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Tag: crosetto

Meloni la Piazzista infuriata con Macron il Pivellino: “la Guerra si fa, ma si nega”

Meloni: non porterò l’Italia in guerra (Il Giornale). Il Giornanale e la madrecristiana negli ultimi 2 giorni si sono risvegliati più pacifisti del solito, ma potrebbe essere un po’ tardino e, infatti, è solo uno scherzo: “Lo zar, il nemico, l’aggressore brutto, sporco e cattivo è sempre lui, Vladimir” che “voleva invadere mezza Europa”, precisa subito nell’incipit l’articolo, però – chiarisce – ora non dobbiamo eccedere con gli isterismi perché nel frattempo, udite udite, “l’abbiamo fermato”; e ora che il più è fatto, ha affermato la madrecristiana dai salotti di Rete4, si tratta banalmente di “non mollare”, in modo da costringerlo definitivamente “a sedersi al tavolo delle trattative”. E che nessuno si azzardi a parlare di guerra alla Russia! “Basta con i proclami”, sottolinea infatti l’articolo, “basta con i bicipiti ostentati dal boxeur di Parigi”; la guerra si prepara, ma non si dice: “Io penso si debba essere muscolari nei fatti e non nelle pose” ha ribadito infatti la premier “e che bisogna reagire in modo serio”, ma bisogna anche “fare attenzione ai toni che si usano”. Questo ovviamente, ha sottolineato, non significa “che non si debba fare ciò che è giusto fare”, ma, molto semplicemente, che bisogna stare attenti “a come certe cose vengono vendute”; insomma: la scelta a Washington è stata presa ed è stata comunicata e, a parte qualche scaramuccia in famiglia – tipo quando quei rompicoglioni dei miei figlioli litigano per chi deve apparecchiare – in Europa nessuno ha niente da eccepire. La guerra sarà lunga e dolorosa; per farla, dovremo convertire una fetta consistente della nostra economia e, per combatterla, avremo bisogno di parecchia carne da macello, ma dire tutte queste cose apertamente è da irresponsabili e, invece che aiutare, potrebbe – in realtà – complicare ulteriormente i piani.
Piuttosto, come si fa a impacchettare per bene e a vendere questa tragedia al popolo senza scatenare il panico, lasciatevelo spiegare dalla nostra Giorgiona; d’altronde come maestro ha avuto il Re dei piazzisti: il Silvione nazionale. Altro che le ridicole foto ritoccate di Macron coi guantoni! Convincere i popoli a sostenere o, almeno, a non opporsi con troppa energia a qualcosa che è chiaramente contraria ai loro interessi, è una vera e propria arte; e il nostro Silvione nazionale, e i suoi discepoli, sono i nostri Leonardo e Michelangelo: nessuno come loro maneggia l’arte di dosare sapientemente menzogne e mezze verità e – mantenendo sempre un certo stile – far passare sempre in secondo piano ogni tipo di contraddizione. E così, passo dopo passo, convincere chiunque a sostenere qualsiasi cosa o, al limite, a non incazzarsi troppo, alla fine cosa sarà mai? Il Silvione nazionale, con queste tecniche, è riuscito a farci credere che, tutto sommato, fosse accettabile avere un premier monopolista dell’informazione televisiva privata e, come partito di maggioranza, un partito fondato da un condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.

