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Ciao ciao Biden – L’icona della sinistra ZTL che ha distrutto gli USA per arricchire le oligarchie

Come va va, la cosa positiva è che comunque, tra pochi giorni, ci toglieremo finalmente Rimbabiden dai coglioni, anche se un pochino sentiremo la mancanza. In pochi al mondo, infatti, hanno contribuito come Biden al collasso dell’impero USA che, in soli 4 anni, ha aiutato a smontare tutti i falsi miti del mondo libero e democratico come nessuno mai: il mito dell’invincibilità della superpotenza militare USA è stato totalmente asfaltato nella guerra per procura in Ucraina; quello della difesa dei diritti umani dal sostegno incondizionato al primo genocidio della storia in diretta streaming; quello di un’economia dinamica fondata sul libero mercato dall’esplosione del debito pubblico e dalla serie infinita di misure protezionistiche messe in campo per cercare di rimediare con la forza all’irreversibile perdita di competitività nei confronti di chi, invece che nelle bolle speculative, ha investito davvero nell’economia reale, come la Cina; e quella del dollaro vero rifugio sicuro quando il mare è in tempesta dalla scelta folle di utilizzarlo come un’arma (senza, tra l’altro, ottenere sostanzialmente una beata minchia). Non che si tratti di fenomeni nuovi, ma pochi come Biden hanno contribuito a renderli evidenti alla stragrande maggioranza della popolazione del pianeta: a rendere ancora più prezioso il suo contributo è il fatto che per almeno un pezzo consistente della sinistra ZTL (quella che cerca di coniugare, a suon di voli pindarici e universi paralleli immaginari, la difesa dei diritti del lavoro e dell’ambiente con il suprematismo neo-coloniale semplicemente girando la testa di fronte a tutti i crimini che la propaganda rende possibile ignorare), dopo 4 anni di amministrazione Trump quella di Biden doveva rappresentare una sorta di riscatto; dietro l’etichetta della Bidenomics, infatti, le fazioni più radicali interne al partito democratico erano riuscite (con una certa facilità) a convincere l’aperisinistra di tutto l’Occidente collettivo che il vecchio Joe non era per niente sleepy e si apprestava, anzi, a varare una serie di riforme economiche di dimensioni epocali che avrebbero messo fine al pensiero unico neoliberista e riportato al centro dell’agenda i diritti concreti delle fasce più svantaggiate. Dopo pochi mesi dal suo insediamento, però, i mega-piani annunciati per trasferire 4 mila miliardi di ricchezza dalle fasce di popolazione più ricche a quelle più povere si erano trasformati, al contrario, in altri mille miliardi dei lavoratori da mettere in tasca alle stesse oligarchie, mentre – nel frattempo – i monopoli finanziari accumulavano una concentrazione di ricchezza senza pari nella storia dell’umanità. Insomma: se 4 anni fa qualcuno ancora si illudeva che tra le fila della sinistra imperiale potesse annidarsi ancora qualche ultimo giapponese che, semplicemente, non s’era ancora accorto che stando fermo s’era ritrovato magicamente circondato dal nemico, oggi quel timore palesemente non esiste più. Ma prima di provare a ripercorre nel dettaglio la breve avventura politica dell’amministrazione Biden e della Bidenomics, vi invito a mettere mi piace a questo video per aiutarci a combattere (anche oggi) la nostra battaglia contro la dittatura degli algoritmi che l’amministrazione Biden ha contribuito a rendere ancora più distopica e opprimente e, se ancora non lo avete fatto, a iscrivervi a tutti i nostri canali su tutte le piattaforme social (compresi quelli di Ottosofia) e di attivare tutte le notifiche; a voi costa meno tempo di quanto non impieghi un liberal-democratico a prendere i soldi destinati alle scuole e alla sanità pubblica e a regalarli a una multinazionale specializzata in greenwashing, ma per noi fa davvero la differenza e ci permette di continuare a cyberbullizzare con precisione chirurgica l’internazionale liberal-democratica e petalosa.

