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Tag: polonia

La Russia avanza come un rullo, terrore in Occidente – ft. Stefano Orsi

Oggi il nostro Gabriele intervista Stefano Orsi per fare il punto sul conflitto in Ucraina e a Gaza.
Per cominciare si fa il punto su come i governi occidentali abbiano rialzato i toni verso la Russia, dalla Polonia che chiede armi atomiche sul proprio territorio, alla decisione del Camera e del Senato USA di inviare nuovi armi a Kiev. Poi arriva il punto sulle nuove avanzate russe: piccole, ma continue. Infine, un’amara riflessione su Gaza e sulle sofferenze della popolazione gazawi.
Buona visione!

#War #Guerra #Russia #Ucraina #Gaza #StopBombingGaza

Meloni la Piazzista infuriata con Macron il Pivellino: “la Guerra si fa, ma si nega”

Meloni: non porterò l’Italia in guerra (Il Giornale). Il Giornanale e la madrecristiana negli ultimi 2 giorni si sono risvegliati più pacifisti del solito, ma potrebbe essere un po’ tardino e, infatti, è solo uno scherzo: “Lo zar, il nemico, l’aggressore brutto, sporco e cattivo è sempre lui, Vladimir” che “voleva invadere mezza Europa”, precisa subito nell’incipit l’articolo, però – chiarisce – ora non dobbiamo eccedere con gli isterismi perché nel frattempo, udite udite, “l’abbiamo fermato”; e ora che il più è fatto, ha affermato la madrecristiana dai salotti di Rete4, si tratta banalmente di “non mollare”, in modo da costringerlo definitivamente “a sedersi al tavolo delle trattative”. E che nessuno si azzardi a parlare di guerra alla Russia! “Basta con i proclami”, sottolinea infatti l’articolo, “basta con i bicipiti ostentati dal boxeur di Parigi”; la guerra si prepara, ma non si dice: “Io penso si debba essere muscolari nei fatti e non nelle pose” ha ribadito infatti la premier “e che bisogna reagire in modo serio”, ma bisogna anche “fare attenzione ai toni che si usano”. Questo ovviamente, ha sottolineato, non significa “che non si debba fare ciò che è giusto fare”, ma, molto semplicemente, che bisogna stare attenti “a come certe cose vengono vendute”; insomma: la scelta a Washington è stata presa ed è stata comunicata e, a parte qualche scaramuccia in famiglia – tipo quando quei rompicoglioni dei miei figlioli litigano per chi deve apparecchiare – in Europa nessuno ha niente da eccepire. La guerra sarà lunga e dolorosa; per farla, dovremo convertire una fetta consistente della nostra economia e, per combatterla, avremo bisogno di parecchia carne da macello, ma dire tutte queste cose apertamente è da irresponsabili e, invece che aiutare, potrebbe – in realtà – complicare ulteriormente i piani.
Piuttosto, come si fa a impacchettare per bene e a vendere questa tragedia al popolo senza scatenare il panico, lasciatevelo spiegare dalla nostra Giorgiona; d’altronde come maestro ha avuto il Re dei piazzisti: il Silvione nazionale. Altro che le ridicole foto ritoccate di Macron coi guantoni! Convincere i popoli a sostenere o, almeno, a non opporsi con troppa energia a qualcosa che è chiaramente contraria ai loro interessi, è una vera e propria arte; e il nostro Silvione nazionale, e i suoi discepoli, sono i nostri Leonardo e Michelangelo: nessuno come loro maneggia l’arte di dosare sapientemente menzogne e mezze verità e – mantenendo sempre un certo stile – far passare sempre in secondo piano ogni tipo di contraddizione. E così, passo dopo passo, convincere chiunque a sostenere qualsiasi cosa o, al limite, a non incazzarsi troppo, alla fine cosa sarà mai? Il Silvione nazionale, con queste tecniche, è riuscito a farci credere che, tutto sommato, fosse accettabile avere un premier monopolista dell’informazione televisiva privata e, come partito di maggioranza, un partito fondato da un condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.

