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Tag: berlusconi

Meloni la Piazzista infuriata con Macron il Pivellino: “la Guerra si fa, ma si nega”

Meloni: non porterò l’Italia in guerra (Il Giornale). Il Giornanale e la madrecristiana negli ultimi 2 giorni si sono risvegliati più pacifisti del solito, ma potrebbe essere un po’ tardino e, infatti, è solo uno scherzo: “Lo zar, il nemico, l’aggressore brutto, sporco e cattivo è sempre lui, Vladimir” che “voleva invadere mezza Europa”, precisa subito nell’incipit l’articolo, però – chiarisce – ora non dobbiamo eccedere con gli isterismi perché nel frattempo, udite udite, “l’abbiamo fermato”; e ora che il più è fatto, ha affermato la madrecristiana dai salotti di Rete4, si tratta banalmente di “non mollare”, in modo da costringerlo definitivamente “a sedersi al tavolo delle trattative”. E che nessuno si azzardi a parlare di guerra alla Russia! “Basta con i proclami”, sottolinea infatti l’articolo, “basta con i bicipiti ostentati dal boxeur di Parigi”; la guerra si prepara, ma non si dice: “Io penso si debba essere muscolari nei fatti e non nelle pose” ha ribadito infatti la premier “e che bisogna reagire in modo serio”, ma bisogna anche “fare attenzione ai toni che si usano”. Questo ovviamente, ha sottolineato, non significa “che non si debba fare ciò che è giusto fare”, ma, molto semplicemente, che bisogna stare attenti “a come certe cose vengono vendute”; insomma: la scelta a Washington è stata presa ed è stata comunicata e, a parte qualche scaramuccia in famiglia – tipo quando quei rompicoglioni dei miei figlioli litigano per chi deve apparecchiare – in Europa nessuno ha niente da eccepire. La guerra sarà lunga e dolorosa; per farla, dovremo convertire una fetta consistente della nostra economia e, per combatterla, avremo bisogno di parecchia carne da macello, ma dire tutte queste cose apertamente è da irresponsabili e, invece che aiutare, potrebbe – in realtà – complicare ulteriormente i piani.
Piuttosto, come si fa a impacchettare per bene e a vendere questa tragedia al popolo senza scatenare il panico, lasciatevelo spiegare dalla nostra Giorgiona; d’altronde come maestro ha avuto il Re dei piazzisti: il Silvione nazionale. Altro che le ridicole foto ritoccate di Macron coi guantoni! Convincere i popoli a sostenere o, almeno, a non opporsi con troppa energia a qualcosa che è chiaramente contraria ai loro interessi, è una vera e propria arte; e il nostro Silvione nazionale, e i suoi discepoli, sono i nostri Leonardo e Michelangelo: nessuno come loro maneggia l’arte di dosare sapientemente menzogne e mezze verità e – mantenendo sempre un certo stile – far passare sempre in secondo piano ogni tipo di contraddizione. E così, passo dopo passo, convincere chiunque a sostenere qualsiasi cosa o, al limite, a non incazzarsi troppo, alla fine cosa sarà mai? Il Silvione nazionale, con queste tecniche, è riuscito a farci credere che, tutto sommato, fosse accettabile avere un premier monopolista dell’informazione televisiva privata e, come partito di maggioranza, un partito fondato da un condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.

