il Messico dichiara di non essere in grado di ripagare il suo debito estero e, nell’arco di pochi mesi, lo seguono a ruota diverse altre decine di paesi; a questo punto entra in ballo l’FMI, che si offre di aiutare i paesi a ristrutturare il debito in cambio delle solite riforme lacrime e sangue e di una marea di privatizzazioni. Per i clienti della Kissinger Associates una vera cuccagna; col senno di poi, però, oggi possiamo dire che la grande strategia di Kissinger e il sogno del Superimperialismo avranno fatto fare una marea di soldi a un ristretto gruppo di amichetti ma, alla fine, sono fallite: non solo la Cina non ha mai abbracciato pienamente la strada della rivoluzione neoliberista e – al contrario di quello che sperava Kissinger – ha usato gli investimenti esteri per rafforzare la sua indipendenza e la sua sovranità invece che per distruggerla, ma quello a cui assistiamo negli ultimi anni è proprio che, nonostante tutte le lusinghe del grande capitale USA, sempre più paesi guardano alla parabola cinese come al modello a cui ispirarsi per innescare un vero processo di crescita economica anche a casa loro.
Quello che però sappiamo, anche, è che questo esito non era per niente scontato: come ha raccontato magistralmente, ad esempio, Isabella Weber nel suo bellissimo “How China escaped shock therapy” (Come la Cina ha evitato la shock therapy), la Cina ha rischiato più volte di seguire le orme della Russia di quel criminale svendipatria di Eltsin, di suicidarsi e di innescare quel tipo di cambiamento traumatico che l’avrebbe resa succube del capitale finanziario a stelle e strisce; nei confronti di tutti quei funzionari cinesi che, lontani dalle luci della ribalta, si sono battuti giorno dopo giorno affinché questo non avvenisse, siamo tutti debitori e forse – anche se in maniera diversa – siamo debitori anche nei confronti di quei politici e funzionari americani che dopo Kissinger hanno abbandonato il suo realismo pragmatico, hanno perseguito sguaiatamente il sogno irrealizzabile di un primato USA fondato sulla forza bruta e, in questo modo, hanno aiutato prima i cinesi e – oggi – tutto il resto del Sud globale ad aprire gli occhi e a non cedere alle lusinghe degli oligarchi a stelle e strisce.
Non tutti i mali vengono per nuocere: il filosofo tedesco Wilhelm Wundt la chiamava “eterogenesi dei fini”; ti poni un obiettivo, ma siccome non capisci un cazzo scaturisci un effetto completamente diverso. Succede spesso anche a noi, a quelli che si sforzano di stare dalla parte giusta della storia; per questo è indispensabile un vero e proprio media che ci permetta di orientarci e di non cadere nelle trappole della propaganda dell’1%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

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Dalla tecnocrazia alla teologia politica: Come ostacolare il piano del capitale contro la democrazia

Una lunga guerra contro la democrazia. E’ questo in sostanza il fulcro dell’azione politica delle élite del nord globale durante l’ultimo ormai mezzo secolo proprio mentre, paradossalmente, il ricorso strumentale proprio al concetto di democrazia, si affermava come il principale paravento ideologico dietro il quale dissimulare il ritorno all’impiego della forza bruta su una scala raramente vista prima nella storia dell’umanità; una guerra pianificata nei minimi dettagli, esplicitamente.

Samuel P. Huntington, Copyright World Economic Forum

Siamo nel 1975 e un gruppo di studiosi e ricercatori capeggiati dal famigerato politologo statunitense Samuel Huntington pubblica un celebre rapporto destinato a fare epoca. “La crisi della democrazia”, si intitola, “sulla governabilità delle democrazie”; un lavoro su commissione con un committente di eccellenza.

E’ la famigerata Commissione Trilaterale, il think tank che da 50 anni anima i pensieri più contorti di ogni vero complottista e purtroppo, spesso, non senza ragioni; era stata fondata 2 anni prima da David Rockefeller in persona e da allora si era posta un unico obiettivo: riaffermare il dominio delle elite sul resto della società in quegli anni di irrefrenabile fermento politico e di protagonismo delle masse popolari.

La ricetta è degna di una puntata di Black mirror: il funzionamento efficace di un sistema democratico”, si legge nel rapporto, “necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi”.

Non è una battuta. E’ letteralmente l’obiettivo politico che, a partire da quel 1975, si sono date esplicitamente le élite del nord globale per riaffermare il loro dominio sul resto della società: indurre all’apatia il maggior numero di persone possibili, che in quegli anni si erano messe in testa di rivendicare per se un ruolo attivo nel governo del pianeta.

Come ammettono esplicitamente anche i relatori del rapporto, ovviamente questo obiettivo “è intrinsecamente anti-democratico, ma”, sottolineano, “è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene”.

Una democrazia anti-democratica quindi: questo è stato il modello di società perseguito con ogni mezzo necessario nell’ultimo mezzo secolo.

Cosa mai sarebbe potuto andare storto?

Oggi parliamo di quello di cui avremmo bisogno, a ormai mezzo secolo di distanza, per ritornare a ostacolare i piani distopici di un manipolo di oligarchi.