Silvione nazionale

La Giorgiona è una sua degna erede ed è riuscita a convincerci che il saluto romano è un segno di rispetto ai valori costituzionali, che mentre l’industria collassa non c’è mai stato così tanto lavoro, che ha fatto la guerra alle oligarchie bancarie mettendo una tassa sugli extraprofitti (che è sparita un quarto d’ora dopo l’annuncio) e che basta il carrello tricolore per affrontare la perdita dell’equivalente di due mesi di stipendio nell’arco di due anni; figuratevi cosa gli ci vuole ora, un passetto alla volta, a convincere la maggioranza di chi va ancora a votare in Italia che Putin, prima, era un bravo guaglione a cui ispirarsi, ma da quando gli sono venuti 26 tumori ed è stato sostituito da un sosia, vuole per forza conquistare Lisbona e che, dopo aver liberato l’Abissinia, per i gloriosi reparti speciali di Segrate (rigorosamente selezionati col televoto durante una puntata di Uomini & Donne), liberare la Crimea sarà una passeggiata. Ma prima di andare avanti con questo ennesimo racconto dal SottoSopra, se ancora non lo avete fatto, vi ricordo di pigiare il pulsantino del mi piace sotto questo video – che la nostra guerra contro la dittatura degli algoritmi non è meno impari di quella che ha in mente laGiorgiona nazionale; e, già che ci siete, ricordatevi anche di iscrivervi a tutti i nostri canali social e, magari, anche di attivare le notifiche: non servirà ad ostacolare l’armageddon, ma almeno, nel frattempo – magari – ci facciamo qualche risata.
Sul Giornanale torna in forma smagliante il nostro leggendario Andrea Cuomo, l’esperto di enogastronomia che, da qualche settimana, s’è improvvisato anche un po’ stratega militare; peccato che non sempre le improvvisazioni funzionino proprio benissimo. L’altro giorno c’aveva sfrucugliato le gonadi con la bufala delle file chilometriche dei sostenitori di Navalny davanti ai seggi elettorali; ora rilancia, e si lamenta del fatto che il dittatore plurimorto del Cremlino “non si arrende all’evidenza che ci sia l’ISIS dietro l’assalto al Crocus” e, invece di occuparsi dei problemi interni suoi, da autentico vigliacco qual è se la rifà sugli ucraini con “prove tecniche di escalation”. Ma “Dove si può accendere la miccia?” si chiede il Corriere della serva; la prima scelta, ovviamente, sono gli Stati Baltici anche perché, come ammette a malincuore nell’articolo lo stesso Fabrizio Dragosei, “sono particolarmente aggressivi”: “Hanno proclamato la Russia stato terrorista” sottolinea “e trattano poco amichevolmente la minoranza russa, che in particolare in Estonia e in Lettonia, rappresenta tra un terzo e un quarto della popolazione”. “Tallin e Riga” ricorda infatti l’articolo “stanno introducendo per tutti l’obbligo di conoscere la lingua nazionale, con esami specifici”: in Lettonia lo hanno già sostenuto in 10 mila e “un buon 60% è stato bocciato e ora rischia l’espulsione, compresi anziani che hanno oggettive difficoltà”; in Estonia, invece, esattamente come nelle province orientali dell’Ucraina dopo il golpe eterodiretto dell’Euromaidan, “Si sta eliminando il russo dalle scuole, e tutti i presidi devono passare l’esame C1 di lingua estone che prevede, tra l’altro, la capacità di comprendere un’ampia gamma di espressioni idiomatiche e colloquiali” il tutto, sottolinea ancora Dragosei, “in uno degli idiomi più difficili del mondo”. Mosca è così irrazionale e feroce da considerare tutto questo – pensate un po’ – persecutorio e, sottolinea allarmato Dragosei, potrebbe usarlo come “giustificazione per un intervento”, che uno normale, allora, pensa: basterebbe ricordare ai paesi baltici che discriminare le minoranze linguistiche non è proprio bellissimo e, magari, anche che se ci tiene davvero tanto a far parte del giardino ordinato è il caso che si dia una regolata. E invece no: il copione delle vere democrazie liberali prevede, invece, di far rigorosamente finta di niente e, anzi, cogliere l’occasione al balzo per creare una nuova minaccia, con “La Svezia”, ricorda Dragosei, che si aggiunge alla lista dei paesi NATO che usano le diatribe coi Paesi Baltici per minacciare la Russia e che “sta per mandare le sue truppe in quella regione”.
Oltre ai Paesi Baltici, poi, a preoccupare – ovviamente – c’è anche la Polonia e, in particolare, per il corridoio di Suwalki che la collega ai Paesi Baltici separando l’exclave di Kaliningrad dalla Bielorussia; in realtà, anche per Kaliningrad i primi ad alzare la tensione sono stati, di nuovo, i baltici, in particolare la Lituania che, già nel giugno del 2022, aveva vietato il passaggio dalla Russia all’exclave di tutte le merci sottoposte a sanzioni, che erano parecchie – dal cemento al carbone, passando per le componenti tecnologiche fino, addirittura, alla vodka e al caviale: un atto che Mosca, ovviamente (e a ragione), definì immediatamente “apertamente ostile e provocatorio” e “in violazione degli obblighi internazionali della Lituania, a partire dalla dichiarazione congiunta del 2022 della Federazione Russa e dell’Unione Europea sul transito tra la regione di Kaliningrad e il resto del territorio russo”. Come ricordava, in quell’occasione, l’ISPI, l’exclave “è un territorio chiave per la marina militare russa, che ha qui il quartier generale della sua flotta baltica e dove ha schierato missili balistici Iskander con capacità nucleare. Inoltre è l’unico porto russo sul Mar Baltico libero dai ghiacci tutto l’anno e la sua posizione strategica consente alle navi russe di evitare il periplo della penisola scandinava attraverso la rotta artica”; insomma: un nervo scoperto che l’Occidente collettivo ha deciso, ovviamente, di utilizzare per provocare di nuovo il Cremlino e testare le reali intenzioni di Mosca, come ha fatto la Polonia l’anno successivo, nel maggio 2023, quando – come un bimbo capriccioso all’asilo – ha annunciato ufficialmente che avrebbe smesso di utilizzare il nome russo Kaliningrad per reintrodurre la denominazione polacca di Krolowiec – una provocazione che il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov definì “una forma di follia guidata dall’odio per i russi e che non ha mai prodotto nulla di buono”. E infine, ovviamente, c’è la Transnistria, della quale abbiamo già parlato approfonditamente la scorsa settimana; come ricorda, infatti, anche il solito Dragosei “La Moldavia da gennaio ha bloccato le esportazioni della regione verso l’Europa, e questo viene visto dalla Russia come una provocazione” e, magari, viene visto come una provocazione proprio perché lo è, palesemente.
Insomma, la logica mi pare piuttosto evidente: invece che risolvere i problemi, l’idea è quella di renderli sempre più incancreniti e irrisolvibili, in modo da poter continuamente provocare la federazione russa e, grazie alla propaganda, trasformare magicamente le reazioni a queste palesi provocazioni in pericolo di invasione imminente per proteggersi dalla quale serve uno scudo, Lo scudo di Biden come titola a caratteri cubitali La Stampa – un’altra chicca del corrispondente dagli USA del giornale degli Elkann. “La parola d’ordine a Washington” sottolinea, infatti, con enfasi Alberto Simoni “resta quella di evitare l’escalation”: “Dinanzi alle azioni di Putin” continua “prevale il silenzio o frasi di circostanza”; l’importante è “non dare aria al fuoco della propaganda russa”. Forse, però, s’era perso un pezzettino; in una delle tappe del suo tour elettorale nella Carolina del sud, infatti, Biden sembra non aver tenuto troppo in considerazione la voglia di understatement del nostro stimato corrispondente: ha rilanciato l’idea – più che condivisibile – di ricavare 400 miliardi di entrate in più l’anno tassando i super-ricchi e ha promesso che, con quei soldi, potremo “assicurarci finalmente di proteggere l’Ucraina da quel macellaio di Putin” (che non è esattamente il primo appellativo che m’è venuto a mente quando ho letto Simoni farneticare di evitare l’escalation e non dare aria al fuoco della propaganda russa, diciamo). Dove riescano a trovare così tanti pennivendoli così impassibili di fronte alle figure di merda che raccattano di fronte all’universo mondo, per me, rimane un mistero: secondo me, li fabbricano a Mirafiori al posto delle auto – che quello hanno smesso da tempo di farlo, anche se La Stampa, che è di loro proprietà, non cielo dice.
I servi sciocchi dell’impero, comunque, alla fine (loro malgrado) si rivelano sempre utili perché, tra una puttanata galattica e l’altra, si fanno uscire – senza accorgersene – anche qualche verità; ed ecco, così, che Simoni ribadisce paro paro il concetto espresso dalla Meloni su Rete4: “Le frasi di Macron sulle truppe in Ucraina” sottolinea Simoni “non sono piaciute, e sono state lette, spiega un analista vicino ai democratici, come un’inutile esternazione”: cioè, è chiaro – come sosteniamo da un po’ – che dal momento che gli Ucraini addestrati adeguatamente rimasti, ormai, si contano sulle dita di una mano, dovremo mandare più personale NATO direttamente sul campo, ma va fatto come l’abbiamo fatto fino ad ora – in silenzio, senza fare troppo gli sboroni e con i nostri amici pennivendoli che negano l’evidenza fino a che non diamo noi, per qualche motivo, il semaforo verde (come quando, dopo le dichiarazioni di Macron, il New York Times se n’è uscito con l’articolone sulle basi della CIA lungo il confine russo-ucraino presenti almeno a partire dal 2014).