Silvione nazionale

La Giorgiona è una sua degna erede ed è riuscita a convincerci che il saluto romano è un segno di rispetto ai valori costituzionali, che mentre l’industria collassa non c’è mai stato così tanto lavoro, che ha fatto la guerra alle oligarchie bancarie mettendo una tassa sugli extraprofitti (che è sparita un quarto d’ora dopo l’annuncio) e che basta il carrello tricolore per affrontare la perdita dell’equivalente di due mesi di stipendio nell’arco di due anni; figuratevi cosa gli ci vuole ora, un passetto alla volta, a convincere la maggioranza di chi va ancora a votare in Italia che Putin, prima, era un bravo guaglione a cui ispirarsi, ma da quando gli sono venuti 26 tumori ed è stato sostituito da un sosia, vuole per forza conquistare Lisbona e che, dopo aver liberato l’Abissinia, per i gloriosi reparti speciali di Segrate (rigorosamente selezionati col televoto durante una puntata di Uomini & Donne), liberare la Crimea sarà una passeggiata. Ma prima di andare avanti con questo ennesimo racconto dal SottoSopra, se ancora non lo avete fatto, vi ricordo di pigiare il pulsantino del mi piace sotto questo video – che la nostra guerra contro la dittatura degli algoritmi non è meno impari di quella che ha in mente laGiorgiona nazionale; e, già che ci siete, ricordatevi anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e, magari, anche di attivare le notifiche: non servirà ad ostacolare l’armageddon, ma almeno, nel frattempo – magari – ci facciamo qualche risata.
Sul Giornanale torna in forma smagliante il nostro leggendario Andrea Cuomo, l’esperto di enogastronomia che, da qualche settimana, s’è improvvisato anche un po’ stratega militare; peccato che non sempre le improvvisazioni funzionino proprio benissimo. L’altro giorno c’aveva sfrucugliato le gonadi con la bufala delle file chilometriche dei sostenitori di Navalny davanti ai seggi elettorali; ora rilancia, e si lamenta del fatto che il dittatore plurimorto del Cremlino “non si arrende all’evidenza che ci sia l’ISIS dietro l’assalto al Crocus” e, invece di occuparsi dei problemi interni suoi, da autentico vigliacco qual è se la rifà sugli ucraini con “prove tecniche di escalation”. Ma “Dove si può accendere la miccia?” si chiede il Corriere della serva; la prima scelta, ovviamente, sono gli Stati Baltici anche perché, come ammette a malincuore nell’articolo lo stesso Fabrizio Dragosei, “sono particolarmente aggressivi”: “Hanno proclamato la Russia stato terrorista” sottolinea “e trattano poco amichevolmente la minoranza russa, che in particolare in Estonia e in Lettonia, rappresenta tra un terzo e un quarto della popolazione”. “Tallin e Riga” ricorda infatti l’articolo “stanno introducendo per tutti l’obbligo di conoscere la lingua nazionale, con esami specifici”: in Lettonia lo hanno già sostenuto in 10 mila e “un buon 60% è stato bocciato e ora rischia l’espulsione, compresi anziani che hanno oggettive difficoltà”; in Estonia, invece, esattamente come nelle province orientali dell’Ucraina dopo il golpe eterodiretto dell’Euromaidan, “Si sta eliminando il russo dalle scuole, e tutti i presidi devono passare l’esame C1 di lingua estone che prevede, tra l’altro, la capacità di comprendere un’ampia gamma di espressioni idiomatiche e colloquiali” il tutto, sottolinea ancora Dragosei, “in uno degli idiomi più difficili del mondo”. Mosca è così irrazionale e feroce da considerare tutto questo – pensate un po’ – persecutorio e, sottolinea allarmato Dragosei, potrebbe usarlo come “giustificazione per un intervento”, che uno normale, allora, pensa: basterebbe ricordare ai paesi baltici che discriminare le minoranze linguistiche non è proprio bellissimo e, magari, anche che se ci tiene davvero tanto a far parte del giardino ordinato è il caso che si dia una regolata. E invece no: il copione delle vere democrazie liberali prevede, invece, di far rigorosamente finta di niente e, anzi, cogliere l’occasione al balzo per creare una nuova minaccia, con “La Svezia”, ricorda Dragosei, che si aggiunge alla lista dei paesi NATO che usano le diatribe coi Paesi Baltici per minacciare la Russia e che “sta per mandare le sue truppe in quella regione”.
