La situazione in Medio Oriente è sempre più complessa e intricata: abbiamo cercato di fare un po’ il punto su alcuni dei principali dossier con Matteo Capasso, editor della prestigiosa rivista Middle East Critique e, ovviamente, non potevamo non partire dallo Yemen. La semi escalation di USA e alleati non ha compattato solo lo Yemen; anche in Iraq si respira un aria diversa, in particolare a partire dall’attentato che nelle settimane scorse ha portato alla morte di uno dei principali leader delle milizie sciite del paese. Un attentato che, sotto la pressione di un’opinione pubblica sempre più radicalizzata, ha spinto il governo iracheno – che, sulla carta, non dovrebbe essere particolarmente ostile agli USA – ad alzare un po’ l’asticella e a chiedere formalmente che gli USA se ne vadano definitivamente dal territorio iracheno. Contro questo asse della resistenza però non si schierano solo le potenze occidentali, ma tornano a galla anche attori regionali dalla natura piuttosto controversa come l’ISIS Khorasan, la filiale dell’ISIS basata in Afghanistan dove sta cercando in tutti i modi di sabotare il governo dei talebani e che ha deciso di inaugurare l’anno con l’attentato più sanguinoso della storia del regime degli ayatollah in Iran. Tra le potenze che, se non hanno direttamente sponsorizzato la nascita e l’ascesa dell’ISIS, sicuramente hanno beneficiato a più riprese della sua azione destabilizzatrice, ovviamente non ci sono soltanto gli occidentali ma anche le petromonarchie, che continuano ad avere un comportamento ambiguo: dietro la spinta dell’opinione pubblica del mondo arabo non possono non condannare Israele; dietro le quinte, però, in molti sospettano che continuino a vedere la minaccia più grande nell’Iran e, in generale, nell’asse della resistenza. L’asse della resistenza infatti, nonostante l’ideologia islamica, rappresenta in realtà al momento l’irruzione delle forze popolari nella politica del Medio Oriente, una tendenza che ovviamente è vista dai regimi dinastici feudali antimoderni del Golfo come il fumo negli occhi; da almeno 50 anni il Medio Oriente è al centro della strategia geopolitica dell’imperialismo USA. I cambiamenti ai quali stiamo assistendo sono epocali: ogni semplificazione rischia di portarci fuori strada; abbiamo bisogno di continuare a cercare di cogliere tutta la complessità senza ridurci a spettatori impassibili. Quando è in corso un genocidio sfacciato non c’è nessuna equidistanza possibile; al netto di tutte le contraddizioni possibili immaginabili, chi ambisce a restare umano sa da che parte stare e sa che gli servirebbe come il pane un vero e proprio media che, invece che alla propaganda suprematista, dia voce al 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
L’ondata di indignazione scatenata dalla guerra di Israele contro i bambini arabi non si arresta e travolge tutti i paesi del mondo, anche quelli con le classi dirigenti più ciniche che però, in un modo o nell’altro, all’opinione pubblica qualcosa sono comunque costrette a concedere. A parte negli USA e in qualche paese vassallo del Nord globale che si conferma così – al netto di una montagna di retorica – la parte in assoluto meno democratica del pianeta, completamente in balia degli interessi egoistici di una manciata di oligarchi. Il problema, però, è che questo manipolo di paesi in mano a un manipolo di oligarchi è, ancora oggi, in grado di ostacolare le Nazioni Unite, e così tiene per le palle l’intera comunità internazionale. O forse sarebbe meglio dire teneva: se per l’ostruzionismo dell’asse del male le Nazioni Unite non sono in grado di muovere un dito neanche di fronte a un genocidio del genere, vorrà dire che la comunità internazionale, a un certo punto, proverà a dotarsi di strumenti alternativi. Certo, sarà un percorso lungo e tortuoso che – però – ieri ha subito un’accelerazione di portata storica: per la prima volta in quasi 15 anni di vita, ieri i BRICS si sono riuniti per una conferenza di emergenza interamente dedicata a una questione internazionale imprevista. Non era mai successo prima, nemmeno quando i membri erano soltanto 5; oggi sono 11, ma di fronte alla carneficina hanno parlato con una voce sola: “La posizione dei membri BRICS è unanime” commenta il Global Times e “si sono impegnati a promuovere un cessate il fuoco a Gaza e prevenire l’escalation della violenza, presentando progetti di legge e organizzando riunioni nel quadro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”. “Alcuni altri paesi occidentali” continua il Global Times “non hanno la volontà e il coraggio di difendere la giustizia, creando così un vuoto nel sistema di governance globale. I paesi BRICS, che rappresentano i paesi dei mercati emergenti e quelli in via di sviluppo, si sono fatti avanti per colmare il vuoto”. Che sotto le macerie di Gaza, oltre ai corpi martoriati dei bambini arabi, stiano rimanendo sepolte anche le ultime speranze di dominio globale incontrastato degli USA? UNO: immediato cessate il fuoco; DUE: corridoi umanitari per la popolazione di Gaza; TRE: intervenire per impedire che il conflitto si allarghi; QUATTRO: convocare una conferenza di pace per riportare al centro dell’agenda politica internazionale la soluzione dei due Stati.
Il piano in quattro punti proposto ieri da Xi Jinping nella prima riunione straordinaria dei BRICS a 11 per mettere fine al genocidio in corso a Gaza non è solo giusto ma è anche l’unica soluzione possibile, e che infatti è condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale che, da ormai oltre un mese e mezzo, riempie strade e piazze di tutto il pianeta un giorno sì e l’altro pure per testimoniare la sua indignazione obbligando tutti i governi – anche quelli meno democratici – a provare almeno di dare l’impressione di lavorare in quella direzione. A partire dal sostegno alle risoluzioni ONU di condanna alle azioni criminali dell’entità sionista. Ma, come sottolinea sempre il Global Times, “il conflitto israelo-palestinese è uno specchio che riflette molte cose. A causa dell’opposizione di alcuni paesi per lo più occidentali” continua l’articolo “il Consiglio di sicurezza dell’ONU non è stato in grado di intraprendere azioni concrete”: un immobilismo che le opinioni pubbliche di tutto il mondo, e in particolare dei paesi a maggioranza islamica, non hanno nessuna intenzione di assecondare. Fortunatamente, però, oggi esiste un’alternativa concreta alle vecchie istituzioni multilaterali: “I BRICS” sottolinea il Global Times “stanno diventando un simbolo e un’entità che sostiene la giustizia internazionale, e maggiore sarà l’influenza che avranno sulla scena internazionale, meglio sarà per la pace e la tranquillità del mondo”. Ed ecco così che gli USA si ritrovano in un bel cul de sac e il sostegno incondizionato alla ferocia sionista – giustificato dal ruolo strategico che Israele ricopre nei piani imperiali a stelle e strisce – comincia a presentare il conto. Per contrastare la crescita dell’influenza di quelli che considera i suoi avversari strategici – a partire da Russia e Cina – gli USA, infatti, stanno provando a corteggiare in ogni modo possibile i paesi del Sud Globale; l’esempio più eclatante si è avuto probabilmente nell’area del Sahel dove, di fronte all’ondata di colpi di stato patriottici che ha travolto paesi come il Mali, il Burkina Faso e il Niger, invece di accodarsi alla retorica bellicista e neocolonialista francese, gli USA hanno mantenuto un tono tutto sommato più conciliante e hanno cercato di tenere aperto il dialogo per non perdere totalmente la loro influenza. Qualcosa di simile è avvenuto anche proprio in Medio Oriente dove, di fronte all’intensificarsi delle relazioni con Russia e Cina – ad esempio – da parte dell’Arabia Saudita, hanno deciso di usare molte più carote che bastoni. Il bagno di sangue avviato da Israele dopo il diluvio di Al-Aqsa, e il sostegno incondizionato al genocidio che gli USA sono stati sostanzialmente obbligati a garantire, sta facendo rapidamente tabula rasa di tutti questi sforzi e sta accelerando in maniera clamorosa il processo di allineamento dei paesi del Sud globale agli interessi strategici proprio di Cina e Russia, a partire dal rafforzamento dei BRICS: “Dato che gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a convincere Israele a concedere un cessate il fuoco a Gaza” sottolinea il Global Times “il mondo arabo e i paesi in via di sviluppo mostrano crescente disappunto nei suoi confronti e ripongono ormai maggiori speranze proprio nei BRICS, una piattaforma che amplifica la voce dei paesi in via di sviluppo sugli affari mondiali”. Ora qui è il caso di sottolineare una cosa che dovrebbe essere scontata, ma evidentemente non lo è: come per il processo di dedollarizzazione o anche – rimanendo più vicini alla questione israelo-palestinese – la questione del rafforzamento dell’asse della resistenza non si tratta di una soluzione magica; gli equilibri regionali, e ancora di più quelli globali, non si rigirano come un calzino dalla sera alla mattina. I BRICS al momento, e per molto tempo ancora, non sono assolutamente in grado di esprimersi con una voce unica così forte e perentoria da risolvere come per incanto la carneficina che ci troviamo di fronte, come non sono in grado di abolire l’egemonia del dollaro o come l’asse della resistenza non è in grado di sconfiggere militarmente Israele. Si tratta di tendenze storiche: processi lunghi, tortuosi e macchinosi, dall’esito sostanzialmente imprevedibile e che non sono in grado di soddisfare la sete di scoop continui tipica dell’era dell’iper – informazione. L’idea che cambiamenti di questa portata possano avvenire nel tempo di un tiktok è un frutto del dominio del pensiero magico, che mal si concilia col tentativo di capire come sta cambiando il sistema mondo a livello strutturale profondo, ma “anche se uno o due vertici singoli potrebbero non essere sufficienti per risolvere direttamente il conflitto” sottolinea giustamente il Global Times dove, da bravi cinesi, sono molti più avvezzi a usare il materialismo dialettico di quanto non siano gli attivisti esagitati dell’Occidente “la presenza collettiva e le rivendicazioni coerenti dei paesi in via di sviluppo saranno utili per trovare una tabella di marcia per la pace israelo-palestinese, la promozione della pace e la realizzazione di una coesistenza pacifica”. “Attraverso il meccanismo dei BRICS” continua il Global Times “l’aspetto collettivo del Sud del mondo acquisisce tutta la sua importanza, e sebbene non risolva necessariamente il conflitto, l’unità dei paesi in via di sviluppo è un svolta di portata storica” che è stata riconosciuta anche dall’ONU: al vertice dei BRICS, infatti, ha partecipato anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres “che” sottolinea il Global Times “rappresenta le aspettative che la comunità internazionale nutre affinché i BRICS svolgano un ruolo sempre più decisivo nell’affrontare i dossier più scottanti”. Gli unici che fanno di tutto per non accorgersene, tanto per cambiare, sono i nostri media mainstream di ogni colore politico; la notizia compare solo in un trafilettino in fondo a pagina 9 del Corriere che manco parla di BRICS, ma solo di Xi e del suo appello per convocare una conferenza di pace. Di fronte al Mondo Nuovo che avanza, le cariatidi prezzolate di quello vecchio hanno deciso di adottare la tattica vincente dei bambini delle materne che sperano che, chiudendo gli occhi, i mostri che li perseguitano scompariranno per sempre (che, comunque, è sempre meglio della tattica adottata da Sallusti). Qui in ballo non c’è lo storico vertice dei BRICS, ma un altro avvenimento storico che va esattamente nella stessa identica direzione: è il ritorno di Putin, dopo quasi due anni di assenza, a un incontro del G20 – seppure virtuale; un segno palese di quanto, dopo un anno e mezzo di pensiero magico – che consiste nell’idea che hanno le élite politiche e i media che uno scenario improbabile si possa realizzare semplicemente invocandolo ripetutamente contro ogni evidenza – sia arrivata l’ora di cominciare a fare i conti con la realtà, come – a malincuore – è costretta ad ammettere addirittura la Reuters (che non è esattamente la Pravda): “L’Occidente e l’Ucraina hanno ripetutamente promesso di sconfiggere la Russia nella guerra e di espellere le forze russe, ma il fallimento della controffensiva ucraina nel raggiungere un qualsiasi obiettivo concreto ha sollevato preoccupazioni in Occidente riguardo a questa strategia”. Che – fatta la tara del tasso spropositato di propaganda dei media occidentali – in soldoni equivale a dire che l’Occidente finalmente ha preso atto di aver perso la guerra. Come riassumeva questo evento Sallusti ieri su Il Giornale? “Perché il ritorno di Putin fra i grandi è una vittoria NATO”. Giuro, eh? (spetta che vi faccio vedere l’originale, sennò mi dite che sono del PD e che polemizzo in modo strumentale contro la destra che è vicina al popolo).