Nathalie Tocci

Non sono giornali: sono uffici comunicazione dell’intelligence che dicono sempre la cosa giusta al momento giusto, al contrario di Macron; il punto, qui, non è solo apparecchiarla adeguatamente per convincere le proprie opinioni pubbliche a non opporsi al suicidio di massa, ma è anche evitare di allarmare troppo Putin. Sbandierando ai 4 venti le nostre reali intenzioni, infatti, Putin si potrebbe convincere del fatto che il momento migliore per chiudere la partita è proprio adesso, prima che l’Europa trovi il modo di cominciare a riarmarsi: ed ecco, così, come si giustifica la selva di missili che si è abbattuta sull’Ucraina, con una ferocia senza precedenti, negli ultimi giorni; “Nell’ultima settimana” ricorda una Nathalie Tocci che, dopo una breve parentesi di umanità per le sorti dei bambini palestinesi, è tornata a invocare la guerra totale alla Russia dalle pagine de La Stampa “la Russia ha lanciato circa 190 missili, 140 droni e 700 bombe guidate su obiettivi civili e militari”. E’ l’unica cosa sensata di tutto l’editoriale: secondo la Tocci infatti, ovviamente, anche questo è solo segno di debolezza e di un Putin che, ormai, per legittimare il suo regime è diventato totalmente dipendente dalla guerra (che è la stessa identica cosa che ripete da 2 anni); l’attentato a Mosca, comunque – concede anche la nostra Nathalie – ovviamente non c’entra niente, anche perché l’operazione era iniziata prima. Il dubbio, in realtà, è semplicemente uno: la selva di missili che, tra le altre cose, ha fatto vedere chiaramente come le difese ucraine – ormai – siano ridotte al lumicino, potrebbe infatti essere, appunto, il tentativo di Putin di accelerare una vittoria definitiva sul campo, ma potrebbe anche essere, semplicemente, un avvertimento: se avete intenzione di intensificare il conflitto sappiate che, prima che voi siate pronti, io ho tutti gli strumenti per radere al suolo mezzo paese.
Quello che è certo è che, al momento, l’iniziativa è tutta in mano a Mosca e a noi rimangono gli annunci e le chiacchiere che, nelle pagine successive de La Stampa, ieri si rincorrevano veloci: ed ecco, così, che un’intera pagina viene dedicata alla fantomatica attivazione delle unità speciali della Response Force, la forza di risposta rapida della NATO – costituita nell’ormai lontano 2002 – e che, inizialmente, era previsto nel tempo raggiungesse addirittura le 300 mila unità; 22 anni dopo sono 40 mila.
Per intimorire il Cremlino, probabilmente, un po’ pochini anche perché, per ora, in realtà dormono sonni tranquilli: ad essere effettivamente messa in stato d’allerta, infatti, sarebbe una singola brigata interforze, la fantomatica Very High Readiness Joint Task Force, composta da appena 6 mila uomini; d’altronde, come sottolinea anche il generale USA Breedlove, “non credo che l’alleanza sia pronta come dovrebbe in caso di aggressione da parte della Russia”. Difficile, però, capire che cappello abbia in testa il generale quando fa queste dichiarazioni: dopo essere stato a capo del Comando USA in Europa, Breedlove, infatti, da pensionato si gode una serie infinita di incarichi finanziati dal gotha del comparto militare industriale: i profitti dei suoi sponsor potrebbero prendere il sopravvento sulla lucidità delle analisi. Ed ecco, così, che arriva immancabile il momento consigli per gli acquisti: “Bisogna acquistare munizioni adatte a questi scenari” ha dichiarato, “modernizzare e adeguare le attrezzature” e investire in “carri armati e fanterie” e, in cambio, vi diamo pure un cambio Shimano.
In realtà, comunque, a parte tutto quello che si può vendere (con ampio margine di profitto) per mettere in piedi finalmente una vera forza di risposta rapida che non sia in grado solo di affrontare, nella migliore delle ipotesi, le forze armate di qualche paese semifallito, il problema – come abbiamo ripetuto millemila volte – rimane quello che ci sarebbe da fare per prepararsi ad affrontare una lunga guerra di logoramento: per la produzione di armi, nonostante i tanti annunci, anche l’ultimo consiglio europeo per ora sembra essersi concluso con un nulla di fatto, ma lo scoglio ancora più insormontabile potrebbero essere, appunto, gli uomini; per la grande, lunga guerra che ci aspetta serve necessariamente tornare al servizio di leva – e io do per scontato che, prima o poi, ci si arrivi. Ma, ovviamente, nessun politico che abbia – per qualche ragione – ancora bisogno di conservare un minimo di consenso è oggi in grado di proporla seriamente: a escluderla categoricamente, ad esempio, è Guido Crosetto che, come Breedlove, ha più a cuore i fatturati dell’industria che lo pagava profumatamente fino a ieri che non la geopolitica; tra i tanti problemi c’è anche il fatto che reintrodurre la leva costerebbe, come minimo, 15 miliardi l’anno e, allora, meglio pensare a un piano B.

Guido Crosetto

Quello di Crosetto prevede una riforma per introdurre anche in Italia i riservisti volontari che però, stima Federico Capurso su La Stampa, potrebbero essere un po’ pochini, non più di 10 mila (se tutto va bene): è “l’Occidente” che ormai è costretto a seguire una “guida smarrita”, come la definisce Danilo Taino sempre sul Corriere della serva che, con grande rammarico, ricorda come “L’Unione Europea non muove passi decisivi a favore degli ucraini aggrediti da Vladimir Putin e non lo farà almeno fino a dopo le elezioni del Parlamento europeo a giugno” e che, poi, rimpiange i bei tempi andati quando, di fronte all’invasione del Kuwait da parte di Saddam nel 1990, Margaret Thatcher si rivolse a Bush padre con un perentorio “Non è tempo di barcollare”; “Gli aggressori tuonò” ricorda Taino entusiasta “devono essere fermati e buttati fuori. Un aggressore non può guadagnare dalla sua aggressione”. In quel caso, rimpiange Taino “Le democrazie non vacillarono”; il problema è che, ora come allora, “La democrazia deve essere riempita di convinzioni, di politiche, di responsabilità, di fermezza morale”; insomma: di puttanate. “Le leadership” infatti, continua Taino, “non nascono dal nulla”: c’è bisogno di creare “delle sfide e delle minacce da affrontare” e quali siano oggi queste sfide, continua Taino, “ce lo ha chiarito nel marzo 2023, sulla porta del Cremlino, il numero uno cinese Xi Jinping, che così salutò l’amico Putin: Ci troviamo di fronte a cambiamenti di dimensioni mai viste negli ultimi cento anni; e noi siamo coloro che assieme guideranno questi cambiamenti”. L’Occidente allora, per riaffermare la sua leadership – sostiene ancora Taino – deve reagire con fermezza e affermare chiaramente che è disposto a tutto pur di impedire che questi cambiamenti avvengano, e fa la lista della spesa: deve impedire all’ex blocco sovietico di rialzare la testa dopo che, con la shock therapy degli anni ‘90, eravamo quasi riusciti a riportarlo all’età della pietra; deve impedire che la resistenza palestinese metta fine al regime di apartheid imposto dall’occupazione sionista; deve impedire che il patriottismo nazionalista di Ansar Allah abbia la meglio sui regimi medioevali delle petromonarchie e deve impedire ai golpe patriottici dell’Africa occidentale di mandare il pericoloso segnale che anche quando sei senza il becco di un quattrino e pieno zeppo di problemi fino al collo, non è mai un cattivo momento per mettere fine a 5 secoli di brutale dominio coloniale.
Sono queste le battaglie che possono ridare al suprematismo occidentale lo smalto che, nel tempo, è andato sbiadendo; io, invece, sono dell’idea che all’imperialismo e al suprematismo non solo bisogna impedirgli di ritrovare lo smalto perduto, ma che proprio gli andrebbero strappate le unghie: per farlo, abbiamo bisogno di un vero e proprio media indipendente, ma di parte – quella dei popoli – contro le oligarchie. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è Maurizio sambuca Molinari

SCANDALO PABLO GONZALEZ, il giornalista detenuto da due anni in Polonia perché non è RUSSOFOBO

Mentre la stampa più libera e democratica della storia dell’umanità (cioè occidentale) persiste in loop e senza soluzione di continuità sul caso di Alexei Navalni, il 28 febbraio il giornalista spagnolo Pablo Gonzalez ha compiuto il suo secondo anno in cella, in regime di carcere duro, senza processo, senza accuse e senza prove contro di lui, in isolamento totale e senza poter parlare direttamente con la sua famiglia. Nessuno conosce il suo caso perché Pablo ha avuto la sfortuna di non essere arrestato sommariamente in Russia, Cina, Iran o altra “dittatura”, ma in uno stato del mondo libero e democratico: la Polonia. Noi di Ottolina Tv che, invece, siamo interessati alle violazioni dei diritti umani anche quando avvengono nel bel giardino europeo, abbiamo intervistato Ohiana Goriena, la moglie di Pablo Gonzalez.

I paesi della NATO si stanno preparando a dichiarare guerra alla Russia?

