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Tag: liberismo

Come l’Argentina è stata intrappolata dal debito neo – coloniale per 200 anni

Anche tu, come noi, riponevi ancora qualche speranza nell’umanità? Bene, da domenica sera direi che è definitivamente arrivato il momento di abbandonare ogni speranza: la vittoria – e pure con ampio margine – di Javier Milei alle presidenziali in Argentina è la prova più palese possibile immaginabile dell’assoluta inadeguatezza delle masse di scegliersi liberamente un governo nell’ambito delle regole della democrazia liberale, almeno a questo stadio di sviluppo; e non tanto perché un personaggio assolutamente impresentabile come Milei dovrebbe essere escluso a prescindere da ogni possibilità di ricoprire un qualsiasi incarico di responsabilità, ma soprattutto perché la sua elezione è avvenuta in Argentina. Sin dalla sua fondazione, l’Argentina – infatti – periodicamente è precipitata tra le grinfie delle solite identiche oligarchie compradore che sistematicamente ne hanno devastato l’economia con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione: uno schema quasi noioso da quanto è diventato prevedibile e sempre identico a se stesso. Raramente un popolo, al mondo, ha avuto la stessa possibilità che hanno avuto gli argentini di individuare con chiarezza – a partire dalla loro vita concreta quotidiana – l’esatto gruppo di potere e il tipo di proposta politica direttamente responsabili di tutti i loro problemi. Da due secoli!
Javier Milei, il gruppo di potere che lo ha sostenuto e le sue ricette politiche sono le stesse identiche medicine che, periodicamente, vengono riproposte al popolo argentino con conseguenze disastrose per la stragrande maggioranza della popolazione, e un furto sistematico di ricchezza da parte di una minuscola oligarchia predatoria. La differenza è che, in passato, per imporle servivano golpe e giunte militari; oggi l’involuzione antropologica è tale che la gente se le sceglie da sola, a larga maggioranza.
Come l’Argentina è stata intrappolata dal debito neo – coloniale per 200 anni”: così Esteban Almiron, nel dicembre scorso, intitolava un suo lungo articolo – pubblicato da Geopolitical economy review – dove cercava di tirare le somme di due secoli di devastazione sistematica dell’economia Argentina da parte delle sue oligarchie, legate a doppio filo a Londra prima e a Washington poi. La storia inizia nel lontano 1824 quando, appena 8 anni dalla dichiarazione di indipendenza dall’impero spagnolo, l’unione delle province – che sarebbe poi diventata la Repubblica argentina – ottiene un prestito di 1 milione di sterline, equivalenti a 110 miliardi attuali, da una banca privata britannica: “Il prestito, denominato in sterline” ricorda Almiron “sarebbe dovuto servire a finanziare il porto di Buenos Aires e altre infrastrutture strategiche”. Poco meno di metà del debito andò in commissioni di ogni genere agli intermediari e il resto “evaporò rapidamente in una guerra con il Brasile”. Risultato: già nel 1827 l’Argentina non era più in grado di pagare gli interessi e dichiarò il suo primo default; da lì in poi, per ripagare quel primo debito impiegò la bellezza di 80 anni e – alla fine – aveva sganciato 8 volte il suo valore iniziale. L’Argentina, allora, sviluppò una certa sana diffidenza verso il debito internazionale e conobbe i suoi anni migliori raggiungendo, nella prima parte del secolo scorso, un reddito pro capite tra i più alti dell’intero pianeta; è per questo che quando – una volta finita la seconda guerra mondiale – venne istituito il Fondo Monetario Internazionale, l’allora presidente populista e progressista Juan Domingo Peron decise di tenersene alla larga.

