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Tag: economica

Le conseguenze economiche della guerra [pt.2]: fame e debito, l’insostenibile crisi del sud del mondo

Benvenuti nell’era del debito: negli ultimi 15 anni il debito è passato da rappresentare il 278% del PIL globale nel 2007 a poco meno del 350% oggi. Il tutto mentre il PIL globale, dai 58 mila miliardi del 2007, superava nel 2022 quota 100 mila miliardi. E ad essersi indebitati non sono solo i governi: anche le famiglie e le imprese non fanno altro che indebitarsi sempre di più. Una specie di gigantesco schema Ponzi attraverso il quale si cerca di rimandare a oltranza la resa dei conti di un’economia globale resa completamente insostenibile dalla finanziarizzazione, dove i lavoratori per consumare sono costretti a indebitarsi sempre di più, e idem con patate pure le aziende, col solo scopo di mantenere alti i dividendi e continuare a riempire le tasche degli azionisti che, stringi stringi, alla fine sono sempre i soliti: una manciata di fondi di gestione speculativi che ormai da soli si spartiscono la maggioranza delle azioni di tutte le principali corporation globali.
Ma ad essere letteralmente esploso è il debito degli Stati che, in un mondo minimamente equo e democratico, non sarebbe di per se un problema. Il debito pubblico può servire per finanziare l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, la politica industriale; insomma, l’economia reale, che così può diventare enormemente più produttiva, e il problema del debito come per incanto non esiste più, il sistema è sostenibile e il benessere cresce. Purtroppo il mondo dove viviamo è tutto tranne che equo e democratico e quel debito, almeno per qualcuno, si trasforma in una vera spada di Damocle a disposizione delle oligarchie finanziarie per ultimare il processo di saccheggio e predazione dei paesi relativamente più deboli. Secondo le Nazioni Unite, il debito pubblico globale dal 2000 ad oggi è aumentato di oltre 5 volte, e a fare la parte del leone sono proprio i paesi in via di sviluppo – dove è aumentato al doppio della velocità che non nei paesi sviluppati – che ora sono sull’orlo di un collasso di proporzioni bibliche.
L’inizio della fine è arrivato con la crisi pandemica:la recessione globale ha fatto crollare il mercato delle materie prime, che spesso rappresentano l’unica entrata per i paesi più deboli, mentre nel frattempo la spesa sanitaria esplodeva grazie anche ai prezzi da rapina imposti dai giganti di Big Pharma per i vaccini. Ma era solo l’inizio; dopo il danno della crescita esponenziale del debito durante la crisi pandemica, ecco che arriva la beffa. Due volte. Quella che abbiamo definito la guerra mondiale a pezzi ha scatenato infatti una corsa al rialzo dei tassi di interesse, che ora viene amplificata di nuovo dal Medio Oriente che torna ad incendiarsi. Risultato? Pagare gli interessi su quel debito, per una quantità enorme di paesi, è diventato semplicemente impossibile. Le oligarchie finanziarie si strofinano le mani, pronte a imporre ai paesi a rischio default un’altra dose da cavallo della solita vecchia ricetta neoliberista a suon di liberalizzazioni e privatizzazioni, che devasterà definitivamente le loro economie ma che riempirà oltremisura le tasche dell’1%. E’ un film che abbiamo già visto e che, oggi come allora, ci pone di fronte allo stesso bivio: cancellazione del debito o barbarie.
Ma a questo giro, a ben vedere, c’è una grossa novità: negli ultimi 30 anni, un pezzo importante di quel mondo di sotto,che abbiamo sempre visto esclusivamente come terra di predazione, si è organizzato e oggi potrebbe avere spalle abbastanza larghe per offrire ai paesi in via di sviluppo una via di fuga dalla trappola del debito. Riuscirà l’insostenibile avidità di un manipolo di oligarchi a dare finalmente il coraggio ai paesi del sud del mondo di staccare definitivamente il cordone ombelicale del neocolonialismo e contribuire concretamente a creare un nuovo ordine multipolare?
“Ma ‘ndo vai, se il dollarone non ce l’hai?”