Oltre ai Paesi Baltici, poi, a preoccupare – ovviamente – c’è anche la Polonia e, in particolare, per il corridoio di Suwalki che la collega ai Paesi Baltici separando l’exclave di Kaliningrad dalla Bielorussia; in realtà, anche per Kaliningrad i primi ad alzare la tensione sono stati, di nuovo, i baltici, in particolare la Lituania che, già nel giugno del 2022, aveva vietato il passaggio dalla Russia all’exclave di tutte le merci sottoposte a sanzioni, che erano parecchie – dal cemento al carbone, passando per le componenti tecnologiche fino, addirittura, alla vodka e al caviale: un atto che Mosca, ovviamente (e a ragione), definì immediatamente “apertamente ostile e provocatorio” e “in violazione degli obblighi internazionali della Lituania, a partire dalla dichiarazione congiunta del 2022 della Federazione Russa e dell’Unione Europea sul transito tra la regione di Kaliningrad e il resto del territorio russo”. Come ricordava, in quell’occasione, l’ISPI, l’exclave “è un territorio chiave per la marina militare russa, che ha qui il quartier generale della sua flotta baltica e dove ha schierato missili balistici Iskander con capacità nucleare. Inoltre è l’unico porto russo sul Mar Baltico libero dai ghiacci tutto l’anno e la sua posizione strategica consente alle navi russe di evitare il periplo della penisola scandinava attraverso la rotta artica”; insomma: un nervo scoperto che l’Occidente collettivo ha deciso, ovviamente, di utilizzare per provocare di nuovo il Cremlino e testare le reali intenzioni di Mosca, come ha fatto la Polonia l’anno successivo, nel maggio 2023, quando – come un bimbo capriccioso all’asilo – ha annunciato ufficialmente che avrebbe smesso di utilizzare il nome russo Kaliningrad per reintrodurre la denominazione polacca di Krolowiec – una provocazione che il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov definì “una forma di follia guidata dall’odio per i russi e che non ha mai prodotto nulla di buono”. E infine, ovviamente, c’è la Transnistria, della quale abbiamo già parlato approfonditamente la scorsa settimana; come ricorda, infatti, anche il solito Dragosei “La Moldavia da gennaio ha bloccato le esportazioni della regione verso l’Europa, e questo viene visto dalla Russia come una provocazione” e, magari, viene visto come una provocazione proprio perché lo è, palesemente.
Insomma, la logica mi pare piuttosto evidente: invece che risolvere i problemi, l’idea è quella di renderli sempre più incancreniti e irrisolvibili, in modo da poter continuamente provocare la federazione russa e, grazie alla propaganda, trasformare magicamente le reazioni a queste palesi provocazioni in pericolo di invasione imminente per proteggersi dalla quale serve uno scudo, Lo scudo di Biden come titola a caratteri cubitali La Stampa – un’altra chicca del corrispondente dagli USA del giornale degli Elkann. “La parola d’ordine a Washington” sottolinea, infatti, con enfasi Alberto Simoni “resta quella di evitare l’escalation”: “Dinanzi alle azioni di Putin” continua “prevale il silenzio o frasi di circostanza”; l’importante è “non dare aria al fuoco della propaganda russa”. Forse, però, s’era perso un pezzettino; in una delle tappe del suo tour elettorale nella Carolina del sud, infatti, Biden sembra non aver tenuto troppo in considerazione la voglia di understatement del nostro stimato corrispondente: ha rilanciato l’idea – più che condivisibile – di ricavare 400 miliardi di entrate in più l’anno tassando i super-ricchi e ha promesso che, con quei soldi, potremo “assicurarci finalmente di proteggere l’Ucraina da quel macellaio di Putin” (che non è esattamente il primo appellativo che m’è venuto a mente quando ho letto Simoni farneticare di evitare l’escalation e non dare aria al fuoco della propaganda russa, diciamo). Dove riescano a trovare così tanti pennivendoli così impassibili di fronte alle figure di merda che raccattano di fronte all’universo mondo, per me, rimane un mistero: secondo me, li fabbricano a Mirafiori al posto delle auto – che quello hanno smesso da tempo di farlo, anche se La Stampa, che è di loro proprietà, non cielo dice.
I servi sciocchi dell’impero, comunque, alla fine (loro malgrado) si rivelano sempre utili perché, tra una puttanata galattica e l’altra, si fanno uscire – senza accorgersene – anche qualche verità; ed ecco, così, che Simoni ribadisce paro paro il concetto espresso dalla Meloni su Rete4: “Le frasi di Macron sulle truppe in Ucraina” sottolinea Simoni “non sono piaciute, e sono state lette, spiega un analista vicino ai democratici, come un’inutile esternazione”: cioè, è chiaro – come sosteniamo da un po’ – che dal momento che gli Ucraini addestrati adeguatamente rimasti, ormai, si contano sulle dita di una mano, dovremo mandare più personale NATO direttamente sul campo, ma va fatto come l’abbiamo fatto fino ad ora – in silenzio, senza fare troppo gli sboroni e con i nostri amici pennivendoli che negano l’evidenza fino a che non diamo noi, per qualche motivo, il semaforo verde (come quando, dopo le dichiarazioni di Macron, il New York Times se n’è uscito con l’articolone sulle basi della CIA lungo il confine russo-ucraino presenti almeno a partire dal 2014).

