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La Meloni SVENDE il Paese a Washington e Wall Street e viene nominata REGINETTA DI DAVOS

Dopo 15 mesi di governo, la Meloni passa a pieni voti l’esame di sudditanza geopolitica e di tecniche avanzate di svendita del paese alle oligarchie finanziarie, e Davos la incorona ufficialmente reginetta del ballo annuale del globalismo targato World Economic Forum; mentre i riflettori si concentravano tutti sulla performance dello scemo del villaggio globale, Javier motosega Milei, e della rappresentazione plastica del livello di degrado umano e culturale nel quale le oligarchie vorrebbero intrappolare il Sud globale nella speranza che la grande decolonizzazione segni una battuta d’arresto, lontano dalle luci della ribalta – e in modo molto più subdolo – persone molto più misurate e presentabili ma ancora più spietate e prive di scrupoli tessevano la trama del mondo distopico che ci aspetta. In una sorta di raffinato rituale pieno di simbolismi, Giorgia la madrecristiana ha offerto lo scalpo del paese ai fondi speculativi che dominano la finanza globale e ha siglato un patto di sangue col demonio che prevede il sacrificio dei cittadini italiani e di quel che rimane della nostra democrazia in cambio della salvezza di un ristrettissimo gruppo di potere. Ma in cosa consiste concretamente questo patto demoniaco?