Questa, in soldoni, la prima regola del commercio internazionale nell’era della dittatura globale del dollaro; il grosso delle merci scambiate a livello globale è denominato in dollari, e in particolare sono denominate in dollari quelle materie prime senza le quali anche tutto il resto non potrebbe esistere, a partire dal petrolio. Quindi, a meno che tu non sia un’autarchia perfetta – che non esiste – per tutto quello che non riesci a produrre da solo e devi importare da fuori, ti servono dollari. Ma come fai a ottenerli? La strada maestra, ovviamente, è vendere beni e servizi in giro per il mondo e farteli pagare in dollari: una gran fregatura per quei pochi paesi, come la Cina, che sono stati in grado di trasformarsi da paesi arretrati in potenze industriali. Significa infatti che accumuli un sacco di dollari che non sai come usare, perché esporti più di quanto importi, e quindi hai sempre più dollari di quelli che ti servono per comprare tutto il necessario. La fregatura è che, con questa montagna di dollari che ti ritrovi, alla fine non puoi far altro che comprarci asset finanziari denominati in dollari, e siccome la patria del libero mercato non ti permetterà mai di comprarti le sue principali aziende, alla fine l’unico prodotto disponibile in quantità sufficiente per assorbire tutti i tuoi dollari sono solo i titoli del debito statunitense. In soldoni, te lavori e loro incassano.
Ma c’è chi è messo anche peggio, cioè tutti quei paesi che il salto che ha fatto la Cina non sono stati in grado di farlo, e sono ancora avvolti dalla morsa del sottosviluppo dove sono stati costretti da secoli di colonialismo prima e neocolonialismo poi. Questi paesi, di beni e servizi da esportare ce ne hanno pochini, giusto qualche materia prima; per il resto devono importare tutto, quindi hanno sempre meno dollari del necessario e sono costretti a chiederli in prestito. Prima di tutto provano a chiederli in prestito ai privati, che però si fanno pagare cari (e più ne hai bisogno, più si fanno pagare); più interessi paghi, meno soldi hai da investire. Più ti impoverisci, e più interessi devi offrire per ottenere nuovi prestiti.
Ecco allora che entrano in gioco le istituzioni finanziarie multilaterali, che sono sostanzialmente due: la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Sulla carta, un’àncora di salvezza: per statuto infatti, dovrebbero servire a fornire valuta pregiata – cioè fondamentalmente dollari – a chi è in difficoltà, in modo da permettergli di sviluppare la sua economia, industrializzarsi e quindi aumentare la quota di beni e servizi che è in grado di esportare, attraverso la quale finalmente incasserà tutti i dollari che gli servono. Purtroppo però, in realtà, hanno fatto esattamente il contrario. Il punto è che, come ogni creditore, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale i quattrini non te li prestano sulla fiducia. Vogliono in cambio delle garanzie, e fino a qui sarebbe pacifico. La faccenda però diventa distopica quando cominci a entrare nel dettaglio del tipo specifico di garanzie che ti chiedono, perché invece di chiederti qualche bene come collaterale, come garanzia, ti chiedono di lasciarli decidere al posto tuo la tua intera politica economica. “Programmi di Aggiustamento Strutturale” li chiamano, e in soldoni significano 3 cose: tagli alla spesa pubblica, deregolamentazioni e privatizzazioni. LaTriplice alleanza della controrivoluzione neoliberista, il mondo a immagine e somiglianza degli interessi delle oligarchie finanziarie che, ovviamente, per tutti gli altri semplicemente non funziona. In prima battuta perché i tagli alla spesa pubblica, ovviamente, non sono una cosa astratta, ma sono i servizi essenziali forniti dallo stato, senza i quali la parte di popolazione più fragile spesso e volentieri non riesce a sopravvivere.
Questa versione edulcorata di un vero e proprio crimine contro i diritti fondamentali dell’uomo è soltanto l’antipasto, perché quella ricetta, dal punto di vista economico, proprio non funziona. Non so se qualcuno in buona fede, qualche decennio fa, si fosse convinto che potesse funzionare; quello che so è che oggi abbiamo le prove che era una leggenda metropolitana. Per crescere, infatti, c’è una precondizione, ossia che quella che Keynes chiamava “domanda aggregata” (cioè i soldi che tutti, dai consumatori, alla macchina pubblica, alle aziende, spendono) deve aumentare. I Programmi di Aggiustamento Strutturale impongono esattamente il contrario e loro no, non lo fanno in buona fede; a noi magari ci spacciavano la leggenda metropolitana, ma loro qual’era il loro obiettivo reale lo sapevano benissimo. Nell’immediato, far fare affari d’oro alle oligarchie finanziarie che si compravano i gioielli di famiglia dei paesi indebitati a prezzi di saldo e, nel lungo periodo, trasformare questi paesi in colonie strutturalmente incapaci di esercitare una qualsiasi forma di sovranità. La mancata crescita causata dalla politica economica imposta da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale non faceva altro che costringere i paesi interessati a chiedere sempre nuovi prestiti che, per essere concessi, richiedevano riforme sempre più feroci che indebolivano ancora di più l’economia e che costringevano a chiedere altri prestiti. E così via, all’infinito.