“Certamente” ammette Sallusti “si tratta di un passo che rompe l’isolamento assoluto con l’occidente in cui Putin si trova da ormai due anni” e “già mi vedo”continua “i filo-putiniani nostrani alzare i calici al rientro dello zar sulla scena e spacciarla per la sconfitta della politica occidentale filo-Ucraina, quando invece” – ecco lo scooppone del Nosferatu de noantri – “è l’esatto opposto”. Sallusti ammette che “è ormai evidente che questa guerra non la vincerà in senso tecnico nessuno dei due contendenti” ma, con un virtuosismo da guinness dei primati, eccolo rovesciare sul tavolo un poker d’assi di arrampicamento sugli specchi: secondo Sallusti, infatti, questo pareggio altro non è che una sconfitta russa, che ha fatto “un tale macello umano e politico da impedire in futuro qualsiasi possibilità di annettersi l’Ucraina neppure in caso di resa del nemico”. “Non è poco” sottolinea, “anzi, è già di per se una vittoria”. Chi s’accontenta gode, come dice il detto. Giusto qualche mese fa, la guerra non poteva finire se non con la riconquista non solo di tutti i territori persi fino ad oggi, ma anche della Crimea e, con il crollo economico della Russia, la fine politica di Putin e magari anche il suo arresto e la condanna per crimini di guerra; obiettivi talmente vitali da giustificare una recessione in tutto il Nord globale, una crisi umanitaria nel cuore dell’Europa e il sacrificio di decine e decine di migliaia di giovani vite ucraine spinte a suicidarsi al fronte in nome di promesse totalmente campate in aria.
Tutto cancellato; era uno scherzo, ma l’unico a ridere – alla fine – è Putin: gli ultimi dati economici pubblicati dalla Russia sanciscono il fallimento totale delle sanzioni suicide imposte dagli USA e che hanno avuto come unico risultato la devastazione definitiva dell’economia dell’eurozona, e ora Putin torna da vincitore al tavolo dei grandi, dettando le sue condizioni e quelle del Sud globale. “Ormai la situazione nell’economia globale” ha spiegato Putin ai colleghi del G20 “richiede decisioni collettive raggiunte attraverso il consenso e che riflettano l’opinione della stragrande maggioranza della comunità internazionale, sia dei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo”. “Nuovi potenti centri dello sviluppo economico globale stanno emergendo e si stanno rafforzando” ha continuato Putin: “una parte significativa degli investimenti, del commercio e del consumo globale si stanno spostando verso l’Asia, l’Africa e l’America Latina, dove vive il grosso della popolazione mondiale”. Dall’Ucraina a Gaza, il colpo di coda del Nord globale, che sperava di invertire il suo declino a suon di bombe, sta miseramente fallendo; l’incognita rimane ancora capire quante vite siamo ancora disposti a sacrificare in nome della difesa di un’egemonia che è ormai completamente antistorica e contraria agli interessi della comunità umana dal futuro condiviso. Contro il ribaltamento della realtà e le arrampicate sugli specchi dei propagandisti dell’impero, abbiamo bisogno di un vero e proprio media che stia dalla parte del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Diecimila mila uomini armati di tutto punto che avanzano senza problemi; la bandiera israeliana esposta in bella mostra in un selfie celebrativo di gruppo dentro il parlamento di Gaza city; il quartier generale di Hamas circondato e assediato e i vicini arabi costretti a fare spallucce – asse della resistenza compreso – che, al di là delle minacce, sarebbe sostanzialmente del tutto impotente: il trionfo militare di Israele, da tutti i punti di vista, non potrebbe essere più schiacciante e plateale, o almeno così ci viene raccontata. E graziarcazzo: se la cantano e se la suonano. Sia chiaro: per quanto ne sappiamo, potrebbero anche avere ragione eh? Il problema, però, appunto è: quanto ne sappiamo? Ogni fonte di informazioni indipendente – semplicemente – è stata abbattuta, proprio fisicamente intendo: secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, infatti, dall’inizio del conflitto si contano 9 giornalisti feriti, 13 arrestati, 3 scomparsi e la bellezza di 42 brutalmente assassinati, alcuni insieme anche a tutta la loro famiglia, che non si sa mai. Sostanzialmente tutti erano palestinesi e non erano proprio convintissimi dell’affidabilità delle fonti israeliane; per capire l’entità, in quasi due anni di conflitto in Ucraina i giornalisti morti risulterebbero in tutto 12. E così tutto quello che sappiamo oggi, sostanzialmente, è propaganda israeliana, spesso un po’ cringe: dalla copia magica del Mein kampf incredibilmente intonsa, nonostante sia stata ritrovata in mezzo alle macerie, alla famosa lista dei terroristi carcerieri trovata dentro all’ospedale di al Shifa e ostentata in pompa magna da tutti i media internazionali, a partire da quei geniacci della CNN. Peccato che quelli che indicavano come nomi dei carcerieri, in realtà, fossero i giorni della settimana; il documento scottante era un calendario. S’arrampicano sugli specchi: devono, in tutti i modi, giustificare il fatto di assistere entusiasti a un plateale crimine di guerra e – visto che di prove concrete che l’ospedale nascondesse nei suoi sotterranei nientepopodimeno che il quartier generale di Hamas al momento, stranamente, non ne hanno – s’attaccano a tutto. D’altronde non è la prima volta; è la modalità standard con la quale il giornalismo del mondo libero ha raccontato tutti gli stermini dell’asse del male negli ultimi 20 anni, da quando l’unico giornalismo tollerato è diventato solo ed esclusivamente quello embedded, totalmente controllato dalle forze di occupazione. Tutti i giornalisti occidentali che ora sono a Gaza, infatti, sono al seguito delle forza armate israeliane e hanno come unico mandato quello di fare da megafono alle loro vaccate, e sono l’unica fonte di informazioni che abbiamo. Una bella overdose di post – verità. In questo video cercheremo di portarvi il punto di vista della parte opposta; ovviamente non è che sia necessariamente più affidabile di una Repubblichina o di una Radio genocidio radicale qualsiasi. In guerra, nessuna delle parti in causa, ovviamente, è molto affidabile: per questo esistono gli osservatori indipendenti. O meglio esistevano, prima che le bombe democratiche e liberali di Israele li sterminassero; l’obiettivo, appunto, era impedire all’altra campana di esistere tout court, e che la propaganda del genocidio diventasse magicamente LA REALTA’. Riusciremo a impedirlo? Oltre ai pochi giornalisti che non sono a libro paga dell’apparato egemonico israeliano e dei suoi collaboratori, a minacciare di riuscire a portare al grande pubblico informazioni diverse da quelle sciorinate dalla propaganda genocida sionista ci sono le fonti aperte e cioè quell’infinita selva di dati che, nella guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, hanno permesso – giorno dopo giorno – di smontare sistematicamente la ridicola propaganda suprematista occidentale, e che in Israele sono stati scientificamente eliminati; lo riporta in un lungo articolo il sito libanese Al-Akhbar: “Sabotaggio GPS sulla Palestina occupata” titola; “i satelliti rivelano la sconfitta di Israele”. L’articolo ricorda come “dopo l’operazione diluvio di al-aqsa del 7 ottobre, Israele ha cercato di impedire agli account di open source intelligence di ottenere informazioni sabotando la tecnologia che fornisce i dati”. Come riportava lo stesso Bloomberg pochi giorni prima l’inizio dell’operazione di terra da parte di Israele, infatti, su richiesta del regime genocida di Tel Aviv Google aveva “interrotto il traffico di dati di Google Maps” su tutta l’area interessata; poco dopo è stato il turno anche dell’applicazione di mappe di Apple. Il Big Tech USA è al servizio del genocidio, senza se e senza ma. Nel caso non bastasse, come riportava Politico il 23 ottobre scorso, l’esercito di occupazione – comunque – aveva provveduto anche a sabotare i satelliti del sistema GPS sopra il confine che separa Israele dal Libano “nel tentativo di impedire ai missili di precisione o ai droni della resistenza libanese di raggiungere i loro obiettivi” (Al-Akhbar).
Ma era solo l’inizio; nei giorni successivi, infatti, Associated Press prima e New York Times dopo erano entrate in possesso di alcune immagini satellitari ad alta definizione che svelavano i movimenti delle forze armate israeliane. A fornirle, due aziende americane: Planet Labs e Maxar Tecnologies, che sono state prese immediatamente per le orecchie; come rivelato dal sito Semafor, il 6 novembre infatti – dopo la pubblicazione di quelle immagini – le due aziende “hanno iniziato a limitare le immagini di Gaza, e Planet Labs ha persino rimosso alcune immagini della Striscia di Gaza dalla galleria scaricabile su abbonamento dal sito web”. Da allora, le poche immagini che le due aziende forniscono esclusivamente ai media di fiducia arrivano comunque con giorni di ritardo: “non è chiaro” scrive Al-Akhbar “il motivo per cui queste aziende hanno interrotto e ritardato i loro servizi e chi ha esercitato pressioni a questo riguardo. Quello che è chiaro, però, è che è nell’interesse dell’entità occupante e del suo esercito”. E allora, giusto per controbilanciare un po’ la propaganda filo – genocidio, vi riportiamo un po’ di informazioni non verificate (e, al momento attuale, non verificabili) della propaganda avversa, e cioè quella dell’asse della resistenza che a tutta questa gloriosa avanzata senza ostacoli delle forze armate israeliane non sembra credere molto: “Da questa mattina” ha dichiarato ad esempio ieri sera in un comunicato ufficiale Abu Ubaida, portavoce delle Brigate al-Qassan, “i nostri mujaheddin sono stati in grado di uccidere 9 soldati sionisti e distruggere completamente o parzialmente 22 veicoli”. Con “questo tributo, che potrebbe essere il più grande sul campo dall’inizio della battaglia” commenta Al-Akhbar “il numero di carri armati e veicoli presi di mira sale a circa 200. Quello che è emerso negli ultimi due giorni” continua Al-Akhbar “è che le brigate Al-Qassam si sono prese il tempo necessario per preparare piani e tattiche, il cui impatto aumenterà nei prossimi giorni”. “Stiamo combattendo contro i fantasmi” si lamentano gli analisti israeliani: il riferimento, appunto, è alla modalità di combattimento che – come prevedibile – hanno adottato i guerriglieri, in particolare delle brigate Al-Qassam, ma non solo. “Pertanto” sottolinea Al-Akhbar “anche l’obiettivo dell’umiliazione e della sottomissione attraverso il combattimento è impossibile” e, a parte i selfie nel parlamento e l’assedio degli ospedali, la lista degli obiettivi militari che al momento mancano all’appello, secondo la resistenza, sarebbe piuttosto lunghina: nessun pezzo grosso di Hamas, infatti, è stato tratto in arresto; nessuna sala di comando è stata individuata e neutralizzata; non ci sono scese di resa di guerriglieri a favore di telecamere; non c’è un caso di uno qualsiasi dei famosi tunnel liberato e portato sotto il controllo delle forze armate israeliane. “Per questo motivo” commenta Al-Akhbar “Israele non si accontenta dell’azione militare, ma ricorre all’uso di crimini palesi come la distruzione totale di ogni struttura civile e il tentativo di far morire di fame e di malattie il maggior numero di persone”; per trasmettere un’”immagine vittoriosa” un po’ pochino. Per fare qualche passo avanti, continua Al-Akhbar, “l’esercito di occupazione dovrebbe scendere dai mezzi blindati, sgomberare edifici, vicoli e quartieri e confrontarsi direttamente con i combattenti, di strada in strada, cosa che le forze avanzate nel settore occidentale della città non hanno ancora fatto, mentre procedono molto lentamente, dando la massima priorità alla protezione dei soldati dagli attacchi”. “In conclusione” scrive sempre Al-Akhbar “ciò che sinora si può comprendere è che l’operazione di terra non raggiungerà in alcun modo direttamente i suoi obiettivi operativi, e che la ricerca dell’“ago” della vittoria nel “pagliaio” di Gaza si scontrerà, col tempo, con il muro della frustrazione e della futilità, mentre la resistenza avrà riconquistato quasi interamente la posizione e l’iniziativa”. Nel frattempo, dopo giorni di silenzio da parte dei soliti famigerati razzi provenienti dalla Striscia, negli ultimi due giorni si sono tornate a registrare raffiche significative: “Alcuni video” riporta sempre Al-Akhbar “hanno mostrato migliaia di persone determinate nel nord della Striscia che accompagnavano l’intenso lancio di razzi con applausi e invocazioni ad Allah”. Poche ore prima, Netanyahu aveva cercato di flexare importanti successi militari invitando gli insediamenti produttivi intorno a Gaza a ricominciare il business as usual, dal momento che l’avanzamento dell’iniziativa di terra sarebbe riuscita a smantellare le postazioni da cui venivano lanciati i razzi. Il ritorno agli attacchi dei razzi da Gaza, oltre alle difficoltà dell’operazione via terra, dipenderebbero anche da un altro fattore: gradualmente, ma inesorabilmente, si starebbero intensificando gli attacchi da nord da parte di Hezbollah, tanto da costringere il ministro della difesa Gollant a spostare una bella fetta delle capacità antiaeree verso nord, e potrebbe essere solo l’inizio. Nel lungo discorso di sabato scorso, Nasrallah infatti ha detto una cosa importante: “Le parole