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Meloni la Piazzista infuriata con Macron il Pivellino: “la Guerra si fa, ma si nega”

Meloni: non porterò l’Italia in guerra (Il Giornale). Il Giornanale e la madrecristiana negli ultimi 2 giorni si sono risvegliati più pacifisti del solito, ma potrebbe essere un po’ tardino e, infatti, è solo uno scherzo: “Lo zar, il nemico, l’aggressore brutto, sporco e cattivo è sempre lui, Vladimir” che “voleva invadere mezza Europa”, precisa subito nell’incipit l’articolo, però – chiarisce – ora non dobbiamo eccedere con gli isterismi perché nel frattempo, udite udite, “l’abbiamo fermato”; e ora che il più è fatto, ha affermato la madrecristiana dai salotti di Rete4, si tratta banalmente di “non mollare”, in modo da costringerlo definitivamente “a sedersi al tavolo delle trattative”. E che nessuno si azzardi a parlare di guerra alla Russia! “Basta con i proclami”, sottolinea infatti l’articolo, “basta con i bicipiti ostentati dal boxeur di Parigi”; la guerra si prepara, ma non si dice: “Io penso si debba essere muscolari nei fatti e non nelle pose” ha ribadito infatti la premier “e che bisogna reagire in modo serio”, ma bisogna anche “fare attenzione ai toni che si usano”. Questo ovviamente, ha sottolineato, non significa “che non si debba fare ciò che è giusto fare”, ma, molto semplicemente, che bisogna stare attenti “a come certe cose vengono vendute”; insomma: la scelta a Washington è stata presa ed è stata comunicata e, a parte qualche scaramuccia in famiglia – tipo quando quei rompicoglioni dei miei figlioli litigano per chi deve apparecchiare – in Europa nessuno ha niente da eccepire. La guerra sarà lunga e dolorosa; per farla, dovremo convertire una fetta consistente della nostra economia e, per combatterla, avremo bisogno di parecchia carne da macello, ma dire tutte queste cose apertamente è da irresponsabili e, invece che aiutare, potrebbe – in realtà – complicare ulteriormente i piani.
Piuttosto, come si fa a impacchettare per bene e a vendere questa tragedia al popolo senza scatenare il panico, lasciatevelo spiegare dalla nostra Giorgiona; d’altronde come maestro ha avuto il Re dei piazzisti: il Silvione nazionale. Altro che le ridicole foto ritoccate di Macron coi guantoni! Convincere i popoli a sostenere o, almeno, a non opporsi con troppa energia a qualcosa che è chiaramente contraria ai loro interessi, è una vera e propria arte; e il nostro Silvione nazionale, e i suoi discepoli, sono i nostri Leonardo e Michelangelo: nessuno come loro maneggia l’arte di dosare sapientemente menzogne e mezze verità e – mantenendo sempre un certo stile – far passare sempre in secondo piano ogni tipo di contraddizione. E così, passo dopo passo, convincere chiunque a sostenere qualsiasi cosa o, al limite, a non incazzarsi troppo, alla fine cosa sarà mai? Il Silvione nazionale, con queste tecniche, è riuscito a farci credere che, tutto sommato, fosse accettabile avere un premier monopolista dell’informazione televisiva privata e, come partito di maggioranza, un partito fondato da un condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.