Che i Programmi di Aggiustamento Strutturale siano, in fondo, nient’altro che un sofisticato meccanismo di rapina architettato dal nord globale a guida USA a spese del resto del mondo è ormai cosa nota e risaputa e pure ammessa, tra le righe, dal Fondo Monetario Internazionale stesso. “Aggiustamenti strutturali?” si chiedeva retoricamente Christine Lagarde nel 2014, al terzo anno del suo mandato da direttrice del Fondo. “E’ roba precedente al mio mandato” affermava “e non ho idea in cosa consista”. Come si dice, “ti pisciano addosso e ti dicono che piove”.
Ovviamente il Fondo Monetario non ha mai cambiato nemmeno di una virgola il suo operato, come dimostra plasticamente un importante studio scritto a 4 mani dalla direttrice del Global Social Justice Program della Columbia University di New York Isabel Ortiz e da Matthew Cummins, economista in forze al Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite prima, e direttamente alla Banca Mondiale poi. Tre anni fa si sono presi la briga di ripassare al setaccio tutti e 779 i rapporti del Fondo Monetario Internazionale risalenti al periodo 2010-2019 e, come volevasi dimostrare, hanno ritrovato la solita vecchia ricetta.
Uno: riduzione del monte salari, sia sotto forma di tagli agli stipendi che di licenziamenti di massa di dipendenti pubblici.
Due: riduzione delle sovvenzioni per beni energetici e alimentari di base.
Tre: tagli drastici alle pensioni.
Quattro: riforme feroci del mercato del lavoro, dall’abolizione dell’adeguamento dei salari all’inflazione all’introduzione di forme sempre più estreme di precariato di ogni genere.
Cinque: tagli drastici alla spesa sanitaria pubblica e introduzione di forme di sanità privata.
Sei: aumento delle tasse su beni e servizi essenziali.Sette: ovviamente privatizzazioni.
Manco con l’esplosione del debito, avvenuta in piena pandemia, il Fondo Monetario s’è lasciato minimamente intenerire: secondo uno studio di Oxfam, l’85% dei prestiti concessi a partire dal settembre 2020 impone ancora una bella overdose di misure lacrime e sangue; ma le misure imposte dal Fondo Monetario che più platealmente rappresentano una versione educata e politically correct di crimini contro l’umanità sono senz’altro quelle che hanno a che vedere con la sicurezza alimentare. In nome del libero commercio – che ovviamente deve valere solo per i paesi poveri e che gli USA possono contravvenire quando e come più gli piace imponendo tutti i dazi che vogliono senza mai pagare pegno – a tutto il sud globale è stato imposto di abbattere le tariffe che proteggevano gli agricoltori locali dall’invasione di beni alimentari essenziali a basso costo provenienti dall’estero. E’ quello che è avvenuto di nuovo recentemente, ad esempio, nelle Filippine, dove un prestito da 400 milioni di dollari è stato autorizzato soltanto dopo che il paese aveva accettato di eliminare le quote sull’importazione del riso. Eliminata la quota, gli agricoltori locali ovviamente si sono trovati di fronte alla concorrenza sleale di riso a basso costo importato dall’estero che li ha immediatamente messi fuori mercato e li ha costretti a convertirsi in massa a coltivazioni esotiche di ogni genere destinate all’esportazione – che è esattamente quello che il Fondo Monetario Internazionale impone sostanzialmente a tutto il sud del mondo da decenni – che ha distrutto la capacità dei singoli paesi di sfamare le loro popolazioni.
Mentre si rendevano tutti questi paesi totalmente dipendenti dalle importazioni per sfamarsi, in contemporanea si procedeva con la finanziarizzazione del mercato globale dei beni alimentari essenziali a partire dal grano, che oggi è totalmente in mano a un manipolo di oligarchi. Il 90% del grano, oggi, è prodotto in appena 7 paesi e circa l’80% del commercio globale del grano è gestito da appena 4 multinazionali, 3 delle quali sono americane. E i prezzi vengono stabiliti al casinò.
Come abbiamo anticipato nella prima parte di questa miniserie sulle conseguenze economiche della guerra, infatti, oggi a rendere totalmente schizofrenico e volatile il prezzo di queste materie prime ci pensa la speculazione finanziaria fatta da soggetti che gestiscono una quantità spropositata di quattrini che, invece che comprare e vendere la materia prima, si limitano a scommettere sull’andamento del suo prezzo; solo che smuovono una tale quantità di quattrini che le loro scommesse hanno il potere magico di auto-avverarsi. Nel casinò del mercato delle materie prime più importanti, le oligarchie finanziarie sono il banco che vince sempre e affama i popoli; ecco così che quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina, il prezzo dei futures sul grano alla borsa di Chicago è salito, nell’arco di pochi giorni, di oltre il 50%, tirandosi dietro anche il prezzo che devono pagare quelli che il grano lo vorrebbero comprare semplicemente per nutrirsi. I prezzi, in realtà, erano in ascesa già prima del 2022, così come quelli dell’energia e di svariate altre materie prime; ma in un sistema scientificamente reso così fragile per far posto all’oligopolio delle grandi imprese e al margine di profitto speculativo, una guerra del genere non può che fare l’effetto di correre su un pavimento insaponato coperto di bucce di banane. La beffa è che quando poi la corsa speculativa si prende una pausa e i prezzi sulle borse rientrano almeno temporaneamente, nel sud del mondo manco se ne accorgono e i prezzi al consumo non si spostano granché. Ganzo, vero?

