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Psicopolitica: la dittatura dei like e della condivisione

Byung-Chul Han, la psicopolitica e il panottico digitale: la ricerca di approvazione genera dipendenza e ci trasforma in un aggregato di individui isolati, connessi solo superficialmente

OttolinaTV by OttolinaTV
24/04/2025
in Cultura
0

Avete presente quel misto di ansia e attesa che vi pervade quando aspettate un like o un commento sotto un vostro post o una vostra storia? Ecco: quella sensazione non è certo casuale, né un vostro difetto caratteriale, ma un vero proprio strumento di potere a cui siamo tutti sottoposti. E’ il regno della psicopolitica: una tecnica di potere neoliberale che non agisce più dall’esterno, ma dall’interno, direttamente alla nostra psiche, modellando desideri, paure, speranze; nella psicopolitica, scrive il filosofo coreano Byung Chul Han, che ha reso famoso questo termine, l’iper-connessione, la trasparenza e l’accettazione digitale, infatti, non sono più una semplice virtù, ma un imperativo totalitario e lo spazio digitale, apparentemente libero e orizzontale, è in realtà il teatro di una nuova forma di dominio, un dominio subdolo, invisibile, ma pervasivo, capace di orientare il nostro comportamento, i nostri pensieri e desideri. Ogni gesto, ogni pensiero, ogni frammento della nostra esistenza viene catturato, digitalizzato ed esposto al giudizio incessante della rete; non siamo più cittadini, né sudditi: siamo solo nodi di uno sciame digitale, produttori compulsivi di dati, consumatori ansiosi di like intrappolati in una gabbia che chiamiamo libertà. Il potere non si esercita più attraverso la repressione brutale, ma attraverso un controllo dolce, seducente, che ci convince a spogliarci volontariamente della nostra intimità: esso non ci dice più di obbedire, ma di condividere; non minaccia, ma lusinga. Non imprigiona i corpi, ma colonizza le menti, trasformando ogni individuo in sorvegliante di se stesso.

Il capitalismo digitale ci ha resi uno sciame senza volto, senza direzione, ma capace di obbedire a logiche invisibili che lo rendono prevedibile e manipolabile; la trasparenza assoluta che ci viene inconsciamente imposta e che ci porta a condividere continuamente la nostra vita, dissolve ogni distanza critica, ogni ombra in cui potrebbero nascondersi resistenza o alterità: ecco perché viviamo dentro un panottico digitale, scrive Han, ovvero in una prigione fabbricata a nostra immagine e somiglianza, con prodotti scelti per noi, pensieri prefabbricati e controllo capillare di ogni nostra azione, ricerca, comportamento. Nel precedente video sul disturbo da burnout ci siamo occupati di come il sistema neoliberale, considerando l’individuo imprenditore di sé stesso, sempre produttivo e sempre competitivo, sia generatore sistematico di ansia, depressione e burnout; in questa puntata, curata sempre dal nostro Davide Fiolo e frutto del lavoro del collettivo di Ottosofia, esploreremo come questo potere si insinui nella psiche degli individui trasformandoci tutti in perfetti ingranaggi di un sistema fondato sull’insoddisfazione e sull’autosfruttamento.

Il panottico digitale 

“Oggi il controllo non è più esercitato da un’autorità visibile, ma si esercita tramite il funzionamento degli algoritmi e delle piattaforme digitali, che costringono l’individuo a esporre sé stesso in un processo di auto-sorveglianza”: con queste parole, il filosofo Byung-Chul Han ci introduce al concetto di panottico digitale, ovvero uno spazio in cui la sorveglianza non è più imposta dall’alto, ma interiorizzata dai soggetti stessi. Han parte dagli studi di Michel Foucault sul panopticon ideato da Jeremy Bentham per rimarcare le differenze nel controllo sociale che esistono tra la nostra società iper-digitalizzata e quella di fine 700’ in cui scriveva il filosofo inglese: il panopticon di Bentham, infatti, ideato come una prigione dove i detenuti sono costantemente osservati da un unico sorvegliante, simboleggia il potere centralizzato e la costante visibilità; in questo modello, l’osservato sa di essere monitorato, ma non sa mai quando e se sarà osservato, inducendo quindi una forma di auto-disciplina. Nel contesto digitale, invece, il controllo si è spostato da un’osservazione esterna ad una forma di auto-sorveglianza, in cui l’individuo, pur non vedendo il sorvegliante, è sempre in uno stato di esposizione attraverso i suoi dati. Secondo Han, il panopticon digitale trova il suo spazio nelle piattaforme digitali dove gli utenti generano costantemente informazioni su se stessi, pubblicando foto e ricercando prodotti.

