Centomila miliardi di dollari: è questa la cifra record a cui ammonta il debito pubblico globale secondo l’ultimo rapporto FMI; un numero enorme, difficile persino da afferrare visto che, per dare, l’idea si tratta di oltre trenta volte il debito pubblico italiano. Chiunque abbia un po’ di raziocinio dovrebbe sorprendersi: ogni volta che un economista va contro l’austerità, si solleva un vespaio incredibile, mentre la contrazione di nuovi debiti europei per le armi e l’ingrossarsi a dismisura debito globale passano sotto silenziosa approvazione da parte dei media dominanti; e il bello è che andrà sempre peggio. Seguendo le stime del Fondo Monetario Internazionale, infatti, per il 2030 il debito globale sarà talmente enorme da assorbire il 100% del PIL: tradotto, entro cinque anni tutta la ricchezza produttiva mondiale dovrà essere impegnata per ripagare i debiti contratti; e potrebbe non bastare. Il meccanismo, già illuminato a più riprese da Ottolina Tv e altri analisti, è ben riassunto dal rapporto OCSE per il 2025: “Invece di investimenti produttivi, negli ultimi anni molto debito è stato utilizzato per finanziare operazioni finanziarie come rifinanziamenti e pagamenti agli azionisti. Ciò suggerisce che è improbabile che il debito esistente si ripaghi da solo attraverso i rendimenti degli investimenti produttivi”; in pratica, il grosso dei soldi chiesti in prestito a debito è andato a finanziare le grandi bolle speculative, portando a rendimenti da capogiro senza alcuna ricaduta reale.
Il processo di indebitamento mondiale assomiglia sempre più a un’Idra, per la quale ad ogni testa mozzata, ad ogni piccolo passo compiuto per ripagare una piccola parte dei debiti, ecco spuntarne altri mille con interessi sempre più ingenti; che questo sistema, in cui debiti piccoli e grandi diventano asset con enormi rendimenti e zero vantaggi per l’economia reale, sia totalmente fuori di testa è cosa nota. Andando oltre la follia del debito globale, però, bisogna capire perché quasi nessuno si ribelli a questa rapina sistematica: perché, se la storia umana ci illustra il fallimento di ogni politica di austerità e la totale impossibilità di ripagare alcun debito, siamo ancora tanto cocciuti da credere che tutti i debiti vadano saldati? Quali sono le motivazioni più profonde e ancestrali che, dagli albori della civiltà, ci convincono della necessaria bontà dei debiti? Prima di cercare una risposta in questo video, scritto da Michele Rossi insieme al collettivo Ottosofia, vi invitiamo a iscrivervi al canale e attivare le notifiche: a voi costa meno tempo di quanto impiegherà il FMI a metterlo in quel posto all’arrembante Milei, mentre per noi è un contributo essenziale per ingrandire il nostro progetto di contro-cultura.
“Da dove arriva il dogma che ci impone di onorare i debiti?”; è questa la domanda da cui parte l’antropologo David Graeber nella scrittura di un saggio dal nome significativo: Debito. I primi cinquemila anni. Come si può capire dal titolo, le ricerche di Graeber, sintesi di un’enorme mole di documentazione storica, svelano tutti i preconcetti che accompagnano la nostra concezione di debito come vincolo morale: fin dall’antichità, sembra scontato che ciascun debitore abbia il dovere di ripagare il creditore nei modi pattuiti per non incorrere in forme di biasimo ed esclusione sociale, prima ancora che di punizione. Così, ciò che economicamente nel 2025 ci appare del tutto assurdo e disfunzionale – come l’impegno a onorare debiti che non potranno mai essere colmati – rientra, invece, nell’ordine morale delle cose: come Stati e come singoli dobbiamo pagare i debiti, per quanto insostenibili, poiché ne va della nostra credibilità di cittadini o attori politici.
La teoria dominante sostiene che il debito è una forma di scambio, solo differito nel tempo con un interesse da includere nell’equazione; e visto che lo scambio, iniziato col baratto, è il pilastro di qualsiasi comunità politica, ne segue che il dovere di ripagare un debito sta alla base di tutti i legami sociali e che, parimenti, rifiutarsi di onorare i debiti significa gettare nel caos l’intera società umana. L’idea di base, introiettata da pensatori liberali come Adam Smith o John Locke e tutt’oggi presente nei testi scolastici, è che agli albori della civiltà umana si collochi il baratto, cui poi seguirà, in una sorta di evoluzione naturale, l’impiego della moneta metallica e di strumenti di debito, una bella storia che Graeber demolisce dalle fondamenta, a partire dalla mistificazione dello scambio come principio di ogni costruzione sociale; nessun documento o resoconto a noi pervenuto, infatti, attesta che le comunità utilizzassero il baratto come forma primitiva di moneta: “Non abbiamo cominciato col baratto, per poi scoprire la moneta e alla fine sviluppare un sistema di credito. È successo proprio l’opposto. L’uso di denaro virtuale è venuto prima”.