Silvione nazionale

La Giorgiona è una sua degna erede ed è riuscita a convincerci che il saluto romano è un segno di rispetto ai valori costituzionali, che mentre l’industria collassa non c’è mai stato così tanto lavoro, che ha fatto la guerra alle oligarchie bancarie mettendo una tassa sugli extraprofitti (che è sparita un quarto d’ora dopo l’annuncio) e che basta il carrello tricolore per affrontare la perdita dell’equivalente di due mesi di stipendio nell’arco di due anni; figuratevi cosa gli ci vuole ora, un passetto alla volta, a convincere la maggioranza di chi va ancora a votare in Italia che Putin, prima, era un bravo guaglione a cui ispirarsi, ma da quando gli sono venuti 26 tumori ed è stato sostituito da un sosia, vuole per forza conquistare Lisbona e che, dopo aver liberato l’Abissinia, per i gloriosi reparti speciali di Segrate (rigorosamente selezionati col televoto durante una puntata di Uomini & Donne), liberare la Crimea sarà una passeggiata. Ma prima di andare avanti con questo ennesimo racconto dal SottoSopra, se ancora non lo avete fatto, vi ricordo di pigiare il pulsantino del mi piace sotto questo video – che la nostra guerra contro la dittatura degli algoritmi non è meno impari di quella che ha in mente laGiorgiona nazionale; e, già che ci siete, ricordatevi anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e, magari, anche di attivare le notifiche: non servirà ad ostacolare l’armageddon, ma almeno, nel frattempo – magari – ci facciamo qualche risata.
Sul Giornanale torna in forma smagliante il nostro leggendario Andrea Cuomo, l’esperto di enogastronomia che, da qualche settimana, s’è improvvisato anche un po’ stratega militare; peccato che non sempre le improvvisazioni funzionino proprio benissimo. L’altro giorno c’aveva sfrucugliato le gonadi con la bufala delle file chilometriche dei sostenitori di Navalny davanti ai seggi elettorali; ora rilancia, e si lamenta del fatto che il dittatore plurimorto del Cremlino “non si arrende all’evidenza che ci sia l’ISIS dietro l’assalto al Crocus” e, invece di occuparsi dei problemi interni suoi, da autentico vigliacco qual è se la rifà sugli ucraini con “prove tecniche di escalation”. Ma “Dove si può accendere la miccia?” si chiede il Corriere della serva; la prima scelta, ovviamente, sono gli Stati Baltici anche perché, come ammette a malincuore nell’articolo lo stesso Fabrizio Dragosei, “sono particolarmente aggressivi”: “Hanno proclamato la Russia stato terrorista” sottolinea “e trattano poco amichevolmente la minoranza russa, che in particolare in Estonia e in Lettonia, rappresenta tra un terzo e un quarto della popolazione”. “Tallin e Riga” ricorda infatti l’articolo “stanno introducendo per tutti l’obbligo di conoscere la lingua nazionale, con esami specifici”: in Lettonia lo hanno già sostenuto in 10 mila e “un buon 60% è stato bocciato e ora rischia l’espulsione, compresi anziani che hanno oggettive difficoltà”; in Estonia, invece, esattamente come nelle province orientali dell’Ucraina dopo il golpe eterodiretto dell’Euromaidan, “Si sta eliminando il russo dalle scuole, e tutti i presidi devono passare l’esame C1 di lingua estone che prevede, tra l’altro, la capacità di comprendere un’ampia gamma di espressioni idiomatiche e colloquiali” il tutto, sottolinea ancora Dragosei, “in uno degli idiomi più difficili del mondo”. Mosca è così irrazionale e feroce da considerare tutto questo – pensate un po’ – persecutorio e, sottolinea allarmato Dragosei, potrebbe usarlo come “giustificazione per un intervento”, che uno normale, allora, pensa: basterebbe ricordare ai paesi baltici che discriminare le minoranze linguistiche non è proprio bellissimo e, magari, anche che se ci tiene davvero tanto a far parte del giardino ordinato è il caso che si dia una regolata. E invece no: il copione delle vere democrazie liberali prevede, invece, di far rigorosamente finta di niente e, anzi, cogliere l’occasione al balzo per creare una nuova minaccia, con “La Svezia”, ricorda Dragosei, che si aggiunge alla lista dei paesi NATO che usano le diatribe coi Paesi Baltici per minacciare la Russia e che “sta per mandare le sue truppe in quella regione”.
