La politica economica che ha in mente Trump per Make America Great Again si basa su alcuni pilastri fondamentali: contenere il costo del petrolio, abbassare il costo del denaro, svalutare un pochino il dollaro e pompare mercati azionari e criptovalute per riuscire ad assorbire i dollari in circolazione, mentre si riduce il deficit pubblico. Sabato, finalmente, è entrato in vigore il primo provvedimento che dovrebbe aiutare Trump a rafforzare questi pilastri: dazi del 25% sulle merci canadesi e messicane e di un altro 10% aggiuntivo su quelle cinesi; e quando ieri mattina si sono riaperti i mercati, nell’arco di poche ore il brent è aumentato di 2 punti percentuali e il WTI, che è il riferimento per il prezzo del greggio negli USA, di 3. Il rendimento dei titoli del tesoro a 2 è aumentato di poco meno di 10 punti base, il dollaro è aumentato di 1 punto e mezzo, il NASDAQ ha perso 2 punti e mezzo e le criptovalute, rispetto al venerdì precedente, in media più di 15 punti percentuali; insomma: ha fatto più il compagno Trump in qualche ora contro l’economia USA che decenni di battaglie antimperialiste dal basso. Almeno fino a quando, all’improvviso, non è arrivato il contrordine: ma che dazi al Messico, su! Non scherziamo! “Ho parlato con la presidente Sheinbaum. E’ stata una conversazione molto amichevole. abbiamo deciso di sospendere immediatamente le tariffe per un mese”. Altre 3, 4 ore e taaac: “Le tariffe annunciate sabato per il Canada saranno sospese per 30 giorni”.
Secondo la versione ufficiale di Re Donald, a fargli fare questa improvvisa giravolta sarebbero state le incredibili concessioni che Messico e Canada sono stati costretti ad accordare: 10 mila soldati messicani alla frontiera con gli Stati Uniti per combattere il traffico di uomini e sostanze e una stretta sul traffico di Fentanyl da parte del Canada. Per le groupies si è trattato dell’ennesima schiacciante vittoria di Re Donald, ma in realtà per giustificare il cessate il fuoco in quella che era stata annunciata come la più grande guerra commerciale di sempre, così a occhio, sembra un po’ pochino: nel 2019 Trump era riuscito a strappare al Messico l’impiego di 3 volte più uomini, minacciando tariffe 5 volte minori di quelle attuali e il Canada, stando ai numeri, sarebbe responsabile di meno dell’1% del Fentanyl che ogni anno arriva negli USA; le misure annunciate, in tutto, a spanne valgono (a stare larghissimi) sui 500 milioni l’anno. Soltanto la criptovalute, tra venerdì e lunedì, quando hanno raggiunto il minimo, avevano bruciato 500 miliardi di capitalizzazione; altri 600 miliardi abbondanti sono stati bruciati in termini di capitalizzazione delle aziende quotate nei vari listini USA. L’annuncio della sospensione dei dazi ha fatto rimbalzare i mercati, recuperando circa la metà di quanto era stato polverizzato nelle ore precedenti: cosa avrà pesato di più sulle scelte di Re Donald? Promesse per 500 milioni, o 500 miliardi di patrimoni in gran parte appartenenti agli oligarchi amici suoi? Prima di provare a risolvere questo annoso dilemma, ti ricordo di mettere mi piace a questo video e di condividerlo il più possibile, per permetterci (anche oggi) di combattere la nostra piccola guerra quotidiana contro la dittatura degli algoritmi e, se ancora non lo hai fatto, anche di iscriverti a tutte le nostre pagine, su tutte le piattaforme social, e di attivare tutte le notifiche: a te costa meno tempo di quanto non impieghi Trump a congelare la più grande guerra commerciale di tutti i tempi non appena i mercati dimostrano di non gradire particolarmente, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di provare a continuare a seguire i soldi in mezzo a tutta questa montagna di monnezza propagandistica