Nathalie Tocci

Non sono giornali: sono uffici comunicazione dell’intelligence che dicono sempre la cosa giusta al momento giusto, al contrario di Macron; il punto, qui, non è solo apparecchiarla adeguatamente per convincere le proprie opinioni pubbliche a non opporsi al suicidio di massa, ma è anche evitare di allarmare troppo Putin. Sbandierando ai 4 venti le nostre reali intenzioni, infatti, Putin si potrebbe convincere del fatto che il momento migliore per chiudere la partita è proprio adesso, prima che l’Europa trovi il modo di cominciare a riarmarsi: ed ecco, così, come si giustifica la selva di missili che si è abbattuta sull’Ucraina, con una ferocia senza precedenti, negli ultimi giorni; “Nell’ultima settimana” ricorda una Nathalie Tocci che, dopo una breve parentesi di umanità per le sorti dei bambini palestinesi, è tornata a invocare la guerra totale alla Russia dalle pagine de La Stampa “la Russia ha lanciato circa 190 missili, 140 droni e 700 bombe guidate su obiettivi civili e militari”. E’ l’unica cosa sensata di tutto l’editoriale: secondo la Tocci infatti, ovviamente, anche questo è solo segno di debolezza e di un Putin che, ormai, per legittimare il suo regime è diventato totalmente dipendente dalla guerra (che è la stessa identica cosa che ripete da 2 anni); l’attentato a Mosca, comunque – concede anche la nostra Nathalie – ovviamente non c’entra niente, anche perché l’operazione era iniziata prima. Il dubbio, in realtà, è semplicemente uno: la selva di missili che, tra le altre cose, ha fatto vedere chiaramente come le difese ucraine – ormai – siano ridotte al lumicino, potrebbe infatti essere, appunto, il tentativo di Putin di accelerare una vittoria definitiva sul campo, ma potrebbe anche essere, semplicemente, un avvertimento: se avete intenzione di intensificare il conflitto sappiate che, prima che voi siate pronti, io ho tutti gli strumenti per radere al suolo mezzo paese.
Quello che è certo è che, al momento, l’iniziativa è tutta in mano a Mosca e a noi rimangono gli annunci e le chiacchiere che, nelle pagine successive de La Stampa, ieri si rincorrevano veloci: ed ecco, così, che un’intera pagina viene dedicata alla fantomatica attivazione delle unità speciali della Response Force, la forza di risposta rapida della NATO – costituita nell’ormai lontano 2002 – e che, inizialmente, era previsto nel tempo raggiungesse addirittura le 300 mila unità; 22 anni dopo sono 40 mila.
Per intimorire il Cremlino, probabilmente, un po’ pochini anche perché, per ora, in realtà dormono sonni tranquilli: ad essere effettivamente messa in stato d’allerta, infatti, sarebbe una singola brigata interforze, la fantomatica Very High Readiness Joint Task Force, composta da appena 6 mila uomini; d’altronde, come sottolinea anche il generale USA Breedlove, “non credo che l’alleanza sia pronta come dovrebbe in caso di aggressione da parte della Russia”. Difficile, però, capire che cappello abbia in testa il generale quando fa queste dichiarazioni: dopo essere stato a capo del Comando USA in Europa, Breedlove, infatti, da pensionato si gode una serie infinita di incarichi finanziati dal gotha del comparto militare industriale: i profitti dei suoi sponsor potrebbero prendere il sopravvento sulla lucidità delle analisi. Ed ecco, così, che arriva immancabile il momento consigli per gli acquisti: “Bisogna acquistare munizioni adatte a questi scenari” ha dichiarato, “modernizzare e adeguare le attrezzature” e investire in “carri armati e fanterie” e, in cambio, vi diamo pure un cambio Shimano.
In realtà, comunque, a parte tutto quello che si può vendere (con ampio margine di profitto) per mettere in piedi finalmente una vera forza di risposta rapida che non sia in grado solo di affrontare, nella migliore delle ipotesi, le forze armate di qualche paese semifallito, il problema – come abbiamo ripetuto millemila volte – rimane quello che ci sarebbe da fare per prepararsi ad affrontare una lunga guerra di logoramento: per la produzione di armi, nonostante i tanti annunci, anche l’ultimo consiglio europeo per ora sembra essersi concluso con un nulla di fatto, ma lo scoglio ancora più insormontabile potrebbero essere, appunto, gli uomini; per la grande, lunga guerra che ci aspetta serve necessariamente tornare al servizio di leva – e io do per scontato che, prima o poi, ci si arrivi. Ma, ovviamente, nessun politico che abbia – per qualche ragione – ancora bisogno di conservare un minimo di consenso è oggi in grado di proporla seriamente: a escluderla categoricamente, ad esempio, è Guido Crosetto che, come Breedlove, ha più a cuore i fatturati dell’industria che lo pagava profumatamente fino a ieri che non la geopolitica; tra i tanti problemi c’è anche il fatto che reintrodurre la leva costerebbe, come minimo, 15 miliardi l’anno e, allora, meglio pensare a un piano B.