Il risultato è che, secondo la FAO, abbiamo 122 milioni di affamati in più rispetto al 2019 e potrebbe essere solo un antipasto: il Medio Oriente che torna ad incendiarsi rischia di far ripartire a breve la speculazione su tutte le materie prime, e a questo giro i paesi del sud del mondo sono ancora meno attrezzati che in passato, perché sono indebitati fino al collo e il costo degli interessi che devono pagare su quei debiti è ormai fuori controllo. La corsa al rialzo dei tassi di interesse ha infatti rafforzato il dollaro rispetto alla quasi totalità delle valute dei paesi in via di sviluppo; questo significa che se prima il tuo debito in dollari valeva 100 unità di misura della tua valuta locale, ora ne vale magari 120 o anche 130. Se anche l’interesse che sei costretto a pagare fosse rimasto uguale, basterebbe di per se a mandare i conti a catafascio; ma qui l’interesse non è rimasto uguale per niente. E’ aumentato a dismisura e, una volta che l’hai pagato (sempre che tu ci riesca), di quattrini per importare il grano non te ne rimangono più. Ed è così che, secondo le stesse stime del Fondo Monetario Internazionale, oggi ci sarebbero la bellezza di 36 paesi a basso reddito che rischiano di non riuscire a pagare. La buona notizia è che a questo giro potrebbero decidere davvero di non farlo.
Da parte dei creditori e dei loro organi di propaganda, infatti, il default viene dipinto come la peggiore delle catastrofi possibili immaginabili. E graziarcazzo: non solo rischiano di perderci dei soldi, ma lo spauracchio del default è la minore minaccia possibile per costringerli un’altra volta a svendere tutto lo svendibile e a far fare affari d’oro alle oligarchie. Ma, in realtà, non deve andare per forza così: i default nella storia del capitalismo sono un fenomeno piuttosto ricorrente e, quando vengono dichiarati, semplicemente i creditori sono costretti a negoziare per cercare di arraffare l’arraffabile. Intendiamoci: non voglio dire che siano indolori – ci mancherebbe – ma a quel punto però, almeno potenzialmente, la palla passerebbe alla politica. Un paese sovrano politicamente solido e con una classe dirigente che fa gli interessi del suo popolo – e non dei creditori o di qualche parassita di casa – qualche strumento per vendere cara la pelle in realtà ce l’ha, sopratutto se in giro per il mondo ci sono altri paesi economicamente rilevanti che non si schierano senza se e senza ma dalla parte dei creditori, e che decidono di non trattarlo come un paria economico dopo che ha dichiarato il default. Il che è proprio una delle differenze principali rispetto a ormai quasi 40 anni fa, quando – con l’inaugurazione della reaganomics e l’arrivo di Paul Volcker alla Fed con la sua politica economicamente stragista di innalzamento spropositato dei tassi di interesse – i paesi in via di sviluppo erano stati messi letteralmente in ginocchio: allora, infatti, gli unici ad avere i soldi erano i paesi del nord globale, tutti schierati al fianco della dittatura dei creditori.
Oggi non più: in particolare, ovviamente, la new entry della scena finanziaria globale rispetto ad allora è la Cina. Nell’ultimo anno, la propaganda delle oligarchie ha lanciato una campagna per criminalizzare le titubanze della Cina a partecipare ai piani di “ristrutturazione del debito a suon di lacrime e sangue” del Fondo Monetario Internazionale: con eroico sprezzo del pericolo hanno provato addirittura a rovesciare completamente la frittata e ad accusare la Cina di aver spinto alcuni partner commerciali in una trappola del debito tutta sua, ma ovviamente la realtà è l’esatto opposto.