Joe Biden

In principio fu la moderna economia dell’offerta: fu questa la formula scelta nel 2022 dalla segretaria al tesoro Janet Yellen per spiegare le importanti scelte di politica economica che l’amministrazione Biden avrebbe varato, di lì a poco, di fronte alla platea del World Economic Forum; un pubblico che, evidentemente, era alla ricerca di una nuova Reaganomics in grado di rilanciare il primato economico USA e, proprio come negli anni ‘80, garantire a Washington la vittoria di questa seconda guerra fredda. Le riforme dell’amministrazione Reagan, infatti, da 40 anni sono l’esempio da manuale per eccellenza proprio della cosiddetta economia dell’offerta o supply-side economics, per usare la formula dei suoi architetti; in generale con economia dell’offerta, infatti, si intende quella teoria che sostiene che la crescita economica debba essere stimolata principalmente attraverso incentivi alla produzione e quindi, appunto, a chi costruisce l’offerta: dalle riduzioni fiscali alle deregolamentazioni, passando per politiche che favoriscono l’accesso al credito, il ricorso al finanziamento sui mercati azionari e ogni stratagemma possibile immaginabile per incentivare gli investimenti. Insomma: il bengodi dei capitalisti e la formula giusta da proporre a una platea come quella del World Economic Forum che, però, è stata invitata dalla Yellen ad accettare un compromesso; il compromesso che sta nell’aggiunta della parola modern e che stava a simboleggiare che, a questo giro, l’offerta non sarebbe stata stimolata tagliando tasse indiscriminatamente, anzi! Gli incentivi rimanevano, ma la pressione fiscale sarebbe addirittura aumentata per “permettere di affrontare problemi strutturali a lungo termine, a partire dalla disuguaglianza” attraverso una “distribuzione del reddito nazionale in espansione più equa”; ma quando, 6 mesi dopo, la teoria si è trasformata in un atto concreto attraverso l’approvazione dell’Inflation Reduction Act – sottolinea Andrew Elrod su Phenomenal World – la moderna economia dell’offerta si era trasformata in qualcosa di completamente diverso: “Al posto dell’aumento della partecipazione alla forza lavoro attraverso l’aumento dei congedi retribuiti e l’imposizione di limiti ai prezzi degli asili nido, c’era la resilienza agli shock globali. Laddove c’erano stati finanziamenti dei community college per aumentare la produttività del lavoro, ora c’erano sussidi alle aziende per espandere la capacità produttiva. E al posto di aumenti delle tasse sulle società, ora c’era equità economica. La moderna economia dell’offerta, ha spiegato Yellen, adesso si riferiva esclusivamente alla riduzione dei rischi economici e per la sicurezza nazionale posti da Paesi come la Cina. Più in generale, se all’inizio dell’amministrazione Biden la pressione era tutta rivolta a risolvere il problema della crescita delle diseguaglianze e della stagnazione salariale, un anno e mezzo di lobbying delle oligarchie sul governo federale, dopo, avevano completamente cambiato la natura della spesa pubblica che l’amministrazione poteva permettersi di imporre al Paese; una quantità inverosimile di regali alle oligarchie in tre atti: non solo l’IRA, ma anche il Jobs Act e il Chips and Science Act, i pilastri di quella che è stata ribattezzata la Bidenomics.