Silvione nazionale

La Giorgiona è una sua degna erede ed è riuscita a convincerci che il saluto romano è un segno di rispetto ai valori costituzionali, che mentre l’industria collassa non c’è mai stato così tanto lavoro, che ha fatto la guerra alle oligarchie bancarie mettendo una tassa sugli extraprofitti (che è sparita un quarto d’ora dopo l’annuncio) e che basta il carrello tricolore per affrontare la perdita dell’equivalente di due mesi di stipendio nell’arco di due anni; figuratevi cosa gli ci vuole ora, un passetto alla volta, a convincere la maggioranza di chi va ancora a votare in Italia che Putin, prima, era un bravo guaglione a cui ispirarsi, ma da quando gli sono venuti 26 tumori ed è stato sostituito da un sosia, vuole per forza conquistare Lisbona e che, dopo aver liberato l’Abissinia, per i gloriosi reparti speciali di Segrate (rigorosamente selezionati col televoto durante una puntata di Uomini & Donne), liberare la Crimea sarà una passeggiata. Ma prima di andare avanti con questo ennesimo racconto dal SottoSopra, se ancora non lo avete fatto, vi ricordo di pigiare il pulsantino del mi piace sotto questo video – che la nostra guerra contro la dittatura degli algoritmi non è meno impari di quella che ha in mente laGiorgiona nazionale; e, già che ci siete, ricordatevi anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e, magari, anche di attivare le notifiche: non servirà ad ostacolare l’armageddon, ma almeno, nel frattempo – magari – ci facciamo qualche risata.
Sul Giornanale torna in forma smagliante il nostro leggendario Andrea Cuomo, l’esperto di enogastronomia che, da qualche settimana, s’è improvvisato anche un po’ stratega militare; peccato che non sempre le improvvisazioni funzionino proprio benissimo. L’altro giorno c’aveva sfrucugliato le gonadi con la bufala delle file chilometriche dei sostenitori di Navalny davanti ai seggi elettorali; ora rilancia, e si lamenta del fatto che il dittatore plurimorto del Cremlino “non si arrende all’evidenza che ci sia l’ISIS dietro l’assalto al Crocus” e, invece di occuparsi dei problemi interni suoi, da autentico vigliacco qual è se la rifà sugli ucraini con “prove tecniche di escalation”. Ma “Dove si può accendere la miccia?” si chiede il Corriere della serva; la prima scelta, ovviamente, sono gli Stati Baltici anche perché, come ammette a malincuore nell’articolo lo stesso Fabrizio Dragosei, “sono particolarmente aggressivi”: “Hanno proclamato la Russia stato terrorista” sottolinea “e trattano poco amichevolmente la minoranza russa, che in particolare in Estonia e in Lettonia, rappresenta tra un terzo e un quarto della popolazione”. “Tallin e Riga” ricorda infatti l’articolo “stanno introducendo per tutti l’obbligo di conoscere la lingua nazionale, con esami specifici”: in Lettonia lo hanno già sostenuto in 10 mila e “un buon 60% è stato bocciato e ora rischia l’espulsione, compresi anziani che hanno oggettive difficoltà”; in Estonia, invece, esattamente come nelle province orientali dell’Ucraina dopo il golpe eterodiretto dell’Euromaidan, “Si sta eliminando il russo dalle scuole, e tutti i presidi devono passare l’esame C1 di lingua estone che prevede, tra l’altro, la capacità di comprendere un’ampia gamma di espressioni idiomatiche e colloquiali” il tutto, sottolinea ancora Dragosei, “in uno degli idiomi più difficili del mondo”. Mosca è così irrazionale e feroce da considerare tutto questo – pensate un po’ – persecutorio e, sottolinea allarmato Dragosei, potrebbe usarlo come “giustificazione per un intervento”, che uno normale, allora, pensa: basterebbe ricordare ai paesi baltici che discriminare le minoranze linguistiche non è proprio bellissimo e, magari, anche che se ci tiene davvero tanto a far parte del giardino ordinato è il caso che si dia una regolata. E invece no: il copione delle vere democrazie liberali prevede, invece, di far rigorosamente finta di niente e, anzi, cogliere l’occasione al balzo per creare una nuova minaccia, con “La Svezia”, ricorda Dragosei, che si aggiunge alla lista dei paesi NATO che usano le diatribe coi Paesi Baltici per minacciare la Russia e che “sta per mandare le sue truppe in quella regione”.
Oltre ai Paesi Baltici, poi, a preoccupare – ovviamente – c’è anche la Polonia e, in particolare, per il corridoio di Suwalki che la collega ai Paesi Baltici separando l’exclave di Kaliningrad dalla Bielorussia; in realtà, anche per Kaliningrad i primi ad alzare la tensione sono stati, di nuovo, i baltici, in particolare la Lituania che, già nel giugno del 2022, aveva vietato il passaggio dalla Russia all’exclave di tutte le merci sottoposte a sanzioni, che erano parecchie – dal cemento al carbone, passando per le componenti tecnologiche fino, addirittura, alla vodka e al caviale: un atto che Mosca, ovviamente (e a ragione), definì immediatamente “apertamente ostile e provocatorio” e “in violazione degli obblighi internazionali della Lituania, a partire dalla dichiarazione congiunta del 2022 della Federazione Russa e dell’Unione Europea sul transito tra la regione di Kaliningrad e il resto del territorio russo”. Come ricordava, in quell’occasione, l’ISPI, l’exclave “è un territorio chiave per la marina militare russa, che ha qui il quartier generale della sua flotta baltica e dove ha schierato missili balistici Iskander con capacità nucleare. Inoltre è l’unico porto russo sul Mar Baltico libero dai ghiacci tutto l’anno e la sua posizione strategica consente alle navi russe di evitare il periplo della penisola scandinava attraverso la rotta artica”; insomma: un nervo scoperto che l’Occidente collettivo ha deciso, ovviamente, di utilizzare per provocare di nuovo il Cremlino e testare le reali intenzioni di Mosca, come ha fatto la Polonia l’anno successivo, nel maggio 2023, quando – come un bimbo capriccioso all’asilo – ha annunciato ufficialmente che avrebbe smesso di utilizzare il nome russo Kaliningrad per reintrodurre la denominazione polacca di Krolowiec – una provocazione che il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov definì “una forma di follia guidata dall’odio per i russi e che non ha mai prodotto nulla di buono”. E infine, ovviamente, c’è la Transnistria, della quale abbiamo già parlato approfonditamente la scorsa settimana; come ricorda, infatti, anche il solito Dragosei “La Moldavia da gennaio ha bloccato le esportazioni della regione verso l’Europa, e questo viene visto dalla Russia come una provocazione” e, magari, viene visto come una provocazione proprio perché lo è, palesemente.
Insomma, la logica mi pare piuttosto evidente: invece che risolvere i problemi, l’idea è quella di renderli sempre più incancreniti e irrisolvibili, in modo da poter continuamente provocare la federazione russa e, grazie alla propaganda, trasformare magicamente le reazioni a queste palesi provocazioni in pericolo di invasione imminente per proteggersi dalla quale serve uno scudo, Lo scudo di Biden come titola a caratteri cubitali La Stampa – un’altra chicca del corrispondente dagli USA del giornale degli Elkann. “La parola d’ordine a Washington” sottolinea, infatti, con enfasi Alberto Simoni “resta quella di evitare l’escalation”: “Dinanzi alle azioni di Putin” continua “prevale il silenzio o frasi di circostanza”; l’importante è “non dare aria al fuoco della propaganda russa”. Forse, però, s’era perso un pezzettino; in una delle tappe del suo tour elettorale nella Carolina del sud, infatti, Biden sembra non aver tenuto troppo in considerazione la voglia di understatement del nostro stimato corrispondente: ha rilanciato l’idea – più che condivisibile – di ricavare 400 miliardi di entrate in più l’anno tassando i super-ricchi e ha promesso che, con quei soldi, potremo “assicurarci finalmente di proteggere l’Ucraina da quel macellaio di Putin” (che non è esattamente il primo appellativo che m’è venuto a mente quando ho letto Simoni farneticare di evitare l’escalation e non dare aria al fuoco della propaganda russa, diciamo). Dove riescano a trovare così tanti pennivendoli così impassibili di fronte alle figure di merda che raccattano di fronte all’universo mondo, per me, rimane un mistero: secondo me, li fabbricano a Mirafiori al posto delle auto – che quello hanno smesso da tempo di farlo, anche se La Stampa, che è di loro proprietà, non cielo dice.
I servi sciocchi dell’impero, comunque, alla fine (loro malgrado) si rivelano sempre utili perché, tra una puttanata galattica e l’altra, si fanno uscire – senza accorgersene – anche qualche verità; ed ecco, così, che Simoni ribadisce paro paro il concetto espresso dalla Meloni su Rete4: “Le frasi di Macron sulle truppe in Ucraina” sottolinea Simoni “non sono piaciute, e sono state lette, spiega un analista vicino ai democratici, come un’inutile esternazione”: cioè, è chiaro – come sosteniamo da un po’ – che dal momento che gli Ucraini addestrati adeguatamente rimasti, ormai, si contano sulle dita di una mano, dovremo mandare più personale NATO direttamente sul campo, ma va fatto come l’abbiamo fatto fino ad ora – in silenzio, senza fare troppo gli sboroni e con i nostri amici pennivendoli che negano l’evidenza fino a che non diamo noi, per qualche motivo, il semaforo verde (come quando, dopo le dichiarazioni di Macron, il New York Times se n’è uscito con l’articolone sulle basi della CIA lungo il confine russo-ucraino presenti almeno a partire dal 2014).