Guido Crosetto

Quello di Crosetto prevede una riforma per introdurre anche in Italia i riservisti volontari che però, stima Federico Capurso su La Stampa, potrebbero essere un po’ pochini, non più di 10 mila (se tutto va bene): è “l’Occidente” che ormai è costretto a seguire una “guida smarrita”, come la definisce Danilo Taino sempre sul Corriere della serva che, con grande rammarico, ricorda come “L’Unione Europea non muove passi decisivi a favore degli ucraini aggrediti da Vladimir Putin e non lo farà almeno fino a dopo le elezioni del Parlamento europeo a giugno” e che, poi, rimpiange i bei tempi andati quando, di fronte all’invasione del Kuwait da parte di Saddam nel 1990, Margaret Thatcher si rivolse a Bush padre con un perentorio “Non è tempo di barcollare”; “Gli aggressori tuonò” ricorda Taino entusiasta “devono essere fermati e buttati fuori. Un aggressore non può guadagnare dalla sua aggressione”. In quel caso, rimpiange Taino “Le democrazie non vacillarono”; il problema è che, ora come allora, “La democrazia deve essere riempita di convinzioni, di politiche, di responsabilità, di fermezza morale”; insomma: di puttanate. “Le leadership” infatti, continua Taino, “non nascono dal nulla”: c’è bisogno di creare “delle sfide e delle minacce da affrontare” e quali siano oggi queste sfide, continua Taino, “ce lo ha chiarito nel marzo 2023, sulla porta del Cremlino, il numero uno cinese Xi Jinping, che così salutò l’amico Putin: Ci troviamo di fronte a cambiamenti di dimensioni mai viste negli ultimi cento anni; e noi siamo coloro che assieme guideranno questi cambiamenti”. L’Occidente allora, per riaffermare la sua leadership – sostiene ancora Taino – deve reagire con fermezza e affermare chiaramente che è disposto a tutto pur di impedire che questi cambiamenti avvengano, e fa la lista della spesa: deve impedire all’ex blocco sovietico di rialzare la testa dopo che, con la shock therapy degli anni ‘90, eravamo quasi riusciti a riportarlo all’età della pietra; deve impedire che la resistenza palestinese metta fine al regime di apartheid imposto dall’occupazione sionista; deve impedire che il patriottismo nazionalista di Ansar Allah abbia la meglio sui regimi medioevali delle petromonarchie e deve impedire ai golpe patriottici dell’Africa occidentale di mandare il pericoloso segnale che anche quando sei senza il becco di un quattrino e pieno zeppo di problemi fino al collo, non è mai un cattivo momento per mettere fine a 5 secoli di brutale dominio coloniale.
Sono queste le battaglie che possono ridare al suprematismo occidentale lo smalto che, nel tempo, è andato sbiadendo; io, invece, sono dell’idea che all’imperialismo e al suprematismo non solo bisogna impedirgli di ritrovare lo smalto perduto, ma che proprio gli andrebbero strappate le unghie: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte – quella dei popoli – contro le oligarchie. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