Le ragioni che, inizialmente, avevano spinto il giglio magico degli strateghi economici di Biden a puntare i riflettori sulla necessità di politiche espansive a favore delle fasce di lavoratori a più basso salario affondano le radici in un dibattito che si è sviluppato nell’arco di ormai 50 anni: dopo l’era d’oro socialdemocratica degli USA che, negli anni ‘70, aveva imposto un modello di pianificazione pubblica che oggi verrebbe etichettato da Von Der Laiden e Giancazzo Giorgetti come eversivismo bolscevico e che prevedeva alte tasse sia sul capitale che sui redditi più elevati, espansione della proprietà governativa e, addirittura, meccanismi per il controllo governativo dei prezzi (alla faccia del libero mercato), verso la fine del decennio si avvia quella che noi definiamo la grande controrivoluzione neoliberista e che, al contrario di quanto si afferma solitamente, per mettere radici non ha bisogno di attendere l’avvento di Ronald Reagan, ma si può accontentare di un Carter qualsiasi (nonostante, inspiegabilmente, sia ancora oggi considerato dalla sinistra ZTL un presidente progressista); durante la sua presidenza, infatti, si avviò quel processo che nell’arco di 10 anni avrebbe portato il Congresso ad abbassare l’aliquota fiscale sulle plusvalenze dal 40 al 28% e quella sulle persone fisiche con i redditi più alti addirittura dal 70 al 28% e, attraverso le deregolamentazioni, all’emergere di vasti settori completamente de-sindacalizzati. Peccato che, al contrario dei tanto decantati propositi, questa portentosa fase di lotta di classe dall’alto contro il basso non portò all’aumento degli investimenti privati (che anzi, come quota del PIL, continueranno a diminuire per tutti gli anni ‘80); la trickel down economy (la teoria dello sgocciolamento) che prevedeva che beneficiando le classi più agiate, alla fine, a beneficiarne sarebbe stata l’economia nel suo complesso – te guarda un po’, a volte, il destino cinico e baro – s’era rivelata una gigantesca puttanata e quindi, per tenere in piedi tutta la baracca, alla fine zio Ronny, campione del liberismo, era stato costretto a mettere mano alle casse dello Stato e ricorrere a una creazione di deficit e debito pubblico raramente vista prima in tempo di pace. I lavoratori salariati, insomma, erano stati costretti a finanziare la lotta di classe scatenata contro di loro dai padroni con i loro soldi: un capolavoro, che si è spinto un po’ troppo oltre anche proprio per gli stessi custodi degli interessi oligarchici del partito democratico; da allora, si è innescata questa dialettica tra i democratici, che sono impegnati a contenere il deficit e il debito, e i repubblicani, che sono dediti alla riduzione del carico fiscale che ricade sulle spalle dei più ricchi. Una dialettica che ha cercato di limitare le oscillazioni attorno a un punto di equilibrio insostenibile: come si dice dalle mie parti, pogge e bue fan pari e qui il livello pari da mantenere ad ogni costo è il continuo spostamento di quote di ricchezza dal basso verso l’alto.
A fare le spese del mantenimento di questo equilibrio instabile – sottolinea sempre Elrod su Phenomenal World – sono i servizi pubblici, con “scuole sovraffollate, sussidi di assistenza sociale ridotti o annullati e demolizioni di case popolari” e nel ritiro complessivo dello Stato da queste sue funzioni essenziali, si assiste al fiorire di un settore di servizi sociali inevitabilmente ancora finanziato con soldi pubblici, ma amministrato privatamente e dove si impone il fenomeno macroscopico del lavoro povero; questo si è tradotto, nel lungo periodo, nella cosiddetta economia a forma di K dove, appunto, anche in fase di crescita, a crescere sono soltanto i redditi dei ricchi e (nella migliore delle ipotesi) i salari di una fascia di lavoratori impiegati nei settori ad alto contenuto tecnologico concentrati nelle principali aree urbane del Paese, mentre tutto il resto della società continua a boccheggiare. Ed è proprio all’insegna della guerra contro l’economia a forma di K che si è forgiata l’alleanza che ha portato Biden alla Casa Bianca e che, inizialmente, sembrava la cifra della Bidenomics: “Nel marzo del 2021”, ad appena un mese e mezzo dall’Inauguration Day che ha dato ufficialmente il via alla presidenza Biden infatti, ricorda Elrod, “il Congresso ha approvato l’American Rescue Plan: un piano da oltre 1.800 miliardi di dollari” che alcuni, presi dall’entusiasmo, hanno addirittura elevato ad “attestato di morte del neoliberismo”; “La base democratica si è spostata a sinistra” sottolineava preoccupato il Wall Street Journal e “ ora cerca, attraverso il signor Biden, di rimodellare l’economia e la società per gli anni a venire”. Ed era solo l’inizio: dopo appena due settimane, Biden annunciava l’American Jobs