Kenneth Rogoff

La Stampa, venerdì 19 gennaio; in diretta dalla lounge del Centro Congressi di Davos, ecco che torna in grande style una delle principali star internazionali dell’economia mainstream: Kenneth Rogoff, una specie di vademecum del perfetto analfoliberale suprematista. Il neocidio a Gaza? Colpa dell’Iran. L’inflazione? Colpa dei terroristi yemeniti. La guerra in Ucraina? Colpa della Russia, e pure della Corea del Nord, e anche della Cina, che la riempiono di armi. La crisi in Europa? Colpa di Donald Trump. La nota positiva? Tenetevi forte: GIORGIA MELONI. Serio, eh? Da buon analfoliberale, Rogoff inizialmente su Giorgia la madrecristiana aveva espresso più di qualche perplessità: “Dopo un anno di governo Meloni” gli chiede l’intervistatore “è ancora spaventato?”. “No,” risponde Rogoff “affatto. Sono giorni che continuo a sentire persone parlare bene di lei”; Rogoff racconta di come tra i corridoi di Davos abbia cercato di capire da banchieri e policy makers quali pensavano potessero essere i leader più promettenti in Europa: “Beh,” dichiara “in molti hanno tirato fuori il nome proprio di Giorgia Meloni”. “Il cancelliere tedesco è debole,” continua “il presidente francese è in declino. E di certo, non possiamo guardare al Regno Unito. Meloni invece” ribadisce Rogoff “è stata una sorpresa positiva. Potrebbe essere davvero lei la risposta giusta per questa Europa alla disperata ricerca di leader”; ed ecco che immediatamente la propaganda filogovernativa si dimentica per un attimo della sua retorica antiglobalista e festeggia come di fronte a un’investitura papale: Meloni, l’economista Rogoff: “leader d’Europa”, titola Libero.
Ma chi è esattamente Kenneth Rogoff? Ve la ricordate la teoria dell’austerità espansiva? Per anni è stata la parola d’ordine per eccellenza del mainstream, e indovinate un po’ chi l’ha inventata? Esatto: proprio lui, di persona personalmente; sulla base di quelli che allora vennero spacciati come una grossa mole di dati empirici certificati e inequivocabili, Kenneth Rogoff nel 2010, infatti, riuscì a dimostrare una cosa che avrebbe scioccato tutti gli economisti keynesiani: secondo gli economisti keynesiani, infatti, l’unico modo concreto per stimolare l’economia è che lo Stato metta nell’economia – sottoforma di servizi, investimenti e sussidi – più di quanto ci preleva sottoforma di tasse. Rogoff stravolge questo principio: dimostra come quando il debito pubblico supera il 90% del PIL, la crescita dei paesi – in media – diventa negativa e non supera il -0,1% e come, invece, se lo Stato mette meno soldi nell’economia di quanti ne preleva – e quindi diminuisce il debito – incomprensibilmente, come per magia, i consumi e gli investimenti privati aumentano; l’austerità, conclude Rogoff, al contrario di quello che sostengono gli statalisti, le zecche rosse e tutte le persone accecate dall’invidia e dal rancore verso i ricchi e il capitale, non deprime l’economia ma, al contrario, la rilancia. Un risultato totalmente controintuitivo che però per le élite e l’oligarchia è una vera e propria gigantesca manna dal cielo: se non fosse arrivato, toccava inventarselo. A partire dal 2009, infatti, i famigerati PIIGS entrano in una profonda recessione: se ci fossimo ancora attenuti al verbo delle zecche rosse e dei socialisti, saremmo per forza dovuti intervenire con soldi pubblici per stimolare l’economia; però lo Stato è brutto e il debito è cattivo, e quindi n se po’ fa. Come si risolve allora l’inghippo? Grazie alla teoria dell’austerità espansiva la soluzione è semplicissima: basta prendere l’autostrada in contromano e tagliare ancora un po’ e, per magia, l’economia riprenderà; ed ecco così che, in men che non si dica, questo risultato viene propagandato ai quattro venti da tutti i principali economisti di regime.