Evita e Juan Domingo Peron

Durò pochino: nel ‘55 Peron fu cacciato a suon di bombardamenti aerei sul palazzo presidenziale da un sanguinoso colpo di stato, e sotto la feroce dittatura di Pedro Aramburu decise – finalmente – di aderire all’FMI. Ma per vedere il delirio neoliberista in tutto il suo splendore bisognerà aspettare un altro colpo di stato, 20 anni dopo, quando l’esercito arresta l’allora presidente regolarmente eletta Evita Peron e, con il sostegno di Washington, dà il via a una stagione di terrorismo di stato fatto di “stupri, torture sistematiche, detenzioni arbitrarie, sorveglianza distopica e desaparecidos”. Sotto la guida feroce del dittatore Jorge Videla, nell’ambito di quello che venne denominato il “processo di riorganizzazione nazionale” – proprio come nel Cile di Pinochet -, il posto di guida dell’economia venne affidato a una conventicola di invasati ultra – liberisti: da Adolfo Diaz – l’allievo di Milton Friedman – messo a capo della Banca Centrale, a Martinez de Hoz – l’amico di David Rockefeller – nominato ministro dell’economia. “Quasi subito dopo l’ascesa al potere di Videla” ricorda Almiron “De Hoz ottenne un prestito dall’FMI di 100 milioni di dollari di allora”: in cambio, si impegnò ad implementare la solita ricetta lacrime e sangue fatta di abbattimento delle barriere commerciali, deindustrializzazione e restrizioni salariali, mentre l’inflazione continuava a correre non a due, ma addirittura a tre cifre. Risultato: il potere d’acquisto dei lavoratori diminuì di poco meno del 50% nell’arco di appena un anno. Nel frattempo, gli amici oligarchi della giunta militare guadagnavano una quantità di quattrini spropositata attraverso una vera e propria truffa promossa e finanziata dal regime e denominata bicicleta financiera. A costo di distruggere le esportazioni e le aziende locali, il governo aveva introdotto un sistema di regolazione del cambio tra pesos e dollari USA che aveva fortemente rivalutato e stabilizzato la moneta locale; a quel punto “con il sostegno del governo” scrive Almiron “gli speculatori potevano ottenere prestiti a basso interesse denominati in dollari all’estero, mentre a loro volta concedevano prestiti in pesos agli argentini a tassi stratosferici, intascando la differenza”: un giochino che costò alle casse dello Stato un aumento del debito pubblico denominato in dollari di 5 volte nell’arco di appena 7 anni. Un debito che divenne sostanzialmente non più solvibile quando, dopo due anni di festa grossa per le oligarchie locali, il governo abbandonò di punto in bianco la regolamentazione del cambio tra peso e dollaro comportando una svalutazione repentina della valuta locale.
Nel 1983, al regime di Videla subentrò il governo di Raul Alfonsin che, sottolinea Almiron, “avrebbe potuto contestare la legittimità del debito. Dopotutto” continua Almiron “era stato contratto da un regime dittatoriale sostenuto dalla CIA, e che sotto l’influenza USA favoriva gli interessi stranieri rispetto a quelli argentini. Purtroppo però” conclude Almiron “il governo Alfonsin e la nuova, fragile democrazia erano troppo deboli per una simile sfida”. E con un debito del genere sul groppone il nuovo governo argentino era destinato al fallimento; per stare in piedi non aveva altra scelta che affidarsi, di nuovo, a Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale che imposero una nuova stagione di riforme lacrime e sangue che, ancora una volta, pochi anni dopo, portarono a un’altra gigantesca crisi economica che raggiunse il suo apice nel 1989 “quando” ricorda Almiron “salari e risparmi evaporarono rapidamente, povertà ed estrema povertà salirono alle stelle, e cominciarono a scoppiare rivolte e saccheggi”. Il sogno di un governo moderatamente progressista, preoccupato dagli interessi della nazioni più che a quelli delle solite oligarchie, si sciolse così come neve al sole: era arrivata l’ora di un’altra bella shock therapy.
A infliggerla – sotto l’egida del neo eletto Carlos Menem – il famigerato Domingo Cavallo, altro neo – liberista purosangue coccolatissimo dai media occidentali. La ricetta era sempre la stessa: primo step, sopravvalutare artificialmente il pesos e ancorarlo al dollaro; come sottolinea Almiron “tutti potevano scambiare liberamente pesos e dollari, ora sostenuti dallo Stato con le sue riserve”. In soldoni, quindi, la Banca Centrale limitava l’emissione di nuovi pesos alla presenza di altrettanti dollari tra le sue riserve, togliendo così ossigeno all’economia. Ma non solo: quei pochi dollari che, comunque, la Banca Centrale accumulava come riserve erano ottenuti nel più barbaro dei modi e cioè con “una delle più grandi operazioni di privatizzazione della storia”. “In pochi anni” ricorda Almiron “vennero privatizzati il sistema pensionistico, le ferrovie nazionali, le banche pubbliche, la rete telefonica, la compagnia aerea di bandiera, i porti, il servizio postale, la rete idrica, quella del gas, quella elettrica, diverse reti televisive e radiofoniche e alcuni servizi di assistenza sanitaria”. Le multinazionali statunitensi ed europee, poi, ebbero l’occasione di fare shopping a prezzi di saldo nell’industria navale, in quella chimica e in quella aerospaziale; anche qui, le oligarchie locali i quattrini li facevano sempre come sotto Videla. Cavallo aveva imposto per legge che ogni pesos potesse essere scambiato con un dollaro; gli oligarchi emettevano prestiti in pesos a tassi altissimi – perché di pesos in circolazione ce n’erano pochini – e tutti gli interessi che intascavano li convertivano in dollari, e poi con questi dollari ci andavano a comprare un po’ di immobili di prestigio negli USA. Nel frattempo, la disoccupazione – da meno del 6% – sfiorava quota 20% e l’Argentina entrò in una profonda recessione che sarebbe durata la bellezza di 4 interminabili anni. Menem, che nel frattempo faceva il tamarro girando il paese a bordo di una Ferrari, divenne il politico più odiato del paese. Alle presidenziali successive il paese cerca una via d’uscita eleggendo La Rua che, però, continua sulla stessa falsa riga e – alla fine – decide di riaffidarsi nuovamente a Domingo Cavallo, nominato un’altra volta ministro dell’economia; ed ecco così che si arriva al 2001, quando il timore per un tracollo finanziario definitivo scatena una corsa epica agli sportelli e, alla fine, porta al default dell’Argentina con un debito di 95 miliardi di dollari. Era la prova provata di come le ricette neo – liberiste non funzionassero, ed ecco così che alle elezioni successive si fa avanti un semisconosciuto governatore di una piccola provincia meridionale.