Oltre ai Paesi Baltici, poi, a preoccupare – ovviamente – c’è anche la Polonia e, in particolare, per il corridoio di Suwalki che la collega ai Paesi Baltici separando l’exclave di Kaliningrad dalla Bielorussia; in realtà, anche per Kaliningrad i primi ad alzare la tensione sono stati, di nuovo, i baltici, in particolare la Lituania che, già nel giugno del 2022, aveva vietato il passaggio dalla Russia all’exclave di tutte le merci sottoposte a sanzioni, che erano parecchie – dal cemento al carbone, passando per le componenti tecnologiche fino, addirittura, alla vodka e al caviale: un atto che Mosca, ovviamente (e a ragione), definì immediatamente “apertamente ostile e provocatorio” e “in violazione degli obblighi internazionali della Lituania, a partire dalla dichiarazione congiunta del 2022 della Federazione Russa e dell’Unione Europea sul transito tra la regione di Kaliningrad e il resto del territorio russo”. Come ricordava, in quell’occasione, l’ISPI, l’exclave “è un territorio chiave per la marina militare russa, che ha qui il quartier generale della sua flotta baltica e dove ha schierato missili balistici Iskander con capacità nucleare. Inoltre è l’unico porto russo sul Mar Baltico libero dai ghiacci tutto l’anno e la sua posizione strategica consente alle navi russe di evitare il periplo della penisola scandinava attraverso la rotta artica”; insomma: un nervo scoperto che l’Occidente collettivo ha deciso, ovviamente, di utilizzare per provocare di nuovo il Cremlino e testare le reali intenzioni di Mosca, come ha fatto la Polonia l’anno successivo, nel maggio 2023, quando – come un bimbo capriccioso all’asilo – ha annunciato ufficialmente che avrebbe smesso di utilizzare il nome russo Kaliningrad per reintrodurre la denominazione polacca di Krolowiec – una provocazione che il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov definì “una forma di follia guidata dall’odio per i russi e che non ha mai prodotto nulla di buono”. E infine, ovviamente, c’è la Transnistria, della quale abbiamo già parlato approfonditamente la scorsa settimana; come ricorda, infatti, anche il solito Dragosei “La Moldavia da gennaio ha bloccato le esportazioni della regione verso l’Europa, e questo viene visto dalla Russia come una provocazione” e, magari, viene visto come una provocazione proprio perché lo è, palesemente.
Insomma, la logica mi pare piuttosto evidente: invece che risolvere i problemi, l’idea è quella di renderli sempre più incancreniti e irrisolvibili, in modo da poter continuamente provocare la federazione russa e, grazie alla propaganda, trasformare magicamente le reazioni a queste palesi provocazioni in pericolo di invasione imminente per proteggersi dalla quale serve uno scudo, Lo scudo di Biden come titola a caratteri cubitali La Stampa – un’altra chicca del corrispondente dagli USA del giornale degli Elkann. “La parola d’ordine a Washington” sottolinea, infatti, con enfasi Alberto Simoni “resta quella di evitare l’escalation”: “Dinanzi alle azioni di Putin” continua “prevale il silenzio o frasi di circostanza”; l’importante è “non dare aria al fuoco della propaganda russa”. Forse, però, s’era perso un pezzettino; in una delle tappe del suo tour elettorale nella Carolina del sud, infatti, Biden sembra non aver tenuto troppo in considerazione la voglia di understatement del nostro stimato corrispondente: ha rilanciato l’idea – più che condivisibile – di ricavare 400 miliardi di entrate in più l’anno tassando i super-ricchi e ha promesso che, con quei soldi, potremo “assicurarci finalmente di proteggere l’Ucraina da quel macellaio di Putin” (che non è esattamente il primo appellativo che m’è venuto a mente quando ho letto Simoni farneticare di evitare l’escalation e non dare aria al fuoco della propaganda russa, diciamo). Dove riescano a trovare così tanti pennivendoli così impassibili di fronte alle figure di merda che raccattano di fronte all’universo mondo, per me, rimane un mistero: secondo me, li fabbricano a Mirafiori al posto delle auto – che quello hanno smesso da tempo di farlo, anche se La Stampa, che è di loro proprietà, non cielo dice.
I servi sciocchi dell’impero, comunque, alla fine (loro malgrado) si rivelano sempre utili perché, tra una puttanata galattica e l’altra, si fanno uscire – senza accorgersene – anche qualche verità; ed ecco, così, che Simoni ribadisce paro paro il concetto espresso dalla Meloni su Rete4: “Le frasi di Macron sulle truppe in Ucraina” sottolinea Simoni “non sono piaciute, e sono state lette, spiega un analista vicino ai democratici, come un’inutile esternazione”: cioè, è chiaro – come sosteniamo da un po’ – che dal momento che gli Ucraini addestrati adeguatamente rimasti, ormai, si contano sulle dita di una mano, dovremo mandare più personale NATO direttamente sul campo, ma va fatto come l’abbiamo fatto fino ad ora – in silenzio, senza fare troppo gli sboroni e con i nostri amici pennivendoli che negano l’evidenza fino a che non diamo noi, per qualche motivo, il semaforo verde (come quando, dopo le dichiarazioni di Macron, il New York Times se n’è uscito con l’articolone sulle basi della CIA lungo il confine russo-ucraino presenti almeno a partire dal 2014).