Citazioni entusiastiche si moltiplicano sul Financial Times, sull’Economist e sul Wall Street Journal: Paul Ryan, speaker alla camera USA dal 2015 al 2019, lo userà come base per una risoluzione a suo nome a sostegno delle politiche di austerity europee; l’attuale governatore della Banca di Finlandia Olli Rehn che, all’epoca, era nientepopodimeno che vice presidente della Commissione europea, in una lettera indirizzata ai ministri economici e finanziari della UE, al FMI e alla BCE, scriverà che “È largamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca accademica, che quando i livelli del debito pubblico superano il 90%, tendono ad avere un impatto negativo sull’andamento dell’economia, che si traduce in bassa crescita per molti anni”. Vi imponiamo ricette lacrime e sangue che vi riducono in miseria? Ma è per il vostro bene! Lo dicono i numeri di Rogoff! Lo dice la scienziaaah!
Particolarmente entusiasti della nuova rivoluzione copernicana di Rogoff da noi saranno i vari Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e, in generale, gli economisti che gravitano attorno alla Bocconi che, da lì in poi, diventeranno vere e proprie superstar; i risultati li conoscete tutti benissimo: ovviamente il PIL, invece che ripartire, non ha fatto che contrarsi ulteriormente. La disoccupazione è aumentata, il tenore di vita è peggiorato, i consumi sono diminuiti e paradossalmente poi, per mettere le toppe, pure il debito è aumentato molto di più di quanto non sarebbe stato necessario per introdurre politiche espansive prima; l’austerità espansiva ha funzionato talmente male da riuscire – addirittura – a far tornare qualche accenno di combattività anche tra le masse popolari anestetizzate ormai da decenni di controrivoluzione neoliberista e dalle sue conseguenze antropologiche. Nel 2013 se n’è accorto addirittura il Fondo Monetario Internazionale: ogni euro di contrazione fiscale – ha sottolineato – ha avuto un impatto recessivo di 1,5 euro; secondo i nostri prestigiosissimi teorici dell’austerità espansiva l’impatto recessivo sarebbe dovuto essere di 0,5 euri. In confronto, le previsioni di Mario Draghi sugli effetti delle sanzioni alla Russia sono state già più affidabili. Ma com’è possibile?
A differenza delle puttanate di Draghi sulle sanzioni russe, che erano palesemente solo propaganda e wishful thinking della peggiore specie, l’austerità espansiva non si fondava su un fondamentale studio empirico di indiscutibile rigore scientifico? Ecco, appunto. No. Il fondamentale studio di Rogoff, osannato da tutti gli economisti mainstream come una grande rivoluzione scientifica al pari di quelle di Newton e di Galileo, era in realtà un discreto troiaio: “Lo studio intitolato Growth in a time of debt – La crescita al tempo del debito – e pubblicato nel 2010 sulla prestigiosa American Economic Reviewricorda Vittorio Daniele su economiaepolitica.it “non è stato smentito da sofisticate applicazioni econometriche ma, come nella favola di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, da un umile studente di dottorato dell’Università del Massachusetts che, utilizzando proprio i dati di Reinahrt e Rogoff per un’esercitazione, si è accorto che qualcosa non quadrava nelle stime dei due economisti”.