Giorgio Napolitano: il “comunista preferito” di Washington che odiava la democrazia

1975, tre tra le più prestigiose università degli USA decidono di invitare un importante dirigente del Partito Comunista Italiano per un ciclo di conferenze.

Apriti cielo: in quegli anni, infatti, il Partito Comunista Italiano stava attraversando una fase di espansione incredibile, che alle elezioni politiche dell’anno successivo lo portò a conquistare oltre il 34% dei consensi, con una crescita rispetto alle elezioni precedenti di quasi 10 punti percentuali.

Ma non solo: dopo il tragico esito dell’incredibile avventura dell’Unione Popolare in Cile sotto la guida di Salvador Allende, il PCI di Berlinguer da un paio di anni aveva sposato la strategia del così detto “compromesso storico” e l’eventualità dell’ingresso del PCI in un Governo di unità popolare si faceva giorno dopo giorno più verosimile.

L’avanzata del PCI in Italia”, dichiarerà trent’anni dopo in un intervista a La Stampa l’ambasciatore USA in Italia dal 1977 al 1981 Richard Gardner, “era la questione più grave che ci trovavamo ad affrontare in Europa”. Ed ecco così che un altro ambasciatore, quel John Volpe che si era già contraddistinto per aver nominato quel criminale “uomo dell’anno” nel 1973, il banchiere mafioso e piduista Michele Sindona, taglia la testa al toro e decide di non concedere il visto al dirigente comunista. Ma era solo il primo capitolo di una storia lunga e tortuosa.

Tre anni dopo, marzo 1978

Aldo Moro, il principale alleato di Berlinguer nell’attuazione della strategia del “compromesso storico” , viene rapito in modo rocambolesco dalle Brigate Rosse. Nel frattempo all’ambasciata USA, Gardner era subentrato a Volpe e appena un mese dopo il rapimento, il visto che a quel dirigente comunista tre anni prima era stato solennemente negato, magicamente viene concesso. Era la prima volta per un comunista dal 1952.

Quel dirigente comunista si chiamava Giorgio Napolitano, “il mio comunista preferito”, come lo definiva il compagno Henry Kissinger, dall’alto dei suoi 100 e passa anni di crimini di guerra di ogni specie.

Miglioristi”, li chiamavano: erano quella corrente del PCI che aveva rinunciato all’idea di distruggere il capitalismo e tutto sommato anche a riformarlo. Che comunque riformarlo, quando ancora la sinistra non si era completamente bevuta il cervello, significava sempre volerlo trasformare alla radice, solo più gradualmente, e senza ricorrere alla violenza. I miglioristi invece facevano un passo oltre: il capitalismo volevano solo “migliorarlo”.

Ma il punto ovviamente è: migliorarlo per chi? Un indizio significativo risale al 1976, al Governo c’era Giulio Andreotti. Un “Governo di solidarietà nazionale”, veniva definito. Ma Napolitano aveva un modo di intendere la solidarietà tutto suo. Secondo la sua tesi, bisognava si tutelare l’ “interesse generale”, ma a pagare il conto dovevano essere solo gli operai. Per superare la crisi, era la proposta del Peggiore, non c’è niente di meglio che abbassare lo stipendio di chi lavora.