Nathalie Tocci

Non sono giornali: sono uffici comunicazione dell’intelligence che dicono sempre la cosa giusta al momento giusto, al contrario di Macron; il punto, qui, non è solo apparecchiarla adeguatamente per convincere le proprie opinioni pubbliche a non opporsi al suicidio di massa, ma è anche evitare di allarmare troppo Putin. Sbandierando ai 4 venti le nostre reali intenzioni, infatti, Putin si potrebbe convincere del fatto che il momento migliore per chiudere la partita è proprio adesso, prima che l’Europa trovi il modo di cominciare a riarmarsi: ed ecco, così, come si giustifica la selva di missili che si è abbattuta sull’Ucraina, con una ferocia senza precedenti, negli ultimi giorni; “Nell’ultima settimana” ricorda una Nathalie Tocci che, dopo una breve parentesi di umanità per le sorti dei bambini palestinesi, è tornata a invocare la guerra totale alla Russia dalle pagine de La Stampa “la Russia ha lanciato circa 190 missili, 140 droni e 700 bombe guidate su obiettivi civili e militari”. E’ l’unica cosa sensata di tutto l’editoriale: secondo la Tocci infatti, ovviamente, anche questo è solo segno di debolezza e di un Putin che, ormai, per legittimare il suo regime è diventato totalmente dipendente dalla guerra (che è la stessa identica cosa che ripete da 2 anni); l’attentato a Mosca, comunque – concede anche la nostra Nathalie – ovviamente non c’entra niente, anche perché l’operazione era iniziata prima. Il dubbio, in realtà, è semplicemente uno: la selva di missili che, tra le altre cose, ha fatto vedere chiaramente come le difese ucraine – ormai – siano ridotte al lumicino, potrebbe infatti essere, appunto, il tentativo di Putin di accelerare una vittoria definitiva sul campo, ma potrebbe anche essere, semplicemente, un avvertimento: se avete intenzione di intensificare il conflitto sappiate che, prima che voi siate pronti, io ho tutti gli strumenti per radere al suolo mezzo paese.
Quello che è certo è che, al momento, l’iniziativa è tutta in mano a Mosca e a noi rimangono gli annunci e le chiacchiere che, nelle pagine successive de La Stampa, ieri si rincorrevano veloci: ed ecco, così, che un’intera pagina viene dedicata alla fantomatica attivazione delle unità speciali della Response Force, la forza di risposta rapida della NATO – costituita nell’ormai lontano 2002 – e che, inizialmente, era previsto nel tempo raggiungesse addirittura le 300 mila unità; 22 anni dopo sono 40 mila.
Per intimorire il Cremlino, probabilmente, un po’ pochini anche perché, per ora, in realtà dormono sonni tranquilli: ad essere effettivamente messa in stato d’allerta, infatti, sarebbe una singola brigata interforze, la fantomatica Very High Readiness Joint Task Force, composta da appena 6 mila uomini; d’altronde, come sottolinea anche il generale USA Breedlove, “non credo che l’alleanza sia pronta come dovrebbe in caso di aggressione da parte della Russia”. Difficile, però, capire che cappello abbia in testa il generale quando fa queste dichiarazioni: dopo essere stato a capo del Comando USA in Europa, Breedlove, infatti, da pensionato si gode una serie infinita di incarichi finanziati dal gotha del comparto militare industriale: i profitti dei suoi sponsor potrebbero prendere il sopravvento sulla lucidità delle analisi. Ed ecco, così, che arriva immancabile il momento consigli per gli acquisti: “Bisogna acquistare munizioni adatte a questi scenari” ha dichiarato, “modernizzare e adeguare le attrezzature” e investire in “carri armati e fanterie” e, in cambio, vi diamo pure un cambio Shimano.
In realtà, comunque, a parte tutto quello che si può vendere (con ampio margine di profitto) per mettere in piedi finalmente una vera forza di risposta rapida che non sia in grado solo di affrontare, nella migliore delle ipotesi, le forze armate di qualche paese semifallito, il problema – come abbiamo ripetuto millemila volte – rimane quello che ci sarebbe da fare per prepararsi ad affrontare una lunga guerra di logoramento: per la produzione di armi, nonostante i tanti annunci, anche l’ultimo consiglio europeo per ora sembra essersi concluso con un nulla di fatto, ma lo scoglio ancora più insormontabile potrebbero essere, appunto, gli uomini; per la grande, lunga guerra che ci aspetta serve necessariamente tornare al servizio di leva – e io do per scontato che, prima o poi, ci si arrivi. Ma, ovviamente, nessun politico che abbia – per qualche ragione – ancora bisogno di conservare un minimo di consenso è oggi in grado di proporla seriamente: a escluderla categoricamente, ad esempio, è Guido Crosetto che, come Breedlove, ha più a cuore i fatturati dell’industria che lo pagava profumatamente fino a ieri che non la geopolitica; tra i tanti problemi c’è anche il fatto che reintrodurre la leva costerebbe, come minimo, 15 miliardi l’anno e, allora, meglio pensare a un piano B.