Plan, la bellezza di 2.300 miliardi per autostrade, ponti, sistemi idrici, abitazioni e infrastrutture scolastiche, ma anche per la ricerca, per lo sviluppo della green economy e, addirittura, per le cure per gli anziani e per le persone disabili. E dopo un altro mese è stato il turno dell’American Families Plan: 1.900 miliardi per “college comunitari gratuiti; scuola materna universale; estensione di Medicare per odontoiatria, vista e udito; e l’introduzione di 12 settimane di congedo per malattia retribuito” e, per la prima volta da decenni, per finanziare tutto questo tron di dio di roba si andavano a chiedere i soldi a chi negli ultimi decenni ne ha fatti a palate; l’amministrazione Biden, infatti, ha proposto di annullare l’ennesimo regalo di Trump a chi percepisce redditi superiori ai 400 mila dollari riportando l’aliquota dal 37 al 39,6%. Sempre per i redditi superiori ai 400 mila dollari, ha proposto anche un contributo aggiuntivo per finanziare il programma sanitario per anziani e disabili Medicare; ha poi proposto di equiparare ai redditi ordinari le plusvalenze sulle attività finanziarie, portando quindi l’aliquota applicata – addirittura – dal 20 sempre al 39,6%. Inoltre, ha proposto di mettere fine al trucchetto degli scambi simili, che permette a chi reinveste nel mattone le plusvalenze guadagnate sul mercato immobiliare di rinviare a oltranza il pagamento delle tasse; e con il Made in America Tax Plan, infine, ha proposto un aumento dell’aliquota sul reddito delle società dal 21 al 28%, una minimum tax sugli utili offshore del 21% e la fine di esenzioni e detrazioni per chi intasca profitti dall’industria del fossile. Insomma: dopo 50 anni di utilizzo del governo federale per accentuare lo spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto, una epocale inversione di tendenza che faceva dell’amministrazione Biden e della Bidenomics probabilmente la cosa più progressista in assoluto nell’Occidente collettivo dall’inizio della controrivoluzione neoliberista, se solo si fosse tradotta in realtà.
Perché mentre Biden faceva i suoi annunci e la sinistra ZTL, comprensibilmente, era tutta in un brodo di giuggiole, “Un gruppo di attori meno appariscenti ma più fondamentali” commenta Elrod “si stava mobilitando”: “Nonostante sia stato eletto proprio perché non era né Bernie Sanders, né Elizabeth Warren, Biden sta governando come entrambi” ha dichiarato Josh Bolten, che, dopo essere stato capo dello staff del pluricriminale di guerra George W. Bush, è diventato presidente del Business Roundtable, l’influente associazione dei leader delle principali aziende USA. Una chiamata alle armi: i primi a mobilitarsi sono stati i colossi della grande distribuzione – da Walmart a Macy’s – riuniti nella National Retail Federation, che ha commissionato ai compagni di Ernst & Young uno studio che aveva il compito di conquistare le prime pagine della propaganda padronale USA con la previsione che la Bidenomics avrebbe comportato la perdita di 700 mila posti di lavoro solo nel loro settore, con un impatto negativo sul PIL stimabile tra i 2 e i 3 punti percentuali; poi è stato il turno dell’America’s Job Creators for a Strong Recovery, una coalizione delle 3 principali associazione padronali del settore del tempo libero e dell’ospitalità e che “è stata in grado di organizzare una campagna martellante” contro i piani della Bidenomics; poi sono arrivati quelli della RATE Coalition, un’associazione che racchiude il fior fiore delle multinazionali USA – da Disney a Bank of America – e che è presieduta dall’ex consigliera di Clinton Elaine Kamarck che, dopo aver imposto le sue ricette lacrime e sangue ai lavoratori pubblici negli anni ‘90, si vantava di “aver spremuto fuori tutta la spazzatura socialista di sinistra dal Partito Democratico”. Grazie al lavoro di lobbying di tutti questi soggetti, i loro referenti repubblicani e democratici al Congresso, alla fine, dai 2.300 miliardi dell’American Jobs Plan sono riusciti a tirar via “400 miliardi di dollari per l’assistenza a lungo termine, 424 miliardi di dollari per crediti d’imposta per l’energia pulita, 326 miliardi di dollari per alloggi a prezzi accessibili e scuole pubbliche e 566 miliardi di dollari per la produzione nazionale e la ricerca e sviluppo”; l’unica cosa che è rimasta sono “550 miliardi di dollari in dieci anni per strade, ponti, aeroporti, porti, acqua, banda larga e distribuzione di energia elettrica” e che, ovviamente, sono tutti soldi che vanno interamente in tasca alle aziende rappresentate dalle varie associazioni che si sono mobilitate (che nel frattempo, visto che i quattro quinti delle spese previste erano state rimosse, hanno fatto in modo che tutte le promesse di prendere i soldi a chi ce l’ha, magicamente, venissero meno).