restano sul campo” ha affermato. “La nostra politica attuale è che è il campo a parlare, e poi arriviamo noi a spiegare l’azione”; in soldoni, significa che a valutare quello che dal punto di vista militare è fattibile, da lì in poi saranno direttamente quelli che combattono in prima linea. La direzione politica è quella di sostenere la resistenza palestinese e di obbligare Israele ad essere occupato su più fronti: con che tempi e quali modalità saranno i militari a deciderlo. Poche ore dopo, le azioni sul confine settentrionale di Israele subivano un’accelerazione significativa e “ciò spiega la decisione della leadership sionista di mobilitare un terzo del suo esercito, circa la metà dei suoi sistemi di intercettazione e gran parte della sua aviazione sul confine con il Libano” (Al-Akhbar). Ma il confine con il Libano non è certo l’unica zona che si sta incendiando: negli ultimi giorni ad essere presa particolarmente di mira, ad esempio, è stata la località turistica di Eilat, la Miami d’Israele; in questo caso, a tenere alta la tensione sarebbero le forze yemenite, che hanno sferrato numerosi attacchi ricorrendo all’utilizzo, come ricorda al Mayadeen, di “droni a lungo raggio, missili da crociera e missili balistici”. A prendere di mira Eilat, poi, ci si sono messe pure le milizie sciite di stanza in Iraq che non si sono limitate ad Eilat; ad essere prese di mira negli ultimi giorni, infatti, sarebbero state alcune basi USA. Solo giovedì scorso, la base di Ain Al Assad in Iraq sarebbe stata raggiunta da 3 diversi attacchi che hanno visto l’impiego sia di missili che di droni. Per carità, niente di ché. Ma sono gli stessi che quando a compierli sono gli ucraini in Russia, per tre giorni poi i giornali parlano delle falle nella sicurezza del Cremlino e di allargamento della controffensiva in territorio russo. Noi vorremmo evitare di essere così cringe, ecco, però anche far finta di niente con la complicità della propaganda forse non è la strategia migliore, sopratutto se all’Iraq aggiungiamo anche la Siria. In tutto – confermano anche dal Pentagono – si arriva a poco meno di una cinquantina di attacchi. E’ vero: non causano migliaia di vittime civili e non radono al suolo scuole, asili e ospedali, ma se dal gusto per la vendetta e per la carneficina passiamo ai veri obiettivi militari, così a occhio anche Israele non è che abbia ottenuto poi tantissimo di più e se c’è una cosa che negli scorsi 20 anni di stermini indiscriminati in nome della war on terror abbiamo imparato, è che tendenzialmente questi focolai è abbastanza difficile che, a un certo punto, si spengano come per magia. Gli eserciti regolari – che costano una vagonata di soldi e sono composti, in buona parte, da gente che non aspetta altro che tornare a fare qualche rave sulle spiagge della Florida o di Tel Aviv – tendono a perdere piuttosto rapidamente il loro slancio iniziale; i popoli sottoposti alla furia colonialista e all’occupazione, un po’ meno. Anche a 20 anni di distanza, anche quando – con la complicità dei media che chiudevano un occhio – hai fatto finta di scordarteli, ecco che rispuntano sempre fuori, più incazzosi che mai. Che è esattamente quello che, secondo numerosi analisti, era il succo del messaggio di Nasrallah: non ci facciamo illusioni; per la resistenza il tributo di sangue da versare è ancora gigantesco, ma Israele s’è infilato in un vicolo cieco. Per ora, bisogna ammetterlo, a non averlo capito non è solo Tel Aviv: anche in gran parte dei paesi arabi si fa un po’ finta di niente. La prova è arrivata dalla riunione di sabato della Lega araba; sul tavolo c’era una proposta di risoluzione piuttosto ambiziosa, vista l’assise: si chiedeva di impedire l’utilizzo delle basi della regione agli USA, di congelare il dialogo con Israele e anche di cominciare a mettere un freno alle relazioni economiche. Gli alleati storici degli USA della regione non ne hanno voluto sapere e la resistenza palestinese, comprensibilmente, ha gridato al tradimento. Per chi sperava in un’alzata di scudi del mondo arabo – almeno di fronte a un genocidio di queste dimensioni e sotto la pressione delle opinioni pubbliche locali – sicuramente si è trattato di una battuta d’arresto significativa. Tra le classi dirigenti reazionarie delle petromonarchie, evidentemente, nonostante i recenti sviluppi – a partire dal ritorno al dialogo tra sauditi e iraniani mediato dalla Cina – sull’indignazione per lo sterminio dei bambini arabi continua a prevalere la diffidenza nei confronti della minaccia che l’Iran e l’asse antimperialista della resistenza rappresenta per la tenuta dei loro regimi feudali e antipopolari. Sono tentennamenti che ovviamente gridano vendetta perché, nel frattempo, lo sterminio procede sostanzialmente indisturbato, ma chi nel nord globale canta vittoria – magari perché, a suon di leggere i reportage embedded della propaganda, s’è fatto un’idea un po’ idilliaca a trionfalistica dei risultati dell’avanzata di terra – potrebbe tutto sommato rimanere deluso (soddisfazione per lo sterminio gratuito di bambini a parte, si intende). Sebbene la Lega araba non abbia adottato la risoluzione di cui sopra, infatti, ne ha comunque adottata un’altra più blanda ma che comunque, in modo unitario, condanna senza se e senza ma il genocidio e chiede un immediato cessate il fuoco, e la partita per spostarla su posizioni più radicali è appena iniziata; per quanto si tratti spesso di regimi dispotici, un certo peso le opinioni pubbliche lo svolgono comunque, sia a livello interno che, più in generale, a livello regional, e nell’insieme della Umma Islamica, la comunità dei fedeli che va oltre ogni confine. E le opinioni pubbliche sono, in maniera schiacciante, solidali con la martoriata popolazione palestinese, e per non consegnarle interamente all’egemonia dell’Iran – che è il vero incubo delle petromonarchie del Golfo e che, come ha sottolineato maliziosamente Nasrallah stesso, è la potenza regionale che rende possibile l’azione dell’asse della resistenza – continueranno ad essere costretti perlomeno a far finta di contrapporsi al piano genocida di Israele.
Una tensione che ha cominciato a far scricchiolare anche l’asse dei vassalli di Washington – da Macron a Trudeau – che sono stati costretti a dire parole abbastanza chiare sulla totale sproporzione della reazione israeliana, mentre la breaking news che leggo in un’agenzia mentre chiudo questo pippone è che il consiglio di sicurezza dell’ONU (dopo 4 tentativi naufragati) con 12 voti favorevoli e soli tre astenuti avrebbe adottato una risoluzione che imporrebbe una “pausa umanitaria urgente ed estesa e corridori umanitari che attraversino la striscia di Gaza”. Lo sconvolgimento messo in moto dal diluvio di al-aqsa il 7 ottobre ha portata epocale, un evento storico dentro un mondo che cambia a una rapidità a cui non eravamo più abituati da 70 anni, e tutti i segnali ci continuano a dire che non vada esattamente nella direzione auspicata dall’egemone USA e dai suoi innumerevoli proxy regionali. E se il mondo nuovo avanza, farselo raccontare dai vecchi media suprematisti e dai giornalisti embedded al seguito dell’asse del male potrebbe non avere tantissimo senso. Forse è arrivato il momento di spegnerli e di accendere Ottolina Tv: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.
Decine di migliaia di civili uccisi, centinaia di villaggi distrutti, milioni tra donne e bambini costretti a lasciare per sempre le proprie case. No, non parliamo del trattamento di Israele verso i palestinesi, ma del genocidio curdo che l’esercito turco, che è il secondo più grande della Nato, sta eseguendo in Mesopotamia.
I curdi, da 9 anni, stanno respingendo l’avanzata dell’ISIS e – quindi – stanno salvando l’Occidente da un’ondata di terrorismo senza precedenti: in cambio subiscono ancora oggi un massacro da parte del regime di Erdogan che sabota le infrastrutture civili, occupa illegalmente una parte della Siria per facilitare i corridoi dei terroristi dell’ISIS e che, negli ultimi mesi, sta commettendo omicidi quotidiani approfittando dell’attenzione mediatica su Gaza ed Ucraina. Io sono Paolo Negro, studio politica internazionale all’Accademia della modernità democratica e in questo video vi parlerò di questo genocidio e del motivo per cui se noi occidentali continueremo ad ignorarlo e ad accettare le politiche criminali dei nostri governi, saremo i primi a rimetterci la pelle. Settembre 2014: l’ISIS assedia la città di Kobane a nord della Siria, al confine con la Turchia, all’interno dell’Amministrazione Autonoma che dal 2011 prende il nome di Rojava. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, oltre 400.000 persone sono costrette a lasciare le proprie case. La resistenza dei curdi è messa a durissima prova perché la superiorità militare dell’ISIS, apparentemente, è schiacciante; tutto merito del petrolio. E della Turchia. Come scriveva Martin Chulov sul Guardian, infatti, “Il commercio di petrolio tra i jihadisti e i turchi è stato ritenuto come prova di un’alleanza tra i due. I ricavi giornalieri tra 1 e 4 milioni di dollari affluiti nelle casse dell’ISIS per almeno sei mesi dalla fine del 2013 hanno contribuito a trasformare una forza ambiziosa con mezzi limitati in una potenza inarrestabile”. “Ci sono centinaia di unità flash e documenti sequestrati ed i collegamenti tra Turchia e ISIS sono innegabili” avrebbe poi dichiarato un alto funzionario occidentale all’Observer.
“La maggior parte dei combattenti che si sono uniti a noi all’inizio della guerra” avrebbe poi confessato un comandante dell’ISIS al Washington Post “sono arrivati attraverso la Turchia, e così hanno fatto le nostre attrezzature e forniture”. Il 19 gennaio del 2014, ad Adana, tre camion vengono fermati per un’ispezione di routine: “Quando sono stati fermati”, scrive il giornalista turco Burak Bekdil del think tank Middle EastForum, “gli agenti dell’intelligence turca hanno cercato di impedire agli ispettori di guardare all’interno delle casse”. Fortunatamente il tentativo non va in porto: le guardie non si lasciano intimidire e quello che si ritrovano di fronte è un vero e proprio arsenale di “razzi, armi e munizioni” destinati “all’ISIS e ad altri gruppi in Siria”. Secondo la ricostruzione di Bekdil il camion era stato caricato ad Ankara; i conducenti, poi, lo avrebbero portato fino al confine, dove alla guida sarebbe subentrato direttamente un agente dell’intelligence turca e, secondo Bekdil, “questo è accaduto molte altre volte”. Il 21 ottobre Bekdil è deceduto in seguito a un incidente stradale; negli ultimi articoli aveva aspramente criticato le posizioni di Erdogan nei confronti del genocidio israeliano a Gaza. Nel sanguinario e incandescente scacchiere del vicino Oriente, ognuno sceglie quali vittime omettere dal bilancio; fatto sta che, due mesi dopo il sequestro del carico, una registrazione audio ha offerto una lettura realistica della politica siriana del regime turco. I pezzi da novanta di Ankara, infatti, avrebbero affermato apertamente che un attacco alla Siria per la Turchia rappresenterebbe un’opportunità succulenta: “Un’operazione sotto falsa bandiera”, avrebbe affermato Il capo dello spionaggio Hakan Fidan, “sarebbe molto facile”. D’altronde, avrebbe sottolineato, avevano già inviato con successo duemila camion in Siria. “I comandanti dell’ISIS ci hanno detto di non temere nulla perché c’era piena collaborazione con i turchi”; a parlare dalle colonne di Newsweek, a questo giro, sarebbe nientepopodimeno che un tecnico delle comunicazioni dell’ISIS, dopo essere fuggito dallo stato islamico. “L’ISIS” continua “ha visto l’esercito turco come suo alleato, soprattutto nell’attacco contro i curdi in Siria. I curdi erano il nemico comune sia per l’ISIS che per la Turchia. Inoltre solo attraverso la Turchia l’ISIS è in grado di schierare i jihadisti contro le città curde a nord della Siria”. Ma perché il secondo esercito della NATO ha bisogno anche dei terroristi dell’ISIS per sterminare i civili curdi? La risposta sta in quell’incredibile esperimento sociale che caratterizza il Rojava da qualche anno e che si chiama confederalismo democratico, un assetto istituzionale e politico che permette a Curdi, Arabi, Assiri, Caldei, Turcomanni, Armeni e Ceceni di vivere per la prima volta in pace nelle regioni di Afrin, Euphrates, Jazira, Raqqa, Tabqa, Manbij e Deir ez-Zor dopo secoli di conflitti religiosi ed ideologici. Non è un’utopia, non è una formuletta teorica valida solo nelle pagine di qualche accademico, ma è una realtà quotidiana che permette alla popolazione non solo di sopravvivere in condizioni disperate di guerra ma anche di sviluppare questo modello come paradigma per tutto il vicino Oriente e potenzialmente per il mondo intero. Fedeli nei secoli alla politica “divide et impera“, le potenze imperialiste sanno che pace ed autodeterminazione dei popoli nel vicino Oriente sarebbero catastrofiche per i loro interessi economici; il regime turco, in particolare, è impaurito dal confederalismo democratico perché sa che l ́unico modo per chiudere per sempre la questione nazionale curda in Turchia è quello di compiere prima lo sterminio dei curdi in Siria. Ma anche gli imperialismi occidentali, abituati a decidere arbitrariamente il destino del vicino Oriente, non vedono di buon occhio la rivoluzione del Rojava.