Guido Crosetto

Quello di Crosetto prevede una riforma per introdurre anche in Italia i riservisti volontari che però, stima Federico Capurso su La Stampa, potrebbero essere un po’ pochini, non più di 10 mila (se tutto va bene): è “l’Occidente” che ormai è costretto a seguire una “guida smarrita”, come la definisce Danilo Taino sempre sul Corriere della serva che, con grande rammarico, ricorda come “L’Unione Europea non muove passi decisivi a favore degli ucraini aggrediti da Vladimir Putin e non lo farà almeno fino a dopo le elezioni del Parlamento europeo a giugno” e che, poi, rimpiange i bei tempi andati quando, di fronte all’invasione del Kuwait da parte di Saddam nel 1990, Margaret Thatcher si rivolse a Bush padre con un perentorio “Non è tempo di barcollare”; “Gli aggressori tuonò” ricorda Taino entusiasta “devono essere fermati e buttati fuori. Un aggressore non può guadagnare dalla sua aggressione”. In quel caso, rimpiange Taino “Le democrazie non vacillarono”; il problema è che, ora come allora, “La democrazia deve essere riempita di convinzioni, di politiche, di responsabilità, di fermezza morale”; insomma: di puttanate. “Le leadership” infatti, continua Taino, “non nascono dal nulla”: c’è bisogno di creare “delle sfide e delle minacce da affrontare” e quali siano oggi queste sfide, continua Taino, “ce lo ha chiarito nel marzo 2023, sulla porta del Cremlino, il numero uno cinese Xi Jinping, che così salutò l’amico Putin: Ci troviamo di fronte a cambiamenti di dimensioni mai viste negli ultimi cento anni; e noi siamo coloro che assieme guideranno questi cambiamenti”. L’Occidente allora, per riaffermare la sua leadership – sostiene ancora Taino – deve reagire con fermezza e affermare chiaramente che è disposto a tutto pur di impedire che questi cambiamenti avvengano, e fa la lista della spesa: deve impedire all’ex blocco sovietico di rialzare la testa dopo che, con la shock therapy degli anni ‘90, eravamo quasi riusciti a riportarlo all’età della pietra; deve impedire che la resistenza palestinese metta fine al regime di apartheid imposto dall’occupazione sionista; deve impedire che il patriottismo nazionalista di Ansar Allah abbia la meglio sui regimi medioevali delle petromonarchie e deve impedire ai golpe patriottici dell’Africa occidentale di mandare il pericoloso segnale che anche quando sei senza il becco di un quattrino e pieno zeppo di problemi fino al collo, non è mai un cattivo momento per mettere fine a 5 secoli di brutale dominio coloniale.
Sono queste le battaglie che possono ridare al suprematismo occidentale lo smalto che, nel tempo, è andato sbiadendo; io, invece, sono dell’idea che all’imperialismo e al suprematismo non solo bisogna impedirgli di ritrovare lo smalto perduto, ma che proprio gli andrebbero strappate le unghie: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte – quella dei popoli – contro le oligarchie. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

ITALIA IN GUERRA – Perché da Hitler a Netanyahu l’Italia è sempre al fianco del colonialismo più feroce

Conflitto in Medio Oriente”; “Nave italiana in prima linea”.
Oohhh, lo vedi? Dai, dai! Il prurito alle mani che tormentava i sostenitori italiani del genocidio e della pulizia etnica trova finalmente un piccolo sfogo e l’Italia così, dopo la solita inevitabile sfilata di fake news, doppi standard e ipocrisia un tot al chilo, finalmente entra ufficialmente in guerra e si riposiziona nel posto che gli è più congeniale: quello di cane da compagnia del colonialismo più feroce disponibile sul mercato. Da Hitler, a Biden e Netanyahu.

La fregata Virgilio Fasan

Il riferimento, ovviamente, è alla decisione di spedire la nostra fregata lanciamissili Virgilio Fasan nel mar Rosso per contrastare il nodo dell’asse della resistenza che, al momento, sembra più determinato a sostenere la lotta di liberazione del popolo palestinese contro la forza di occupazione e lo sterminio indiscriminato dei bambini arabi: Ansar Allah, i partigiani di Dio dello Yemen. La nave della Marina militare farà parte di una flotta composta da mezzi provenienti da una decina di nazioni, e che avrebbe lo scopo di proteggere le imbarcazioni commerciali di Israele e dei paesi che sostengono il suo genocidio dalle reazioni che hanno scatenato in tutta la regione: “L’Italia” ha dichiarato solennemente il ministro degli affari dell’industria militare Guido Big Jim Crosetto “farà la sua parte per contrastare l’attività terroristica di destabilizzazione degli Houthi” dove per terrorismo, ovviamente, si intende banalmente tutto quello che viene fatto per tentare di salvare la vita al futuro terrorista che si nasconde in ogni bambino palestinese, “e tutelare la prosperità del commercio garantendo la libertà di navigazione”. Tradotto: compagno Netanyahu, stermina chi te pare che, alle brutte, le spalle te le copriamo noi (e senza che, ovviamente, la questione fosse portata in Parlamento). D’altronde quando l’ordine arriva dall’alto non è che ti puoi mettere tanto a disquisire con la scusa dei riti della pagliacciata che è diventata la democrazia parlamentare, e qui l’ordine è stato perentorio: una breve comunicazione via teleconferenza da parte del compagno Lloyd Austin, ed ecco fatto.
D’altronde non si è trattato altro che di anticipare un po’ un’operazione già a lungo programmata: la Fasan, infatti, già a inizio estate aveva partecipato a un’esercitazione con le squadre navali USA alla fine della quale aveva ottenuto il patentino che le concede l’onore di fare da bodyguard alle portaerei dell’impero; l’arsenale di bordo, infatti, dovrebbe essere in grado di intercettare tutte le armi a disposizioni della resistenza Houthi, dai droni ai missili balistici, e anche senza l’annuncio di questa missione che, ironicamente, è stata battezzata Prosperity Guardianguardiani della prosperità, alla facciaccia di quegli animali umani che abitano a Gaza – sarebbe comunque partita verso il golfo di Aden il prossimo febbraio. D’altronde – fa sapere il governo – garantire la sicurezza della navigazione è essenziale per gli interessi di tutti voi consumatori: vedersi bloccare il canale di Suez per l’irresponsabilità di questi maledetti terroristi significa aumentare a dismisura i costi della logistica. Un po’ come costa proteggere gli extraprofitti registrati dalle aziende durante questi anni di iperinflazione, che hanno visto i consumatori impoverirsi e le oligarchie arricchirsi a ritmi mai visti; in quel caso, però, contro l’avidità delle oligarchie di fregate ne abbiamo viste pochine, e manco di tasse sugli extraprofitti: quella sulle banche, dopo essere stata annunciata in pompa magna, nel giro di due mesi è sparita del tutto pure dalla legge di bilancio.
A questo giro, però, non si tratta di far pagare i super – ricchi, ma i bambini di Gaza e, oggettivamente, è più semplice: mica c’hanno i giornali, le Tv, le lobby e il potere di far schizzare verso quota 500 lo spread. T’immagini? L’Italia condanna i bambini di Gaza allo sterminio: lo spread impenna.