1927. Il celebre giurista e politologo tedesco Carl Schmitt conclude uno dei suoi innumerevoli saggi: “Il concetto del politico”, lo intitola. Un testo profetico; in poche battute Schmitt infatti descrive con precisione quasi chirurgica le principali dinamiche che caratterizzeranno il conflitto geopolitico negli ormai quasi 100 anni successivi. La storia degli ultimi 100 anni infatti è storia di sanguinose guerre globali, in 3 atti: il primo è quello delle guerre coloniali ed imperialistiche, con il continente europeo come epicentro; il secondo è quello delle guerre neocoloniali, anticoloniali e di carattere prevalentemente ideologico, generate dalla guerra fredda tra USA e URSS; e infine il terzo è quello delle guerre postcoloniali e imperialistiche degli USA che si protraggono fino ad oggi.

Ma se per i primi due atti, il contenuto tragico del copione è universalmente riconosciuto, per il terzo le cose sono più complesse. Secondo la propaganda liberale infatti, il crollo del blocco sovietico sarebbe dovuto coincidere con un’era di pace, prosperità e armonia tra gli Stati, scandita dalla progressiva espansione di istituzioni economiche “neutrali” come i mercati globali. Gli Stati Uniti erano il cavaliere dalla splendente armatura, la globalizzazione neoliberista il suo destriero: una bella favola con un finale talmente lieto che, nell’ingenua formulazione di Fukuyama, avrebbe portato con sé la “fine della storia”.

Eppure, già Schmitt aveva previsto che questo lieto fine, questo mondo fatato in cui gli USA sarebbero stati i garanti, era appunto una vana speranza: “sarebbe un errore”, scrive Schmitt, “credere che una posizione politica raggiunta con l’aiuto della superiorità economica si presenti come «essenzialmente non bellicosa». Non bellicosa” – come si confà all’essenza dell’ideologia liberale – “è solo la terminologia” conclude Schmitt. La millantata non bellicosità, al contrario, si tradurrà necessariamente nel creare con ogni mezzo necessario “una situazione mondiale in cui poter far valere senza impedimenti il suo potere economico”, con la beffa che poi si arrogherà anche il diritto di considerare “violenza extraeconomica” qualsiasi azione compiuta “da un popolo, o un altro gruppo umano” nel tentativo di “sottrarsi agli effetti” di questo stesso strapotere.

L’ho già risentito, diciamo.

In particolare negli ultimi 30 anni, infatti, ogni qualvolta una parte del mondo cercava di sottrarsi alle imposizioni del mercato globale, che è tutto tranne che libero, veniva immediatamente riportata all’ordine imposto dalle direttive imperiali, sostenute da una logica ferrea: se il mercato globale è pace e prosperità, chiunque non voglia aderirvi acriticamente o è un pazzo o un potenziale pericolo, e pertanto può essere solamente isolato o “ricondotto alla ragione” con ogni mezzo necessario, a partire dall’utilizzo dei più avanzati strumenti tecnologici finalizzati all’uccisione fisica violenta, che però, più sono distruttivi e violenti, più vengono celati dietro il paravento di contorsioni retoriche che eliminano la guerra dal lessico comune e riempono la bocca della propaganda di termini apparentemente neutri come sanzioni, peacekeeping, guerre umanitarie e bombe intelligenti.

Ma cosa permette agli interessi egoistici specifici del nord globale e delle sue élite economiche di spacciarsi come neutrali?

E’ una delle domande a cui prova a rispondere Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto e Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno, nel suo ultimo monumentale lavoro: “Teologia politica e diritto”.

Ma cosa potrà mai avere a che fare il dominio, spacciato per neutrale, di una determinata logica economica, che è la cosa apparentemente più mondana possibile immaginabile, addirittura con la teologia?

Per capirlo, bisogna fare un passettino indietro, e tornare a quello che è considerato in assoluto il padre fondatore delle scienze politiche moderne: il filosofo britannico Thomas Hobbes, e il suo Leviatano, una creatura biblica che Hobbes riesuma per descrivere lo stato moderno, al quale “tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite”, che “è in grado di informare la volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni” (Thomas Hobbes, Leviatano).

Lo stato moderno di Hobbes è il successore logico, cronologico e immanente di Dio, e la politica non è altro che la secolarizzazione della teologia, e quindi, appunto,Teologia Politica, per dirla con Carl Schmitt che proprio così ha intitolato quella che è considerata la sua opera principale, nell’ormai lontanissimo 1922. Secondo Schmitt, tutti i concetti basilari della dottrina politica nell’era dello Stato Moderno sono concetti teologici secolarizzati: lo Stato quindi non sarebbe, come sostiene la teoria politica moderna, il prodotto di una ragione umana che taglia i ponti con il passato e la tradizione, ma altro non è che la trasposizione sul terreno dell’immanenza dell’idea tradizionale di Dio come fondatore dell’ordine; come sottolinea Preterossi, riprende proprio la riflessione di Hobbes, alla disperata ricerca di un nuovo potere ordinatore di fronte al tragico spettacolo del fratricidio della guerra civile inglese che si svolgeva proprio davanti ai suoi occhi. “Per stabilizzare un nuovo ordine è stato necessario sostituire i vecchi assoluti con un artificio in grado di imporsi, di ottenere obbedienza con la coazione ma anche in virtù del riconoscimento razionale dell’unico fine minimo incontrovertibile dell’ordine: la garanzia della sopravvivenza grazie alla neutralizzazione della generale predisposizione alla violenza, e in particolare quella identitaria che si sprigiona durante una guerra civile”.