Dalla fine della prima guerra mondiale, infatti, le potenze vincitrici hanno continuato a banchettare sui resti extra-anatolici del defunto impero ottomano, stipulando accordi diplomatici che hanno causato l’inizio di conflitti che perdurano da oltre 100 anni. “A peace to end all peace” è un saggio di David Fromkin del 1989 che spiega come tutte gli accordi stipulati con l’obiettivo di pacificare il vicino Oriente non fecero altro che inasprire ancora di più le tensioni tra i diversi popoli. Gli Alleati disegnarono i confini con la squadra ed il compasso senza tenere minimamente conto delle decine di etnie che popolavano quelle terre, ma considerando unicamente i rapporti di forza scaturiti dal primo conflitto mondiale: figure geometriche che potremmo definire ad minchiam, come dimostra lo storico James Barr nel saggio “A line in the sand” del 2011. Tra le due guerre, furono soprattutto Francia e Inghilterra a scegliere politiche e governi del vicino Oriente, mentre dal 1945 sono gli Stati Uniti a decidere il destino dell’area dando un sostegno concreto ai golpe nelle quattro nazioni che attualmente colonizzano le comunità curde: nel 1953 supportarono lo shah di Persia in Iran, tra il ‘56 ed il ‘57 fallirono tre colpi di stato in Siria, addestrarono i militari turchi per il golpe del ‘60 e nel 1963 rovesciarono il governo populista di Abd al-Karim Qasim in Iraq. Il capolavoro politico degli Stati Uniti, però, rimane il finanziamento dei gruppi ribelli in Iraq nel 1991 ed in Siria nel 2011, che ha causato la nascita di alcune delle fazioni jihadiste più feroci degli ultimi decenni. Nonostante oggi le potenze occidentali facciano parte della coalizione per combattere l’ISIS, il caos nel vicino Oriente rimane la situazione ideale per perpetuare lo sfruttamento di uomini e risorse; e continuare a fomentare l’odio etnico e religioso tra i popoli dell’area porterà sì ancora più morti e rifugiati, ma anche maggiori profitti per l’industria bellica e petrolifera dell’Occidente collettivo, data l’impossibilità di ricostruire un’autonomia politica che finalmente contrasti alla radice le ambizioni egemoniche del nord globale a guida Usa nell’area. Le vere forze democratiche che lottano per la resistenza del Rojava, per il confederalismo democratico e per la sua internazionalizzazione sono l’unica soluzione per la pace definitiva nel vicino Oriente e per la distruzione del terrorismo che minaccia continuamente anche i popoli occidentali. Il sostegno all’avanguardia curda e a quelle forze che, all’interno delle comunità Arabe, Assire, Caldee, Turcomanne, Armene e Cecene, vivono e diffondono il paradigma del confederalismo democratico, dunque, non solo è un dovere di basilare umanità ma anche un contributo concreto alla sicurezza di tutti quei paesi che dai conflitti in medio Oriente hanno tutto da perdere, a partire proprio dall’Italia. Per continuare a raccontare il complicato scacchiere mediorientale senza diventare vittime dei doppi standard delle élite corrotte locali e globali che continuano a soffiare sul fuoco dei conflitti etnici e religiosi per i propri tornaconti, abbiamo bisogno di un media che promuova il punto di vista del 99%. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal .
“Sostenere Israele e Ucraina è vitale per l’America. Dobbiamo tornare ad essere l’arsenale della democrazia”: così ha detto zio Joe Biden nel suo discorso alla nazione il 20 ottobre scorso. Un discorso che mette in evidenza l’idea di democrazia che ha l’élite statunitense: un brand made in USA – con tanto di copyright regolarmente registrato – e da brandire come un’arma a proprio piacimento, mentre tutti i paesi o le entità che non posseggono il suddetto marchio di provenienza sono considerati “Stati canaglia”, incarnazioni del Male da estirpare. Questo è il succo di quel ‘fondamentalismo democratico’ – per citare Luciano Canfora – che ritiene il sistema politico-economico e il modo di vivere occidentale come l’unico ammissibile.
Quello di democrazia, insieme a quello di libertà, è probabilmente il concetto in assoluto più abusato nel discorso politico occidentale. Basta aggiungerne un pizzico un po’ a caso e tutto diventa magicamente più bello : governo democratico, partito democratico, forze democratiche, metodi democratici, sentimenti democratici, spirito democratico e chi più ne ha più ne metta. Ed è proprio a causa di questo abuso retorico che occorre compiere un’opera titanica di messa in questione, di problematizzazione e di decostruzione del concetto stesso, che è proprio quello che fa Emiliano Alessandroni nel suo Dittature democratiche e democrazie dittatoriali: Problemi storici e filosofici, un’opera ambiziosa che non si ponte tanto l’obiettivo, appunto, “di raccontare la democrazia, quanto quello di problematizzarla” e cioè “di liberare la sua narrazione e il suo concetto dalle semplificazioni tutt’oggi in voga”. Se c’è un dogma che l’apparato giornalistico-mediatico propaganda quotidianamente è quello di identificare la democrazia occidentale con il Bene, in contrapposizione alle dittature – cioè a tutti i sistemi politici diversi da essa – che vengono identificati in blocco con il Male. A questo pensiero astratto, cioè fisso e astorico, Alessandroni contrappone un pensiero dialettico nel quale i termini non sono essenze, sostanze opposte, ma processi storici che si compenetrano. L’idea di Alessandroni è tanto semplice quanto dirompente: ci sono stati e ci possono essere processi di emancipazione, ossia conquiste realmente democratiche, in ciò che definiamo dittature, come d’altronde ci sono stati e ci possono essere processi di de-emancipazione, ossia regressioni dispotiche, in ciò che definiamo democrazie. Per mandare in tilt il manicheismo storico-filosofico del pensiero liberaloide contemporaneo, basta e avanza: per i pensatori liberali, infatti, il concetto di democrazia tutto sommato può essere ridotto a un assetto giuridico-politico specifico, e cioè il sistema caratterizzato dalla “competizione elettorale”. Se c’è siamo in una democrazia, sennò no. Aut aut. Semplice e chiaro. Per Alessandroni, però, le cose sarebbero leggermente più articolate. Primo: il processo della competizione elettorale – sottolinea – sarebbe marcatamente influenzato dal potere economico -finanziario, che ha in mano anche quello mediatico. Chi ha più soldi ha, oggettivamente, più chance di far passare le sue idee e far eleggere i suoi politici di fiducia. Secondo: il diritto di voto nelle democrazie può essere ristretto a una minoranza o, comunque, escludere grandi masse di popolazione. Nella democrazia greca, ad esempio, è risaputo che votassero solo i maschi adulti, figli di padre e madre ateniese e liberi di nascita. Terzo: uno Stato giuridicamente democratico può attuare una politica dispotica di sterminio e colonizzazione verso altri popoli o altre nazioni; Israele è, ad esempio, giuridicamente una democrazia, ma agisce come despota verso la popolazione palestinese. Tutto questo non significa di per se, ovviamente, non riconoscere alla “competizione elettorale” un ruolo potenzialmente emancipatorio; piuttosto si tratta, molto semplicemente, di sottolinearne limiti – se non addirittura contraddizioni – che la propaganda cela con le sue semplificazioni manicheiste. “Se merito della tradizione liberale è stato insistere sull’idea di “democrazia giuridico-politica”, necessaria per la decentralizzazione del potere” sottolinea infatti Alessandroni, il dovere “della tradizione che fa riferimento al materialismo storico è focalizzare l’attenzione sui concetti di democrazia sociale e di democrazia internazionale, che soli permettono a quella giuridico-politica di ambire a una certa dose di universalismo, ed evitare che si trasformi in un paravento per nuove forme di dominio e di accentramento del potere nelle mani di una minoranza, anche se con modalità meno rozze e più sofisticate”. “Soltanto l’unità combinatoria di questi tre concetti e la loro declinazione universale” sottolinea infatti Alessandroni, “può incarnare la sostanza democratica. Come che sia, pare evidente quanto, lungi dall’esser giunti alla fine della storia, come teorizzava Francis Fukuyama, il cammino verso la democrazia rimanga piuttosto, allo stadio attuale, ancora inesorabilmente lungo”. Proprio per questo motivo non bisogna cadere nella propaganda dell’ideologia democraticista, che è funzionale alla giustificazione dell’assetto di dominio vigente nello stesso modo in cui, nell’Ottocento, il ricorso al termine libertà era utilizzato dai padroni di schiavi per giustificare e moralizzare l’istituto della schiavitù. “Con democrazia” scrive infatti Alessandroni “si tende a indicare, nell’attuale presente storico, il sistema di dominio dell’Occidente. E quelle autentiche spinte democratiche, che (..) sorgono al di fuori del perimetro occidentale, vengono rappresentate, dalla nostra pubblicistica, sotto forma di minacce nei confronti della democrazia”. Da questo punto di vista, conclude Alessandroni, proprio “Come nell’antica Atene” anche oggi “il termine democrazia assolve la funzione ideologica di occultare e giustificare un determinato sistema di dominio”. E’ proprio il ricorso spregiudicato a questa ideologia, ad esempio, a permettere di occultare il fatto che quello che è considerato comunemente il paese guida del mondo democratico – gli Stati Uniti d’America – sia, a tutti gli effetti, l’esempio più fulgido di dispotismo nei rapporti internazionali. Una verità palese e arcinota soprattutto a tutti quei paesi che hanno sperimentato la condizione coloniale e l’aggressione armata. Dalla loro prospettiva di colonizzati e aggrediti, la democrazia non giunge certo da Occidente tramite le bombe e neanche dal suo avamposto mediorientale, ossia Israele. “Lo Stato di Israele” si chiede infatti retoricamente Alessandroni “costituisce davvero il migliore prototipo di democrazia e di libertà del Medio Oriente, come spesso si è sostenuto e si continua a sostenere? E ritornando nuovamente sul piano teorico, può essere ritenuto democratico un paese che manifesta un’evidente inclinazione coloniale? Ovvero, democrazia e colonialismo possono essere compatibili?”In termini di democrazia sostanziale, ovvero di una democrazia che non sia riducibile astrattamente alla sola “competizione elettorale”, la risposta è molto semplice: no, democrazia e colonialismo non sono compatibili.