Mario Sechi

Lo sprezzo di quel che rimane della nostra democrazia – dimostrato aderendo all’operazione militare senza passare dal Parlamento – ha gasato i più appassionati tra i sostenitori del genocidio: Mario Sechi su Libero ci invita a immaginarci “Un governo Conte – Schlein in questo scenario: avremmo già issato la bandiera bianca consegnandoci come nazione neutrale nelle mani dei commissari del popolo di Putin e Xi Jinping”; come ricorda il carabiniere giornalista Claudio Antonelli dalle pagine de La Pravda dell’Alt Right infatti, “in ballo c’è ben più della sicurezza nel mar Rosso: si tratta di contrastare le manovre di Mosca e Pechino lungo la Via della Seta”. Come giustamente sottolinea Antonelli, infatti, “non si può non notare che la potenza militare degli Houthi non giustifica il dispiegamento di un’intera flotta di queste dimensioni”; “le posizioni delle batterie missilistiche” continua Antonelli “sono conosciute al millimetro e gli USA potrebbero intervenire all’istante grazie ai satelliti”. Difficile qui capire quando questo sia un giudizio equilibrato e quanto invece sia l’ennesimo delirio di onnipotenza di un suprematista qualsiasi; di sicuro, però, c’è che pattugliare quell’area è un modo per tenere per le palle i cinesi che, ovviamente, sono i produttori del grosso delle merci che transitano attraverso Suez per arrivare nella sponda settentrionale del Mediterraneo. I primi ad avere interesse che si ristabilisca questa benedetta libertà di navigazione, a regola, dovrebbero essere proprio loro, soprattutto dal momento che anche la strada alternativa è sostanzialmente chiusa per lavori: “Il canale di Panama” ricorda Federico Bosco su Il Foglio, infatti, “è gravemente limitato da una siccità che ne riduce la portata”. Eppure, appunto, i cinesi alla Prosperity Guardian non sono stati chiamati a collaborare. Strano: in passato, nel golfo di Aden, USA e Cina hanno lavorato di comune accordo contro la pirateria e per la sicurezza della navigazione; non è mai stato pubblicizzato più di tanto ma, come scriveva il Council on Foreign Relations già nel 2013, “Lontano dai riflettori, la cooperazione nel Golfo di Aden ha fornito sia alla Cina che agli Stati Uniti un canale vitale per contatti militari sempre più intensi in un contesto di sfiducia prolungata nell’Asia Pacifico. In effetti” continua l’articolo “le due marine hanno recentemente condotto un’esercitazione anti – pirateria congiunta. E In futuro” conclude “la cooperazione non tradizionale in materia di sicurezza nei mari lontani è destinata a svolgere un ruolo ancora più importante nel rafforzare le relazioni militari sino – americane”.
Bei tempi, quando ancora i suprematisti USA pensavano di poter tenere al guinzaglio la Cina e che, magari, a Hu Jintao in Cina sarebbe subentrato un presidente ancora più espressione diretta delle oligarchie cinesi invischiate con la finanza USA e la Cina avrebbe abbandonato – così – la sua strada verso il socialismo con caratteristiche cinesi e abbracciato le magnifiche sorti e progressive del totalitarismo neoliberista. A Hu Jintao, invece, è subentrato Xi Dada, e il socialismo con caratteristiche cinesi, da oggetto di scherno degli intellettuali fintoprogressisti del Nord globale, è diventato elemento di ispirazione per tutti i paesi che tentano di uscire dal dominio coloniale; e anche la lotta alla pirateria, da elemento di collaborazione tra le due superpotenze, si è trasformata nell’ennesima scusa per provare a ostacolare manu militari l’ascesa economica e politica cinese. E così, oggi, i pattugliamenti cinesi nell’area continuano: in questo caso però – sottolinea il Global Times – si tratta di “missioni anti – pirateria autorizzate dalle Nazioni Unite” e che hanno il solo scopo di garantire il transito “degli aiuti umanitari diretti a Gaza”; l’operazione guidata dagli USA, invece, “non ha l’autorizzazione dell’ONU, e rischia solo di intensificare la crisi a Gaza”.
D’altronde, da oltre 2 mesi, l’unico obiettivo degli USA all’ONU è proprio ostacolare con le scuse più ridicole ogni progresso verso un cessate il fuoco ricorrendo al veto e, in queste ore, ancora sta facendo di tutto per far slittare ancora il voto in Consiglio di Sicurezza dopo che l’assemblea generale dell’ONU ha adottato – per la seconda volta consecutiva a larghissima maggioranza – una risoluzione che spinge, appunto, verso il cessate il fuoco. Come ha sottolineato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese martedì scorso “Ci auguriamo che gli Stati Uniti ascoltino la voce della comunità internazionale, smettano di bloccare scientificamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e inizino a svolgere il ruolo dovuto nel promuovere un cessate il fuoco immediato e prevenire una catastrofe umanitaria ancora più grande”.
Come cambia il mondo, eh? Quelli che, per 50 anni, hanno accusato chiunque non si sottomettesse ai suoi interessi di essere stati canaglia – per poi bombardarli – oggi sono considerati dalla comunità internazionale l’unico vero stato canaglia; ed ecco così che, a parte l’Italia e una manciata di altri vassalli, a non aver risposto alla chiamata alle armi USA sarebbero in parecchi: “Secondo i rapporti” riporta sempre il Global Times “Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Oman si sarebbero rifiutati di aderire all’operazione. E’ facile vedere” continua l’articolo “come a partecipare all’operazione siano pochi paesi della regione, che sembrano anzi piuttosto preoccupati che questa operazione possa intensificare il conflitto”. D’altronde sarebbe stato difficile spacciarla come qualcosa di ragionevole alle proprie opinioni pubbliche, tutte indistintamente solidali con la causa palestinese: come ha dichiarato ad Al Mayadeen Mohamed al-Bukahiti, uno dei più autorevoli leader di Ansar Allah, “Lo Yemen attende la creazione della coalizione più sporca della storia per impegnarsi nella battaglia più sacra della storia”, e si chiede “Come verranno percepiti i paesi che si sono affrettati a formare una coalizione internazionale contro lo Yemen per proteggere gli autori del genocidio israeliano?”. Nel frattempo, intanto – riporta sempre Al Mayadeen – la Malesia impone il divieto di attracco alle navi israeliane. “La geopolitica del Medio Oriente” sottolinea Global Times “è estremamente complessa, e ogni piccola azione può avere conseguenze di vasta portata. Nella regione gli Stati Uniti hanno avviato numerose guerre e istigato molte rivolte, ma hanno anche subito molte battute d’arresto, e hanno pagato un prezzo elevato. Il motivo è che gli USA non hanno mai assunto una posizione equa, e non hanno mai preso in considerazione gli interessi concreti dei paesi del Medio Oriente, ma hanno sempre messo avanti a tutto esclusivamente le proprie esigenze egemoniche. Gli USA ora vorrebbero disimpegnarsi, ma mantenendo comunque la loro posizione dominante nella regione. Non si vogliono più impegnare nei conflitti regionali, ma usano ancora la tattica di sostenere l’uno e colpire l’altro per consolidare piccoli circoli di interesse. Un simile approccio però” conclude il Global Times “non farà altro che intensificare, anziché calmare, le turbolenze nella regione”.