Come sostiene da sempre il nostro buon Tommaso Nencioni, in estrema sintesi il neoliberismo consiste nello spoliticizzare le cose serie e nel politicizzare, invece, le puttanate e, da questo punto di vista, il trumpismo rappresenta, a tutti gli effetti, la fase suprema e definitiva del neoliberismo. La guerra commerciale a 360 gradi annunciata da tempo da Trump si gioca fondamentalmente su 4 fronti: Unione europea, Cina, i due Paesi confinanti con gli USA a nord e a sud e che sono legati agli USA da un accordo di libero scambio negoziato dallo stesso Trump, e gli alleati asiatici di Washington, Corea del Sud e Giappone. Tutti questi fronti hanno le loro peculiarità: il rapporto commerciale di gran lunga più importante per gli USA è quello con i suoi vicini all’interno dell’accordo di libero scambio denominato USMCA, che è l’accordo commerciale più importante al mondo in termini di PIL; nell’ambito di questo accordo, gli USA importano da Canada e Messico merci per oltre 900 miliardi di dollari l’anno e, cioè, oltre il doppio delle importazioni dalla Cina, che, a loro volta, sono superiori a quelle dall’Ue, che, a loro volta, sono di gran superiori a quelle da Giappone e Corea del Sud messe assieme. La divisione del lavoro all’interno di questa gigantesca area di libero scambio è stata fatta tutta a misura e somiglianza degli interessi delle grandi corporation statunitensi, che esternalizzano le parti a minor valore aggiunto e si tengono per loro il grosso dei profitti: in Messico il grosso del vantaggio consiste nel costo del lavoro, con i salari messicani nel manifatturiero che sono tra le 4 e le 6 volte inferiori a quelli statunitensi; inoltre godono di una quantità consistente di benefici fiscali messi in campo dal Messico per attrarre quanti più investimenti possibili. In Canada il risparmio sul costo del lavoro è decisamente più contenuto, se non nullo; gli USA, però, estraggono una quantità gigantesca di plusvalore anche dai cugini smidollati del nord importando grandi quantità di greggio a prezzi d’occasione, che poi raffinano in patria intascando così, anche in questo caso, la parte di gran lunga più consistente della torta.
I primi a rimetterci nel caso questo giochino terminasse, quindi, sarebbero le grandi corporation statunitensi che, infatti, lunedì scorso se la sono vista brutta, con crolli ad apertura dei mercati che vanno dal 5% di Tesla al 6% di General Motors; i colossi energetici USA, invece, hanno avuto perdite più contenute. Con il greggio canadese Trump c’era voluto andare di fioretto, ponendo tariffe del 10 invece che del 25% che, comunque, erano state sufficienti a far perdere quasi 3 punti a ConocoPhillips e 2,5 a ExxonMobil. Secondo le groupies di Re Donald, questo non significa niente: Re Donald sarebbe un paladino della classe media pronto a sacrificare i profitti delle grandi corporation per rimpinguare le tasche dell’America profonda. Le sue politiche fiscali, però, non sono esattamente in linea con questa immagine da working class hero: durante il primo mandato, Re Donald infatti ha tagliato l’imposta sulle società dal 35 al 21%, trasformando gli USA sostanzialmente in una sorta di gigantesco paradiso fiscale, e ora sarebbe pronto a rilanciare, con la proposta di abbassarle ulteriormente al di sotto del 15%.
Regalare quattrini alle oligarchie, per Trump è sempre stata una vera e propria fissazione: durante il primo mandato, secondo alcune stime, l’80% dei benefici fiscali sono andati nelle tasche dell’1% più ricco della popolazione; ora ci sta benissimo che da quando ha incontrato quei bolscevichi della PayPal mafia e il compagno astro nascente della finanza speculativa JD Vance abbia cambiato idea, ma prima di darlo per assodato, aspetterei di vedere qualche misura concreta. Per ora, l’unica misura concreta è stata strappare l’accordo con l’OSCE, che fissava una global minimum tax per le aziende del 15%; d’altronde, per gli analfoliberali che provano ad attaccarsi a questi elementi per cercare di rivogarci la vecchia storiella di come si stava bene quando c’era lui, vale la pena ricordare che Biden ha vinto le elezioni promettendo di riaumentare sia l’aliquota sul reddito della aziende dal 21 al 28%, sia quella sui redditi più alti, ma sono tutte promesse che sono rimaste lettera morta (per cui, che lo vadano a raccontare a Massimo Gramellini).