Nathalie Tocci

Non sono giornali: sono uffici comunicazione dell’intelligence che dicono sempre la cosa giusta al momento giusto, al contrario di Macron; il punto, qui, non è solo apparecchiarla adeguatamente per convincere le proprie opinioni pubbliche a non opporsi al suicidio di massa, ma è anche evitare di allarmare troppo Putin. Sbandierando ai 4 venti le nostre reali intenzioni, infatti, Putin si potrebbe convincere del fatto che il momento migliore per chiudere la partita è proprio adesso, prima che l’Europa trovi il modo di cominciare a riarmarsi: ed ecco, così, come si giustifica la selva di missili che si è abbattuta sull’Ucraina, con una ferocia senza precedenti, negli ultimi giorni; “Nell’ultima settimana” ricorda una Nathalie Tocci che, dopo una breve parentesi di umanità per le sorti dei bambini palestinesi, è tornata a invocare la guerra totale alla Russia dalle pagine de La Stampa “la Russia ha lanciato circa 190 missili, 140 droni e 700 bombe guidate su obiettivi civili e militari”. E’ l’unica cosa sensata di tutto l’editoriale: secondo la Tocci infatti, ovviamente, anche questo è solo segno di debolezza e di un Putin che, ormai, per legittimare il suo regime è diventato totalmente dipendente dalla guerra (che è la stessa identica cosa che ripete da 2 anni); l’attentato a Mosca, comunque – concede anche la nostra Nathalie – ovviamente non c’entra niente, anche perché l’operazione era iniziata prima. Il dubbio, in realtà, è semplicemente uno: la selva di missili che, tra le altre cose, ha fatto vedere chiaramente come le difese ucraine – ormai – siano ridotte al lumicino, potrebbe infatti essere, appunto, il tentativo di Putin di accelerare una vittoria definitiva sul campo, ma potrebbe anche essere, semplicemente, un avvertimento: se avete intenzione di intensificare il conflitto sappiate che, prima che voi siate pronti, io ho tutti gli strumenti per radere al suolo mezzo paese.
Quello che è certo è che, al momento, l’iniziativa è tutta in mano a Mosca e a noi rimangono gli annunci e le chiacchiere che, nelle pagine successive de La Stampa, ieri si rincorrevano veloci: ed ecco, così, che un’intera pagina viene dedicata alla fantomatica attivazione delle unità speciali della Response Force, la forza di risposta rapida della NATO – costituita nell’ormai lontano 2002 – e che, inizialmente, era previsto nel tempo raggiungesse addirittura le 300 mila unità; 22 anni dopo sono 40 mila.
Per intimorire il Cremlino, probabilmente, un po’ pochini anche perché, per ora, in realtà dormono sonni tranquilli: ad essere effettivamente messa in stato d’allerta, infatti, sarebbe una singola brigata interforze, la fantomatica Very High Readiness Joint Task Force, composta da appena 6 mila uomini; d’altronde, come sottolinea anche il generale USA Breedlove, “non credo che l’alleanza sia pronta come dovrebbe in caso di aggressione da parte della Russia”. Difficile, però, capire che cappello abbia in testa il generale quando fa queste dichiarazioni: dopo essere stato a capo del Comando USA in Europa, Breedlove, infatti, da pensionato si gode una serie infinita di incarichi finanziati dal gotha del comparto militare industriale: i profitti dei suoi sponsor potrebbero prendere il sopravvento sulla lucidità delle analisi. Ed ecco, così, che arriva immancabile il momento consigli per gli acquisti: “Bisogna acquistare munizioni adatte a questi scenari” ha dichiarato, “modernizzare e adeguare le attrezzature” e investire in “carri armati e fanterie” e, in cambio, vi diamo pure un cambio Shimano.
In realtà, comunque, a parte tutto quello che si può vendere (con ampio margine di profitto) per mettere in piedi finalmente una vera forza di risposta rapida che non sia in grado solo di affrontare, nella migliore delle ipotesi, le forze armate di qualche paese semifallito, il problema – come abbiamo ripetuto millemila volte – rimane quello che ci sarebbe da fare per prepararsi ad affrontare una lunga guerra di logoramento: per la produzione di armi, nonostante i tanti annunci, anche l’ultimo consiglio europeo per ora sembra essersi concluso con un nulla di fatto, ma lo scoglio ancora più insormontabile potrebbero essere, appunto, gli uomini; per la grande, lunga guerra che ci aspetta serve necessariamente tornare al servizio di leva – e io do per scontato che, prima o poi, ci si arrivi. Ma, ovviamente, nessun politico che abbia – per qualche ragione – ancora bisogno di conservare un minimo di consenso è oggi in grado di proporla seriamente: a escluderla categoricamente, ad esempio, è Guido Crosetto che, come Breedlove, ha più a cuore i fatturati dell’industria che lo pagava profumatamente fino a ieri che non la geopolitica; tra i tanti problemi c’è anche il fatto che reintrodurre la leva costerebbe, come minimo, 15 miliardi l’anno e, allora, meglio pensare a un piano B.