Lunedì 26 febbraio. Dopo l’ennesima disfatta ad Adviivka e la situazione drammatica su tutto il fronte ucraino, una ventina di leader europei in preda al panico si riuniscono a Parigi; ad aprire le danze è, ovviamente, il sempre pimpantissimo Manuelino Macaron: gli ultimi avvenimenti, ricorda, sono “un campanello d’allarme” e richiedono “decisioni forti”. Dobbiamo discutere insieme “come possiamo fare di più, sia in termini di supporto finanziario, sia in termini di supporto militare”: da che pulpito, avranno pensato dal pubblico; “Nonostante i propositi, infatti” sottolinea con un velo di ironia Politico “la Francia è stata la prima a non aver fatto la sua parte in termini di armamento di Kiev. Mentre i dati del Kiel Institute mostrano che la Germania ha dato 17,7 miliardi di euro all’Ucraina, e la Gran Bretagna 9,1 miliardi di euro, la Francia infatti ha fornito solo 635 milioni di euro”. Ma il bello doveva ancora arrivare; come ormai saprete abbondantemente tutti, a fine conferenza – infatti – il pimpante Macaron ha optato per il colpo di scena e ha messo sul tavolo il suo carico da 11: l’invio di truppe occidentali in Ucraina, ha dichiarato alla stampa, “non può essere escluso”. Non c’è stato “nessun accordo questa sera per inviare ufficialmente nostre truppe sul campo, ma non possiamo escludere niente” perché “faremo tutto quello che possiamo per impedire alla Russia di vincere questa guerra”; s’è svegliato prestino, diciamo: “Le dichiarazioni di lunedì” ha sottolineato la stessa Agence France-Presse “sembrano rappresentare una svolta per Macron, che per molti anni ha cercato di posizionarsi come principale mediatore tra Russia e Ucraina”. Come si spiega? Il nostro Francesco Dall’Aglio un’ideina se l’è fatta: “Macron” sottolinea il Bulgaro “rappresenta solo sé stesso, i suoi amici e l’industria bellica francese, tutti abbastanza inviperiti con la Russia non perché ha invaso l’Ucraina, ma perché ha cacciato la Francia dall’Africa Centrale”.
La linea morbida adottata da Macron sin dall’inizio della seconda fase della guerra per procura della NATO contro la Russia in Ucraina nei confronti di Putin era infatti giustificata dal tentativo di contenere il ruolo della Wagner nel Sahel sconvolto dai colpi di stato patriottici in Mali, nel Burkina Faso e, più avanti, in particolare nel Niger, fondamentale fornitore di uranio a basso costo per l’industria nucleare francese, un errore di prospettiva direttamente riconducibile alla cultura profondamente suprematista e coloniale del pimpante Macaron e del suo entourage: i golpe patriottici, infatti, non sono farina del sacco di Putin o di Prigozhin, ma gli esiti inevitabili della potente ondata anticoloniale che sta attraversando tutta l’area, dal Congo al Senegal. Il ruolo della Russia e, in particolare, della Wagner prima e ora l’Africa Corps, è consistito e consiste fondamentalmente nel garantire ai paesi liberati una sponda affidabile nel caso di reazioni militari da parte dell’ex occupante coloniale che, nel frattempo, è stato costretto a desistere e ha registrato l’ennesima clamorosa sconfitta su tutta la linea: dopo aver minacciato un intervento militare vero e proprio per rovesciare gli esiti del golpe patriottico in Niger attraverso l’ECOWAS, a 7 mesi di distanza la Francia non solo ha dovuto rinunciare a ogni sogno di rivalsa con le armi, ma ha dovuto anche ingoiare la fine di ogni ostilità; sabato scorso, infatti, il presidente della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale ha annunciato la sospensione delle sanzioni economiche introdotte nei confronti del Niger subito dopo il rovesciamento popolare del governo del presidente filo occidentale Mohamed Bazoum. “Lo smantellamento di tutte le principali sanzioni” ricorda Deutsche Welle “comprende la riapertura delle frontiere terrestri e aeree tra il Niger e gli Stati membri dell’ECOWAS, nonché la revoca della no-fly zone per i voli commerciali da e per il Niger”; insomma: nuovo ordine multipolare 1, vecchio ordine neocoloniale 0, palla al centro e, per Parigi, l’espulsione totale e definitiva dal torneo. Non gli rimangono che i bluff: “In questo braccio di ferro con la Russia” avrebbe affermato lo storico militare francese Michel Goya ad Agence France-Presse “non puoi fermarti davanti a nulla, questa è una partita di poker”; peccato che le fiches di Macron siano i nostri quattrini, e anche la nostra sicurezza.
D’altronde, non è certo l’unico a puntare alla cazzo di cane col culo degli altri; è quanto aveva denunciato prima del summit di Parigi il neo presidente slovacco Robert Fico, che è salito al potere pochi mesi fa proprio grazie alla sua opposizione a qualsiasi forma di escalation del conflitto: “Diversi membri della NATO e dell’Unione Europea” ha dichiarato alla stampa “stanno valutando la possibilità di inviare soldati in Ucraina su base bilaterale”. Secondo quanto riportato da Reuters, Fico avrebbe anche affermato di intravedere il rischio di un’escalation, ma di non poter rivelare altre informazioni al pubblico: “L’annuncio di Macron” sottolinea Agence France-Presse, contribuirà “solo a rafforzare la narrativa del Cremlino secondo cui la Russia sta lottando per la sopravvivenza contro le truppe di Kiev appoggiate dalla NATO in Ucraina” “e” sottolinea Fyodor Lukyanov, capo di uno dei think tank più autorevoli di Mosca, “darà alla Russia lo slancio per inasprire ulteriormente la sua posizione, intensificare la sua retorica nucleare e aumentare la dipendenza dalla deterrenza nucleare come mezzo di risposta”. Insomma: anche a questo giro cosa mai potrebbe andare storto?