Rogoff, in sostanza, sosteneva che la crescita dei paesi afflitti da un insostenibile debito – di oltre il 90% rispetto al PIL – avessero registrato in media una crescita negativa del – 0,1%; lo studentello dimostrò che, invece, la crescita era stata positiva, e manco di poco: +2,2%. Nel tempo, tutti i grandi sostenitori dell’austerità espansiva si sono rimangiati tutto: da Mario Monti a Mario Draghi, passando anche per lo stesso Giavazzi; ovviamente, non possiamo che esserne felici. Rimane il dubbio, però, del perché a governare la nostra economia poi siano stati richiamati sempre loro, invece del ragazzino che ha smontato il pessimo studio di Rogoff e tutte le persone minimamente ragionevoli che non ci sono mai cascate. Non è che più che la competenza tecnica e scientifica, pesa la fedeltà ad alcuniinteressi specifici? Perché se, dal punto di vista dell’economia generale, l’austerità espansiva è stata una disastro totale, non è che ci hanno perso tutti: le oligarchie finanziarie ci hanno guadagnato eccome, e quando dici oligarchie finanziarie, dici Washington. Guarda qua: dall’arrivo dell’austerità espansiva ad oggi i mercati finanziari americani si sono quintuplicati, e se a guidarli – e a garantirgli il posto di comando – non sono le competenze ma la fedeltà agli interessi delle oligarchie, non è che ora che i Monti, i Draghi e i Giavazzi sono stati illuminati e si sono riscoperti moderatamente keynesiani, ci sta dietro una fregatura?
Il sospetto, sinceramente, viene: il nuovo tormentone di questi prestigiosi e sofisticati economisti infatti è che sì, lo Stato dovrebbe tornare a investire un po’ – come fa Biden con la Bidenomics –, però i soldi che mette sul tavolo non devono servire ad aumentare di nuovo il ruolo dello Stato nell’economia, ma solo a incentivare i privati ad investire nella giusta direzione, azzerando i rischi; non è che questa idea non è fondata su solide basi scientifiche, ma non è altro che un’altra gigantesca cazzata come quella dell’austerità espansiva, utile solo agli interessi che hanno già dimostrato di tutelare così bene? E quando Rogoff si complimenta con la nostra Giorgiona, non è che non lo fa sulla base di solide valutazioni sul tipo di politica necessaria per rilanciare l’economia in Europa, ma esclusivamente in base al fatto che è quella che, più di ogni altro, è in grado di garantire che quegli stessi interessi saranno difesi anche a costo di dover passare sul cadavere dell’ultimo cittadino europeo?
Da questo punto di vista – bisogna ammetterlo – la nostra Giorgiona non s’è fatta mancare niente: ovviamente, prima di tutto, dal punto di vista geopolitico, dove i padroni a stelle e strisce non si sono accontentati – come con altri paesi vassalli – della totale sudditanza di Roma all’agenda di Washington a spese dell’interesse nazionale. Per lavare via i peccati di alcune affermazioni del passato decisamente ostili nei confronti della globalizzazione neoliberista e dei suoi architetti, hanno preteso anche un gesto simbolico eclatante: l’uscita dalla via della seta. La maggioranza dei paesi europei, infatti, continua ad aderire al memorandum – a partire dai paesi strutturalmente più vicini a Washington, dai baltici alla Polonia e, addirittura, la colonia ucraina; a nessuno Washington ha chiesto di uscire, a parte a Roma: non bastava garantire eterna fedeltà. Per suggellare il patto di sangue ci voleva proprio l’umiliazione in mondovisione, e Roma è stata ben felice di accontentarli perché la sua sudditanza non doveva essere nota solo a Biden e ai suoi uomini: bisognava convincere anche le oligarchie finanziarie e gli economisti come Rogoff che, però, non campano solo di posizionamenti geopolitici e gesti simbolici; vogliono la ciccia, al sangue. Che eccola che a Davos è arrivata puntualmente: Mossa a sorpresa del ministero dell’economia titolava entusiasta venerdì Il Giornanale; “ENI, il tesoro cederà il 4% per rassicurare i mercati”, dove – ovviamente – per mercati si intendono le poche decine di oligarchi presenti a Davos e che, tra un festino a base di escort e l’altro, hanno concesso un po’ dei loro sterminati capitali ai governanti più servizievoli dell’impero.