La Cina si rifiuta di partecipare all’omicidio assistito dei paesi indebitati e propone un modello completamente diverso: è il modello basato sul finanziamento delle infrastrutture che sta al centro della Belt and Road Initiative, che approfondiremo in dettaglio nella terza parte di questa miniserie dedicata alle conseguenze economiche della guerra. Qui basta ricordare che, a differenza di 40 anni fa, i paesi che decidono di uscire dalla spirale perversa del debito contratto con le oligarchie del nord globale potrebbero trovare dei partner affidabili;un deterrente potente contro l’utilizzo da parte del Fondo Monetario Internazionale dei suoi strumenti più spregiudicati che, da qualche tempo a questa parte, sta spingendo il nord globale ad accennare qualche timida apertura verso una riforma complessiva della governance del Fondo e anche della Banca Mondiale, che i paesi in via di sviluppo chiedono ormai da decenni. In particolare, in ballo c’è la ridefinizione delle quote, che ormai appartengono a un’era passata. Gli USA sono di gran lunga la prima potenza del FMI con il 17,4% di quote; a regola, al secondo posto – se non addirittura al primo – ci dovrebbe essere la Cina, che è la principale economia del pianeta – per lo meno se ragioniamo in termini di parità di potere di acquisto. E invece no: al secondo posto ci troviamo il Giappone, con il 6,47% delle quote. La Cina arriva soltanto terza, con il 6,4%: poco più di un terzo rispetto agli USA, e appena di più di economie in caduta libera come quella tedesca e addirittura quella decotta del Regno Unito.
Le quote sono fondamentali perché determinano il potere di voto e ancora più determinanti perché il fondo, per prendere qualsiasi decisione importante, deve mettere assieme l’85% dei consensi: gli USA da soli, quindi, hanno il potere di bloccare qualsiasi riforma non rispecchi esattamente i suoi interessi egoistici. Insomma, a partire dalla sua governance, il Fondo è un altro strumento a disposizione dell’imperialismo finanziario USA che, dopo decenni di rapine e predazioni, avrebbe anche abbondantemente rotto il cazzo. Per evitare che pian piano tutti se ne scappino a gambe levate, e alle condizioni vessatorie del Fondo comincino a preferire quelle decisamente più ragionevoli dei cinesi (sia nell’ambito della Belt and Road che no), gli USA da qualche tempo fanno finta di dimostrarsi disponibili a ragionare di una qualche riforma. L’occasione perfetta, che tutti aspettavamo in gloria, si è conclusa giusto pochi giorni fa: nel week end scorso a Marrakech s’è infatti tenuta l’assemblea annuale del Fondo, e in tanti si aspettavano qualche buona notizia. Invece niente. Il summit si è concluso con un nulla di fatto, e quello che mi ha ancora più impressionato è che non se n’è neanche sentito parlare. L’arroganza del nord globale, sempre più distaccato dalla realtà e autoreferenziale, non solo rischia di far sprofondare nella miseria centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta ma, alla fine, rischia anche di rivelarsi un gigantesco autogoal.
E’ la lobby di fare per accelerare il declino, che continua a condannarci tutti a una fine ignobile; per contrastarla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che – invece di fare propaganda per l’1% – dia voce al 99.