Seguendo questa logica, quasi 4 secoli dopo, alla religione laica dello Stato Assoluto di Hobbes, sarebbe subentrata un’altra religione laica, che Preterossi definisce Teologia Economica Neoliberista. Se in Hobbes era il Leviatano a dover sopperire all’assenza di una giustificazione divina del potere per garantire l’ordine sociale, oggi è l’economia a proporsi come terreno neutrale su cui costruire una società non conflittuale. Il potere politico degli stati, in questo senso, deve limitarsi a garantire le condizioni di esistenza del libero mercato, in cui la conflittualità può esprimersi nel suo surrogato: la concorrenza. E quando libero mercato e concorrenza entrano in crisi, ecco che si ricorre a un’altra giustificazione, un altro principio proposto come “neutrale”: quello della tecnica e della tecnocrazia.

Non è più semplicemente questione di dialettica tra opzioni politiche contrapposte, ma è proprio la politica in se, come strumento per la progettazione razionale e condivisa della vita in comune – comunque venga declinata – a venire malamente cacciata fuori dal palcoscenico della storia.

La teologia economica neoliberale”, sottolinea lucidamente Preterossi, “è una teologia politica “anti-politica”, perché fa dell’immanenza un assoluto”, ed esclude così a priori ogni possibilità di trasformazione che non derivi direttamente dalle sue logiche intrinseche; ed ecco perché la ripoliticizzazione del dibattito pubblico, di per se, rappresenta una forma di resistenza rispetto al nuovo Leviatano della religione neoliberista. Preterossi, nell’ultima parte del libro, si interroga su quali siano le modalità attraverso le quali questa ripoliticizzazione e l’elaborazione di nuove grandi visioni condivise in grado di riattivare una mobilitazione collettiva – che sola può ambire a spostare concretamente i rapporti di forza all’interno della società a favore dei subalterni – potrebbe concretamente avverarsi; per farlo, ricorre in primo luogo a Gramsci, che secondo Preterossi avrebbe cercato con la sua opera e la sua militanza di trovare “un’altra via della laicità, non meno completa di quella liberale” di segno completamente diverso “perché non individualista, né privatista” ma, al contrario, capace di creare “un’adesione a un plusvalore collettivo che non passi dalla paura e dalla superstizione, ma da un’accettazione consapevole, nutrita di passioni razionali”.

Insomma, il Gramsci di Preterossi avrebbe cercato di fondare una vera e propria religione secolare che, sempre secondo Preterossi, di quella mobilitazione collettiva oggi indispensabile sarebbe una precondizione imprescindibile. E oggi? Quali sarebbero oggi le possibili religioni laiche necessarie per rivitalizzare la mobilitazione politica?

Preterossi, nella parte conclusiva del testo, affronta uno dei fenomeni su cui maggiormente si è concentrato il dibattito recente: il populismo. “Sarebbe molto riduttivo”, scrive Preterossi, “ritenere che le cause e il significato del populismo contemporaneo siano riconducibili unicamente agli effetti del web”; piuttosto bisognerebbe focalizzare l’attenzione verso quei “processi materiali di natura economica generati dalla globalizzazione finanziaria che minano la coesione sociale, da un lato, e all’esplosione delle contraddizioni della politica rappresentativa moderna che la spoliticizzazione neoliberale ha finito per enfatizzare, dall’altro. Più che della sola disintermediazione digitale”, continua Preterossi, il populismo sarebbe “la forma del politico contemporaneo, con le sue opacità e ambivalenze” e anche se “non è affatto detto che offra soluzioni efficaci”, sicuramente sarebbe per lo meno “in grado di saldare dimensione materiale e politica, ciò che la politica tradizionale oggi fa molta più fatica a fare”.

Senza alcuna forma di snobismo, Preterossi si chiede se il populismo possa costituire un nuovo vincolo sociale oppure soffra “degli effetti della disintermediazione”, tipici proprio dell’era del trionfo della religione neoliberale, replicandone le logica, ma una via di uscita potrebbe risiedere proprio nella declinazione che del macrocosmo populista danno autori come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che, secondo Preterossi, rappresenterebbero “una rottura con tutti il bagaglio dei pregiudizi sul populismo”, dal momento che il popolo che rappresenta l’oggetto della loro riflessione non è banalmente il popolo tenuto insieme dai legami di sangue e di appartenenza nazionale, ma molto più articolatamente il popolo tenuto insieme dalla convergenza delle diverse rivendicazioni dei subalterni.

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