A svolgere un ruolo di primissimo piano in questo primo, plateale tradimento delle aspettative della Bidenomics è stata Anita Dunn: Anita Dunn, infatti, è una delle colonne portanti di SKDK, una delle principali società di consulenza strategica di comunicazione degli USA che può vantare clienti come Microsoft, AT&T e Pfizer, ma è anche una consulente democratica di lunga data che ha ricoperto un ruolo fondamentale nella prima campagna di Obama (del quale è stata anche direttore della comunicazione per un breve periodo alla Casa Bianca); ma, soprattutto, ha ricoperto il ruolo di Senior Advisor dell’amministrazione Biden per i primi mesi, giusto il tempo di svuotare l’American Jobs Plan di tutti quegli aspetti che preoccupavano i suoi clienti, ridurlo a un pacchetto di incentivi a pioggia per qualche corporation per poi tornare (tempestivamente) a occuparsi della sua azienda di consulenza privata. Nel frattempo, per assicurarsi che tutti i singoli dettagli fossero giusti, le associazioni padronali elencate prima – e molte altre – non hanno badato a spese: se nei due anni precedenti l’arrivo di Biden alla Casa Bianca la media trimestrale di soldi spesi per fare lobbying si era attestata attorno agli 870 milioni, con il cambio di guardia lo sforzo economico ha raggiunto i 934 milioni nel terzo trimestre del 2021, 983 milioni nel quarto e ha sforato abbondantemente il tetto del miliardo nel primo trimestre del 2022. Insomma: la vera differenza tra repubblicani trumpiani e democratici, stringi stringi, è che i democratici costano qualche decina di milioni in più; a fare la parte del leone, come sempre, la lobby farmaceutica, che aveva bisogno di limitare al massimo il controllo sul prezzo dei farmaci annunciato da Biden. Ed ecco, così, che dai 318 milioni investiti per corrompere quel che rimane della democrazia USA nel 2020, nel 2021 sono passati a 364: sono 50 milioni di differenza, lo 0,5 per mille dei 92 miliardi di profitti incassati nel solo 2019 (grazie, soprattutto, alla pandemia). Insomma: spiccioli, spesi benissimo. Contro l’estensione del Medicare ai servizi odontoiatrici, oculistici e uditivi poi, in particolare si è mobilitata la lobby delle assicurazioni, che è passata dai 167 milioni investiti per farsi fare leggi su misura nel 2020, ai 197 milioni del 2021, ai 227 milioni del 2022; ma la lobby che più ha aumentato il suo impegno per piegare la Bidenomics ai suoi interessi è stata senz’altro quella dell’industria elettronica – da Oracle a Intel, da Palantir a IBM – sin dalla campagna elettorale: “Nei precedenti cicli elettorali” ricorda Elrod “i contributi alla campagna elettorale del settore della produzione e delle apparecchiature elettroniche ammontavano a circa 50 milioni di dollari, distribuiti più o meno equamente tra democratici e repubblicani”. Per le elezioni del 2020, invece, il settore ha messo mano al portafoglio, ha quasi triplicato questa cifra (superando abbondantemente soglia 130 milioni) e, soprattutto, destinandone circa il 75% ai democratici.