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E chi non aderisce è Christine Lagarde

La grande rapina: come le oligarchie ci hanno rubato tre stipendi e hanno reintrodotto la schiavitù.

Questa sui media di sicuro non la troverete. Eppure è l’informazione che probabilmente più ha impattato sulle vostre vite da qualche anno a questa parte.

Nel 2022, infatti, la vita degli italiani è stata letteralmente devastata da un’ondata di crimini senza precedenti. Una nutrita banda di insospettabili, organizzati in modo scientifico e sostenuti dalle più alte cariche dello Stato, s’è armata di passamontagna e di piedi di porco, ha fatto irruzione nelle case degli italiani e gli ha fottuto circa un quarto di tutti i loro averi.

Sono gli azionisti delle 2000 principali aziende italiane, dove i dipendenti, nell’arco di un anno, hanno visto crollare il potere d’acquisto dei loro salari del 22%.

Ripeto: non il 5% o il 10%, come ipotizzavamo scandalizzati qualche settimana fa. Il 22%

Un quarto del vostro stipendio. Come se oggi arrivasse qualcuno e vi dicesse che da qua a gennaio niente più stipendi. Zero. Solo file alla Caritas.

“Vabbè, ma c’è la crisi”.

Complottista. Nessuno ha rubato niente. È tutta colpa dell’inflazione…”

Sì, colcazzo.

Perché proprio mentre i lavoratori perdevano il 22% del loro salario reale, i profitti continuavano ad aumentare. Di quanto? Esatto: proprio del 22%. Né un punto in meno, né un punto in più.

A tanto ammonta l’aumento del margine operativo netto delle oltre duemila principali aziende italiane nel 2022.

E non lo dice qualche pericoloso bolscevico, lo certifica l’area studi di Mediobanca. Lo annuncia come un vero e proprio trionfo: “In conclusione”, si legge nel report, “le imprese italiane mostrano oggi profili finanziari maggiormente adatti a fare fronte all’inflazione rispetto a quanto accadde negli anni ‘80”. Quando evidentemente rapinare sfacciatamente i propri dipendenti ancora non era considerata una virtù.


C’è un grande mistero che da qualche mese pervade tutto il vecchio continente. Dopo decenni di controrivoluzione neoliberista ci siamo abituati a credere che il mondo nel quale viviamo giri tutto attorno a un feticcio: la crescita economica.

D’altronde, è quello che ci raccontano continuamente: sei preoccupato perché il tuo lavoro è sempre più instabile e precario? È necessario per tornare a crescere.

Le istituzioni sono sempre più verticistiche, e gli spazi di democrazia scompaiono uno dietro l’altro? È indispensabile per la governabilità che è indispensabile per crescere.

Le scuole, gli ospedali e il tuo conto all’INPS vengono demoliti? È per mettere in ordine i conti e tornare a crescere.

Fino a quando un bel giorno ai piani alti decidono di gettarci anima e cuore in una guerra diretta contro il nostro principale fornitore di energia, devastando la competitività della nostra industria. Ma non solo, come se non bastasse, decidono pure di adottare una spericolata politica monetaria che toglie risorse all’economia.

Le conseguenze, ovviamente, non tardano ad arrivare.

Ci aspettiamo che l’eurozona nel terzo trimestre di quest’anno entri definitivamente in recessione”, avrebbe dichiarato il capo economista della Hamburg Commercial Bank a Bloomberg. “Il nostro indice, che incorpora gli indici PMI”, avrebbe affermato, “indica un calo dello 0,4% rispetto al secondo trimestre“.