Ma come mai – occorre domandarci – quando si parla di democrazia non si tiene conto di questi fattori così importanti? Come mai si considera determinante, per riconoscere un soggetto come democratico, soltanto il suo sistema elettorale interno e non anche le relazioni che esso instaura con gli altri soggetti? La risposta è piuttosto semplice: si chiama egemonia culturale che, per dirla con Edward Said, si nutre di 5 grandi narrazioni: la prima è quella che si concentra sulla distinzione ontologica tra Occidente e resto del mondo, il giardino ordinato contro la giungla selvaggia che lo circonda e lo minaccia, per dirla con il ministro degli esteri dell’unione europea Josep Borrell. La seconda è volta a codificare e naturalizzare la differenza tra noi e loro: noi siamo umani mentre loro no. La terza si fonda sulla retorica della missione civilizzatrice: noi occidentali bombardiamo sempre per il Bene e la democrazia e i bombardati, alla fine, ce ne saranno grati. La quarta mira alla diffusione massiccia dell’ideologia imperiale: una vera azione pedagogica intrapresa da tutti i lavoratori culturali, dai giornalisti ai registi cinematografici e ai vignettisti, rivolta tanto ai colonizzatori quanto ai colonizzati. La quinta è quella più specificatamente letteraria, capace di creare storie e immagini molto potenti in grado di esaltare la cultura imperiale: è la contrapposizione onnipresente in ogni tipo di prodotto culturale tra personaggi positivi – espressione della mentalità e dei valori imperiali – e personaggi negativi, espressione della cultura dei popoli sottomessi. Queste narrazioni unite diventano una Grande Narrazione che non ci fa immedesimare nella sorte dei colonizzati ma in quella dei colonizzatori, perseguitati dal “fardello” della loro “missione civilizzatrice”. Fortunatamente, però, possiamo sempre cambiare prospettiva e rigettare la distinzione manichea e razzista tra noi e loro, onnipresente nei talk show televisivi venti anni fa come oggi; “cosa intende dire con “noi” il commentatore delle notizie serali” scriveva infatti Said già nel 2004 “quando chiede educatamente al segretario di Stato se le “nostre” sanzioni contro Saddam Hussein erano giustificate, mentre milioni di civili innocenti, non di membri dello “spaventoso regime”, vengono uccisi, mutilati, affamati e bombardati perché noi possiamo dare prova del nostro potere? O quando il giornalista televisivo chiede all’attuale segretario di Stato se, nella nostra furia di perseguire l’Iraq per le armi di distruzione di massa (che in ogni caso nessuno è mai stato in grado di trovare), “noi” applicheremo a tutti lo stesso principio e chiederemo a Israele di rendere conto delle armi in suo possesso senza ottenere risposta? […] Bisognerebbe trovare il coraggio” conclude Said “di dire nel modo dovuto: io non faccio parte di questo “noi”, e quello che “voi” fate, non lo fate in mio nome”.
Se anche tu non vuoi più far parte di quel “noi” e vuoi combattere per un’informazione che sostenga la lotta degli oppressi e non dia corda alla propaganda degli oppressori, l’appuntamento è per domani mercoledì 8 novembre alle 21:00 in diretta su Ottolina TV con una nuova puntata di Ottosofia, il format di divulgazione storica e filosofica di Ottolina TV in collaborazione con Gazzetta filosofica. Ospite d’onore Emiliano Alessandroni, docente presso le cattedre di Letteratura italiana, Filosofia contemporanea e Filosofia politica all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo“. E se, nel frattempo, anche tu credi che per una democrazia reale in grado di combattere l’imperialismo anche sul piano culturale prima di tutto ci sarebbe bisogno di un vero e proprio media che dia voce agli interessi concreti del 99%, aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina TV su GoFundMe e su PayPal .
Make Ethnic Cleansing Cool Again! Rendiamo di nuovo la Pulizia Etnica una cosa figa, cool. Questo, in estrema sintesi, il programma dell’Institute for Zionist Strategies, in assoluto uno dei più influenti think tank israeliani. I curriculum dei fondatori, infatti, farebbero invidia a qualsiasi altro centro di potere del pianeta: si va dal 3 volte ministro della difesa Moshe Arens al nobel per l’economia Robert Aumann, premiato nel 2005 per “aver accresciuto la nostra comprensione del conflitto e della cooperazione attraverso l’analisi della teoria dei giochi”.
La sua tesi è illuminante: la pace porta alla guerra, mentre per prevenire la guerra servono più armi e più guerra. Anche Moshe Ya’alon è stato ministro della difesa, il giusto coronamento di una lunga carriera nelle forze armate israeliane durante la quale ha avuto un ruolo di primissimo piano in tutte le più atroci operazioni condotte contro la resistenza palestinese negli ultimi 40 e passa anni. Anche Natan Sharansky è stato ministro svariate volte: prima dell’interno, poi della casa – dando carta bianca agli insediamenti illegali dei coloni e radendo al suolo migliaia di case palestinesi – e poi addirittura vice primo ministro. Di origine russe, Sharansky è stata una delle più famose spie statunitensi durante l’Unione Sovietica, tanto da beccarsi una condanna a 13 anni in un campo di lavoro in Siberia; insomma, siamo ai piani alti che più alti non si può, e i risultati si vedono. L’idea di trasformare Israele in uno stato etnico, con la definizione ufficiale di “Stato-nazione per il popolo ebraico” formalizzata nell’ormai lontano 2018 senza che la propaganda suprematista gli dedicasse manco una riga, c’è infatti proprio l’Institute for Zionist Strategies, come d’altronde è sempre farina del sacco dell’istituto anche la proposta di riforma costituzionale antidemocratica e illiberale che negli ultimi mesi ha scatenato le proteste degli oppositori del governo Netanyahu, sostenitori di un apartheid più dolce e meno ostentato. Ma non pensate che si tratti di un istituto intriso di giudaofascismo come i ministri più impresentabili del governo in carica, eh? Tutt’altro: semmai, sembrano più una sorta di Italia Viva o di Calenda israeliani, una cacofonia di retorica liberale dirittumanista mischiata a un po’ di sano suprematismo e a tanto tanto ultra-liberismo da stadio. Insomma, per sintetizzare, Michele Boldrin. Ecco, immaginatevi un paese dove Michele Boldrin, oltre a sproloquiare sul web, conta qualcosa. Un incubo. “Israele” si legge nella presentazione sul loro sito “è la realizzazione del sogno vecchio di 2000 anni del popolo ebraico di ritornare nella sua terra come nazione libera e sovrana. Il moderno stato-nazione è stato fondato sui valori ebraici tradizionali, ed è una vivace democrazia ebraica che promuove gli interessi della nazione ebraica” e “l’Istituto per le Strategie Sioniste (IZS) promuove e rafforza il carattere ebraico di Israele”. Ma dove il suprematismo diventa pura distopia è qui: “Le libertà personali, la giustizia e i diritti umani” scrivono “sono parte integrante del sistema di valori ebraico e sono anche centrali per una forma di governo democratica. Esistono tuttavia” – sottolineano – “aree di potenziale tensione tra i due valori e occorre trovare soluzioni che sostengano il carattere ebraico di Israele tutelando al tempo stesso i diritti individuali. L’Istituto per le Strategie Sioniste” concludono, è “l’unica istituzione in cui le persone che sostengono i diritti umani e sostengono anche Israele come stato ebraico possono sentirsi a proprio agio sapendo che non dovranno sacrificare un ideale per l’altro”. Dirittumanismo suprematista su base etnica, cioè riconosciamo a tutti i diritti umani, ma quali siano i diritti umani da riconoscere lo devono decidere solo gli ebrei, e gli altri o si adeguano oppure ecco che scatta la Pulizia Etnica. Il primo vero e proprio piano per la pulizia etnica dell’Istituto risale ormai a diversi anni fa: “Regional settlement” si chiamava il programma. Insediamento regionale; un programma talmente illuminato che, effettivamente, concedeva ai palestinesi la possibilità di costituire finalmente il loro stato, però da un’altra parte. Non è una battuta: il programma, infatti, consisteva nel convincere Egitto e Giordania a cedere una fetta di territorio sufficiente per trasferirci forzatamente il grosso dei palestinesi che sono sfuggiti alla prima pulizia etnica del ‘48, e a quel punto, con grande slancio di generosità, permettere ai palestinesi di fondare tutti gli stati nazionali che vogliono. Fortunatamente, nonostante la fonte autorevole, allora nessuno gli prestò particolare attenzione; nei dieci anni successivi, però, nel silenzio complice di tutti quanti – a partire da quelli che oggi si dichiarano solidali con la popolazione palestinese ma sdegnati dalla violenza scoppiata il 7 ottobre scorso e impartiscono lezioni non richieste alla resistenza palestinese sulle modalità giuste di lotta da impiegare – i rapporti di forza tra i carnefici e le vittime si sono spostati inesorabilmente a favore dei primi e quello che 10 anni fa sembrava una provocazione di qualche invasato, oggi è diventato argomento di dibattito nella classe dirigente. Ed ecco così che il piano delirante per la definitiva pulizia etnica si ripresenta, e a questo giro non più semplicemente come una visionaria provocazione per aprire un dibattito, ma proprio sotto forma di piano dettagliato, con tanto di numeri e bilanci. “Un piano per il reinsediamento e la riabilitazione definitiva in Egitto dell’intera popolazione di Gaza” si intitola il documento: “non c’è dubbio” si legge nell’incredibile report redatto pochi giorni fa dall’istituto e scovato nei meandri del web dagli amici di The Grayzone “che affinché questo piano possa realizzarsi devono coesistere molte condizioni contemporaneamente. Attualmente, queste condizioni si sono magicamente presentate, ma non è chiaro quando tale opportunità si ripresenterà, se mai si ripresenterà. Questo è il momento di agire. Ora”. “Attualmente esiste un’opportunità unica e rara per evacuare l’intera Striscia di Gaza, in coordinamento con il governo egiziano”. L’incipit del rapporto segreto dell’Istituto per le Strategie Sioniste scovato da The Grayzone non lascia adito a dubbi: siamo di fronte esplicitamente a un piano per la Pulizia Etnica definitiva ma, forse aspetto ancora più inquietante, presentato sostanzialmente come un’opera di bene.
“Un piano immediato” si legge infatti nel rapporto “realistico e sostenibile per il reinsediamento umanitario” (giusto: dice proprio così, umanitario) “e la ricollocazione dell’intera popolazione araba della striscia di Gaza”. Un capolavoro di suprematismo neoliberista; l’intero rapporto, infatti, non si limita a definire umanitaria la Pulizia Etnica, ma soprattutto si concentra nell’indicare gli evidenti vantaggi economici di tutta l’operazione. Ci sono pure le tabelline coi numerini. L’idea di fondo, purtroppo, è un po’ peggiorativa rispetto al vecchio “insediamento regionale” perché l’ipotesi, generosissima, di poter costituire uno stato nazionale in casa di altri è scomparsa ma il succo è lo stesso: si tratta, infatti, di sfollare per sempre tutti i due milioni e passa di abitanti della striscia in Egitto. Un piano che, sottolinea il rapporto, “si allinea perfettamente con gli interessi economici e geopolitici sia dello Stato di Israele, quanto anche dell’Egitto stesso, e anche dell’Arabia Saudita”. Il rapporto, infatti, ricorda come nel 2017 sia stato affermato che in Egitto esisterebbero la bellezza di 10 milioni di unità abitative sfitte, in particolare in due gigantesche new town nell’area metropolitana del Cairo: la cittadina del Nuovo Cairo, e la città del decimo Ramadan.