Avvocato agnelli, la scongiuro, non sia timido, la vedo in difficoltà, mi trattenga un pezzo di stipendio. poi se le avanza del tempo gradirei anche mi infilasse una bella scopa su per il culo così le dò una bella ramazzatina alla stanza”. così si sarebbe dovuto esprimere il militante comunista ideale secondo Re Giorgio. Nel tempo “migliorista” diventò poi sostanzialmente sinonimo di moderato e realista. Ma forse è solo un grosso equivoco, di quelli in cui cade spesso quell’ “estremismo, malattia infantile del comunismo” che già Lenin ebbe modo di redarguire ferocemente. Moderazione e realismo infatti non sono altro che attitudini necessarie per chiunque veda nella politica, nella lotta per la conquista del potere e nel suo esercizio strumenti per cambiare concretamente in profondità l’esistente, senza cedere alla tentazione infruttuosa se non addirittura del tutto controproducente dello slancio ideale fine a se stesso. Ma nell’azione di Napolitano non c’è mai stato assolutamente niente di moderato. Il suo disprezzo per ogni forma di democrazia fu sempre contrassegnato da un fervore ideologico vicino al messianesimo. Da questo punto di vista, la militanza comunista di Napolitano non fu che un gigantesco equivoco. Acriticamente fedele ai dictat sovietici quando l’influenza sovietica nel pianeta era in rapida ascesa, nella formula dittatura del proletariato, si riconosceva solo in uno dei due termini…e non era proletariato.

Ed ecco così che quando l’Unione Sovietica alla fine crollò, per Giorgio fu una vera e propria liberazione. Ora il mondo aveva un unico padrone chiaro, le oligarchie statunitensi e il governo di Washington forgiato a loro immagine e somiglianza. Finalmente Napolitano poteva mettersi al servizio di una vera dittatura globale, che però non si ponesse l’obiettivo, per quanto contraddittorio, dell’emancipazione dei subalterni. Interpretò questa era di neodispotismo con malcelata ferocia. superando a destra qualsiasi forza politica nazionale, che anche quando interpretava un’agenda reazionaria, doveva perlomeno sempre fare un po’ di conti con il consenso e con l’interesse Nazionale. Come quando Berlusconi tentò timidamente per la prima volta nella storia della seconda Repubblica di mantenere le distanze da Washington, cercando di rimanere ai margini dell’intervento in Libia. La cronaca racconta che Napolitano lo dissuase, ma è decisamente un eufemismo. Ed è proprio il rapporto ambivalente con Berlusconi e il Berlusconismo a gettare luce sull’idea perversa del potere che permeava l’azione di Napolitano che, infatti, a lungo assecondò in ogni modo tutte le peggiori nefandezze del Governo Berlusconi. Fino a quando un bel giorno non decise di rendersi complice di un vero e proprie golpe bianco per escluderlo dai giochi per sempre.

IV Governo Berlusconi – Attribuzione: Quirinale.it

Schizofrenia? Assolutamente no.

Semplicemente, nel frattempo, era intervenuto un potere di ordine superiore. Da questo punto di vista Re Giorgio, in realtà, Re non lo è mai stato più di tanto. Intendiamoci, il modo autoritario con il quale ha interpretato il suo doppio mandato da Presidente [della Repubblica, ndr] profuma di eversione da mille miglia di distanza, come d’altronde il tentativo di riforma costituzionale dettato da Napolitano e poi naufragato grazie all’antipatia viscerale che suscitava Matteo Shish Renzi.

Ma il punto è un altro.

Totalmente insensibile a ogni istanza popolare e anche ai timidi tentativi da parte del nostro Paese di ritagliarsi una qualche forma di autonomia, più che un Re, Napolitano ricordava un amministratore delegato, pronto a ricorrere ai tatticismi più subdoli pur di assecondare i desiderata di un potere superiore. Quando quel potere superiore non era incarnato fisicamente da qualcuno, subentrava la subalternità fideistica a un principio ordinatore di carattere sostanzialmente religioso: il vincolo esterno.

Se fosse stata una ragazzina delle medie, Napolitano con le immagini del vincolo esterno ritratto in pose ammiccanti c’avrebbe tappezzato la cameretta.