Come vi raccontiamo ormai da mesi, era del tutto scontato. Ma allora, questo benedetto feticcio della crescita che fine ha fatto? Vabbè, ma celokiedono gli USA.

Ok, sì, ci sta. Che lo stato metta davanti, almeno temporaneamente, la necessità di essere fedele ai diktat del padrone a stelle e strisce agli interessi immediati della sua economia, è un’ipotesi del tutto plausibile.

Ma le imprese? Le imprese mica sono think tank di geopolitica. La loro logica dovrebbe essere piuttosto chiara, e lineare: vogliamo che l’economia cresca. Com’è allora che di fronte al suicidio scientificamente programmato dell’economia europea, se ne rimangono in silenzio? Mute proprio.

È un mistero mica da poco. O almeno, lo era. Fino a quando i compagni di Mediobanca non si sono messi a investigare. Hanno preso i conti delle principali 2150 aziende italiane alla ricerca di qualche indizio e quello che hanno scoperto è AGGHIACCIANTE. Da un lato infatti, hanno scoperto che le scelte suicide dei governi i lavoratori le hanno pagate molto più care di quanto ipotizzate anche dai più pessimisti, a partire proprio da noi.

La forza lavoro”, scrive Mediobanca, “è la componente maggiormente penalizzata in termini di potere d’acquisto, con una perdita stimata intorno al 22% per l’anno 2022

Scusate se ripetiamo questo dato all’infinito. Ma è una cosa talmente scandalosa che noi per primi abbiamo riletto il rapporto dieci volte prima di farcene una ragione. Per capire l’entità, basta fare un confronto con il 1980, ovvero l’ultima volta che l’inflazione era cresciuta a doppia cifra. Allora, ricorda sempre Mediobanca, nell’arco di un anno il costo totale del lavoro aumentò di poco meno del 17%, nonostante il numero assoluto dei lavoratori si fosse ridotto di quasi l’1%. Significa che quel 99% che il lavoro se l’era conservato, aveva guadagnato in media appunto oltre il 17% in più rispetto all’anno precedente. Una cifra più che sufficiente per veder aumentato il suo potere d’acquisto, nonostante un’inflazione certificata del 13,5%. A questo giro invece l’occupazione è aumentata dell’1,7%, ma il costo del lavoro è rimasto sostanzialmente al palo, mentre il fatturato delle aziende aumentava addirittura di oltre il 30%.

Che fine hanno fatto tutti questi quattrini in più? Semplice, sono andati in tasca agli azionisti, tutti quanti. “Il margine operativo netto”, riporta entusiasta Mediobanca, “è avanzato del 21,9%. il risultato netto”, addirittura “del 26,2%”.

E graziarcazzo che le aziende non si sono ribellate al suicidio del governo. Non era un suicidio, ma un genocidio: dei lavoratori, per fregargli il malloppo e consegnarlo nelle mani degli azionisti. Che te frega a te sei il paese va allo scatafascio, se per tutto il bottino che comunque rimane ti lasciano mano libera di fare la più grande rapina a mano armata della storia repubblicana?

Vabbè, potrebbe obiettare giustamente qualcuno, consoliamoci almeno col fatto che questi quattrini sono andati nelle tasche di gente benestante, che ci avrà pagato sopra il massimo scaglione dell’IRPEF, che al momento è al 43%. Non sarà il 72% che si applicava ai più ricchi quando ancora andava di moda rispettare la costituzione italiana, ma sono comunque dei bei soldoni per garantire i servizi essenziali anche ai più disgraziati. Magari. Quei profitti infatti in larga misura diventano dividendi da pagare agli azionisti.

In due anni la Borsa di Milano ha pagato dividendi per quasi 140 miliardi di euro”, ricorda il nostro sempre puntualissimo Alessandro Volpi, e “sono tassati al 26 per cento. Se i beneficiati hanno residenza fiscale all’estero non pagano neppure quello”.

Le aziende armate di piede di porco e di passamontagna, quindi, non si sono limitate ad andare a svaligiare le case dei loro dipendenti, ma anche di tutto il resto degli italiani.