L’analisi di Graeber non comporta solo l’abbandono del culto dello scambio come base sociale, ma distrugge del tutto l’idea che le trasformazioni sociali seguano la successione baratto-moneta-debito: come osserva l’antropologo, l’impiego di moneta virtuale non era finalizzato allo scambio di merci, costituendo, invece, un mezzo per regolare relazioni reciproche e processi sociali. Esempio significativo sono i lele, indigeni del Congo Belga studiati dall’antropologa Mary Douglas, i cui tessuti di rafia “risolvono le occasionali tensioni nella forma di offerte di pace; sono offerti prima di una partenza o come forma di congratularsi durante i riti di passaggio. Un uomo che diventa adulto dovrebbe offrire venti tessuti di rafia al padre”. Il punto fondamentale di questa moneta virtuale è che non viene usata per scambiare merci all’interno della comunità, ma esclusivamente come distribuzione di doni e riconoscimenti per mantenere vivi i rapporti personali; si struttura, così, quella che Graeber definisce economia umana, in cui le monete virtuali vengono usate, ma nessuno attribuisce ad esse un valore oggettivo e calcolato.
In questa organizzazione economica, lo scambio (sottoforma di denaro contante o debito) ha sempre rivestito un ruolo di secondo piano rispetto ad altre due regole essenziali di cooperazione: il comunismo e la gerarchia. Il comunismo è quella relazione in cui due o più soggetti cooperano a partire dalle proprie possibilità per andare incontro a un bisogno immediato: “Qualcuno che sta riparando un tubo dell’acqua rotto dice: passami la chiave inglese. Il suo collega, probabilmente, non risponderà mai e io quanto ci guadagno, anche se stanno lavorando per Exxon Mobil, Burger King o Goldman Sachs. La ragione è semplicemente l’efficienza”. Non è necessario sciorinare infiniti pipponi sul comunismo come utopia o chissà cos’altro: le relazioni comuniste spuntano da sempre, tutti i giorni, ogni volta che aiutiamo un amico, un collega o anche un perfetto sconosciuto a soddisfare una necessità concreta senza un tornaconto personale monetizzabile. Fin dall’antichità, poi, è presente anche un’altra forma di cooperazione, che Graeber chiama gerarchia: si ha gerarchia ogni volta che alcuni si sottomettono ad altri per evitare conseguenze gravi, come la propria distruzione fisica o riduzione in schiavitù.
Se la riduzione delle società antiche a mercati di polli, come la intendono Smith e Locke, è una palese fantasia storica, non bisogna nemmeno cadere all’estremo opposto, dipingendo queste stesse società come una specie di eden comunista, privo di rapporti fondati sulla violenza e la dominazione reciproca. Andando oltre le semplificazioni, c’è un punto fermo che emerge: se gran parte delle società umane basava le proprie relazioni su rapporti di comunismo e gerarchia, la visione liberale è totalmente falsata, visto che la pratica dello scambio era quasi sempre collocata ai margini della comunità e sfruttata solo come alternativa pacifica a scontri con estranei. In altre parole, possiamo immaginare che moltissime comunità preistoriche non avessero alcun bisogno dello scambio tra i propri membri: la cooperazione poteva essere imposta con la violenza delle gerarchie, oppure richiesta e ottenuta in modo reciproco per le necessità quotidiane, attraverso modalità implicitamente accettate di comunismo e sistemi incredibilmente complessi di monete virtuali, come i tessuti di rafia.
Ma se le cose stanno così, la domanda che dovremmo porci è: cosa ha reso le pratiche dello scambio e del debito così pervasive all’interno delle società umane? Secondo Graeber, la risposta va cercata in una proliferazione della violenza fisica come strumento di regolazione di conti tra comunità: la violenza contro i vicini permette di recidere i legami sociali esistenti, di strappare i singoli individui alla comunità di cui facevano parte per renderli, innanzitutto, oggetti di scambio. La prima spia di queste pratiche si rintraccia nell’istituzione antichissima del matrimonio, quando questo sottintende lo scambio di donne tra diversi clan per costruire schemi di parentela decisamente complessi; il punto, secondo Graeber, è che Il matrimonio così combinato rompe i legami comunitari di reciprocità e gerarchia, che caratterizzano ciascuna donna, per renderla di fatto scambiabile e, quindi, equivalente ad altre donne, una sorta di proprietà acquisita dal futuro marito-padrone. Simile alla violenza praticata sulle donne a fini di scambio è la pratica, presente da tempo immemore, della schiavitù per guerra o debiti: anche in questo caso, l’individuo ridotto viene scisso da tutti i rapporti sociali precedenti e trasformato in ciò che, per molte culture del passato, è a tutti gli effetti un morto che cammina, un oggetto pronto a passare di mano in mano. Ciò che lo scambio di donne e schiavi hanno in comune – che per Graeber erode definitivamente le forme di relazione arcaiche di reciprocità e gerarchia – è il collegamento a un sistema monetario che, al pari di un virus, infetta gradualmente relazioni comunitarie trasformandole in rapporti di debito e compravendita.