Cristina e Néstor Kirchner

Si chiamava Néstor Kirchner. Non era chissà quale militante marxista leninista; era un moderato, un umile avvocato di provincia che però non era a libro paga di nessuno, e i risultati si fecero vedere subito. Durante il suo mandato il PIL crebbe a ritmi cinesi di poco meno del 10% l’anno, la disoccupazione crollò al 7,3% e le riserve internazionali – da zero – superarono quota 30 miliardi. Ma, soprattutto, ha sfanculato il Fondo Monetario Internazionale: “il 16 dicembre 2005” ricorda infatti Almiron “Kirchner annuncia che l’Argentina avrebbe ripagato integralmente e in anticipo l’intero debito del FMI con le sue riserve estere”. Le riserve erano state accumulate facendo esattamente il contrario dei predecessori: invece di ancorare il pesos al dollaro, Kirchner l’aveva fatto svalutare, aumentando così le esportazioni e incassando valuta pregiata, e ora era in grado di dimostrare che tutti quelli che l’avevano preceduto avevano usato l’FMI come scusa per imporre ricette lacrime e sangue che – prima ancora che il fondo stesso, o gli USA – beneficiavano i loro amici oligarchi.
Ma la partita era solo all’inizio perché, ben oltre il debito col fondo monetario internazionale, a zavorrare l’Argentina c’era il debito denominato in dollari contratto con i privati attraverso l’emissione di bond; con la stragrande maggioranza dei creditori, Nestor prima e la moglie Cristina – che gli è succeduta alla presidenza del paese per ben due mandati – poi, sono riusciti a trattare e a rinegoziare, ma c’era una piccola minoranza che di mollare la presa non ne aveva nessuna intenzione. Sono i famosi “fondi avvoltoio” e cioè i fondi speculativi USA che, di mestiere, comprano i bond dei paesi in crisi a prezzi stracciati: un’attività molto remunerativa ma ad alto rischio, almeno se la fai te, o me. Se la fanno loro, meno; gli unici rischi che si accollano questi fondi, infatti, è a quanto ammonterà la parcella degli avvocati, perché il paradosso del mercato dei bond sovrani è questo: se la tua economia non è perfettamente in salute, per convincere gli investitori a comprarli devi pagare interessi altissimi perché il rischio che quello Stato non sia in grado di ripagarti è alto, ma se sei un fondo con la sede negli USA e hai abbastanza soldi per pagarti i migliori avvocati – e magari provare la stessa causa in diverse corti, fino a che non trovi il giudice giusto – in realtà quel rischio non lo corri mai. La legge è costruita in modo che, alla fine, se non demordi vinci sempre.
Lo sa bene Paul Singer, il capo del fondo Elliott: per provare a farsi ridare tutti i soldi investiti (con una montagna di interessi sopra) ha ingaggiato una guerra legale lunga 15 anni. “Sono terroristi economici” aveva tuonato Cristina rivolgendosi all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2014 “che destabilizzano l’economia di un paese e creano povertà, fame e miseria, e tutto in nome della speculazione”; quando, dopo 8 anni di presidenza, per legge ha dovuto fare un passo indietro, il debito di Singer era ancora lì. Finalmente il popolo aveva trovato una classe dirigente che stava dalla sua parte ma, molto saggiamente, ha deciso di gettarla nel cesso. Durante gli ultimi anni della presidenza di Cristina, le oligarchie avevano cominciato ad alzare il tiro mettendo in piedi i soliti teatrini che tanto piacciono agli analfogiustizialisti; è lo stesso identico copione che abbiamo visto anche in Brasile contro Lula e la Roussef: una casta di giudici corrotti, legati a doppio filo alle oligarchie, che trasferiscono nei tribunali una battaglia politica che non sono riusciti a vincere nel resto del paese e che la propaganda dei media – di proprietà degli stessi oligarchi – riesce a spacciare in lotta contro la corruzione. Il bue che dà del cornuto all’asino.