Ma la catena infernale non è ancora finita. Perché a questo punto uno potrebbe dire, vabbè, consoliamoci almeno col fatto che i nostri imprenditori hanno un sacco di quattrini da reinvestire nella nostra economia e rendere le loro aziende sempre più competitive.

Anche qui, magari. In realtà, purtroppo, la destinazione finale è tutt’altra. I quattrini che gli azionisti con la residenza fiscale all’estero hanno rubato ai lavoratori e sui quali non hanno pagato manco un euro di tasse non ci pensano proprio, infatti, di rinfilarsi nelle beghe degli investimenti nell’economia reale. Vanno tutti direttamente a produrre altri soldi tramite soldi. E il luogo per eccellenza dove si produce il grosso dei soldi attraverso altri soldi è uno solo: gli Stati Uniti e tutte le bolle speculative che continua a gonfiare proprio grazie a questa iniezione infinita di capitali rubati alla gente normale in tutto il resto del pianeta.

Capito ora perché non protestano? Capito perché i giornali, le tv e tutti gli altri mezzi di produzione del consenso, di loro proprietà, ci raccontano una serie infinita di fregnacce per indorare la pillola a costo di scadere continuamente nel ridicolo?

Comunque, per chiudere definitivamente il cerchio, rimane un problemino. Perché va bene che della crescita te ne frega il giusto, ma se tiri troppo la corda e la gente poi rimane senza il becco di un quattrino per comprare i tuoi prodotti e i tuoi servizi, alla fine quel profitto iniziale che ti permette di vivere una vita in vacanza tra le bolle speculative a stelle e strisce, da dove lo tiri fuori?

Ed ecco allora che la soluzione arriva dalla Grecia. In tema di devastazione e furto sistematico della ricchezza, una specie di piccola Italia che ce l’ha fatta. Pochi giorni fa infatti il governo reazionario di Mitsotakis ha presentato al Parlamento una proposta di riforma della legge sul lavoro da far invidia alle colonie schiaviste dei Caraibi dell’800: il tuo lavoro full time non ti permette più di mettere assieme uno stipendio sufficiente per sopravvivere? Che problema c’è: da oggi potrai liberamente e felicemente aggiungere un secondo lavoro, per un totale di tredici ore giornaliere. Sei giorni la settimana. Fino a 74 anni.

E se quando a 70 anni vuoi fare lo sborone e per mangiare inizi a fare un secondo lavoro che però dimostri di non essere in grado di svolgere in modo produttivo, nessun problema: entro un anno ti potrò licenziare senza preavviso, né retribuzione. E se da lurida zecca comunista, quale sei, stai pensando a organizzare una qualche forma di protesta, forse è il caso se ci ripensi: per i lavoratori che creano qualche blocco durante uno sciopero e impediscono ai colleghi di farsi sfruttare fino alla morte liberamente, in serbo ci sono una bella multa da cinquemila euro e sei mesi di carcere. D’altronde, ha affermato Mitsotakis, questa misura è indispensabile per combattere il fenomeno del lavoro nero e, ovviamente, “tornare a crescere”.

Un modello che piace moltissimo a quelli che la propaganda chiama mercati, ma che altro non sono sempre il solito manipolo di oligarchi di cui sopra. E anche ai loro giornali.

Come scrive Veronica De Romanis su La Stampa, infatti, grazie alle riforme di Mitsotakis, la Grecia crescerà il doppio dell’Italia nel biennio 2023-2024. E i mercati la premiano. Nonostante un debito di 30 punti superiore al nostro, continuano a pagare uno spread molto inferiore: 130 punti contro i nostri 180. “L’economia italiana”, sottolinea ovviamente la De Romanis, “è molto diversa da quella greca per dimensioni e forza produttiva. Tuttavia”, suggerisce, potremmo ispirarci al “percorso di cambiamento” che ha intrapreso. Questa idea vetusta che in un paese sviluppato non ci dovrebbe essere la schiavitù, suggerisce la De Romanis, è una patetica velleità. Ce lo chiedono i mercati: per tornare a crescere.

Contro la propaganda delle oligarchie che tifano per il ritorno alla schiavitù, oggi più che mai abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo.

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E chi non aderisce è Matteo Renzi.