D’altronde, che in pentola bolliva qualcosa di sostanzioso era evidente già dal luglio 2020 quando, con Trump ancora in poppa, durante l’iter per l’approvazione del National Defense Authorization Act (e, cioè, il pacchetto legislativo annuale che autorizza il finanziamento e stabilisce le politiche per il Dipartimento della Difesa e le forze armate americane) per rispondere alla crescente preoccupazione per la dipendenza degli Stati Uniti dai fornitori stranieri di chip – in primo luogo, ovviamente, cinesi -, era stata autorizzata l’adozione di “incentivi alla produzione di semiconduttori”; ma tra l’autorizzazione e lo stanziamento concreto di fondi c’è una bella differenza, e a colmare quella differenza sarebbe stata l’amministrazione successiva. E, quindi, ora si trattava di assicurarsi che venisse fatto nel modo più utile a far fare una montagna di quattrini alle principali corporation del settore: una delle stanze dei bottoni individuate per influenzare il più possibile le scelte dell’amministrazione Biden in tema di chip è stato senz’altro il CNAS (Center for New American Security), l’influente think tank neo-conservatore che, tra i suoi fondatori e massimi dirigenti, conta pezzi grossi organici alla classe dirigente democratica come Kurt Campbell (già regista del Pivot to Asia dell’amministrazione Obama in veste di assistente del segretario di Stato per l’Est asiatico e il Pacifico), che dello CNAS è cofondatore, e Victoria Nuland (altrimenti nota come la pasticcera dell’Euromaidan per i biscottini che gentilmente offriva alla feccia neonazi di Pravyi Sektor durante il golpe), che dello CNAS, invece, è stata CEO tra il 2018 e il 2019; l’ex presidente esecutivo di Google li aveva chiamati tutti a raccolta – insieme ad alcuni ex dipendenti del dipartimento di Stato di George W. Bush e a una fauna variegata di consulenti aziendali e banchieri d’investimento – nell’ambito delle attività del China Strategy Group, l’influente gruppo di consulenza fondato da Schmidt insieme all’enfant prodige della guerra tecnologica alla Cina Jared Cohen. Una scelta azzeccata: una volta salito alla Casa Bianca, Biden, infatti, nominerà Victoria RegimeChange Nuland sottosegretario di Stato per gli affari politici e Kurt Campbell coordinatore per l’Indo-Pacifico, incarico che gli varrà il soprannome di Zar dell’Asia; nei mesi successivi, lo sforzo della lobby elettronica passerà dai 40 milioni di dollari a trimestre investiti, in media, nel biennio 2019/2020, ai quasi 60 del 2022, diventando il secondo settore in assoluto per spesa in corruzione, dietro solo a big pharma. E gli effetti si sono fatti vedere subito: nell’America Jobs Plan, i soldi che venivano individuati per incentivare il made in USA nella produzione di semiconduttori e di altri componenti critici si avvicinava ai 250 miliardi che, però, come gli incentivi a pioggia alle corporation attive nel settore delle infrastrutture, prima di essere definitivamente stanziati si sono dovuti liberare dell’orpello delle altre voci di spesa che avrebbero portato un po’ di soldi pubblici anche nelle tasche dei lavoratori, invece che esclusivamente nei conti alla Cayman delle oligarchie. Ed ecco, così, che giorno dopo giorno, incontro riservato con il CNAS dopo incontro riservato, ecco che la lobby è servita: 252 miliardi di contributi, tra sostegno alla produzione e incentivi per la ricerca; era il 9 agosto del 2022, giusto una settimana prima di un altro gigantesco regalo alle imprese, i 370 miliardi di dollari in crediti d’imposta da regalare alle aziende che investono in transizione ecologica.