Tutto è tracciato

In questo nuovo modello la sorveglianza è meno visibile, ma più capillare, spingendo l’individuo ad una continua esposizione e ad una forma di autocontrollo motivato dal desiderio di riconoscimento e dalla ricerca di approvazione: “La costante connessione digitale ci fa vivere come se fossimo osservati da un grande panopticon invisibile, senza un centro, dove il soggetto non è più punito, ma è costretto a darsi piacere e riconoscimento”. Mentre il panottico di Bentham studiato da Foucault isolava i prigionieri per controllarli, oggi, al contrario, gli utenti si auto-espongono volontariamente sui social network, creando un sistema di controllo più pervasivo e seducente: “Nel panottico digitale non si viene torturati, ma twittati o postati. Il soggetto diventa un produttore di dati e la sua psiche viene mappata e monetizzata”; questa dinamica è resa possibile dalla logica della libertà percepita dai soggetti stessi che, credendo di agire autonomamente, in realtà alimentano questo meccanismo sorvegliante. Ed è per questo che Han definisce la nostra società come società della trasparenza, ovvero un grande spazio dove tutto deve essere esposto, ben visibile, tracciabile e, quindi, prevedibile: la trasparenza totale, dunque, non è emancipazione, ma una forma di controllo psicopolitico che sfrutta la volontà di condividere e comunicare; in altre parole, non sono più le istituzioni a esercitare coercizione, ma gli individui stessi a offrire volontariamente i propri dati, trasformando la sorveglianza in partecipazione attiva. Questo ribaltamento segna il passaggio da un potere repressivo a uno seduttivo, dove la libertà si trasforma in un meccanismo di autogoverno e autosfruttamento; il panottico digitale, annullando ogni distanza fisica, crea una rete di sorveglianza orizzontale e pervasiva: i social network diventano “chiese globali”, scrive Han, con miliardi di fedeli che, attraverso lo smartphone – definito “oggetto devozionale del digitale” – compiono rituali quotidiani di auto-esposizione, scambiando like e condivisioni come atti di adorazione.

Ecco perché il “like” emerge come strumento chiave di questo sistema

Han lo paragona ad un “amen digitale”, una ricompensa immediata che stimola la produzione compulsiva di contenuti: “Il like è un’arma psicopolitica: gratifica l’ego, ma, al contempo, genera dipendenza trasformando gli utenti in schiavi volontari del proprio desiderio di visibilità”; questa dinamica, spiega ancora Han, altera la biochimica cerebrale: l’eccesso di dopamina (il neurotrasmettitore del piacere) contribuisce a una forma di psicosi collettiva dove l’autostima si misura in metriche quantitative e il fallimento nel ricevere approvazione digitale diventa fonte di ansia. Il panottico digitale non si limita dunque ad osservare: illumina ogni angolo dell’esistenza, eliminando ombre e ambiguità. La trasparenza assoluta, celebrata come valore democratico, diventa invece un totalitarismo morbido, ma onnipervasivo: “La società della trasparenza è una società pornografica: tutto è esposto, nulla è lasciato all’interpretazione. Senza segreti, non c’è spazio per il pensiero critico”. L’ossessione per la visibilità trasforma l’individuo in una merce esposta al giudizio permanente: la vetrinizzazione della vita privata genera uno spazio digitale in cui ognuno è, al tempo stesso, guardiano e prigioniero. L’esposizione costante produce – vale la pena ribadirlo – non emancipazione, ma ansia e autocensura: ci si conforma per paura di essere esclusi dallo sciame.