Questa campagna di delegittimazione fondata sulla post verità comunque dà i frutti sperati: alle presidenziali successive la sinistra peronista perde di un soffio e alla guida del paese arriva Mauricio Macri. E’ il rampollo di una famiglia dell’oligarchia nazionale che si è arricchita grazie al sostegno politico alla dittatura militare e non delude le aspettative: a pochi mesi dall’insediamento salda il debito con Elliott – 2,28 miliardi di dollari a fronte di un investimento iniziale di appena 177 milioni – ed è solo la punta dell’iceberg. Nel giro di pochi giorni, l’Argentina di Macri sgancia ai fondi avvoltoio la bellezza di 9,3 miliardi: “per un paese che si dice sovrano, una vera e propria umiliazione” scrive Almorin “che ha fatto anche arrabbiare molti piccoli investitori, compresi pensionati e lavoratori, che hanno perso il grosso dell’investimento con la rinegoziazione del debito, mentre un piccolo gruppo di miliardari statunitensi e speculatori di ogni genere hanno fatto fortuna”. Ed era solo l’antipasto: dopo quell’operazione, il governo Macri ha cominciato a accumulare debito su debito passando, in un solo anno, da un rapporto debito PIL del 56% all’86%. Una quantità incredibile di dollari che non sono andati – nemmeno in minima parte – nelle infrastrutture necessarie per far ripartire l’economia reale, ma direttamente nelle tasche delle oligarchie, che hanno convertito in dollari i loro pesos e poi li hanno portati fuori dal paese. Il paese era di nuovo sull’orlo della bancarotta, ed ecco così che si ritorna a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale che, a regola, avrebbe dovuto rispondere picche; secondo il suo regolamento, infatti, “un membro non può utilizzare le risorse generali del fondo per far fronte a un deflusso ampio o prolungato di capitali”, a meno che non lo chieda il vero unico padrone di casa: il governo degli USA.
Che è esattamente quello che è successo: alla Casa Bianca, infatti, nel frattempo era arrivato il compagno Donald Trump, che era alla ricerca di alleati regionali per provare a fare le scarpe al governo rivoluzionario del Venezuela. Macri si presta allegramente al gioco: riconosce immediatamente e ufficialmente il politico fantoccio USA Juan Guaido come presidente legittimo auto – nominatosi del Venezuela e, in cambio, ecco che magicamente le porte dell’FMI si spalancano di nuovo. Pochi mesi dopo, il fondo stanzia a favore del governo Macri la bellezza di 44 miliardi “ma” ricorda Almorin “nemmeno un dollaro inviato dal Fondo è mai stato visto dal popolo argentino, né utilizzato per alcun progetto di sviluppo economico. Piuttosto, nell’arco di appena 11 mesi il denaro è letteralmente evaporato, finendo nelle tasche degli oligarchi nazionali e stranieri” e – nell’agosto del 2019 – l’Argentina doveva dichiarare nuovamente default, “il primo ufficiale del Paese per mancanza di fondi dal 2001”. Nonostante il disastro, la potenza della propaganda è tale che alle elezioni successive Macri perde sì – ma manco poi di tanto – e per sconfiggerlo Cristina and company sono costretti a fare un passo di lato, presentare un candidato più moderato e mettere in piedi una coalizione così vasta da risultare abbastanza inconcludente. Ciononostante, rispetto ai rapinatori di professione la presidenza Fernandez è oro colato: intraprende subito una guerra a 360 gradi contro il debito contratto dall’élite compradora che li ha preceduti, si avvicina gradualmente alla Cina e ai Brics fino ad ufficializzare l’ingresso e quando in Brasile, dopo il golpe giudiziario, torna al potere Lula, comincia a lavorare all’integrazione dell’area del Mercosur per tentare di sganciarsi dal dollaro. Ma il paese che Fernandez ha ereditato da Macri è un paese sull’orlo del baratro e la crisi pandemica non fa che peggiorare la situazione a dismisura: perseguitato dal debito denominato in dollari, Fernandez si ritrova travolto dall’ennesima spirale inflattiva che cerca – in ogni modo – di non scaricare interamente sulle masse popolari rincominciando a stampare moneta e svalutando il pesos, che è la scelta socialmente meno iniqua ma che, sicuramente, non permette di riportare l’inflazione sotto controllo. Ed ecco qui, allora, che avviene quello che fa definitivamente perdere ogni speranza nell’umanità: sulla scena politica si affaccia un invasato che ha chiamato i suoi cani con i nomi dei guru della setta neoliberista e che, per prendere le decisioni più importanti, organizza delle sedute spiritiche durante le quali invoca lo spirito dei suoi cani morti.