Il pimpante Macaron

Le parole del pimpante Macaron a fine summit non sono state accolte proprio calorosamente, diciamo: “Ciò che è stato concordato tra noi fin dall’inizio vale anche per il futuro” ha dichiarato alla stampa un Olaf Scholz visibilmente irritato; “vale a dire che non ci saranno truppe di terra, né soldati inviati sul territorio ucraino dai paesi europei o dai paesi della NATO, e che i soldati schierati dai nostri paesi non prendono parte attivamente alla guerra”. Gli fa eco da Praga il vecchio nuovo presidente polacco, Donald Tusk, che – in una evidente frecciatina alla postura tutta chiacchiere e distintivo dell’Eliseo – sottolinea come “Se tutti i paesi dell’UE fossero impegnati in Ucraina allo stesso livello della Polonia e della Repubblica Ceca, probabilmente non avremmo bisogno di parlare di altre forme di aiuto”. Macron resta solo titolava a 4 colonne La Stampa ieri; “Non vogliamo uno scontro con l’esercito russo” ha dichiarato Tajani: “l’Ucraina si difende con armi e aiuti”. Il punto però, ovviamente, è che questa strategia ad oggi non sta funzionando proprio benissimo: dopo la rovinosa debacle di Adviivka infatti, sottolinea ad esempio Simplicius sulla suo profilo Substack, “l’avanzata precipitosa delle forze russe continua, con la caduta di altri territori che funge potenzialmente da catalizzatore per alcune escalation da panico”. Le forze armate ucraine hanno confermato martedì la caduta prima del piccolo villaggio Lastochkino e, poi, l’avanzata verso Tonenke, ad ovest di Adviivka; Simplicius riporta poi l’avanzata anche verso un terzo villaggio, quello di Orlovka. L’ultrà NAFO Julian Roepcke, inviato di Bild, sottolinea come “L’esercito ucraino continua a non riuscire a stabilizzare il fronte ovest di Adviivka. Sieverne è il terzo villaggio strategico a cadere nell’arco di una settimana. E’ ancora ignoto dove (e se) l’Ucraina abbia stabilito una seconda linea difensiva a ovest di Adviivka”; “Non ci sono parole” ha rilanciato Yuri Butusov, noto falco russofobo: “qui a Kiev il comandante in capo supremo dice una cosa, ma al fronte sta accadendo qualcosa di completamente diverso. Oltre Avdiivka fino ad oggi non sono state costruite linee di fortificazioni. Ho visto i nostri soldati nelle buche in mezzo a un campo attaccati dai droni russi”.
Per fermare l’avanzata, sottolinea Simplicius, sono riapparsi anche gli Abrams, ma non è stato esattamente un successone: qui si vede l’Abrams muoversi e qui, invece, non si muove più , “La prima distruzione di un Abrams pienamente confermata nel conflitto”. Ed ecco, così, che ai microfoni di Deutsche Welle Oleksandra Rada, presidente della commissione speciale temporanea parlamentare sul monitoraggio delle forniture di armi all’Ucraina, ha dichiarato apertamente che “Adviivka è solo un anticipo di cosa diventerà l’Ucraina. Dopo Adviivka sarà il turno di Kupyansk, e sfortunatamente dopo arriverà quello di Kharkiv, che è la seconda città dell’Ucraina. E siamo perfettamente consapevoli che se perderemo Kupyansk, che è uno snodo ferroviario fondamentale, sfortunatamente ci sono molte probabilità di perdere anche Kharkiv”; ora, ovviamente, queste dichiarazioni sono tutt’altro che disinteressate: l’obiettivo, esplicitamente e legittimamente, è semplicemente quello di spingere per l’arrivo di nuovi aiuti per continuare a combattere ancora un po’ e, al limite, quando continuare a combattere diventerà palesemente inutile, continuare comunque a fregarsi un po’ di quattrini per consolarsi dopo la capitolazione. Il punto, comunque, rimane: la disfatta è più ampia e più rapida di ogni più pessimistica previsione e l’Occidente collettivo è in preda al panico; e quindi hai voglia te di fare il pompiere per screditare le affermazioni di Macron… D’altronde, screditare Macron, di per se, è sempre cosa giusta (e anche facile); ciononostante, rimane comunque il fatto che – come sottolinea giustamente Quirico – “Le parole del leader francese ci dicono che un coinvolgimento diretto non è più un tabù” o, perlomeno, non è più un tabù parlarne apertamente.
In realtà, ovviamente, uomini dei paesi NATO in Ucraina ci sono sin dall’inizio della guerra, che non risale a due anni fa – come affermano gli Iacoboni di tutto il mondo uniti nel disagio – ma a 10 e, con buona pace di tutti i propagandisti, ormai ad affermarlo chiaramente si sono arresi pure i media mainstream: “Per più di un decennio” scrive il New York Times in un lungo e importante articolo del 25 febbraio scorso, “gli Stati Uniti hanno coltivato una partnership segreta a livello di intelligence con l’Ucraina che ora è fondamentale per entrambi i paesi nel contrastare la Russia”. Il New York Times parla chiaramente di almeno 12 basi segrete dell’intelligence USA al confine con la Russia che hanno promosso una serie infinita di attività, come nel 2016, quando “La CIA ha addestrato un élite di uomini ucraini che avevano il compito di catturare droni russi per consegnarli a tecnici USA in modo da permettergli di decodificarli e violare i sistemi di crittografia di Mosca”; “una relazione così solida” continua il Times “che gli ufficiali della CIA sono rimasti in una località remota nell’Ucraina occidentale anche quando l’amministrazione Biden ha evacuato il personale statunitense nelle settimane precedenti l’invasione russa nel febbraio 2022”. “Durante l’invasione” continua ancora l’articolo “gli ufficiali hanno trasmesso informazioni critiche, incluso dove la Russia stava pianificando attacchi e quali sistemi d’arma avrebbero utilizzato”; “Senza di loro”, avrebbe dichiarato Ivan Bakanov, allora capo della SBU, “non avremmo avuto modo di resistere ai russi o di batterli” (torneremo su questo articolo in un altro video ad hoc a breve).
Intanto, invece, vi volevo sbloccare un altro ricordino: il 20 marzo scorso, infatti, in questo video vi avevamo parlato in un importante articolo pubblicato da Asia Times: l’articolo parlava di un importante incontro che aveva coinvolto decine di alti funzionari dell’amministrazione USA che, sotto la protezione delle regole della Chatham House – che permettono di riportare cosa è stato detto, ma non chi lo ha detto – parlavano già chiaramente del sicuro fallimento della controffensiva futura, di come “L’intero esercito che la NATO ha addestrato tra il 2014 e il 2022 è morto e le reclute vengono gettate nelle linee di battaglia dopo tre settimane di addestramento” e, quindi, di come fosse necessaria “la formazione di una legione straniera di combattenti provenienti da altri paesi per integrare la sempre più ridotta riserva di manodopera addestrata dell’Ucraina”. Nei mesi successivi qualcosa si è mosso e, come ricorda sempre Simplicius, “sappiamo tutti dalle fughe di notizie del Pentagono che il Regno Unito, gli Stati Uniti e altri hanno già forze speciali nel paese. E recentemente, il colonnello generale russo Rudskoy ha confermato nuovamente che le truppe della NATO sono già nel paese sotto le mentite spoglie di mercenari”; “Tutti sanno che ci sono forze speciali occidentali in Ucraina” avrebbe dichiarato un alto funzionario della difesa europeo; “semplicemente non sono riconosciute ufficialmente”: da questo punto di vista, le parole di Macron avrebbero avuto lo scopo di alimentare quella che viene definita l’ambiguità strategica e rivelerebbe, ancora una volta, il fatto che – commenta Simplicius – “C’è probabilmente una fazione all’interno dello Stato profondo globale che milita per un ingresso forzato della NATO nel conflitto, in un modo o nell’altro” e prima ancora di conoscere gli sviluppi di ieri, Simplicius anticipava “Il casus belli potrebbe arrivare proprio dalle tensione in Moldavia per la questione Transnistria”.