Guido “Big Jim” Crosetto

Circa un secolo fa, una classe dirigente di svendipatria di professione ha deciso di ridurre il nostro Paese in cenere per sostenere i deliri suprematisti del colonialismo occidentale più feroce; oggi i loro degni eredi si apprestano a gettare l’intero Paese in un drammatico remake di quell’orrendo filmaccio, campi di concentramento inclusi: l’ultima moda dell’esercito di occupazione a Gaza, infatti è spingere le persone nei campi profughi senza cibo, acqua, elettricità e servizi sanitari, e poi bombardarli. Sembra sia la soluzione più razionale: coi tempi che corrono, il caro vecchio gas ormai – probabilmente – costerebbe troppo. Io, ecco – anche solo per non essere sottoposti domani a una sacrosanta nuova Norimberga -, direi che forse è il caso di costruirci per lo meno un media dove sia possibile dichiarare che noi, molto educatamente, ci dissociamo e che non saremmo proprio intenzionati a collaborare a questa nuova Shoah alla rovescia (se è permesso, eh?); còmprati oggi la tua prova certificata per il processo contro i collaborazionisti di domani: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Guido Crosetto

La Solitudine di Zelensky: perché l’occidente globale sta voltando le spalle al suo ultimo crociato

Magari mi sono distratto io, ma ultimamente mi sembra che i titoli “copia incolla” sull’occidente unito come un sol uomo che si appresta a concludere trionfante la sua crociata contro la giungla selvaggia che ci assedia vadano un po’ meno di moda; eppure, per mesi e mesi sulle prime pagine di tutti i principali giornali italiani non c’è stato letteralmente altro.

Viene quasi il sospetto che qualcosa sia andato storto e che ora non sia esattamente chiarissimo come salvare la faccia se non, appunto, attraverso l’oblio.

La controffensiva ormai è relegata alle pagine di cultura e società: invece che militare, sembra la controffensiva dei selfie, o dei killfie, come si dice in gergo. Il termine indica il fenomeno delle persone disposte a tutto pur di catturare lo scatto perfetto e che alla fine ci lasciano le penne, e nella guerra ucraina ha raggiunto una dimensione tutta nuova: 13 morti, in una botta sola.

Tanti sarebbero gli uomini dei servizi segreti militari di Kyev, caduti mercoledì scorso nel tentativo di sbarcare in Crimea per realizzare un video che ritrae incursori che sventolano la bandiera ucraina e dicono felici che “la Crimea sarà ucraina o disabitata”, scrive il Messaggero.

In tutto, ricostruisce il Messaggero, “una trentina di marinai ucraini che alle 2 di notte hanno puntato verso la Crimea su un’imbarcazione veloce e 3 moto d’acqua”, che sono state “prima intercettate da un pattugliatore della marina russa, poi attaccate dagli aerei e costrette al ritiro. Il video però”, sottolinea non ho capito quanto sarcasticamente il Messaggero, “è stato girato e postato”.

E io che mi lamento che per fare un video mi devo leggere qualche articolo di giornale. Che ingrato.

D’altronde, a breve, gli smartphone con le camere di ultima generazione potrebbero essere l’unica arma che l’occidente è ancora disposto a fornire per questa guerra per procura, che rischia di rimanere senza procuratori; nonostante le tonnellate di inchiostro sprecato per tentare di convincerci che l’iperinflazione, i tassi di interesse alle stelle e la recessione incombente non fossero altro che leggende metropolitane spacciate dai gufi e dagli utili idioti della propaganda putiniana, sembra quasi che per la realtà sia arrivato il momento di presentare il conto. Non poteva andare altrimenti.

Nonostante negli ultimi 50 anni le élite politiche del nord globale non abbiano fatto altro che restringere ogni spazio di democrazia, fortunatamente qualcosina in eredità ci è rimasto

e, mano a mano che per le élite che negli ultimi 18 mesi hanno sacrificato gli interessi della stragrande maggioranza dei loro cittadini si avvicina lo spettro delle urne, il mondo fatato immaginario dipinto dalla propaganda del partito unico della guerra e degli affari comincia a scricchiolare.

Il primo clamoroso esempio è stata la Polonia, che sul sostegno all’Ucraina senza se e senza ma ha tentato, con il supporto incondizionato di Washington, di riconfigurare completamente il suo status all’interno dell’Unione Europea; sotto stretta osservazione per le sue palesi violazioni dei requisiti minimi di uno stato di diritto, nell’arco di poche ore si era magicamente trasformata nella paladina più intransigente del mondo democratico contro i totalitarismi.

Evidentemente, però, l’operazione di maquillage ideologico ha convinto più i rubastipendi che stanno in villeggiatura a Bruxelles che non i contadini polacchi, che inspiegabilmente sono così maleducati da preoccuparsi più di non finire in miseria che non di immolarsi in nome della retorica democratica.

La storia la conoscete: da quando è naufragato l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina mediato dalla Turchia, l’Ucraina ha cominciato a esportare il suo grano via terra, approfittando della sospensione di quote e tariffe da parte della UE nei confronti dei prodotti alimentari ucraini a partire dal febbraio del 2022. Da allora il grano ucraino ha letteralmente invaso paesi come la Bulgaria, la Romania e appunto la Polonia, rischiando di gettare sul lastrico gli agricoltori locali: ammassato a milioni di tonnellate nei silos, pur di sbarazzarsene il grano ucraino aveva raggiunto prezzi troppo bassi per permettere a qualunque produttore di reggere la concorrenza. Di fronte alle proteste delle popolazioni locali, nel maggio scorso, l’Unione Europea aveva introdotto un divieto temporaneo alla vendita del grano ucraino in questi stessi paesi, divieto che però a settembre è scaduto.

Una tempistica perfetta: il 15 ottobre infatti la Polonia torna al voto, e il voto degli agricoltori è determinante, in particolare per il partito di governo di estrema destra Diritto e Giustizia, che ha proprio tra la popolazione rurale il suo bacino di voti principale e che, come 18 mesi prima, da essere considerato la peggio feccia reazionaria era diventato, nell’arco di mezza giornata, il punto di riferimento dei sinceri democratici, ora si apprestava altrettanto rapidamente a fare il percorso inverso.

Il compagno Morawieczki infatti ha si è rifiutato di ritirare il divieto e Zelensky ha reagito presentando un ricorso ufficiale presso il WTO e accusando la Polonia di essere solidale solo a parole.