Javier Milei

Javier Milei ripropone – pari pari – le ricette che, appena 5 anni fa, avevano fatto esplodere il debito pubblico e riportato l’Argentina al default. Solo, on steroids: invece che di semplice rivalutazione del pesos e di ancoraggio al dollaro, promette esplicitamente di abolire la Banca Centrale tout court e di adottare come moneta nazionale direttamente il dollaro, e promette di farlo circondato da un team di tutto rispetto. Fenomeno da baraccone mediatico privo di qualsiasi struttura politica, nonostante l’imbarazzante retorica anti – casta si consegna mani e piedi alla cerchia ristretta di Macri, gli eredi di quella élite nazionale che, da 200 anni, saccheggiano il paese senza ritegno senza aver mai conseguito un risultato positivo che sia uno. Cosa mai potrebbe andare storto?
La vittoria di Milei non è semplicemente l’ennesimo caso di vittoria di chi gioca a fare l’underdog e poi si rivela inesorabilmente non essere per niente under ma solo dog dei soliti interessi; è proprio la prova provata di un’involuzione antropologica epocale che impedisce – in questa fase di caos sistemico e di iper – informazione alle masse popolari – di riconoscere minimamente i propri interessi basilari, anche quando sono palesi. E’ l’era del trionfo totale delle ideologie più inverosimili e della post verità: per superarla, la battaglia culturale e di controinformazione da fare è titanica e lunghissima.
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E chi non aderisce è Javier Milei

Dalla tecnocrazia alla teologia politica: Come ostacolare il piano del capitale contro la democrazia

Una lunga guerra contro la democrazia. E’ questo in sostanza il fulcro dell’azione politica delle élite del nord globale durante l’ultimo ormai mezzo secolo proprio mentre, paradossalmente, il ricorso strumentale proprio al concetto di democrazia, si affermava come il principale paravento ideologico dietro il quale dissimulare il ritorno all’impiego della forza bruta su una scala raramente vista prima nella storia dell’umanità; una guerra pianificata nei minimi dettagli, esplicitamente.