Come appare evidente dai codici legislativi dell’antica Mesopotamia, arrivando fino a quelli romano-barbarici e dell’Islam medievale, ogni schiavo ha un prezzo a partire dalla sua mansione, mentre ogni moglie, come lo schiavo, possiede un prezzo d’onore, cioè una quantità di moneta che dovrà essere pagata da chiunque le arrechi un danno; denaro, ovviamente, che non risarcisce l’onore offeso della donna o dello schiavo, ma esclusivamente quello del marito e del padrone: è proprio il concetto di onore inteso come eccesso di dignità personale, acquisito e preservato spesso tramite la vittoria in scontri violenti, il cavallo di Troia con cui, secondo Graeber, l’uso del denaro e del debito si è insinuato nella regolazione delle relazioni umane. L’onore viene spesso acquisito e alimentato sempre assorbendo l’onore altrui, del prigioniero di guerra come della donna scambiata, e può sempre essere perso da chi lo possiede: l’onore, in altre parole, è un tratto storicamente alienabile dalla persona, che per questo – al pari di schiavi e donne – può e deve avere un prezzo definito. Il prezzo dell’onore, si potrebbe dire, è ciò che rende vincolante il lavoro del servo e dello schiavo sotto forma di debito, ossia di quantità di lavoro che dovrebbe essere compiuta per ottenere la libertà e riacquisire, così, l’onore perduto.
Dal momento in cui leggi e consuetudini hanno cementificato e monetizzato l’onore dei singoli, confermandolo tramite il possesso di donne, servi o schiavi e spesso confondendolo con la dignità umana, tutto cambia radicalmente: si avvia la trasformazione irreversibile delle società da economie umane, in cui il denaro è utilizzato per scambi marginali, a economie commerciali, in cui domina l’idea che tutte le relazioni debbano essere quantificate e monetizzate, che tutto abbia un prezzo; l’erosione delle antiche forme di gerarchia e reciprocità si rende manifesta con l’espansione dei mercati mondiali e finanziari dall’età moderna, accompagnata dall’esplosione della compravendita di schiavi e degli strumenti di credito transnazionali. Come nota amaramente Graeber, la situazione è immutata (se non aggravata) nel sistema sociale odierno: una società malata nella quale ogni attività, del singolo cittadino come del capo di Stato, non può prescindere dai vincoli di debito e dalla necessità etica di onorarlo, sostenuta da una schiera di intellettuali e media al libro paga dei grandi banchieri e creditori mondiali. “La schiavitù formale è stata eliminata, ma (come può testimoniare chiunque lavori ogni giorno otto ore) rimane l’idea che si possa alienare la propria libertà, almeno temporaneamente. In effetti” ricorda Graeber “questo determina ciò che dobbiamo fare per gran parte delle ore in cui siamo svegli”.
Concludendo il video, possiamo affermare che l’immenso lavoro di Graeber, arricchito da una disamina storica dei cicli del debito, è un primo importante antidoto per decostruire il dogma morale che ci spinge a “onorare i debiti sempre e comunque”, donandoci la libertà di non pagarli e, anzi, di immaginare una società non regolata da meccanismi tanto perversi e disumani; per usare le parole di Graeber “Proprio come nessuno ha il diritto di dirci qual è il nostro vero valore, nessuno ha diritto di dirci di che cosa siamo veramente debitori”. E contro i santoni e le élites moralistiche che preconizzano ogni giorno il collasso dell’ordine sociale e della moralità per chi osi mettere in discussione il dogma del debito, spacciandoci la schiavitù contemporanea come grande conquista dell’umanità, una sola risposta è necessaria: organizzare un nuovo blocco egemonico contro la trappola del debito per mandarli, una volta per sempre, #tuttiacasa!
Mi dispiace ma su questa cosa non sono d’accordo.
Il debito, ed il corrispondente credito visto dall’altra parte, nasce da un accordo tra persone (o altri enti) che si suppone siano adulti ed onesti. Io mi privo del mio per darlo a te temporaneamente, con l’intesa che tu me lo restituirai. Non è un regalo, è un prestito; e quindi va restituito. E comunque qualora venisse accettato giuridicamente che un debito si possa non saldare, ciò rappresenterebbe l’immediata fine del credito: mi puoi fregare una. volta, ma non due.
Cordialità
Il riferimento non è tanto ai rapporti bilaterali tra singoli soggetti (ancor meno tra i piccoli) come nell’esempio che hai fatto, ma si riferisce al debito e all’indebitamento come istituto e fenomeno sociale, che da mezzo di finanziamento dello sviluppo e dell’economia reale, fra tante le contraddizioni che questo crea, è diventato altro, perdendo la sua funzione originaria e diventando uno strumento politico e morale al servizio del totalitarismo neo-liberale con cui assoggettare popoli e Stati.