“La maggior parte della popolazione”, infatti, sottolinea il report, “non riesce ad acquistare gli appartamenti di nuova costruzione, che rimangono invenduti a milioni, e hanno raggiunto prezzi di mercato molto bassi, dai 150 ai 300 dollari al metro quadrato”. A questi prezzi, un confortevole appartamento per una famiglia di Gaza, che in media è composta da 5 elementi, si aggirerebbe attorno ai 19 mila dollari; significa che con meno di 8 miliardi di dollari si può agilmente trovare una sistemazione per tutti e “investire qualche miliardo di dollari per risolvere la difficile questione di Gaza” sottolinea giustamente il rapporto “sarebbe una soluzione innovativa, economica e sostenibile”. Altro che Pulizia Etnica! Questo è un vero e proprio affarone: ripulita dai subumani, Gaza infatti fornirebbe “alloggi di alta qualità a molti cittadini israeliani” e permetterebbe di estendere a dismisura l’area metropolitana di Tel Aviv, nota col nome Gush Dan, rendendola una specie di Los Angeles del Mediterraneo” e a trarne vantaggio sarebbero, ovviamente, anche gli insediamenti nel Negev – nelle zone desertiche ad est della striscia -penalizzati fino ad oggi dall’essere separati dal mare da questa vetusta e un po’ demodè presenza di questi soggetti qui – come si chiamano? Ah già, i palestinesi. Ovviamente il problema principale, a questo punto, sarebbe convincere l’Egitto ma anche da questo punto di vista – sottolinea il rapporto – la situazione non è mai stata così favorevole; l’Egitto infatti si trova nel bel mezzo di una crisi economica devastante, con un’inflazione che ha sfiorato fino al 30%, e una svalutazione della sua valuta rispetto al dollaro che ne ha sostanzialmente dimezzato il valore. Questo ha spinto il paese sull’orlo del default: per evitarlo, è stato costretto a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale che, però, per concedere un prestito imporrebbe all’Egitto “condizioni e riforme economiche draconiane” la cui applicazione sembra “improbabile”. Questa situazione ha spinto le agenzie a degradare il rating del debito sovrano egiziano, declassato da 3B a 1C, “il punteggio più basso mai assegnato all’Egitto”, una situazione che, sottolinea il report, per gli Stati Uniti potrebbe tradursi in un “disastro strategico”. Se l’Egitto non fosse più in grado di ripagare i suoi debiti e dichiarasse il default, infatti, tra i vari creditori da soddisfare ci sarebbero anche i cinesi, con il rischio che gli vengano ceduti asset strategici, come è già avvenuto – ad esempio – in Sri Lanka con il porto di Hambantota. Anche i paesi europei sono in allarme a causa dell’ondata di immigrazione clandestina che un patatrac dell’economia egiziana molto probabilmente comporterebbe; “il trasferimento dell’intera popolazione di Gaza in Egitto e la sua riabilitazione”, invece, rappresenterebbero una grande opportunità per ridare slancio all’economia egiziana riducendo tutti questi rischi, anche perché “la chiusura della questione di Gaza” sottolinea il report “garantirebbe una fornitura stabile di gas israeliano all’Egitto per la liquefazione, e anche un maggior controllo delle compagnie egiziane sulle riserve di gas esistenti al largo di Gaza”. La Pulizia Etnica di Gaza poi, sostiene il report, sarebbe un’ottima occasione anche per l’Arabia Saudita per almeno due motivi: il primo è che eliminerebbe, così, un importante alleato dell’Iran; il secondo è che potrebbe trovare una bella fonte di manodopera a basso costo per tutti i suoi ambiziosi progetti di ammodernamento infrastrutturale, a partire dalla costruzione da zero della megalopoli futuristica di Neom, che Mohammed Bin Salman vorrebbe diventasse la principale metropoli di tutta la regione – ovviamente, a quel punto, dopo la nuova Los Angeles israeliana. Insomma, tutto torna, a parte la volontà degli abitanti di Gaza che, però, possono essere convinti: basta continuare a distruggergli le case, a tenerli sotto assedio e a terrorizzarli con le bombe. Non sarà proprio immediato ma, se duriamo abbastanza, alla fine “non pochi residenti di Gaza coglierebbero al volo l’opportunità di vivere in un paese ricco e avanzato piuttosto che continuare a vivere in questa situazione”. Convinti a suon di massacri gli abitanti di Gaza a lasciare da parte i loro preconcetti e abbracciare finalmente il futuro di luce che lo stato-nazione per il popolo ebraico gli offre generosamente, rimane allora un ultimo ostacolo: i quattrini. Perché se è vero che, alla lunga, l’investimento promette ritorni mirabolanti, nel breve finanziare un massacro e poi una pulizia etnica – soprattutto se democratica e umanitaria – costa, e il bancomat preferito del regime segregazionista di Tel Aviv nelle ultime settimane era temporaneamente fuori uso. Ma visto che, appunto, sono in missione per conto del Signore, ecco che magicamente mercoledì un miracolo l’ha fatto tornare in funzione: i repubblicani, dopo varie diatribe, finalmente hanno eletto il nuovo speaker della camera.
Si chiama Mike Johnson e per Israele è una vera e propria manna: evangelico oltranzista, come per i fautori dello stato etnico e confessionale di Israele è un fiero sostenitore delle ingerenze della chiesa sullo stato. “Quando i fondatori pensavano alla così detta separazione tra chiesa e stato” avrebbe affermato in passato, era perché “volevano proteggere la chiesa da uno stato invadente, non il contrario”, e il suo discorso di insediamento è roba da fare sembrare il più invasato degli ayatollah un illuminista.
MIKE JOHNSON – nuovo speaker del congresso USA: “Credo che le sacre scritture siano molto chiare su questo: è solo Dio che può darci l’autorità. E credo che se oggi ci ritroviamo qui, sia perché a permetterlo, e a volerlo, è stato l’Onnipotente. Nel 1962 il nostro motto nazionale, In God we trust, venne scolpito sopra questa tribuna; venne fatto come forma di rimprovero contro la filosofia dell’Unione Sovietica ai tempi della guerra fredda. Quella filosofia si chiamava marxismo e comunismo, e partiva dal presupposto che Dio, appunto, non esiste. E quali sono invece i valori fondamentali, i principi fondamentali sui quali si basa la nostra nazione? Questi principi sono la libertà individuale, un governo dai poteri ristretti, lo stato di diritto, il mantenimento della pace attraverso la forza, la responsabilità fiscale, il libero mercato e la dignità umana. Sono questi i principi che ci hanno reso la nazione straordinaria che siamo. E noi tutti, oggi, siamo i custodi di quei principi che ci hanno reso la nazione più libera, potente e di maggior successo nella storia del mondo, una nazione assolutamente unica ed eccezionale che sola è in grado di affrontare questi tempi di crisi perché oggi il nostro più caro e fedele alleato in Medio Oriente è di nuovo sotto attacco. Ed ecco perché il primo disegno di legge che presenterò qui tra poco sarà proprio a sostegno del nostro caro, fraterno amico Israele, perché anche se il nostro sistema di governo non è perfetto, rimane ancora senza dubbio il migliore del mondo e noi abbiamo il dovere assoluto di preservarlo a ogni costo. Facciamo in modo che in tutto il mondo i nemici della libertà ci sentano forte e chiaro: siamo tornati in carreggiata”. Come ha detto la mia amica Clara Statello, se dovessimo riassumere con due slogan il comizio di insediamento di Mike Johnson, la scelta non potrebbe che cadere su Gott Mit Uns e USA Uber Alles. Cosa mai potrebbe andare storto? Contro i deliri suprematisti che stanno definitivamente trasformando il nord globale nell’impero del male, abbiamo bisogno di un media che stia dalla parte della pace e della ragione. Aiutaci a costruirlo: aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFoundMe e su Paypal
Diretta domenicale con “la Bolla”. Al centro la questione israelo-palestinese e i rapporti degli USA con il Medio Oriente. Ospiti della serata: Francesco dall’Aglio e Alberto Negri, giornalista inviato di guerra per Il Sole 24 Ore
Il giornale: G20, ecco la via delle spezie. La regia USA fa fuori Pechino.
La Stampa: un rotta dall’India a Venezia, gli USA danno scacco alla Cina.
Repubblica: Biden e Modi isolano Xi, ecco il nuovo corridoio India – medio Oriente contro la via della seta.
I mezzi di produzione del consenso del partito unico della guerra e degli affari, non hanno dubbi: dopo gli incredibili successi della controffensiva Ucraina, e il definitivo crollo dell’economia cinese, al G20 il nord globale è tornato in grande stile a dettare l’agenda globale. Indiani e sauditi hanno ritrovato il lume della ragione, hanno scaricato le velleità del fantomatico nuovo ordine multipolare, e sono tornati ai vecchi costumi: elemosinare una qualche forma di riconoscimento dall’Occidente globale. I rapporti commerciali con la Cina ormai sono roba da boomer e l’aria fresca di rinascimento che spirava dalle petromonarchie ai tempi di Renzi è tornata a soffiare più forte e ora irradia tutta la sua energia fino al subcontinente indiano.
L’Italia è pronta a raccoglierne i frutti: basta Cina, il futuro parla sanscrito, e se usciamo dalla via della seta non è perché ce lo ha imposto Washington, ma perché guardiamo lontano, laddove lo sguardo di voi complottisti sul libro paga di Putin e Xi, non riuscite manco ad avventurarvi.
Ma siamo proprio proprio proprio sicuri che questa narrazione sia anche solo lontanamente realistica?
“C’è un’immagine che più di tutte testimonia quanto accaduto durante il g20 di Delhi”, scrive Stefano Piazza su La Verità, “il presidente americano joe biden sorridente, stringe la mano al principe ereditario saudita mohammed bin salman insieme al padrone di casa Modi”.
Non ha tutti i torti.
Quella effettivamente è un’immagine decisamente potente. Peccato che simboleggi in modo plateale esattamente il contrario di quello che la propaganda suprematista sta cercando affannosamente di di farci credere. È la prova provata che ormai l’ameriCane abbaia, ma quando poi prova a mordere si accorge che gli mancano i denti, e allora si mette a scodinzolare. Se c’è un Paese che negli ultimi due anni ha dimostrato in modo evidente che il bastone a stelle e strisce non fa più poi così tanto male, infatti, è proprio la petromonarchia saudita. Cinque anni fa, Biden aveva inaugurato la sua campagna elettorale definendo il principe ereditario Bin Salman addirittura un pariah. Ma negli anni successivi, i sauditi non hanno fatto assolutamente niente per compiacere il vecchio alleato, anzi…
Quando è scoppiata la seconda fase della guerra per procura della Nato contro la Russia in Ucraina, nonostante tutti i corteggiamenti, i sauditi hanno evitato sistematicamente di emettere una qualunque parola di condanna.
Quando la Russia ha chiesto all’OPEC+ di tagliare la produzione per tenere alto il prezzo del greggio, i sauditi hanno subito appoggiato l’iniziativa. Biden ha provato a dissuaderli, chiamandoli direttamente al telefono. Non gli hanno manco risposto ed era solo l’antipasto. Grazie alla mediazione cinese, pur di affrancarsi dalle strumentalizzazioni USA, pochi mesi dopo i sauditi sono tornati addirittura ad aprire i canali diplomatici con l’arcinemico iraniano, mettendo così le basi per la fine della pluridecennale guerra per procura in medio Oriente che è sempre stato in assoluto il pilastro fondamentale della politica estera USA per tutta l’area ed oltre. Dopodichè i sauditi hanno finalmente preso atto del totale fallimento dell’intervento USA in Siria, e hanno accolto a braccia aperte il ritorno di Assad nella Lega Araba. Subito dopo hanno inferto un colpo micidiale ad un altro degli assi portanti dell’imperialismo USA: la dittatura globale del dollaro, nata e cresciuta grazie proprio all’adozione incondizionata dei sauditi della valuta a stelle e strisce come unica valuta internazionale, utilizzabile per la compravendita del petrolio. Per scolpire sulla pietra il fatto che questi epocali cambi di posizionamento non fossero solo capricci estemporanei, i sauditi hanno prima aderito alla Shanghai Cooperation Organization, e poi addirittura ai BRICS, addirittura fianco a fianco agli iraniani.
Fino a pochi anni fa, gli USA hanno raso al suolo interi paesi e sterminato centinaia di migliaia di civili a suon di bombe umanitarie per molto, molto meno. Dopo un anno e mezzo di schiaffi a due mani in Ucraina, eccoli invece qua, a stringere mani e a ostentare sorrisoni.
Che uno dice: chissà cos’hanno ottenuto in cambio. Una luccicante cippa di cazzo, ecco cos’hanno ottenuto. Meno di quello che avevano ottenuto a Bali.
La partita ovviamente era quella di strappare di nuovo un’accusa nei confronti della Russia per la guerra in Ucraina.
“All’orizzonte”, scriveva Il Giornale Sabato, “il rischio concreto che per la prima volta nella storia di questo forum, nato nel 1999, non si riesca a trovare l’intesa per un comunicato condiviso da tutti i partecipanti”. Per qualche ora, questo è stato il tormentone; sono tutti uniti come un sol uomo nel condannare la Russia, ripeteva fino all’auto convincimento la propaganda, a parte Russia e Cina.
Il più spregiudicato nel raccattare l’ennesima figura di merda, come sempre, è l’infaticabile Mastrolilli su Repubblica: “approfittare delle assenze di Xi e Putin per isolarli allo scopo di contrastare, insieme, la sfida geopolitica epocale lanciata dalle autocrazie alle democrazie”
Gli articoli di Mastrolilli ormai assomigliano sempre di più ai testi prodotti dalle pagine tipo “generatore automatico di post di Fusaro”, o di previsioni di Fassino, che andavano di moda qualche anno fa. Ci infili dentro autocrazia, democrazia, Putin e Xi isolati, mescoli bene, ed ecco pronto l’articolo.
“Putin e Xi”, insiste Mastrolilli, “si sono coalizzati nel rifiutare il linguaggio di Bali. Europei e americani però”, notate bene, “non sono disposti a cedere, e il G20 rischia di chiudersi per la prima volta senza una dichiarazione finale”.
Ci prendessero mai, proprio almeno per la legge dei grandi numeri.
Alla fine infatti, come sapete, il comunicato congiunto in realtà è arrivato in tempi record. Al contrario delle previsioni di Mastrolilli, europei e americani non hanno dovuto semplicemente cedere, si sono proprio nascosti sotto al tavolo: nel comunicato finale non c’è nessun accenno alle responsabilità russe.
In realtà, c’era da aspettarselo; al contrario di Bali, a questo giro Modi di far fare a Zelensky il solito intervento da rock star non ne ha voluto sapere.
Zelensky, persona non grata. Come gli anatemi e i doppi standard del nord globale in declino.
I gattini obbedienti delle oligarchie Occidentali allora si sono messi all’affannosa ricerca di altri specchi sui quali arrampicarsi e l’attenzione non poteva che ricadere sull’unico aspetto che effettivamente suggeriva alcune difficoltà: la misteriosa assenza di Zio Xi.