E Morawieczki non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. “Non trasferiremo più armi all’Ucraina”, ha annunciato laconico a fine settembre in diretta televisiva. Ma non solo: “Se vogliamo che il conflitto si intensifichi in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia. Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata“.

Maledetti populisti! La stragrande maggioranza dei loro elettori avanza una rivendicazione, e per paura di perdere le elezioni questi gliela concedono pure, magari addirittura senza aver prima ottenuto il via libera da Washington o da Bruxelles.

Se ce lo dicevano prima che funzionava così la democrazia, ci inventavamo un altro sistema.

E la Polonia non è certo un caso isolato. Tra gli stati canaglia dell’internazionale nera di Visegrad che più hanno cercato di sfruttare la guerra per procura in Ucraina per tornare a piacere alla gente che piace, senza manco bisogno di rinunciare a un briciolo della loro vocazione clericofascista, spicca infatti anche la piccola ma agguerritissima Slovacchia, che salta anche più agli occhi; fino al 2018 infatti al governo c’era stato un tale Robert Fico, che invece il muro contro muro con la Russia e il suicidio delle sanzioni economiche li vedeva di pessimo occhio già da tempi non sospetti.

Cresciuto tra le fila del Partito Comunista subito prima dello smembramento della Repubblica Ceca, Fico aveva fondato una formazione politica tutta sua, che si chiama SMER, ed è un esempio piuttosto eclettico di partito socialdemocratico che ha incredibilmente sempre nutrito più di qualche perplessità per quel che riguarda le controriforme di carattere neoliberista e l’adesione religiosa ai vincoli esterni.

Nel 2018 però al governo guidato da Fico ne subentra un altro, altrettanto populista, ma a questo giro in senso prettamente reazionario, che fa sue battaglie di civiltà come ad esempio trasformare l’aborto in un reato penale, e come tutti i veri fintosovranisti ma veri reazionari, quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina ecco che la Slovacchia si trova a gareggiare per il primo gradino del podio dei governi più svendipatria del continente.

Come ricorda People Dispatch, “in termini di percentuale del suo prodotto interno lordo, la Slovacchia è attualmente uno dei maggiori donatori europei all’Ucraina. Ha fornito all’Ucraina obici, veicoli corazzati e la sua intera flotta di aerei da combattimento MiG-29 dell’era sovietica”.

Purtroppo però, continua l’articolo, la Slovacchia “è anche uno dei paesi più poveri d’Europa, e il grosso dell’elettorato è convinto che il denaro dovrebbe servire per migliorare i servizi interni, non per la guerra”.

Totalmente dipendente dal gas russo a prezzi di sconto, la Slovacchia negli ultimi 18 mesi ha registrato uno dei tassi d’inflazione più alti dell’intero continente, superando durante la scorsa primavera addirittura quota 15%; la crisi economica ha scatenato una crisi politica e la maggioranza filo NATO si è sfaldata, ma invece di sciogliere il parlamento e tornare alle urne la presidenta fintoprogressista Zuzana Caputova ha deciso di consegnare il paese nelle mani dell’ennesimo caso di governo tecnico farsa guidato dal vice governatore della banca nazionale.

Come tutti i governi tecnici che si rispettano, i mesi successivi sono stati mesi di sospensione della democrazia e di politiche antipopolari in nome dei vincoli esterni nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, fino a quando anche qui è arrivata la scadenza naturale della legislazione ed è tornata quella gran rottura di coglioni che sono le elezioni politiche che – ormai – ai paladini della democrazia piacciono sempre meno.

Ovviamente a quel punto, come sempre accade al termine di un governo tecnocratico antidemocratico, il grosso dell’elettorato non poteva che prediligere la forza politica che meno si era compromessa, ed ecco così che il nostro Robert Fico ha avuto gioco facile.

Durante la campagna elettorale gli è bastato ricordare che le conseguenze delle sanzioni alla Russia lui le denuncia da sempre e promettere espressamente che in caso di vittoria “non invieremo un solo colpo all’Ucraina”, ed ecco fatto: una cosa lineare, prevedibile, semplice.

Per tutti, tranne che per la sinistra suprematista imperiale delle ZTL e la sua bibbia, internazionale, che affida l’ennesima analisi psichedelica all’immancabile Pierre Haski.

Un vero punto di riferimento: quando avete un dubbio, andate a vedere cosa ne pensa Haski. e fate, o pensate, l’esatto opposto.

Secondo Haski in questo caso, la vittoria di Fico sarebbe attribuibile “al ruolo della disinformazione di massa, dalle fake news ai video truccati, che ha imperversato durante la campagna elettorale slovacca”.

Ma la potenza di fuoco dell’inarrestabile macchina propagandistica di Putin – il primo presidente nella storia a riuscire a pilotare l’opinione pubblica globale nonostante sia già morto da mesi per uno dei suoi 17 incurabili tumori e nonostante la bancarotta della Russia annunciata dalla Tocci da due anni ma tenuta ancora nascosta – va ben oltre la Slovacchia: anche il nostro paese, nonostante la RAI, Mediaset, La7, il gruppo GEDI, e gli analfoliberali sul web, è a rischio.

Facciamo un passetto indietro: lunedì scorso Tajani è andato a Kyev e durante la visita avrebbe ufficialmente annunciato nuovi invii di armi.“E’ soltanto una dichiarazione d’intenti” l’ha redarguito Crosetto.

Di questo fantomatico ottavo pacchetto di aiuti, sottolinea infatti Crosetto, “C’è tantissima gente che ne parla non avendone competenza”, anche perché, ricorda sommessamente, “è secretato. C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, però bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe”.

l’italia ha fatto molto”, ha continuato Crosetto, ma non abbiamo “risorse illimitate”, e abbiamo già fatto “quasi tutto ciò che potevamo fare; non esiste molto ulteriore spazio”.

Non è un cambio di linea eh, ci mancherebbe. “Continueremo a sostenere l’Ucraina”, ha infatti ribadito, “privilegiando la via del dialogo per riaffermare il diritto a raggiungere una pace giusta”, ma solo come se fosse antani, tarapiotapioca con scappellamento a destra.

O a centrodestra, se siete più moderati.

Ma gli arsenali vuoti non sono l’unica cosa a spingere l’Italia verso una parziale marcia indietro: come ha sottolineato Giorgiona stessa, a preoccupare comincia anche ad essere, anche qui, l’opinione pubblica. Un sostegno incondizionato, avrebbe dichiarato Giorgiona “genera una resistenza e rischia di generare stanchezza nell’opinione pubblica”, ma a colpire ancora di più è la reazione dello stesso Zelensky, che fino a qualche mese fa si incazzava decisamente per molto meno, e oggi invece si riscopre comprensivo.