Giancarlo Giorgetti

A Davos Giorgetti si è intrattenuto un po’ con tutti: dal mitico Ray Dalio di Bridgewater, all’amministratore delegato di Bank of America Brian Moynihan, a quello di Jp Morgan Jamie Dimon e, oltre a ENI, sul piatto c’erano anche Poste e, in prospettiva, anche Ferrovie dello Stato; L’Italia in vendita titola indignata addirittura La Repubblichina. Il bue che dà del cornuto all’asino: l’obiettivo infatti, come sapete, sarebbe quello di fare un po’ di cassa per abbattere un po’ di debole, ma è fuffa allo stato puro; in tutto, secondo il governo stesso, si parlerebbe al massimo di una ventina di miliardi, che ai nostri quasi 3 mila miliardi di debito, ovviamente, gli fanno come il cazzo alle vecchie. L’idea che il debito non si possa abbattere vendendo i gioielli di famiglia non è esattamente un’esclusiva di noi oltranzisti bolscevichi: lo dice chiaramente su La Stampa anche l’ultramoderato Mario Deaglio che, da liberale, non è in linea di principio contrario a vendere quel poco di partecipazioni statali che ci rimane ma, sempre da buon liberale, capisce anche quali dovrebbero essere i paletti minimi essenziali, e cioè che questo ingresso dei capitali privati avvenga nell’ambito di una politica industriale degna di questo nome, e che sia capace di mettere al servizio di questa politica i capitali, e non viceversa -che però, è più facile da dire che da fare.
La Cina, ad esempio, segue esattamente questa strada: anche la Cina, infatti, cerca di attirare capitali privati per finanziare le sue gigantesche e potentissime aziende di Stato, ma – appunto – lo fa nell’ambito di una politica industriale precisa decisa dal governo. L’operazione, però, non è che stia dando chissà che frutti, e graziarcazzo: seguire una precisa politica industriale, infatti, molto banalmente vuol dire che la remunerazione dei capitali impiegati dipende dal successo di quelle politiche industriali e dalla loro capacità di generare plusvalore; la finalità non è generare profitti in se, ma ottenere qualcosa di concreto per l’economia nazionale – che sia energia più pulita o un servizio postale più efficiente: ovviamente il tutto viene fatto e pensato in modo che possa generare dei profitti, ma non è per niente scontato e quando si dovrà decidere se i profitti fatti vanno redistribuiti tra i soci o reinvestiti, il fatto di dover perseguire una finalità concreta peserà. Insomma: chi porta capitali si accolla un certo rischio di impresa. Nel nostro modello di derisking state, come lo chiama la Gabor, l’ingresso di capitali invece ha una logica completamente diversa; se manca una politica industriale non è un caso: è semplicemente perché l’unica politica industriale che ci deve essere è quella di garantire in ogni modo che i capitali vengano remunerati adeguatamente; per il capitale finanziario non ci deve essere nessuna forma di rischio, e se questo implica trasformare un’azienda produttiva in un carrozzone inutile, pazienza. L’importante è che il dividendo sia sempre garantito: ovvio, quindi, che se i capitali possono scegliere se entrare nella compagine azionaria di un’azienda che deve rispettare una determinata politica industriale o in una dove l’unica politica industriale è riempirli di soldi, opteranno sempre per la seconda; ed ecco perché le aziende di Stato cinesi fanno fatica ad attirare capitale privato, e perché Giorgetti va col piattino in mano a Davos a svendere pezzi di Stato senza avere uno straccio di politica industriale. Qualcuno cerca di minimizzare la cosa sottolineando come, alla fine – ad esempio nel caso di ENI – si tratterebbe soltanto del 4%: in realtà, con questa logica, potrebbe anche essere l’1%; la dinamica non cambierebbe. A guidare l’azienda rimarrebbe sempre e comunque la stretta logica del capitale finanziario: la remunerazione il prossimo trimestre e chi s’è visto s’è visto.
Ma allora, se non serve ad abbattere il debito pubblico e costringe a trasformare le poche aziende decenti che ci rimangono in pure e semplici macchine da dividendi incapaci di creare valore reale per il paese, perché Giorgetti si abbassa al ruolo di mendicante per raccattare questi miseri 20 miliardi? Semplice: come per l’uscita dell’Italia dalla via della seta, è un atto plateale di sottomissione e di sudditanza, ma il masochismo come forma di piacere fine a se stessa non c’entra; molto più banalmente, Giorgetti deve assicurare le oligarchie e i grandi fondi che l’Italia è al loro servizio e che, aiutandola a rimanere in piedi, ci saranno ottimi affari per tutti. E del sostegno dei fondi per non affondare definitivamente, a breve ce ne sarà parecchio bisogno: anche quest’anno, infatti, il Tesoro italiano dovrà collocare sui mercati – che non esistono – 350 miliardi di euro di titoli di Stato. Fino all’anno scorso, una fetta consistente glieli comprava la BCE; quest’anno non solo non ne comprerà, ma venderà anche una fetta di quelli che ha già al ritmo di 7,5 miliardi al mese, e una mole del genere di titoli hanno un solo acquirente: i grandi fondi. Il resto è fuffa: il mercato, i risparmiatori… tutte leggende metropolitane. Quando il debito è a questi livelli, i titoli li possono comprare solo le banche centrali e i fondi, e siccome la nostra politica è al servizio delle oligarchie finanziarie private, la Banca Centrale ha deciso di tirare i remi in barca, cosicché il manico del coltello rimane esclusivamente in mano ai fondi che, quindi, possono pretendere dai paesi indebitati tutto quello che vogliono. Se non lo fai, i titoli non te li comprano, e loro vogliono due cose: impossessarsi dei gioielli di famiglia per spolparli per bene e che lo stato privatizzi tutti i servizi essenziali.
L’unico modo per vedere il bicchiere mezzo pieno è accontentarsi del fatto che a Davos, a quanto pare, Giorgetti il secondo tema non sembra averlo affrontato; ma la strada è tracciata e non sarà certo La Repubblichina che si riscopre statalista per il tempo di un titolone – dopo decenni passati a osannare i Rogoff, il rigore affamapopoli di Bruxelles e la lotta di classe dall’altro contro il basso condotta dai suoi editori e dai loro amicici senza esclusione di colpi – a fermarli: dalla geopolitica alla politica economica, il governo dei fintosovranisti e l’opposizione dei veri svendipatria – di comune accordo – hanno svenduto e stanno continuando a svendere gli interessi nazionali a Washington e alle oligarchie finanziarie.
Contro questo asse del male è arrivata l’ora di riorganizzare un vero fronte popolare, ampio, plurale democratico che dia di nuovo rappresentanza alla stragrande maggioranza del paese affrontando le contraddizioni alla radice: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che si fondi davvero su dati solidi e informazioni reali, invece di inventarsele di sana pianta per far contente le oligarchie. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Kenneth Rogoff

OttolinaTV

22 Gennaio 2024

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