Ma, tornando alle magnifiche sorti e progressive della corte di Mar-a-Lago, se la teoria di Re Donald che ridistribuisce ricchezza non sta tanto in piedi, anche le sue minacce di dazi contro Messico e Canada risultano non particolarmente credibili, anche perché il problema non sarebbero solo i profitti immediati delle grandi corporation, alle quali ha sempre dimostrato tutta la sua devozione; il problema, se possibile, è ancora più profondo e strutturale: quei dazi, infatti, comporterebbero immediatamente un aumento dei costi consistente per una lunghissima serie di prodotti industriali. Secondo l’Economist, le varie componenti che poi finiscono in un auto, per fare un esempio, oggi attraversano le frontiere dei tre Paesi in media 7 volte; cosa comporti riportare tutto nei confini domestici è piuttosto evidente: inflazione più alta significa necessariamente, come ha già annunciato chiaramente Powell, tassi più alti più a lungo da parte della FED, cosa che i mercati danno per scontata da un po’, al punto che anche mentre la FED procedeva a tagliare, seppure con cautela, i tassi di interesse, gli interessi effettivi che venivano pagati sui titoli del debito continuavano comunque ad aumentare e, con loro, anche il valore del dollaro che Trump, al contrario, vorrebbe indebolito per incentivare le esportazioni del Made in USA.
Una delle fissazioni dei cortigiani di Re Donald, allora, consiste nel risolvere questa equazione irrisolvibile diminuendo i prezzi dell’energia incentivando nuove estrazioni a suon di deregolamentazioni ambientali, ma i produttori non sono molto d’accordo: chi glielo fa fare di indebitarsi fino al collo per fare gli investimenti necessari per aumentare la produzione, con la prospettiva che il petrolio costerà sempre meno fino a non essere in grado di ripagarli dell’investimento – soprattutto dal momento che i tassi di interesse sono così alti e anche il dollaro è così forte – rendendoli meno competitivi sui mercati internazionali? E, di sicuro, iniziare mettendo dazi sul greggio canadese non aiuta: mettere i dazi su Messico e Canada, quindi, equivale a tagliarsi le palle per fare dispetto alla moglie e per fare contenti gli attivisti MAGA. A cosa serve, quindi, tutta questa manfrina? Come abbiamo detto in un altro video, a fare lo sbirro cattivo, talmente matto e imprevedibile da costringerti a dargli orologio e portafoglio prima ancora che tiri fuori il coltellino a serramanico. Con questa mossa, Trump vuole guadagnare qualche vantaggio nei negoziati che lo aspettano sugli altri due fronti – quello cinese e quello europeo – che, però, hanno reagito in modo leggermente diverso: la Cina ha dichiarato che a partire da lunedì prossimo implementerà una tariffa del 15% su carbone e gas naturale liquefatto e una del 10% sul petrolio greggio, sulle macchine agricole e sulle auto di grossa cilindrata; ma, soprattutto, ha annunciato un’altra stretta sull’esportazione di alcuni elementi critici per i prodotti ad alto contenuto tecnologico – dal tungsteno al tellurio, dal molibdeno all’indio, tutti materiali designati dagli USA come minerali critici (e, cioè, essenziali per la sicurezza economica e nazionale). Insomma: se vuole dichiarare guerra, noi non staremo a guardare.