So che l’Italia ha le proprie sfide”, avrebbe affermato, “e so anche che l’Italia subisce una forte campagna di disinformazione della federazione russa, che spende milioni per distruggere le relazioni tra le nazioni dell’Europa e del mondo”.

E a noi, manco un centesimo, popo’ di ingrati.

Di fronte a questa inarrestabile campagna propagandistica russa che, senza che ve ne accorgeste, si è impossessata di tutti i media e tutti i mezzi di produzione del consenso italiani, Zelensky non può che apprezzare comunque lo sforzo: “Vorrei ringraziarvi perché voi avete un primo ministro molto forte”, avrebbe affermato.

Ma com’è che tutti questi Paesi, che abbiamo sempre additato come umili servitori degli USA, anche contro i loro stessi interessi più immediati, ora cominciano di punto in bianco un po’ a scalpitare? Semplice: i primi a scalpitare ormai, infatti, sono proprio gli USA.
Come sapete, per rinviare per l’ennesima volta il rischio shutdown pochi giorni fa Biden e la maggioranza repubblicana alla camera, hanno siglato un patto che permette nei prossimi quarantacinque giorni di effettuare tutta una lunga serie di spese. Che è lunga si, ma non abbastanza da contenere ulteriori aiuti all’Ucraina. Biden voleva altri 6 miliardi. ne ha ottenuti zero.

Ed è solo l’inizio. Perchè comunque quell’intesa tra leader repubblicani alla camera e amministrazione democratica, a qualcuno proprio non è andata giù. Risultato: un piccolo gruppo di 8 repubblicani che secondo i media mainstream sarebbero l’estrema destra dell’estrema destra trumpiana, hanno chiesto il voto di sfiducia per lo spekaer della camera Kevin McCarthy, lo hanno ottenuto, e poi lo hanno pure vinto. È la prima volta che succede da quando esistono gli Stati Uniti d’America per come li conosciamo oggi. Senza lo speaker, l’attività legislativa della camera è bloccata e l’ucraina teme che per lei sarà bloccata anche quando di speaker ne eleggeranno uno nuovo. “Difficile eleggere uno speaker che sostenga gli aiuti all’ucraina”, così avrebbe dichiarato un parlamentare repubblicano interrogato da La Stampa. Non si tratta di uno dei parlamentari della fronda, ma di Pete Sessions, storico rappresentante neocon del texas, e filoucraino sfegatato. A spingere i repubblicani verso un deciso cambio di rotta, i sondaggi che continuano a dimostrare come la maggioranza assoluta dei cittadini USA non ne possa più. Come quello pubbicato l’altro giorno dalla cnn che affermava che il 55% degli americani ritiene che siano stati dati tutti gli aiuti necessari e che “è stato fatto abbastanza”. I soldi che ci sono, devono essere spesi in qualcosa che potrebbe permettere ai repubblicani di vincere le prossime elezioni: in particolare, rafforzare il controllo del confine con il Messico, e ridurre il debito.
“Prima bisogna garantire i finanziamenti per la sicurezza alle frontiere e poi occuparci di Ucraina”, avrebbe dichiarato Garrett Graves, della ristretta cerchia di McCarthy. Ed ecco così che spunta la candidatura di Jim Jordan, potentissimo capo della commissione giustizia, tra gli artefici della procedura di impeachment contro Biden e uno degli oppositori più vocali all’invio di aiuti a Kyev.

Una “SUPERPOTENZA DISFUNZIONALE”, come l’ha definita in un lungo articolo su “foreign affairs” Robert Gates, già direttore della CIA all’inizio degli anni ‘90, e poi caso più unico che raro di segretario della difesa bipartisan, prima con George W. Bush, e poi con Barack Obama. La domanda che si fa Robert Gates è più attuale che mai: Può un’America divisa scoraggiare Cina e Russia?

“Gli Stati Uniti”, sottolinea Gates, “si trovano ora ad affrontare minacce alla propria sicurezza più gravi di quanto non fossero mai state negli ultimi decenni, forse mai. Il problema, tuttavia è che nel momento stesso in cui gli eventi richiedono una risposta forte e coerente da parte degli Stati Uniti, il Paese non è in grado di fornirne una”. Secondo gates gli USA si trovano ancora oggi in una posizione di relativa forza rispetto a Cina e Russia. “Purtroppo, però”, riflette Gates, “le disfunzioni politiche e i fallimenti politici dell’America ne stanno minando il successo”. Per tornare ad avere il potere di dissuadere gli avversari da compiere ulteriori gesti inconsulti, suggerisce Gates, gli Stati Uniti devono assolutamente ritrovare quell’”accordo bipartisan decennale rispetto al ruolo degli Stati Uniti nel mondo”, ed essere in grado di spiegare insieme a tutti gli elettori che “la leadership globale degli USA, nonostante i suoi costi, è indispensabile per preservare la pace e la prosperità”. Per fare questo non bastano gli appelli alla nazione dallo studio ovale. “Piuttosto”, sottolinea Gates, “è necessario che tutti ripetano all’infinito questo messaggio affinché venga recepito”. Insomma, l’esercizio di quel poco di democrazia che è rimasto nel nord globale rischia di far sbandare dalla strada maestra, che non è quella che si scelgono i popoli in base ai loro interessi, ma quella che decidono a tavolino i Gates e gli oligarchi che lo sostengono. Per tornare sulla retta via, c’è bisogno di richiamare tutti all’ordine, e lanciare una campagna di lavaggio del cervello di massa che ci faccia riconoscere come nemici senza se e senza ma quelli che loro hanno individuato come nemici in base ai loro interessi. E siccome poi alla gente li puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma se gli levi il pane da sotto i denti, poi a un certo punto comunque si incazza, se non basterà il soft power della persuasione, vorrà dire che si passerà all’hard power delle mazzate. L’occidente globale è in via di disfacimento. prima che si rassegnino a mollare l’osso, ci sarà da vederne delle belle.

Contro il piano orwelliano dei gates, nel frattempo, quello che possiamo fare è continuare a insinuare i dubbi e a segnalare le contraddizioni. e per farlo, abbiamo bisogno di costruire il primo media che invece che dalla parte della loro propaganda, stia dalla parte degli interessi del 99%

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…e chi non aderisce è Robert Gates.