Maia Sandu

Qualche giorno fa, infatti, l’analista politico Hans Hartmann aveva dichiarato pubblicamente che la premier moldava ultra – atlantista Maia Sandu “”avrebbe dato il via libera” per risolvere la questione della Transnistria con la forza “settimane fa”: la questione Transnistria è tornata a surriscaldarsi da quando, nel 2022, l’Ucraina ha deciso di chiudere il confine; da allora tutte le merci, per raggiungere la Transnistria, devono necessariamente passare dal territorio controllato da Chisinau e, come ricorda l’agenzia di stampa russa TASS, “Tiraspol ha accusato Chisinau di sfruttare la posizione vulnerabile della Transnistria per bloccare la fornitura di beni e per esercitare pressioni su di essa”. Per ieri, quindi, le autorità della Transnistria avevano convocato una specie di assemblea straordinaria plenaria per decidere il da farsi e, nel primo pomeriggio, è arrivata la risoluzione: “Facciamo appello al Consiglio della Federazione e alla Duma di Stato della Federazione Russa, chiedendo misure per proteggere la Transnistria di fronte alla crescente pressione della Moldavia”; “Queste denunce” scrive giustamente il New York Times, ricordano da vicino “quelle avanzate a suo tempo dalle regioni ucraine orientali di Donetsk e Luhansk”, ma il New York Times evita accuratamente di trarre qualche lezione dalla tragica vicenda del Donbass e incornicia il tutto in un modo che non fa prospettare niente di buono. Secondo il Times, infatti, le due repubbliche del Donbass “sostenute dalle truppe russe e da ufficiali dell’intelligence, si sono dichiarate Stati separati nel 2014 e hanno contribuito a fornire un pretesto per l’invasione russa del 2022”; nella ricostruzione del Times, quindi, 8 anni di guerra ucraina contro le province ribelli del Donbass, con le migliaia di morti e le sofferenze che hanno causato, devono essere liquidate con una battutina e l’importante, ora, è replicare esattamente lo stesso identico film nella speranza di poter allargare la guerra fino all’ultimo moldavo – dopo aver esaurito gli ucraini.
Oggi, comunque, sulla questione sono attese le dichiarazioni ufficiali di Putin alla Duma; nonostante le tensioni e la propaganda dei suprematisti, la situazione – al momento – comunque sembra ancora abbastanza sotto controllo: gli ultra – atlantisti più sfegatati nei giorni scorsi, infatti, avevano diffuso notizie infondate sulla volontà della Transnistria di richiedere direttamente una sorta di annessione a Mosca. La risoluzione dell’assemblea plenaria scongiura questa escalation diplomatica e getta acqua sul fuoco chiedendo l’intervento anche del parlamento europeo e dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa per prevenire ogni ulteriore escalation tra le due capitali “e contribuire a rilanciare un dialogo a pieno titolo tra le sponde del Dniester”, e cioè il fiume che – appunto – separa la Transnistria dalla Moldavia; una ricerca di dialogo che, come per il Donbass, la propaganda suprematista del Times cerca di screditare in ogni modo: “I notiziari russi” scrive infatti il sempre pessimo Andrew Higgins “hanno citato Vadim Krasnoselsky, il presidente dell’enclave, che avrebbe chiesto aiuto a Mosca perché contro la Transnistria viene applicata una politica di genocidio”. Simili affermazioni incendiarie e prive di prove continua Higgins, “sono state avanzate per anni da rappresentanti russi nell’Ucraina orientale e utilizzate da Mosca per giustificare la sua invasione del 2022”. Aridaglie, limortaccisua: evidentemente, nonostante le disastrose notizie dal fronte, i pennivendoli di regime non sono usciti rinsaviti nemmeno da due anni di bagno di realtà; la speranza è che almeno i vertici militari dell’Occidente collettivo vivano in un mondo un po’ meno incantato.
Il punto, infatti, alla fine molto banalmente è – come si chiede Kenton White su Asia Times – “La NATO sarebbe davvero pronta per la guerra?” Steadfast defender, l’imponente esercitazione che da gennaio coinvolge tutti i 31 stati dell’alleanza e che “mira a migliorare le capacità e la prontezza della difesa collettiva dell’alleanza, con la più grande esercitazione dai tempi di Reforger nel 1988” rappresenta senz’altro un’imponente prova di forza, ma il problema più significativo che la NATO si trova ad affrontare, sottolinea White, “non è lo schieramento delle truppe di cui dispone, ma il loro rifornimento”: come infatti “è stato dimostrato dagli sforzi volti a fornire attrezzature e munizioni all’Ucraina”, continua White, “la NATO non ha né le scorte né la capacità produttiva per alimentare una lunga guerra moderna”; in sostanza, sostiene White, la “NATO ha pianificato da tempo quella che è conosciuta come una guerra come as you are”, che si può tradurre un po’ con metti indosso quel che capita, “il che significa che ha la capacità di combattere solo fino a quando durano le attrezzature e le forniture. Per questo motivo la strategia della NATO è sempre stata, in caso di conflitto, quella di portarlo a conclusione il più rapidamente possibile”. Indossare quel che capita, però, quando l’appuntamento è con una superpotenza militare, potrebbe non essere esattamente la scelta vincente: come ha affermato al Forum sulla sicurezza di Varsavia dello scorso ottobre l’ammiraglio olandese Rob Bauer, “L’economia just-in-time e just-enough che abbiamo costruito diligentemente negli ultimi 30 anni nelle nostre economie liberali va bene per molte cose, ma non per le forze armate quando c’è una guerra in corso”; per la guerra servono i grandi volumi e la pianificazione: in una parola, serve il socialismo. Invece che i discorsi a vanvera e i tira e molla a favore di telecamere, i leader europei dovrebbero piuttosto interrogarsi su questo: quanto socialismo sono disposti a introdurre nell’economia per provare a non essere selvaggiamente umiliati sul campo di battaglia? Il resto sono chiacchiere e la risposta, per adesso, non è certo delle più incoraggianti: mentre in Borsa i titoli delle aziende belliche europee, infatti, prendevano il volo – con Rheinmetall, giusto per fare un esempio, che in 2 anni ha quadruplicato il valore delle sue azioni – la capacità produttiva reale dell’Europa non si muoveva di un millimetro. Risultato? Vorrebbero discutere del coinvolgimento diretto della NATO, ma per raggiungere il misero obiettivo del milione di munizioni da fornire all’Ucraina, dopo un anno sono costretti a fare una cordata per provare ad andarsele a comprare in giro per il mondo, dall’India al Sudamerica, riempiendo così le tasche pure di potenziali avversari e pagandole una fortuna. Se se ne stessero a casina a compiacersi per le cazzate che scrive il New York Times sarebbero più felici e farebbero meno danni.
Contro la fuffa dei guerrafondai che poi la guerra manco sono capaci di farla, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte della pace e che ci aiuti davvero a capire come farla. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.

E chi non aderisce è il pimpante Manuelino Macaron

La Solitudine di Zelensky: perché l’occidente globale sta voltando le spalle al suo ultimo crociato

Magari mi sono distratto io, ma ultimamente mi sembra che i titoli “copia incolla” sull’occidente unito come un sol uomo che si appresta a concludere trionfante la sua crociata contro la giungla selvaggia che ci assedia vadano un po’ meno di moda; eppure, per mesi e mesi sulle prime pagine di tutti i principali giornali italiani non c’è stato letteralmente altro.

Viene quasi il sospetto che qualcosa sia andato storto e che ora non sia esattamente chiarissimo come salvare la faccia se non, appunto, attraverso l’oblio.

La controffensiva ormai è relegata alle pagine di cultura e società: invece che militare, sembra la controffensiva dei selfie, o dei killfie, come si dice in gergo. Il termine indica il fenomeno delle persone disposte a tutto pur di catturare lo scatto perfetto e che alla fine ci lasciano le penne, e nella guerra ucraina ha raggiunto una dimensione tutta nuova: 13 morti, in una botta sola.

Tanti sarebbero gli uomini dei servizi segreti militari di Kyev, caduti mercoledì scorso nel tentativo di sbarcare in Crimea per realizzare un video che ritrae incursori che sventolano la bandiera ucraina e dicono felici che “la Crimea sarà ucraina o disabitata”, scrive il Messaggero.

In tutto, ricostruisce il Messaggero, “una trentina di marinai ucraini che alle 2 di notte hanno puntato verso la Crimea su un’imbarcazione veloce e 3 moto d’acqua”, che sono state “prima intercettate da un pattugliatore della marina russa, poi attaccate dagli aerei e costrette al ritiro. Il video però”, sottolinea non ho capito quanto sarcasticamente il Messaggero, “è stato girato e postato”.

E io che mi lamento che per fare un video mi devo leggere qualche articolo di giornale. Che ingrato.

D’altronde, a breve, gli smartphone con le camere di ultima generazione potrebbero essere l’unica arma che l’occidente è ancora disposto a fornire per questa guerra per procura, che rischia di rimanere senza procuratori; nonostante le tonnellate di inchiostro sprecato per tentare di convincerci che l’iperinflazione, i tassi di interesse alle stelle e la recessione incombente non fossero altro che leggende metropolitane spacciate dai gufi e dagli utili idioti della propaganda putiniana, sembra quasi che per la realtà sia arrivato il momento di presentare il conto. Non poteva andare altrimenti.

Nonostante negli ultimi 50 anni le élite politiche del nord globale non abbiano fatto altro che restringere ogni spazio di democrazia, fortunatamente qualcosina in eredità ci è rimasto

e, mano a mano che per le élite che negli ultimi 18 mesi hanno sacrificato gli interessi della stragrande maggioranza dei loro cittadini si avvicina lo spettro delle urne, il mondo fatato immaginario dipinto dalla propaganda del partito unico della guerra e degli affari comincia a scricchiolare.