Lo sciame digitale e la morte del dibattito razionale

Ed è proprio lo “sciame digitale”, come lo battezza Han, la figura chiave dell’era digitale: si tratta, infatti, di una moltitudine disorientata, priva di un centro o di una direzione comune; a differenza della folla, analizzata, ad esempio, da Gustave Le Bon, lo sciame non si raduna in uno spazio fisico, ma si aggrega e si disperde in modo volatile, guidato da algoritmi che ne prevedono e orientano il comportamento. “Lo sciame digitale non è né rivoluzionario né ribelle, ma un aggregato di individui isolati, connessi solo superficialmente”; mancando un vero “noi”, lo sciame è incapace di azione politica: le proteste online, spesso effimere e rumorose, si esauriscono in gesti performativi, privi di conseguenze reali. Il like sostituisce la piazza, l’ hashtag la rivolta e l’attivismo si riduce a click innocui per il potere costituito. Mentre la folla univa gli individui in un’entità collettiva dotata di un’anima comune, lo sciame è un aggregato di individui isolati: “Lo sciame digitale non è una folla, poiché non possiede un’anima. È composto da individui che restano soli, illudendosi di coltivare la propria identità attraverso l’esposizione mediatica”; questa frammentazione ha conseguenze politiche radicali, tra le quali la crisi della rappresentanza, perché i politici non sono più guidati da una visione, ma reagiscono in tempo reale alle oscillazioni emotive dello sciame riducendo la politica a un mercato di like con annessa assenza di qualsiasi progettualità. Si indebolisce, quasi fino a scomparire, la sfera pubblica, dal momento che l’immediatezza della comunicazione digitale dissolve il dibattito razionale, sostituendolo con indignazione effimera e shitstorm anonime.

Psicopolitica: il potere che ci fa amare la nostra sottomissione

Ecco, allora, che meglio possiamo comprendere il concetto di psicopolitica: necessario per descrivere una nuova forma di potere, non si limita a disciplinare i corpi, ma si insinua nelle menti influenzando pensieri, emozioni e comportamenti. La psicopolitica è l’arte di governare non attraverso la repressione, ma attraverso la seduzione e il controllo delle emozioni: i social media, i motori di ricerca, le app di fitness non impongono nulla; semplicemente ci convincono che la loro logica sia la nostra. “Il soggetto sfruttato non è più cosciente del suo sfruttamento. Anzi, si considera libero mentre obbedisce agli imperativi del sistema”. Un elemento chiave della psicopolitica è l’uso dei big data, che permettono di raccogliere informazioni dettagliate sulle preferenze e sui comportamenti delle persone: nell’era della psicopolitica digitale compiuta, la libertà individuale viene dunque compromessa, poiché le scelte personali sono anticipate e guidate da algoritmi che modellano il comportamento umano. I dati personali, incessantemente monetizzati e commercializzati, trasformano gli individui in merci: “I dati personali sono incessantemente monetizzati e commercializzati. Ora, le persone sono trattate e scambiate come pacchetti di dati per uso economico. Vale a dire, gli esseri umani sono diventati una merce”. Questa raccolta massiccia di informazioni personali consente alle aziende di creare profili dettagliati dei consumatori, prevedendo e influenzando le loro scelte d’acquisto; attraverso l’analisi dei big data, detto in altri termini, le imprese possono anticipare i desideri dei clienti e personalizzare le offerte, incrementando così il consumo. Ecco allora chiarito perché, lungi dall’averci condotto ad una società libera, il neoliberismo non ha fatto altro che renderci schiavi di noi stessi, riducendoci a merce tra le merci, consumatori e spettatori passivi del mondo soggetti ad un costante monitoraggio dei nostri pensieri e delle nostre azioni.

Opacità e disconnessione come vie di resistenza

Abbiamo visto che l’ossessione per la trasparenza elimina tanto la diversità quanto l’individualità, creando una società uniformata, conforme: in questo contesto, risulta molto difficile trovare una via d’uscita da questo circolo vizioso di auto-sfruttamento e costante sorveglianza, ma Han propone qualche soluzione; tra queste, la riscoperta dell’opacità è fondamentale per preservare spazi di riservatezza e mistero, elementi essenziali per mantenere la libertà personale e la creatività. Scrive infatti Han: “L’opacità è la possibilità di sottrarsi alla società della trasparenza. È un principio di difesa, una resistenza all’onnipresente luce della visibilità che tutto penetra e tutto espone. Solo l’opacità permette la vera libertà, poiché preserva lo spazio per l’ invisibile e l’ineffabile”; praticare la disconnessione diventa quindi anch’esso un atto di resistenza, un modo per recuperare il controllo sul proprio tempo e sulle proprie attenzioni sottraendosi alla logica della produttività incessante imposta dal sistema neoliberale. Se oggi la libertà si è rovesciata in costrizione “per ridefinirla dobbiamo diventare eretici”.

Tags: Byung Chul Handisagio socialepsicopoliticasocial media
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