Samuel P. Huntington, Copyright World Economic Forum

Siamo nel 1975 e un gruppo di studiosi e ricercatori capeggiati dal famigerato politologo statunitense Samuel Huntington pubblica un celebre rapporto destinato a fare epoca. “La crisi della democrazia”, si intitola, “sulla governabilità delle democrazie”; un lavoro su commissione con un committente di eccellenza.

E’ la famigerata Commissione Trilaterale, il think tank che da 50 anni anima i pensieri più contorti di ogni vero complottista e purtroppo, spesso, non senza ragioni; era stata fondata 2 anni prima da David Rockefeller in persona e da allora si era posta un unico obiettivo: riaffermare il dominio delle elite sul resto della società in quegli anni di irrefrenabile fermento politico e di protagonismo delle masse popolari.

La ricetta è degna di una puntata di Black mirror: il funzionamento efficace di un sistema democratico”, si legge nel rapporto, “necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi”.

Non è una battuta. E’ letteralmente l’obiettivo politico che, a partire da quel 1975, si sono date esplicitamente le élite del nord globale per riaffermare il loro dominio sul resto della società: indurre all’apatia il maggior numero di persone possibili, che in quegli anni si erano messe in testa di rivendicare per se un ruolo attivo nel governo del pianeta.

Come ammettono esplicitamente anche i relatori del rapporto, ovviamente questo obiettivo “è intrinsecamente anti-democratico, ma”, sottolineano, “è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene”.

Una democrazia anti-democratica quindi: questo è stato il modello di società perseguito con ogni mezzo necessario nell’ultimo mezzo secolo.

Cosa mai sarebbe potuto andare storto?

Oggi parliamo di quello di cui avremmo bisogno, a ormai mezzo secolo di distanza, per ritornare a ostacolare i piani distopici di un manipolo di oligarchi.

1927. Il celebre giurista e politologo tedesco Carl Schmitt conclude uno dei suoi innumerevoli saggi: “Il concetto del politico”, lo intitola. Un testo profetico; in poche battute Schmitt infatti descrive con precisione quasi chirurgica le principali dinamiche che caratterizzeranno il conflitto geopolitico negli ormai quasi 100 anni successivi. La storia degli ultimi 100 anni infatti è storia di sanguinose guerre globali, in 3 atti: il primo è quello delle guerre coloniali ed imperialistiche, con il continente europeo come epicentro; il secondo è quello delle guerre neocoloniali, anticoloniali e di carattere prevalentemente ideologico, generate dalla guerra fredda tra USA e URSS; e infine il terzo è quello delle guerre postcoloniali e imperialistiche degli USA che si protraggono fino ad oggi.

Ma se per i primi due atti, il contenuto tragico del copione è universalmente riconosciuto, per il terzo le cose sono più complesse. Secondo la propaganda liberale infatti, il crollo del blocco sovietico sarebbe dovuto coincidere con un’era di pace, prosperità e armonia tra gli Stati, scandita dalla progressiva espansione di istituzioni economiche “neutrali” come i mercati globali. Gli Stati Uniti erano il cavaliere dalla splendente armatura, la globalizzazione neoliberista il suo destriero: una bella favola con un finale talmente lieto che, nell’ingenua formulazione di Fukuyama, avrebbe portato con sé la “fine della storia”.

Eppure, già Schmitt aveva previsto che questo lieto fine, questo mondo fatato in cui gli USA sarebbero stati i garanti, era appunto una vana speranza: “sarebbe un errore”, scrive Schmitt, “credere che una posizione politica raggiunta con l’aiuto della superiorità economica si presenti come «essenzialmente non bellicosa». Non bellicosa” – come si confà all’essenza dell’ideologia liberale – “è solo la terminologia” conclude Schmitt. La millantata non bellicosità, al contrario, si tradurrà necessariamente nel creare con ogni mezzo necessario “una situazione mondiale in cui poter far valere senza impedimenti il suo potere economico”, con la beffa che poi si arrogherà anche il diritto di considerare “violenza extraeconomica” qualsiasi azione compiuta “da un popolo, o un altro gruppo umano” nel tentativo di “sottrarsi agli effetti” di questo stesso strapotere.