Il primo clamoroso esempio è stata la Polonia, che sul sostegno all’Ucraina senza se e senza ma ha tentato, con il supporto incondizionato di Washington, di riconfigurare completamente il suo status all’interno dell’Unione Europea; sotto stretta osservazione per le sue palesi violazioni dei requisiti minimi di uno stato di diritto, nell’arco di poche ore si era magicamente trasformata nella paladina più intransigente del mondo democratico contro i totalitarismi.

Evidentemente, però, l’operazione di maquillage ideologico ha convinto più i rubastipendi che stanno in villeggiatura a Bruxelles che non i contadini polacchi, che inspiegabilmente sono così maleducati da preoccuparsi più di non finire in miseria che non di immolarsi in nome della retorica democratica.

La storia la conoscete: da quando è naufragato l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina mediato dalla Turchia, l’Ucraina ha cominciato a esportare il suo grano via terra, approfittando della sospensione di quote e tariffe da parte della UE nei confronti dei prodotti alimentari ucraini a partire dal febbraio del 2022. Da allora il grano ucraino ha letteralmente invaso paesi come la Bulgaria, la Romania e appunto la Polonia, rischiando di gettare sul lastrico gli agricoltori locali: ammassato a milioni di tonnellate nei silos, pur di sbarazzarsene il grano ucraino aveva raggiunto prezzi troppo bassi per permettere a qualunque produttore di reggere la concorrenza. Di fronte alle proteste delle popolazioni locali, nel maggio scorso, l’Unione Europea aveva introdotto un divieto temporaneo alla vendita del grano ucraino in questi stessi paesi, divieto che però a settembre è scaduto.

Una tempistica perfetta: il 15 ottobre infatti la Polonia torna al voto, e il voto degli agricoltori è determinante, in particolare per il partito di governo di estrema destra Diritto e Giustizia, che ha proprio tra la popolazione rurale il suo bacino di voti principale e che, come 18 mesi prima, da essere considerato la peggio feccia reazionaria era diventato, nell’arco di mezza giornata, il punto di riferimento dei sinceri democratici, ora si apprestava altrettanto rapidamente a fare il percorso inverso.

Il compagno Morawieczki infatti ha si è rifiutato di ritirare il divieto e Zelensky ha reagito presentando un ricorso ufficiale presso il WTO e accusando la Polonia di essere solidale solo a parole.

E Morawieczki non l’ha presa proprio benissimo, diciamo. “Non trasferiremo più armi all’Ucraina”, ha annunciato laconico a fine settembre in diretta televisiva. Ma non solo: “Se vogliamo che il conflitto si intensifichi in questo modo, aggiungeremo altri prodotti al divieto di importazione in Polonia. Le autorità ucraine non capiscono fino a che punto l’industria agricola polacca sia stata destabilizzata“.

Maledetti populisti! La stragrande maggioranza dei loro elettori avanza una rivendicazione, e per paura di perdere le elezioni questi gliela concedono pure, magari addirittura senza aver prima ottenuto il via libera da Washington o da Bruxelles.

Se ce lo dicevano prima che funzionava così la democrazia, ci inventavamo un altro sistema.

E la Polonia non è certo un caso isolato. Tra gli stati canaglia dell’internazionale nera di Visegrad che più hanno cercato di sfruttare la guerra per procura in Ucraina per tornare a piacere alla gente che piace, senza manco bisogno di rinunciare a un briciolo della loro vocazione clericofascista, spicca infatti anche la piccola ma agguerritissima Slovacchia, che salta anche più agli occhi; fino al 2018 infatti al governo c’era stato un tale Robert Fico, che invece il muro contro muro con la Russia e il suicidio delle sanzioni economiche li vedeva di pessimo occhio già da tempi non sospetti.

Cresciuto tra le fila del Partito Comunista subito prima dello smembramento della Repubblica Ceca, Fico aveva fondato una formazione politica tutta sua, che si chiama SMER, ed è un esempio piuttosto eclettico di partito socialdemocratico che ha incredibilmente sempre nutrito più di qualche perplessità per quel che riguarda le controriforme di carattere neoliberista e l’adesione religiosa ai vincoli esterni.

Nel 2018 però al governo guidato da Fico ne subentra un altro, altrettanto populista, ma a questo giro in senso prettamente reazionario, che fa sue battaglie di civiltà come ad esempio trasformare l’aborto in un reato penale, e come tutti i veri fintosovranisti ma veri reazionari, quando scoppia la seconda fase della guerra per procura della NATO in Ucraina ecco che la Slovacchia si trova a gareggiare per il primo gradino del podio dei governi più svendipatria del continente.

Come ricorda People Dispatch, “in termini di percentuale del suo prodotto interno lordo, la Slovacchia è attualmente uno dei maggiori donatori europei all’Ucraina. Ha fornito all’Ucraina obici, veicoli corazzati e la sua intera flotta di aerei da combattimento MiG-29 dell’era sovietica”.

Purtroppo però, continua l’articolo, la Slovacchia “è anche uno dei paesi più poveri d’Europa, e il grosso dell’elettorato è convinto che il denaro dovrebbe servire per migliorare i servizi interni, non per la guerra”.

Totalmente dipendente dal gas russo a prezzi di sconto, la Slovacchia negli ultimi 18 mesi ha registrato uno dei tassi d’inflazione più alti dell’intero continente, superando durante la scorsa primavera addirittura quota 15%; la crisi economica ha scatenato una crisi politica e la maggioranza filo NATO si è sfaldata, ma invece di sciogliere il parlamento e tornare alle urne la presidenta fintoprogressista Zuzana Caputova ha deciso di consegnare il paese nelle mani dell’ennesimo caso di governo tecnico farsa guidato dal vice governatore della banca nazionale.

Come tutti i governi tecnici che si rispettano, i mesi successivi sono stati mesi di sospensione della democrazia e di politiche antipopolari in nome dei vincoli esterni nei confronti dell’Unione Europea e della NATO, fino a quando anche qui è arrivata la scadenza naturale della legislazione ed è tornata quella gran rottura di coglioni che sono le elezioni politiche che – ormai – ai paladini della democrazia piacciono sempre meno.

Ovviamente a quel punto, come sempre accade al termine di un governo tecnocratico antidemocratico, il grosso dell’elettorato non poteva che prediligere la forza politica che meno si era compromessa, ed ecco così che il nostro Robert Fico ha avuto gioco facile.

Durante la campagna elettorale gli è bastato ricordare che le conseguenze delle sanzioni alla Russia lui le denuncia da sempre e promettere espressamente che in caso di vittoria “non invieremo un solo colpo all’Ucraina”, ed ecco fatto: una cosa lineare, prevedibile, semplice.

Per tutti, tranne che per la sinistra suprematista imperiale delle ZTL e la sua bibbia, internazionale, che affida l’ennesima analisi psichedelica all’immancabile Pierre Haski.

Un vero punto di riferimento: quando avete un dubbio, andate a vedere cosa ne pensa Haski. e fate, o pensate, l’esatto opposto.

Secondo Haski in questo caso, la vittoria di Fico sarebbe attribuibile “al ruolo della disinformazione di massa, dalle fake news ai video truccati, che ha imperversato durante la campagna elettorale slovacca”.

Ma la potenza di fuoco dell’inarrestabile macchina propagandistica di Putin – il primo presidente nella storia a riuscire a pilotare l’opinione pubblica globale nonostante sia già morto da mesi per uno dei suoi 17 incurabili tumori e nonostante la bancarotta della Russia annunciata dalla Tocci da due anni ma tenuta ancora nascosta – va ben oltre la Slovacchia: anche il nostro paese, nonostante la RAI, Mediaset, La7, il gruppo GEDI, e gli analfoliberali sul web, è a rischio.

Facciamo un passetto indietro: lunedì scorso Tajani è andato a Kyev e durante la visita avrebbe ufficialmente annunciato nuovi invii di armi.“E’ soltanto una dichiarazione d’intenti” l’ha redarguito Crosetto.