E l’Europa? In Europa da qualche decennio c’è un metodo scientificamente infallibile per capire le mosse più opportune: leggere l’opinione di qualche bocconiano e fare l’esatto contrario; è stato così durante tutta la lunga fase dell’austerity espansiva, con Giavazzi che pontificava sulle magnifiche sorti e progressive dei vincoli di bilancio imposti dall’Europa di Maastricht e delle virtù delle politiche restrittive anche in piena recessione. Ovviamente oggi Giavazzi si è letteralmente rimangiato tutto (come d’altronde pure Mario Monti) perché ora la partita è diversa; ora la lotta di classe ha un nome preciso: da una parte chi è per limitare la circolazione dei capitali e, dall’altra, chi si arrampica sugli specchi proponendo ricette sconclusionate pur di non mettere nessun limite alla libertà dei super-ricchi di arricchirsi alla faccia nostra. A recitare questa parte, a questo giro, tocca a Daniel Gros, che all’Università Bocconi dirige l’Institute for European Policymaking e che, dalle pagine del Corriere, ammonisce: “Non serve a nulla mostrare i muscoli. Abbiamo delle carte da giocare: comprare più armi e più energia. Può darsi che Trump se lo faccia bastare”; e, se non se lo farà bastare, vorrà dire che cercheremo qualcos’altro da svendergli, tanto i cittadini europei nella peggiore delle ipotesi sono rassegnati, nella migliore sono proprio felici. La voglia di tafazzismo tra i cittadini europei sta raggiungendo vette inesplorate; un’ondata di fervore ideologico che non si vedeva da decenni, nutrita sapientemente da decenni di lavoro sottotraccia da parte di think tank multimilionari e definitivamente innescata dai deliri e dall’arroganza degli analfoliberali: “Tutti continuano a dire che noi avevamo votato per uova e gas più convenienti” commenta un attivista MAGA sul profilo Truth di Re Donald. “Signore e signori, io ho votato esclusivamente per vedere le lacrime dei liberali”; “Pagherei 10 dollari ogni fottuto uovo per continuare a vedere Trump usare una fiamma ossidrica contro tutto questo tempio malato di ladri, traditori e pedofili, vederlo bruciare e pisciare sulle ceneri”.
A farsi portavoce sia della passione per la sottomissione dei bocconiani, che della versione europea di questo fervore mistico che trascende il mero calcolo degli interessi materiali di ognuno, c’è la nostra premier; tra i leader europei ormai completamente privi di mandato popolare – e, forse, proprio solo per quello – c’è infatti chi comincia un po’ a scalpitare di fronte alle minacce trumpiane, ma quando ieri si sono riuniti a Bruxelles, Giorgia è corsa a fare da pompiere. Contro la proposta di francesi e tedeschi di minacciare dazi uguali e contrari, Giorgia invita alla cautela: “Avete visto che il Messico ha già trovato una soluzione? E anche il Canada? Lui fa così, è un negoziatore. Sarebbe sbagliato scegliere il muro contro muro”. Non c’è niente da fare: per i criptofascisti essere forti coi deboli e deboli coi forti è proprio una questione di DNA, ma il dato antropologico non è l’unica cosa che preoccupa; come ha sottolineato numerose volte il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi, infatti, se imporre dazi contro Canada e Messico è come darsi la zappa sui piedi e porli contro la Cina è sostanzialmente infattibile, porre tariffe all’Unione europea sarebbe sostanzialmente pacifico e indolore. Le nostre borghesie svendute all’invasore ormai da decenni, infatti, non farebbero altro che traslocare negli USA, approfittando anche dei generosi sgravi fiscali promessi da Re Donald; l’unica possibilità concreta che abbiamo di difenderci dall’offensiva di Trump è impedire con la forza la libera circolazione dei capitali, ma per impedire la libera circolazione dei capitali servirebbe una classe politica che fa gli interessi generali delle nazioni europee e non delle oligarchie parassitarie e sottomesse a Washington e a Wall Street che ci sono rimaste.
Insomma: grazie alla dittatura delle fazioni analfoliberale e anaflosovranista del partito unico della sottomissione a Washington, l’Europa si appresta ad essere la vera grande vittima sacrificale del fuffaguru Donald Trump e l’unica via di uscita è mandarli tutti a sostituire i migranti illegali messicani a raccogliere le fragole in Florida. Per convincere i nostri concittadini che è l’unica soluzione possibile, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che dia voce ai bisogno concreti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
E chi non aderisce è Maurizio Belpietro