L’ho già risentito, diciamo.

In particolare negli ultimi 30 anni, infatti, ogni qualvolta una parte del mondo cercava di sottrarsi alle imposizioni del mercato globale, che è tutto tranne che libero, veniva immediatamente riportata all’ordine imposto dalle direttive imperiali, sostenute da una logica ferrea: se il mercato globale è pace e prosperità, chiunque non voglia aderirvi acriticamente o è un pazzo o un potenziale pericolo, e pertanto può essere solamente isolato o “ricondotto alla ragione” con ogni mezzo necessario, a partire dall’utilizzo dei più avanzati strumenti tecnologici finalizzati all’uccisione fisica violenta, che però, più sono distruttivi e violenti, più vengono celati dietro il paravento di contorsioni retoriche che eliminano la guerra dal lessico comune e riempono la bocca della propaganda di termini apparentemente neutri come sanzioni, peacekeeping, guerre umanitarie e bombe intelligenti.

Ma cosa permette agli interessi egoistici specifici del nord globale e delle sue élite economiche di spacciarsi come neutrali?

E’ una delle domande a cui prova a rispondere Geminello Preterossi, docente di Filosofia del Diritto e Storia delle Dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno, nel suo ultimo monumentale lavoro: “Teologia politica e diritto”.

Ma cosa potrà mai avere a che fare il dominio, spacciato per neutrale, di una determinata logica economica, che è la cosa apparentemente più mondana possibile immaginabile, addirittura con la teologia?

Per capirlo, bisogna fare un passettino indietro, e tornare a quello che è considerato in assoluto il padre fondatore delle scienze politiche moderne: il filosofo britannico Thomas Hobbes, e il suo Leviatano, una creatura biblica che Hobbes riesuma per descrivere lo stato moderno, al quale “tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite”, che “è in grado di informare la volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni” (Thomas Hobbes, Leviatano).

Lo stato moderno di Hobbes è il successore logico, cronologico e immanente di Dio, e la politica non è altro che la secolarizzazione della teologia, e quindi, appunto,Teologia Politica, per dirla con Carl Schmitt che proprio così ha intitolato quella che è considerata la sua opera principale, nell’ormai lontanissimo 1922. Secondo Schmitt, tutti i concetti basilari della dottrina politica nell’era dello Stato Moderno sono concetti teologici secolarizzati: lo Stato quindi non sarebbe, come sostiene la teoria politica moderna, il prodotto di una ragione umana che taglia i ponti con il passato e la tradizione, ma altro non è che la trasposizione sul terreno dell’immanenza dell’idea tradizionale di Dio come fondatore dell’ordine; come sottolinea Preterossi, riprende proprio la riflessione di Hobbes, alla disperata ricerca di un nuovo potere ordinatore di fronte al tragico spettacolo del fratricidio della guerra civile inglese che si svolgeva proprio davanti ai suoi occhi. “Per stabilizzare un nuovo ordine è stato necessario sostituire i vecchi assoluti con un artificio in grado di imporsi, di ottenere obbedienza con la coazione ma anche in virtù del riconoscimento razionale dell’unico fine minimo incontrovertibile dell’ordine: la garanzia della sopravvivenza grazie alla neutralizzazione della generale predisposizione alla violenza, e in particolare quella identitaria che si sprigiona durante una guerra civile”.