E via giù di speculazioni acrobatiche. La prima l’avevano suggerita i giapponesi di Asian Nikkei, testata di grande spessore che noi seguiamo da decenni quotidianamente per le analisi economiche, ma che diciamo, ovviamente, non è esattamente del tutto imparziale quando si tratta di Cina.
Un lungo editoriale apparso giovedì scorso, suggeriva che la scelta di Xi di non presentarsi per la prima volta al G20 fosse dovuta a una guerra intestina al partito che vedrebbe i dirigenti più anziani sul piede di guerra contro il Presidente per le difficoltà economiche che il Paese starebbe attraversando. Ma, come ha sottolineato sabato mattina il nostro amico Fabio Massimo Parenti in diretta su La7, in quell’editoriale c’è qualcosa che non torna. L’articolo parla infatti di alcune fonti interne al partito, che ovviamente non è possibile verificare. Rimane però un dubbio: ma davvero ai massimi livelli del partito ci sono dirigenti così smaccatamente antipatriottici da andare a lavare i panni sporchi di casa direttamente nel lavello dell’arcinemico giapponese?
Per carità, tutto può essere. Ma diciamo che una cosa così palesemente antiintuitiva, per essere creduta, avrebbe per lo meno bisogno di qualche prova più tangibile, diciamo.
Macchè!
I nostri media se la sono bevuta tutta d’un sorso senza battere ciglio e il famoso “contesto mancante” a questo giro non li ha dissuasi.
Che strano…
Ma non è stata certo l’unica speculazione. Il fatto di per se, offriva un’occasione più che ghiotta per rilanciare il tormentone che ci aveva già sfrucugliato gli zebedei quando tutta la stampa era alla ricerca di narrazioni fantasy di ogni genere pur di sminuire la portata delle decisioni prese due settimane fa dai BRICS: l’insanabile divergenza tra i diversi paesi del sud globale, a partire da India e Cina.
Ci provano senza sosta da decenni. Prima erano le divergenze tra Cina e Vietnam, poi tra Cina e Russia, poi tra India e Cina. Intendiamoci, le divergenze ci sono eccome e lo ricordiamo sempre: è abbastanza inevitabile quando si ha a che fare con Paesi sovrani. Ognuno è guidato fondamentalmente dal suo interesse, e gli interessi diversi spesso e volentieri entrano in conflitto. Quando non succede è semplicemente perché uno impone i suoi interessi su tutti gli altri, come accade ad esempio nell’ambito del G7, dove Washington detta la linea e gli altri possono accompagnare solo, rimettendoci di tasca loro. Quello che, proprio a chi è abituato a fare da zerbino, non vuole entrare nella capoccia, è che la necessità storica di un nuovo ordine multipolare in realtà si fonda proprio su questo: Paesi sovrani con loro interessi nazionali spesso divergenti, intenti a costruire strutture multilaterali all’interno delle quali trovare dei compromessi attraverso il confronto e il dialogo tra pari. Rimane comunque il fatto che Xi al G20 non ci è andato e non è una cosa che può essere derubricata con due battutine.
Purtroppo però qui entriamo nell’ambito delle pure speculazioni. In questi giorni la redazione allargata di OttolinaTV su questo punto s’è sbizzarrita. Alla fine le interpretazioni un po’ più solide emerse sono sostanzialmente due:
La prima effettivamente ha a che vedere con i rapporti con l’India. Come scriveva giovedì scorso il Global Times, il nord globale guidato da Washington “ha cercato di provocare conflitti tra Cina e India usando la presidenza indiana per inasprire la competizione tra il dragone e l’elefante”.
“Gli Stati Uniti e l’Occidente”, continua l’articolo, “hanno mostrato un atteggiamento compiaciuto nei confronti di alcune divergenze geopolitiche, comprese quelle tra Cina e India. Vogliono vedere divisioni più profonde e persino scontri”. Ma proprio come la Cina, anche “Nuova Delhi ha ripetutamente affermato che il forum non è un luogo di competizione geopolitica” e quindi da questo punto di vista l’assenza di Xi sarebbe stata funzionale a impedire agli occidentali di strumentalizzare queste divergenze, e permettere al G20 di ottenere qualche piccolo progresso sul piano che dovrebbe essere di sua competenza: la cooperazione economica, in particolare a favore dei Paesi più disastrati. Da questo punto di vista il piano effettivamente sembra essere riuscito: il comunicato finale sottolinea esplicitamente che il G20 non è il luogo dove affrontare e risolvere le tensioni geopolitiche.
Ma non solo…
Per quanto simbolici, i paesi del sud globale al g20 hanno portato a casa impegni ufficiali verso una riforma della banca mondiale a favore dei Paesi più arretrati e anche l’annuncio dell’ingresso ufficiale nel summit dell’unione africana. Tutti obiettivi che Delhi e Pechino condividono da sempre.
La seconda motivazione invece ha a che vedere col rapporto tra Cina e USA. Durante il G20 di Bali, la stretta di mano tra Biden e Xi aveva fatto parlare dell’avvio di una nuova distensione tra le due superpotenze. Nei mesi successivi però, a partire da quella gigantesca buffonata dell’incidente del pallone spia cinese e della cancellazione del viaggio di Blinken a Pechino che ne era seguita, le cose non hanno fatto che complicarsi. Da allora gli USA hanno provato ad aggiustare un po’ il tiro, gettando acqua sul fuoco della retorica del decoupling. Ma mentre i toni si facevano a tratti meno aggressivi, i fatti continuavano ad andare ostinati in tutt’altra direzione, a partire dalla guerra sui chip, per finire col recente divieto USA a investire in Cina in tutto quello che è frontiera tecnologica, dall’intelligenza artificiale al quantum computing. La Cina quindi, pur continuando a sfruttare ogni possibilità di dialogo, ha continuato a denunciare la discrepanza tra parole e fatti
da questo punto di vista, quindi, l’assenza di Xi a Delhi sarebbe un segnale diretto a Biden: caro Joe, co ste strette di mano a una certa c’avresti pure rotto li cojoni. Basta manfrine fino a che alle parole non farete seguire qualche fatto concreto. Volendo, con anche un avvertimento in più: per parlare con il resto del sud globale, non abbiamo più bisogno necessariamente di una piattaforma come quella del G20: Shanghai Cooperation Organization e BRICS+++ ormai sono alternative più che dignitose. A voi la scelta ora: se continuare ad avere un luogo dove discutere con il sud globale, oppure condannare il G20 all’irrilevanza.
Finite le nostre speculazioni, torniamo a quelle degli altri.
Come con la controffensiva ucraina, che andando come sta andando, costringe gli hooligan della propaganda a trasformare in vittorie epiche la conquista di qualsiasi gruppetto di case di campagna al prezzo di decine se non centinaia di vite umane e centinaia di milioni di attrezzatura militare, idem al G20, visti gli scarsi risultati, i propagandieri si sono sforzati in modo veramente ammirevole per provare ad arraparsi di fronte a un vero e proprio monumento alla fuffa.
“Ecco il nuovo corridoio india-medio oriente contro la via della seta”, titolava su repubblichina il solito Daniele Raineri, tra un articolo su qualche mirabolante vittoria ucraina e l’altro. Il progetto è così alternativo alla via della seta cinese, che approda nel pireo, che è dei cinesi. Di nuovo in sostanza ci sarebbe l’estensione della rete ferroviaria in Arabia.
A chiacchiere! A fatti, per ora, l’unico tratto ferroviario di una certa rilevanza in Arabia è quello lungo i 450 km che sperano Mecca e Medina. Un’opera monumentale, costruita dai cinesi.
E i cinesi infatti se la ridono.
Intanto, perché non capiscono bene in che modo questo fantomatico progetto andrebbe contro ai loro interessi. Come ha sottolineato il Global Times:“Per i paesi del Medio Oriente che parteciperanno all’iniziativa ferroviaria guidata dagli Stati Uniti, non vi è alcuna preoccupazione che i loro legami con la Cina si indeboliscano proprio a causa dell’accordo”.
Anzi: “la Cina ha sempre affermato che non esistono iniziative diverse che si contrastano o si sostituiscono a vicenda. Il mondo ha bisogno di più ponti da costruire anziché da abbattere, di più connettività anziché di disaccoppiamento o di costruzione di recinzioni, e di vantaggi reciproci anziché di isolamento ed esclusione”
Piuttosto, sottolineano i cinesi, il punto è che questi proclami andrebbero presi un po’ con le pinze.
“Non è la prima volta che gli Stati Uniti sono coinvolti in uno scenario “tante chiacchiere, pochi fatti””, ricorda sarcasticamente l’articolo, che insiste: “Durante l’amministrazione Obama, l’allora segretario di stato americano Hillary Clinton annunciò che gli Stati Uniti avrebbero sponsorizzato una“Nuova Via della Seta” che sarebbe uscita dall’Afghanistan per collegare meglio il paese con i suoi vicini e aumentare il suo potenziale economico, ma l’iniziativa non si è mai concretizzata”.
“Da un punto di vista tecnico”, continua perculando l’articolo, “la decisione degli Stati Uniti di concentrarsi sulle infrastrutture di trasporto, un’area in cui mancano competenze, nel tentativo di salvare la loro influenza in declino nella regione, suggerisce che il piano tanto pubblicizzato difficilmente raggiungerà i risultati desiderati”.
Ma non c’è livello di fuffa che possa distogliere i pennivendoli di provincia italiani dal prestarsi a qualsiasi operazione di marketing imposta dal padrone a stelle e strisce
magari, aggiungendoci anche del loro. Perché in ballo al G20 c’era un’altra questione spinosa, l’addio dell’Italia alla via della seta, ancor prima di aver fatto alcunché per entrarci davvero, al di là delle chiacchiere.
Ma non temete, come scrive Libero, infatti, “Giorgia sa di avere un’altra chance. si chiama India”.
“Il commercio tra India e Italia”, avrebbe dichiarato con entusiasmo la Meloni, “ha raggiunto il record di 15 miliardi di euro. Ma siamo convinti di poter fare di più”. D’altronde, che ce fai con la Cina quando c’è l’India. Un Paese, che, come scrive il corriere della serva“per popolazione ed economia ha superato la cina”.
Non è uno scherzo, è una citazione testuale. Secondo il Corriere, l’India ha superato economicamente la Cina. Deve essere successo dopo che, come scriveva Rampini, l’altro giorno, gli usa hanno cominciato a crescere il doppio della Cina.
Quanto cazzo deve essere bello di mestiere fare il giornalista ed essere pagato per dire ste puttanate.
Ovviamente, come credo sappiate tutti voi che piuttosto che lavorare al corriere della serva preferireste morire di fame accasciati per terra a qualche angolo di strada, l’economia cinese è più di cinque volte quella indiana, e l’India ogni anno spende in importazioni meno di un quinto della Cina.
Ma non solo…
L’Italia, in India, quel che è possibile esportare in quel piccolo mercato lo esporta già. Nel 2022 abbiamo esportato beni e servizi per 5,4 miliardi. Più dell’Olanda che è ferma a 3,5 e poco meno della Francia, che è a quota 6,5. Insomma, in linea con le nostre quote di export
Discorso che invece non vale per la Cina dove l’Italia esporta per 18 miliardi, la Francia per 25, il Regno Unito per 35 e la Germania per 113 miliardi. Cioè, il nostro export totale è inferiore del 25% rispetto a quello inglese e francese, ma in Cina esportano rispettivamente i 50 e il 100% in più. Ancora peggio il confronto con la Germania: l’export tedesco è circa 2 volte e mezzo quello italiano, ma in Cina esportano 7 volte più di noi. Quando saggiamente avevamo deciso di essere l’unico paese del G7 che avrebbe aderito al memorandum della belt and road, era per recuperare questo gap. Dopo la firma non abbiamo mosso un dito, e ora rinunciamo a una crescita potenziale di svariate decine di miliardi di export, e ci raccontiamo pure che li sostituiremo con i 2 o 3 miliardi in più che potremmo guadagnare dall’India.
Ora, io non ti dico di finanziare un vero think tank indipendente coi controcazzi invece di affidarti a quelli a stelle e strisce e in Italia dare i soldi a Nathalie Tocci per trasformare l’istituto affari internazionale nel milionesimo ufficio stampa di Washington e delle sue oligarchie finanziarie.
Ma almeno i soldi per una cazzo di calcolatrice trovateli! Se volete, famo una colletta noi su gofundme.
E sia chiaro, io lo dico da grande amante dell’India, da tempi non sospetti. Quando ho cominciato a fare il giornalista a fine anni ‘90, il mio obiettivo era raccontare l’ascesa del peso Internazionale di questo incredibile paese continente. Non è andata benissimo, e ogni fallimento dell’india in questi 30 anni per me è stata una pugnalata al cuore, a prescindere da chi ci fosse al governo. Modi compreso.