Di questo fantomatico ottavo pacchetto di aiuti, sottolinea infatti Crosetto, “C’è tantissima gente che ne parla non avendone competenza”, anche perché, ricorda sommessamente, “è secretato. C’è una continua richiesta da parte ucraina di aiuti, però bisogna verificare ciò che noi siamo in grado di dare rispetto a ciò che a loro servirebbe”.

l’italia ha fatto molto”, ha continuato Crosetto, ma non abbiamo “risorse illimitate”, e abbiamo già fatto “quasi tutto ciò che potevamo fare; non esiste molto ulteriore spazio”.

Non è un cambio di linea eh, ci mancherebbe. “Continueremo a sostenere l’Ucraina”, ha infatti ribadito, “privilegiando la via del dialogo per riaffermare il diritto a raggiungere una pace giusta”, ma solo come se fosse antani, tarapiotapioca con scappellamento a destra.

O a centrodestra, se siete più moderati.

Ma gli arsenali vuoti non sono l’unica cosa a spingere l’Italia verso una parziale marcia indietro: come ha sottolineato Giorgiona stessa, a preoccupare comincia anche ad essere, anche qui, l’opinione pubblica. Un sostegno incondizionato, avrebbe dichiarato Giorgiona “genera una resistenza e rischia di generare stanchezza nell’opinione pubblica”, ma a colpire ancora di più è la reazione dello stesso Zelensky, che fino a qualche mese fa si incazzava decisamente per molto meno, e oggi invece si riscopre comprensivo.

So che l’Italia ha le proprie sfide”, avrebbe affermato, “e so anche che l’Italia subisce una forte campagna di disinformazione della federazione russa, che spende milioni per distruggere le relazioni tra le nazioni dell’Europa e del mondo”.

E a noi, manco un centesimo, popo’ di ingrati.

Di fronte a questa inarrestabile campagna propagandistica russa che, senza che ve ne accorgeste, si è impossessata di tutti i media e tutti i mezzi di produzione del consenso italiani, Zelensky non può che apprezzare comunque lo sforzo: “Vorrei ringraziarvi perché voi avete un primo ministro molto forte”, avrebbe affermato.

Ma com’è che tutti questi Paesi, che abbiamo sempre additato come umili servitori degli USA, anche contro i loro stessi interessi più immediati, ora cominciano di punto in bianco un po’ a scalpitare? Semplice: i primi a scalpitare ormai, infatti, sono proprio gli USA.
Come sapete, per rinviare per l’ennesima volta il rischio shutdown pochi giorni fa Biden e la maggioranza repubblicana alla camera, hanno siglato un patto che permette nei prossimi quarantacinque giorni di effettuare tutta una lunga serie di spese. Che è lunga si, ma non abbastanza da contenere ulteriori aiuti all’Ucraina. Biden voleva altri 6 miliardi. ne ha ottenuti zero.

Ed è solo l’inizio. Perchè comunque quell’intesa tra leader repubblicani alla camera e amministrazione democratica, a qualcuno proprio non è andata giù. Risultato: un piccolo gruppo di 8 repubblicani che secondo i media mainstream sarebbero l’estrema destra dell’estrema destra trumpiana, hanno chiesto il voto di sfiducia per lo spekaer della camera Kevin McCarthy, lo hanno ottenuto, e poi lo hanno pure vinto. È la prima volta che succede da quando esistono gli Stati Uniti d’America per come li conosciamo oggi. Senza lo speaker, l’attività legislativa della camera è bloccata e l’ucraina teme che per lei sarà bloccata anche quando di speaker ne eleggeranno uno nuovo. “Difficile eleggere uno speaker che sostenga gli aiuti all’ucraina”, così avrebbe dichiarato un parlamentare repubblicano interrogato da La Stampa. Non si tratta di uno dei parlamentari della fronda, ma di Pete Sessions, storico rappresentante neocon del texas, e filoucraino sfegatato. A spingere i repubblicani verso un deciso cambio di rotta, i sondaggi che continuano a dimostrare come la maggioranza assoluta dei cittadini USA non ne possa più. Come quello pubbicato l’altro giorno dalla cnn che affermava che il 55% degli americani ritiene che siano stati dati tutti gli aiuti necessari e che “è stato fatto abbastanza”. I soldi che ci sono, devono essere spesi in qualcosa che potrebbe permettere ai repubblicani di vincere le prossime elezioni: in particolare, rafforzare il controllo del confine con il Messico, e ridurre il debito.
“Prima bisogna garantire i finanziamenti per la sicurezza alle frontiere e poi occuparci di Ucraina”, avrebbe dichiarato Garrett Graves, della ristretta cerchia di McCarthy. Ed ecco così che spunta la candidatura di Jim Jordan, potentissimo capo della commissione giustizia, tra gli artefici della procedura di impeachment contro Biden e uno degli oppositori più vocali all’invio di aiuti a Kyev.

Una “SUPERPOTENZA DISFUNZIONALE”, come l’ha definita in un lungo articolo su “foreign affairs” Robert Gates, già direttore della CIA all’inizio degli anni ‘90, e poi caso più unico che raro di segretario della difesa bipartisan, prima con George W. Bush, e poi con Barack Obama. La domanda che si fa Robert Gates è più attuale che mai: Può un’America divisa scoraggiare Cina e Russia?

“Gli Stati Uniti”, sottolinea Gates, “si trovano ora ad affrontare minacce alla propria sicurezza più gravi di quanto non fossero mai state negli ultimi decenni, forse mai. Il problema, tuttavia è che nel momento stesso in cui gli eventi richiedono una risposta forte e coerente da parte degli Stati Uniti, il Paese non è in grado di fornirne una”. Secondo gates gli USA si trovano ancora oggi in una posizione di relativa forza rispetto a Cina e Russia. “Purtroppo, però”, riflette Gates, “le disfunzioni politiche e i fallimenti politici dell’America ne stanno minando il successo”. Per tornare ad avere il potere di dissuadere gli avversari da compiere ulteriori gesti inconsulti, suggerisce Gates, gli Stati Uniti devono assolutamente ritrovare quell’”accordo bipartisan decennale rispetto al ruolo degli Stati Uniti nel mondo”, ed essere in grado di spiegare insieme a tutti gli elettori che “la leadership globale degli USA, nonostante i suoi costi, è indispensabile per preservare la pace e la prosperità”. Per fare questo non bastano gli appelli alla nazione dallo studio ovale. “Piuttosto”, sottolinea Gates, “è necessario che tutti ripetano all’infinito questo messaggio affinché venga recepito”. Insomma, l’esercizio di quel poco di democrazia che è rimasto nel nord globale rischia di far sbandare dalla strada maestra, che non è quella che si scelgono i popoli in base ai loro interessi, ma quella che decidono a tavolino i Gates e gli oligarchi che lo sostengono. Per tornare sulla retta via, c’è bisogno di richiamare tutti all’ordine, e lanciare una campagna di lavaggio del cervello di massa che ci faccia riconoscere come nemici senza se e senza ma quelli che loro hanno individuato come nemici in base ai loro interessi. E siccome poi alla gente li puoi raccontare tutte le cazzate che vuoi, ma se gli levi il pane da sotto i denti, poi a un certo punto comunque si incazza, se non basterà il soft power della persuasione, vorrà dire che si passerà all’hard power delle mazzate. L’occidente globale è in via di disfacimento. prima che si rassegnino a mollare l’osso, ci sarà da vederne delle belle.

Contro il piano orwelliano dei gates, nel frattempo, quello che possiamo fare è continuare a insinuare i dubbi e a segnalare le contraddizioni. e per farlo, abbiamo bisogno di costruire il primo media che invece che dalla parte della loro propaganda, stia dalla parte degli interessi del 99%

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…e chi non aderisce è Robert Gates.