Seguendo questa logica, quasi 4 secoli dopo, alla religione laica dello Stato Assoluto di Hobbes, sarebbe subentrata un’altra religione laica, che Preterossi definisce Teologia Economica Neoliberista. Se in Hobbes era il Leviatano a dover sopperire all’assenza di una giustificazione divina del potere per garantire l’ordine sociale, oggi è l’economia a proporsi come terreno neutrale su cui costruire una società non conflittuale. Il potere politico degli stati, in questo senso, deve limitarsi a garantire le condizioni di esistenza del libero mercato, in cui la conflittualità può esprimersi nel suo surrogato: la concorrenza. E quando libero mercato e concorrenza entrano in crisi, ecco che si ricorre a un’altra giustificazione, un altro principio proposto come “neutrale”: quello della tecnica e della tecnocrazia.

Non è più semplicemente questione di dialettica tra opzioni politiche contrapposte, ma è proprio la politica in se, come strumento per la progettazione razionale e condivisa della vita in comune – comunque venga declinata – a venire malamente cacciata fuori dal palcoscenico della storia.

La teologia economica neoliberale”, sottolinea lucidamente Preterossi, “è una teologia politica “anti-politica”, perché fa dell’immanenza un assoluto”, ed esclude così a priori ogni possibilità di trasformazione che non derivi direttamente dalle sue logiche intrinseche; ed ecco perché la ripoliticizzazione del dibattito pubblico, di per se, rappresenta una forma di resistenza rispetto al nuovo Leviatano della religione neoliberista. Preterossi, nell’ultima parte del libro, si interroga su quali siano le modalità attraverso le quali questa ripoliticizzazione e l’elaborazione di nuove grandi visioni condivise in grado di riattivare una mobilitazione collettiva – che sola può ambire a spostare concretamente i rapporti di forza all’interno della società a favore dei subalterni – potrebbe concretamente avverarsi; per farlo, ricorre in primo luogo a Gramsci, che secondo Preterossi avrebbe cercato con la sua opera e la sua militanza di trovare “un’altra via della laicità, non meno completa di quella liberale” di segno completamente diverso “perché non individualista, né privatista” ma, al contrario, capace di creare “un’adesione a un plusvalore collettivo che non passi dalla paura e dalla superstizione, ma da un’accettazione consapevole, nutrita di passioni razionali”.

Insomma, il Gramsci di Preterossi avrebbe cercato di fondare una vera e propria religione secolare che, sempre secondo Preterossi, di quella mobilitazione collettiva oggi indispensabile sarebbe una precondizione imprescindibile. E oggi? Quali sarebbero oggi le possibili religioni laiche necessarie per rivitalizzare la mobilitazione politica?

Preterossi, nella parte conclusiva del testo, affronta uno dei fenomeni su cui maggiormente si è concentrato il dibattito recente: il populismo. “Sarebbe molto riduttivo”, scrive Preterossi, “ritenere che le cause e il significato del populismo contemporaneo siano riconducibili unicamente agli effetti del web”; piuttosto bisognerebbe focalizzare l’attenzione verso quei “processi materiali di natura economica generati dalla globalizzazione finanziaria che minano la coesione sociale, da un lato, e all’esplosione delle contraddizioni della politica rappresentativa moderna che la spoliticizzazione neoliberale ha finito per enfatizzare, dall’altro. Più che della sola disintermediazione digitale”, continua Preterossi, il populismo sarebbe “la forma del politico contemporaneo, con le sue opacità e ambivalenze” e anche se “non è affatto detto che offra soluzioni efficaci”, sicuramente sarebbe per lo meno “in grado di saldare dimensione materiale e politica, ciò che la politica tradizionale oggi fa molta più fatica a fare”.

Senza alcuna forma di snobismo, Preterossi si chiede se il populismo possa costituire un nuovo vincolo sociale oppure soffra “degli effetti della disintermediazione”, tipici proprio dell’era del trionfo della religione neoliberale, replicandone le logica, ma una via di uscita potrebbe risiedere proprio nella declinazione che del macrocosmo populista danno autori come Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, che, secondo Preterossi, rappresenterebbero “una rottura con tutti il bagaglio dei pregiudizi sul populismo”, dal momento che il popolo che rappresenta l’oggetto della loro riflessione non è banalmente il popolo tenuto insieme dai legami di sangue e di appartenenza nazionale, ma molto più articolatamente il popolo tenuto insieme dalla convergenza delle diverse rivendicazioni dei subalterni.

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E chi non aderisce è David Rockefeller