Il contenuto di quel vincolo esterno tutto sommato era abbastanza secondario. Era l’esistenza del vincolo esterno in se, come principio astratto, ad affascinare Napolitano. Un Vincolo Esterno da assumere sempre e comunque come dato naturale, che permette di mettere un freno a ogni istanza di democratizzazione, e impedire così l’irruzione nelle sfere del potere del volgo e dei suoi inaffidabili leader politici a digiuno di galateo.

Un pensiero elitario”, sintetizza efficacemente Salvatore Cannavò su “il fatto quotidiano”, “degno del miglior liberal-conservatorismo europeo a cui, nel suo cuore, Napolitano è sempre appartenuto nonostante la lunga militanza nel PCI che, agli occhi del suo ruolo storico, sembra aver rappresentato solo un accidente della storia”. Un pensiero elitario che ancora più che nella repulsione epidermica per ogni forma di movimento quando era ancora tra le fila del PCI, si palesò in tutta la sua portata con l’emergere dei 5 stelle. Dopo averci consegnato via golpe bianco alla macelleria sociale del governo Monti, in assoluto il peggior della seconda repubblica, Napolitano è stato costretto controvoglia a concederci il voto. Gli italiani hanno votato chiaramente per un ruolo di primo piano dei 5 stelle, che da niente hanno raccolto oltre il 25% dei consensi, ma Napolitano c’ha consegnato a due Governi a guida PD, Letta prima e Renzi poi. In questo modo comunque, ha definitivamente distrutto il peggior partito della fintasinistra neoliberista del continente. Insomma, ha fatto anche cose buone, ma solo quando non erano volute. Ma ancor più che al “miglior liberal-conservatorismo europeo”, l’avversione atavica di Napolitano all’irruzione del volgo nelle stanze del potere e a ogni forma di democratizzazione dell’ordine sia Nazionale che ancor più di quello internazionale, spiega la profonda affinità manifestata in più di un’occasione da Henry Kissinger. Come quando, nel 2015, volle consegnarli personalmente il premio che porta il suo nome e che è destinato alle “personalità della politica europea che si sono distinte nei rapporti transatlantici”. Kissinger infatti è stato per eccellenza l’uomo delle trame segrete e dei cambi di regime manu militari per imporre su scala globale la controrivoluzione neoliberista nella sua accezione più estrema e feroce, come con Pinochet in Cile. Una controrivoluzione che ha significato molte cose, ma più di ogni altra, l’utilizzo dell’idea di un fantomatico vincolo esterno imposto da mercati immaginari per reagire alla crescita del potere dei subalterni e distruggere così l’idea stessa di democrazia moderna, com’era stata sancita nelle Costituzioni post seconda guerra mondiale. Non a caso Napolitano fu a lungo il più acerrimo dei nemici di Enrico Berlinguer, il leader politico italiano che probabilmente più di ogni altro comprese l’essenza dell’Unione Popolare di Allende e fece sua quella profonda riflessione sul nesso tra democrazia, sovranità popolare e nuovo ordine multipolare che sola avrebbe potuto rappresentare una risposta adeguata alla controrivoluzione neoliberista incombente.

Una cosa sola va riconosciuta a Napolitano: uomo del novecento, e persona colta e raffinatissima, proprio come Kissinger, è stato un più che degno rappresentante di un lungo periodo storico durante il quale ancora anche nel nord globale chi puntava alle gestione del potere, per il potere, dedicava tutta la sua vita alla politica. Da questo punto di vista, e solo a questo, bene hanno fatto i politici e i pennivendoli di oggi a scriverne all’unisono e senza eccezioni una ridondante e stucchevole apologia. Se Napolitano è stato l’amministratore delegato della controrivoluzione neoliberista e tra l’altro anche negli anni della sua inarrestabile e trionfale avanzata, loro ne sono al massimo il personale delle pulizie, nella fase del suo plateale e catastrofico declino. Se al posto dei media di regime che di lavoro ramazzano le macerie lasciate dal disastro del neoliberismo credi anche tu ci sia bisogno del primo media che sta dalla parte del volgo che vuole entrare nella stanza dei bottoni, aiutaci a costruirlo:

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e chi non aderisce è Giorgio Napolitano