Guido Crosetto

Quello di Crosetto prevede una riforma per introdurre anche in Italia i riservisti volontari che però, stima Federico Capurso su La Stampa, potrebbero essere un po’ pochini, non più di 10 mila (se tutto va bene): è “l’Occidente” che ormai è costretto a seguire una “guida smarrita”, come la definisce Danilo Taino sempre sul Corriere della serva che, con grande rammarico, ricorda come “L’Unione Europea non muove passi decisivi a favore degli ucraini aggrediti da Vladimir Putin e non lo farà almeno fino a dopo le elezioni del Parlamento europeo a giugno” e che, poi, rimpiange i bei tempi andati quando, di fronte all’invasione del Kuwait da parte di Saddam nel 1990, Margaret Thatcher si rivolse a Bush padre con un perentorio “Non è tempo di barcollare”; “Gli aggressori tuonò” ricorda Taino entusiasta “devono essere fermati e buttati fuori. Un aggressore non può guadagnare dalla sua aggressione”. In quel caso, rimpiange Taino “Le democrazie non vacillarono”; il problema è che, ora come allora, “La democrazia deve essere riempita di convinzioni, di politiche, di responsabilità, di fermezza morale”; insomma: di puttanate. “Le leadership” infatti, continua Taino, “non nascono dal nulla”: c’è bisogno di creare “delle sfide e delle minacce da affrontare” e quali siano oggi queste sfide, continua Taino, “ce lo ha chiarito nel marzo 2023, sulla porta del Cremlino, il numero uno cinese Xi Jinping, che così salutò l’amico Putin: Ci troviamo di fronte a cambiamenti di dimensioni mai viste negli ultimi cento anni; e noi siamo coloro che assieme guideranno questi cambiamenti”. L’Occidente allora, per riaffermare la sua leadership – sostiene ancora Taino – deve reagire con fermezza e affermare chiaramente che è disposto a tutto pur di impedire che questi cambiamenti avvengano, e fa la lista della spesa: deve impedire all’ex blocco sovietico di rialzare la testa dopo che, con la shock therapy degli anni ‘90, eravamo quasi riusciti a riportarlo all’età della pietra; deve impedire che la resistenza palestinese metta fine al regime di apartheid imposto dall’occupazione sionista; deve impedire che il patriottismo nazionalista di Ansar Allah abbia la meglio sui regimi medioevali delle petromonarchie e deve impedire ai golpe patriottici dell’Africa occidentale di mandare il pericoloso segnale che anche quando sei senza il becco di un quattrino e pieno zeppo di problemi fino al collo, non è mai un cattivo momento per mettere fine a 5 secoli di brutale dominio coloniale.
Sono queste le battaglie che possono ridare al suprematismo occidentale lo smalto che, nel tempo, è andato sbiadendo; io, invece, sono dell’idea che all’imperialismo e al suprematismo non solo bisogna impedirgli di ritrovare lo smalto perduto, ma che proprio gli andrebbero strappate le unghie: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte – quella dei popoli – contro le oligarchie. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

OttolinaTV

29 Marzo 2024

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