Tagliando tutto un po’ con l’accetta, quindi, il sol dell’avvenire della Bidenomics, dagli oltre 4 mila miliardi iniziali destinati a ridurre le diseguaglianze (accumulate dai 40 anni di feroce politica neoliberista precedenti) da finanziare con le tasse sui super-ricchi, la finanza e le multinazionali, tra built better back, Chips Act e IRA s’è trasformato in poco meno di 1200 miliardi di incentivi ai soliti noti, dei quali solo 200 miliardi saranno finanziati con maggiori tasse sui più ricchi; un altro bello spostamento di 1000 miliardi netti dal basso verso l’alto: “Incapace di sostenere una politica fiscale in grado di sostenere la quota del lavoro nel reddito nazionale” commenta Elrod “la Bidenomics ha convertito un programma per aumentare le tasse e la spesa sociale in crediti d’imposta aziendali finanziati in deficit per una crescita mirata dei centri di profitto esistenti. E per giustificare tutto ciò, i democratici si sono di nuovo affidati per intero alla propaganda di guerra che emanava dal Dipartimento di Stato”. Un piccolo cambio di paradigma, comunque, l’inevitabile degenerazione della retorica socialdemocratica degli esordi nella solita zuppa riscaldata della propaganda guerrafondaia e imperialista l’ha comportato: “Una nuova politica fiscale” come sottolinea sempre Elrod, che “ha visto un aumento graduale della spesa federale al di sopra della norma pre-pandemia”. Non che sia poi ‘sta gran novità, in realtà: soprattutto a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008 (causata dalle oligarchie USA, ma pagata da tutti gli altri), l’economia statunitense è rimasta a galla solo ed esclusivamente grazie a un debito pubblico sempre più spaventoso; la novità introdotta da Biden è la portata e il costo di questo debito che – con i tassi cresciuti a dismisura e che non possono essere ridotti più di tanto perché devono continuare a sostenere il valore del dollaro, vero pilastro portante dell’imperialismo USA – si appresta a superare quota 1000 miliardi l’anno. Più della spesa militare, segnalando così (anche simbolicamente) quanto il braccio finanziario dell’imperialismo abbia ormai preso il sopravvento anche su quello militare che, alla fine dei conti, gli è subordinato ed è al suo servizio. Un dilemma irrisolvibile: per poter pensare di vincere la guerra di sopravvivenza contro l’ascesa del nuovo ordine multipolare, Biden è costretto a ricorrere al debito per incentivare industrie che non avrebbero nessun motivo per investire in un’economia dopata come quella USA, ma per mantenere in vita il ruolo del dollaro nel sistema monetario e finanziario globale è comunque costretto a tenere i tassi di interessi alti e, quindi, pagare una cifra spropositata di interessi che vanno ad aumentare ulteriormente il debito; una dinamica che, in 4 anni, ha portato le passività finanziarie nette degli USA nei confronti del resto del mondo dai 18 mila miliardi del 2021 ai 22.500 attuali. E gli unici che, ad oggi, sono ancora in grado di tenere in piedi la baracca sono i monopoli finanziari privati, a partire da BlackRock e Vanguard che, in questi quattro anni di presidenza democratica contro il fascismo immaginario di Trump, hanno instaurato il fascismo distopico vero e tangibile della dittatura finanziaria, con un patrimonio complessivo gestito che, dai 16 mila miliardi del 2021, si avvicina ormai a quota 21 mila miliardi.
Al di là delle pagliacciate proclamate in campagna elettorale, sia Harris che Trump non potranno fare altro che decidere come assecondare al meglio questo che è diventato l’unico vero centro del potere USA e l’ultima ancora di salvezza di un dominio imperiale che più si affannano a cercare di salvare a suon di acrobazie contabili, più diventa strutturalmente insostenibile: e indovinate un po’ come riassume brillantemente tutto questo il sempre lucidissimo e preparatissimo Federico Rampini? “L’economia USA sempre più forte scatena il negazionismo”, dove (ovviamente) i negazionisti sono tutti quelli che hanno – diciamo – una conoscenza anche solo marginale della macroeconomia e della finanza e che, quindi, possono bersi senza tentennamenti le vaccate propagandistiche di cui si nutre Rampini. Che, ricordiamo, giusto qualche mese fa aveva profetizzato una crescita per gli USA doppia rispetto a quella cinese; quando poi, incredibilmente, ha scoperto che era la metà, ha deciso di sfogarsi scrivendo un libro che si chiama Grazie, Occidente: grazie di essere così in declino da pagare uno come me per continuare a dire le sue vaccate. Contro i Rampini e contro la propaganda che voleva spacciarci i regali agli ultra-ricchi della Bidenomics per la fine del neoliberismo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che, invece che raccontare le favole, dia voce agli interessi concreti del 99%; aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Ursula Borderline

OttolinaTV

1 Novembre 2024

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