Ora non mi posso che augurare che di fronte a questi teatrini imbarazzanti che offre continuamente l’Occidente, Modi sia abbastanza lucido da capire che gli attriti con la Cina, che sono legittimi e anche normali, non possono certo distoglierlo dal perseguire il vero interesse del suo disastrato Paese, che potrà crescere davvero se e solo se il sud globale riesce finalmente a mettere fine all’ordine unipolare della globalizzazione neoliberista guidata da Washington.
Per parlare del mondo nuovo che avanza, senza i paraocchi della vecchia propaganda vi aspettiamo sabato 16 settembre all’hotel terme di Fiuggi con Fulvio Scaglione, Marina Calculli, Elia Morelli, Alessandro Ricci e l’inossidabile generale Fabio Mini.
È solo uno dei dodici panel messi in fila dagli amici dell’associazione Idee Sottosopra per questo fondamentale week end di studio e di approfondimento, per costruire insieme un’alternativa credibile e non minoritaria alla dittatura del pensiero unico del partito degli affari e della guerra.
Per chi vuole maggiori informazioni, trovate il link nei commenti.
se invece vuoi concretamente darci una mano a costruire finalmente il primo vero e proprio media che dà voce al 99%, come fare probabilmente lo sai già
Nonostante il nome esotico, è più italiano di me. Ma a vedere i media italiani, non si direbbe. Da 14 giorni infatti Khaled è stato preso in ostaggio e rinchiuso in un carcere da un feroce regime teocratico per ragioni esclusivamente di carattere ideologico e di discriminazione etnica.
In passato, abbiamo visto invocare l’interruzione delle relazioni diplomatiche, se non addirittura l’escalation bellica, per molto, molto meno. Ma a questo giro, niente, silenzio assoluto. Alla Farnesina c’avevano judo, e non c’è traccia di un comunicato ufficiale. Nelle redazioni dei giornali e dei TG invece erano troppo occupati a festeggiare gli incredibili successi della controffensiva Ucraina e il boom economico che stanno attraversando tutte le democrazie avanzate, e ci hanno detto di ripassare il 31 settembre del duemilacredici. Che strano…
Su eventi del genere di solito si buttano a capofitto. Spesso, ancora prima di avere elementi solidi, sopratutto quando il Paese in questione è uno Stato canaglia, messo sotto accusa dalla comunità internazionale. A questo giro, il Paese in questione, numeri alla mano, è di gran lunga il più canaglia di tutti: delle duecentootto risoluzioni di condanna emesse dall’ONU dal 2015 al 2022, la bellezza di centoquaranta riguardano proprio lui. Il doppio di tutto il resto del Mondo messo assieme. Russia inclusa, anche dopo la guerra in ucraina.
No, non è la Corea del Nord di Kim Jong Un e neanche l’Afghanistan dei talebani. È quella che contro ogni minima parvenza di dignità, i media nostrani continuano a definire “l’unica democrazia del medio Oriente”, dove per democrazia evidentemente intendono che applica l’apartheid in modo democratico a tutti gli abitanti non Ebrei dei territori occupati illegalmente, senza fare troppe distinzioni di censo o di orientamenti sessuali. Come la definisce il compagno Roberto Saviano, una “democrazia sotto assedio”, “piena di vita e sopratutto di tolleranza”, “che permette alla comunità gay israeliana e sopratutto araba di poter gestire una vita libera e senza condizionamenti, frustrazioni, repressioni e persecuzioni”.
Ma, evidentemente, non di andare a trovare i tuoi parenti con moglie e figlio di quattro anni a seguito.
31 agosto, valico di Allenby, al confine tra i territori occupati palestinesi della Cisgiordania e la Giordania. Khaled El Qaisi ha appena finito le vacanze che aspettava da anni. Insieme alla moglie e il figlio di quattro anni, dopo tanto tribolare, è finalmente riuscito ad andare a trovare i parenti che si trovano imprigionati nel minuscolo campo profughi di Al-azza, nella periferia di Betlemme, altrimenti noto come campo di Beit Jibrin.
Che culo…
Sono tremila anime costrette a convivere in un’area di appena 0,02 km², meno di tre campi di calcio. Le abitazioni sono fatiscenti. l’acqua potabile dalla rete non funziona, e la fognatura è ingolfata. quando “essere nella merda” non è un modo di dire. Quando i bambini escono dall’insediamento per andare a scuola nel vicino campo di Aida, passano sotto a una bella torretta di controllo delle forze armate israeliane.
“Un’area”, si legge nella scheda dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, “dove si registrano frequenti scontri, ed è comune trovare residui di bombole di gas lacrimogeno e di proiettili nel cortile della scuola”.
L’educazione siberiana, diciamo.
Ma anche quando a scuola non ci vanno e decidono di starsene ammucchiati come sardine a casa loro, le cose non vanno meglio. Sempre secondo l’UNRWA infatti, soltanto nel 2022 il campo è stato teatro di ben nove operazioni delle forze di polizie, che hanno portato all’arresto di 7 persone.
“Durante queste incursioni”, si legge nella scheda, “le forze armate israeliane impiegano regolarmente gas lacrimogini e munizioni di ogni genere”. Ciò nonostante, racconta la moglie, Khaled era contento come un bambino. Sono fatti così i palestinesi: dopo un tentato genocidio e 60 anni di feroce occupazione militare votata a cancellarli dalla faccia della terra come popolo, hanno messo su una bella corazza, e non c’è disagio e sopruso in grado di levargli la gioia di riabbracciarsi.
E allora cosa fa il valoroso occupante democratico? Li separa. Quando Khaled e famiglia arrivano alla frontiera, dopo aver passato i controlli della autorità palestinesi, si ritrova di fronte a quelli israeliani. Allenby funziona così: superarla è una corsa a ostacoli. devi superare tre controlli. I servizi di sicurezza israeliani appaiono subito sospettosi e per una mezz’ora abbondante aprono e chiudono le valigie, controllano e ricontrollano i documenti, parlottano tra loro. Fino a quando una guardia di frontiera si avvicina a Khaled con tono perentorio, gli fa incrociare le braccia dietro la schiena, e lo ammanetta.
Così, de botto, senza senso, davanti al figlio di 4 anni. La moglie, italiana, prova a chiedere spiegazioni ma la rimbalzano, anzi, rincarano. Vogliono sapere qualcosa di più sulle idee politiche del marito.
Khaled infatti è colpevole di un crimine enorme. Non solo è figlio di un palestinese. ma manco se ne vergogna, anzi. Ne fa quasi un vanto, tanto che insieme ad alcuni amici e colleghi ha addirittura fondato il centro di documentazione palestinese, dove invece di far finta che la Palestina non sia mai esistita, si permettono addirittura di diffondere materiale storico di vario genere tutto teso a spargere questa leggenda metropolitana che la Palestina c’avrebbe addirittura una sua storia e tutto il resto. Un vizietto di famiglia. Durante la prima intifada, il padre di Khaled, Kamal, ora scomparso da diversi anni, aveva addirittura provato a convincere gli italiani che in Palestina ci fossero addirittura anche i lavoratori, e anche i sindacati. E aveva addirittura convinto la CGIL a realizzare alcuni progetti di cooperazione con loro. Dopo un po’ di santa inquisizione, i simpatici e democratici servitori dell’ordine israeliano prendono mamma Francesca e figlio Kamal e li spediscono oltre confine in Giordania. Trattenendole mezza roba, quattrini e telefono compreso.
“Quando ho chiesto a due addette israeliane come avrei potuto proseguire il viaggio senza telefono e soldi”, ha raccontato Francesca a Michele Giorgio del manifesto, “mi hanno risposto “questo è un tuo problema”.
E così ecco Francesca alla frontiera della Giordania senza una lira, senza possibilità di comunicare, e con un figlio di quattro anni appresso. Quando uno dice “le mie vacanze sono differenti”.
Come c’ha levato le gambe? Grazie all’elemosina: quaranta dinari regalati così, a caso da delle signore palestinesi che avevano assistito alla vicenda. La solidarità degli oppressi, contro le barbarie degli oppressori. Una dicotomia plateale, che però a sto giro non ha commosso gli ultras manicheisti della lotta del bene contro il male. Da allora Khaled è stato deportato in Israele e ora si trova nella famigerata prigione di massima sicurezza di Shikma, alla periferia di Ashkelon, tristemente nota per la struttura per gli interrogatori gestita dall’agenzia per la sicurezza israeliana, dove sono stati documentati innumerevoli casi di tortura e dove vige un regime di sistematica deprivazione.
Di cosa sia accusato in realtà nessuno lo sa. Ad assisterlo, un avvocato arabo israeliano che si sarebbe limitato a confermare di “non poter rivelare alcun particolare del procedimento in corso per ordine dei giudici”. Sempre che li conosca.
Durante l’ultima udienza infatti, stando a quanto riportato da Michele Giorgio sul manifesto, “El Qaisi e il suo difensore locale non sono potuti comparire insieme, perché impossibilitati per legge a vedersi e comunicare”.
Secondo l’avvocato della famiglia “al giovane ricercatore non è consentito conoscere gli atti che hanno determinato la sua custodia e la sua possibile durata”.
Oggi, Giovedì 14 Settembre, si dovrebbe tenere una nuova udienza, difficile prevedere come andrà.
Il timore è che, quella che ad oggi è una misura cautelare, possa trasformarsi in uno dei tanti istituti criminali che costituiscono l’ossatura di questo regime di apartheid, e cioè l’incubo della detenzione amministrativa. È una delle tante eredità dello stato di emergenza proclamato nel 1945 durante il mandato britannico in Palestina. Prevede che per motivi di sicurezza chiunque possa essere arrestato e detenuto sostanzialmente a oltranza senza processo. Ma ovviamente per una forza che da oltre cinquant’anni occupa casa altrui con l’uso sistematico della violenza, la sicurezza può significare tutto. Qualunque palestinese, solo per il fatto di esistere, è sostanzialmente una minaccia alla sicurezza di chi fonda il suo sistema sul suo annichilimento. Nel 1951 il Parlamento israeliano votò per una sua abrogazione ma è sempre lì, più in forma che mai. Secondo il rapporto pubblicato in luglio da Francesca Albanese, relatrice speciale delle nazioni unite sui territori palestinesi occupati, dal 1989 a oggi in media è stato utilizzato circa cinquecento volte l’anno. Spesso, anche nei confronti di minori e bambini. Oggi però siamo arrivati oltre quota mille.
Fa parte del new normal dell’occupazione israeliana. Addomesticata l’autorità palestinese, da qualche anno, qualsiasi timido accenno alla ribellione viene represso sul nascere senza tanti tentennamenti. Mentre nel frattempo coloni illegali armati fino ai denti si fanno giustizia da soli con il pieno sostegno delle forze armate israeliane. È quello che si vede chiaramente in questo video pubblicato ieri sull’account twitter di B’tselem
Due cittadini palestinesi vengono fermati e bullizzati senza motivo da civili armati, manco fossimo in una scuola media negli USA, e quando dopo un po’ di polemiche finalmente arrivano le forze di occupazione, gli dicono pure bravi. Da sessant’anni Israele ha il merito di svelarci senza tanti fronzoli, il contenuto reale che sta dietro a termini pomposi come democrazia e società aperta: la divisione del mondo tra chi ha diritti, e chi dovrebbe stare sotto e prenderle affinché i pochi che hanno dei diritti se li possano continuare a permettere.
Che il Governo degli svandipatrioti non faccia sentire la sua voce contro il rapimento criminale di Khaled, tutto sommato, da questo punto di vista, in realtà è anche abbastanza coerente. Per tutti gli altri che schifano l’imperialismo e la ferocia coloniale invece, da oggi c’è una nuova battaglia che non ci possiamo permettere di non combattere.
Vogliamo Khaled El Qaisi libero subito.
Per chiunque ne ha la possibilità, l’appuntamento è per domani venerdì 15 settembre alle 16.00 presso la facoltà di lettere del’Università la Sapienza di Roma insieme alla moglie di Khaled, la madre e il legale della famiglia.
OttolinaTV purtroppo non ci sarà. Ma farà in modo di far sentire la sua vicinanza anche da Fiuggi, dove saremo in primissima fila insieme agli amici di Idee Sottosopra alla loro scuola estiva dal titolo “Interferenze oltre la crisi”.
Ora, di fronte alla storia di khaled in effetti fare la solita questua può sembrare un po’ bruttino
Ma sticazzi
Anche no
Perché l’assenza della storia di Khaled da ogni media grida vendetta.
Quindi oltre a sostenere Khaled e la sua famiglia, anche oggi, come sempre, dobbiamo fare un passetto in avanti nella costruzione finalmente di un vero e proprio media che dia voce a tutti i Khaled, tutti i palestinesi, e tutto il 99%.